• 2 pittura scrittura pittura
  • "Scrittura-Pittura in Italia"
  • di
  • Vitaldo Conte


  • “La pittura è una poesia muta, e la poesia una pittura cieca”
  • (Leonardo da Vinci)
  1. L’estroversione della parola futurista[1]
  • L’impotenza di un certo tipo di letteratura, in cui la parola non è più sovrana, volendo colloquiare con gli altri linguaggi, è già intuita nella cultura di fine Ottocento da Mallarmé con la pagina bianca. Su questo percorso si inseriscono nel Novecento le avanguardie storiche, tra cui il Futurismo, il cui interesse verso l’estroversione della parola è indiscutibile. La definizione di poesia visiva è già data da Marinetti nel 1944 in una presentazione a Carlo Belloli: “con Belloli la poesia diventa visiva”.  Marinetti nel Lirismo multilineo (1913) auspica la ricerca di una poesia come arte totale: “Il poeta lancerà su parecchie linee parecchie catene di colori, suoni, odori, rumori, pesi, spessori, analogie. Una di queste linee potrà essere per esempio odorosa, l’altra musicale, l’altra pittorica”. Questa esigenza è determinabile più chiaramente nel manifesto de La cinematografia futurista (1916): “metteremo in moto le parole in libertà che rompono i limiti della letteratura marciando verso la pittura, la musica, l’arte dei rumori e gettando un meraviglioso ponte tra la parola e l’oggetto reale”.
  • Marinetti e il Futurismo hanno il merito di avere indagato e aperto le proprietà tradizionali della frase. Le “parole in libertà”, pur rappresentando il primo passo di uscita dall’ortodossia lineare della scrittura, costituiscono il trampolino di lancio verso le successive “tavole parolibere”. Da queste si può far partire l’inizio della scrittura visuale italiana. Come è stato rilevato per le tre tavole verbo-tipografiche, poste da Marinetti in fondo al libro Les mots en libertè futuristes (1919), da considerare il vertice della sua esplorazione letteraria, il poeta si spinge oltre i limiti della tavola parolibera vera e propria. Immette i simboli verbali in un più ampio contesto spaziale e di significato, ottenuto con la giustapposizione di una scrittura tipografica, di segni di varia derivazione e di macchie creative. Questi risultati non sono stati esclusivamente raggiunti da Marinetti: oltre a lui vanno ricordati Cangiullo, Masnata, Buzzi, Russolo, Depero, Govoni, Soffici, Balla, ecc. E’ un panorama espressivo dalle diverse direzioni, anche se negli ultimi autori, qualche volta, l’aspetto iconico tende a prendere il sopravvento su quello verbale.   La dialettica dei dosaggi dei due poli – parola e immagine – attraverserà le poetiche verbo-visive italiane fino alle attuali istanze della scrittura pittorica. Questo filo di continuità tra Futurismo e poesia visuale, nel nome della contaminazione parola-immagine, ha avuto, nel ’73, una prima significativa verifica: la mostra Scrittura Visuale in Italia 1912-1972, con opere dai futuristi ai giorni nostri, a New York e poi a Torino.
  1. Nuovi Segnali della parola-immagine negli anni ‘80
  • Le ultime esperienze verbo-visive italiane si delineano, negli anni ‘80, come un qualcosa di estremamente eterogeneo, di difficile catalogazione e dagli esiti imprevedibili. Per definire un possibile rapporto di continuità e diversità fra queste poetiche, negli anni ‘70-’80, curai l’Antologia Nuovi Segnali (1984)[2]. Scrivendo sugli ultimi segnali rappresentati da autori, tutti operanti dagli anni ‘70 in poi, che ridefinivano il loro rapporto parola-immagine con una rilevabile eccedenza della componente visuale rispetto a quella verbale, ritenevo che quest’ultima, giungendo alle estreme possibilità, avrebbe rischiato “probabilmente un ritorno allo specifico, che non sarebbe stato più quello di partenza”. Cioè quello verbale.  La rivalutazione del soggettivismo della mano e delle pulsioni inventive dell’autore era stata già espressa dalla scrittura visuale, che invadeva così l’area dell’immagine, consumando in questa dinamica di attrazione l’originaria connotazione di poesia. Ciò concretizzava il passaggio di questa alla dimensione interdisciplinare della scrittura, che diveniva “altro”: – un di-segno più o meno astratto, uno scarabocchio, una partitura, ecc. – che voleva attrarre l’altrui sguardo sulla propria esistenza d’immagine.  La scrittura d’arte italiana, con le sue evasioni creative, ha riservato, dai primi anni Ottanta, diversi rimescolamenti che hanno rimesso in circuito e discussione i traguardi espressivi raggiunti dalle precedenti poetiche storiche (poesia concreta, visiva e scrittura visuale). “Serpeggiava” il suo oltre, anche attraverso “alfabeti” sconfinanti nel lessico artistico[3].  Questa iperscrittura, eccessiva di iconicità, diviene creativamente “citazionista”, attraversando intrinsecamente, con il proprio linguaggio, per simpatia o similitudine, momenti dell’arte contemporanea. Il distacco dalle precedenti poetiche storiche è evidente, pur conservandone in sé tracce e memorie, nell’assunzione di stilemi che vedono comunque il naturale prevalere della componente visuale su quella verbale. Il termine scrittura risulta, talvolta, desemanticizzato, divenendo campo di intrighi creativi, attratti dalla seduzione di un’immagine altra: maschera, metafora, analogia di narrazioni e pulsioni della parola.  I percorsi delle poetiche verbo-visuali italiane (storiche e nuove), caratterizzati dalla pluralità delle definizioni e dall’estrema eterogeneità dei risultati, vengono presentati nella sezione Arte come Scrittura dell’XI Quadriennale di Roma (1986)[4]. L’ufficialità della manifestazione contribuisce a diffondere questa espressione. Scrive Matteo D’Ambrosio nel catalogo: “L’Arte come Scrittura è uno dei settori più vitali della ricerca artistica italiana degli ultimi decenni, in cui confluisce un’estrema varietà di esperienze e orientamenti. (…). L’Arte come Scrittura non opera in un territorio inesplorato, ma è certamente un ambito creativo ancora proficuo di scoperte e trasformazioni.

  1. 3. Scrittura-Pittura in Italia (1986-89)
  • Possibili riferimenti della visualizzazione pittorica della scrittura, oltre che segnali premonitori, sono da considerare, negli ultimi anni Cinquanta e nel decennio successivo, l’esperienza della pittura segnico-gestuale, principalmente dell’area romana (Capogrossi, Accardi, Sanfilippo, Novelli, Twombly, ecc.), soprattutto nell’accettazione di un segno autonomo quale personale alfabeto o grafìa pittorica. L’alternanza dei diversi equilibri tra polarità scritturali e pittoriche, negli eventi artistici dagli anni Cinquanta agli Ottanta, ha una prima qualificante focalizzazione in una rassegna, ideata da Filiberto Menna, Pittura Scrittura Pittura (Erice, Suzzara, Milano, Roma, 1987-88)[5]. Nella mostra vengono tracciati i possibili momenti di questo processo, attraversante direzioni diverse e continuamente variabili tra pittura e scrittura. Il primo momento è costituito dalla pittura-scrittura dell’arte segnico-gestuale degli anni Sessanta con i nuclei romani e milanesi, in cui la pittura riconosce esplicitamente la propria componente verbale. La pittura e la scrittura “s’incontrano su un supporto che interagisce più o meno fortemente con i segni, contribuendo a sottolineare le componenti plastico-figurali e a trasformare il testo in texture” (F. Menna). Nel secondo momento è presente l’arte come scrittura del decennio Settanta, in cui la relazione tra scrittura e pittura si sviluppa, pur con risultati diversi, in una caratterizzazione di sostanziale equilibrio tra i due campi: “entrambi rivendicano la loro autonomia e nessuno dei due vuole perdersi nell’altro, anche se non rinuncia a uno scambio reciproco, la lingua scoprendo le potenzialità figurali dei suoi elementi e la sua qualità di fattura una volta tradotta in una struttura grafica; la pittura esaltando le facoltà linguistiche dei propri segni” (F. Menna). Nel terzo momento c’è la scrittura-pittura degli anni Ottanta, in cui s’inverte il procedimento della fase iniziale, con un ritorno della scrittura a una esperienza di pittura: “Si tratta di una esperienza relativamente recente, situabile per intero negli anni Ottanta e rappresentata quasi interamente da artisti che hanno alle loro spalle una lunga presenza nell’ambito dell’arte intesa come una esperienza scritturale. (…) Ciò che muove oggi il lavoro di Blank e di Xerra, di Cattania e di Binga, e del più giovane Conte, è l’esigenza di allentare ancora di più i legami tra segno grafico puro e unità riconoscibili della lingua” (F. Menna).  In una successiva mostra, Passages (Scrittura-Pittura) a Roma (1988)[6], curata da Luciano Caramel, viene ripreso ed essenzializzato questo percorso (in una sorta di continuità-lettura con il discorso di Menna), attraverso i passaggi di 5 artisti di generazioni diverse: V. Accame, M. Mussio, W. Xerra, T. Binga, V. Conte.  Negli ultimi risultati della scrittura d’immagine concorrono diversi altri autori, il cui lavoro risulta di notevole interesse, contribuendo alla formulazione del fenomeno con apporti già appartenenti allo specifico artistico. Diverse sono state le esposizioni e iniziative sulla scrittura-pittura in Italia, nella seconda metà degli anni Ottanta[7], anche grazie a ulteriori “sguardi” teorici. Tonino Sicoli entra nello Scribble (alle origini del segno)[8] (Lamezia Terme 1988): “Lo scribble (scarabocchio) è posto all’inizio della parola scritta e dell’immagine visiva, si configura come traccia indistinta, risultato di un gesto che si abbatte sulla superficie del foglio senza il controllo di un codice; è energia pura, movimento della mano in diverse direzioni, disordinata estensione di linee nello spazio. (…) Lo scarabocchio per certi versi è atto pre-linguistico, desiderio di comunicazione destrutturata, non deposito di significati ma materia verbo-visuale”.  Filiberto Menna, nel suo ultimo testo (prima di morire), introduce la mostra Sottosuolo del linguaggio (scrittura pittura scultura) (Bagheria 1989)[9]: “Questa nuova proposta critica sui rapporti tra scrittura e pittura non può non rimandare a due precedenti immediati e cioè alla mostra Pittura Scrittura Pittura tenutasi nel 1987 a Erice (...) e Passages (scrittura-pittura) (…) nel 1988”. Individua il superamento della “soglia” della pertinenza linguistica nelle nuove esperienze scritto-pittoriche, in quanto questo oltrepassare implicacon tutta evidenza, lo sconfinamento in altri ambiti disciplinari, e tra questi il campo della pittura”. Queste poetiche “attingono sì a un repertorio linguistico legato agli automatismi caldi dell’arte informale, ma li sottopongono a una sorta di processo di rallentamento e di raffreddamento, per controllarne meglio il funzionamento e discendere, con essi, nelle profondità del soggetto”.  La conclusione espansiva della scrittura-pittura (coincisa con la morte di Menna, il suo convinto promotore, nel 1989) attende una opportuna rilettura e un inquadramento nelle vicende dell’attuale arte italiana.  Questa esperienza si differenzia “geneticamente” dalle poetiche verbo-visuali e dai loro numerosi e, talvolta, sterili imitatori. Significative al riguardo le considerazioni di Luciano Caramel, a conclusione del suo testo sul catalogo di Parola Immagine / XVI Premio Nazionale Città di Gallarate – 1991[10]: “A cominciare dalla rivitalizzazione delle pratiche scritturali, (…), entro ed oltre cui va segnalato un nuovo incontrarsi con la pittura, su cui è tempestivamente intervenuto il compianto Filiberto Menna, che con intelligenza mi consigliò il titolo felice a carico di rimandi Passages per una mostra nella quale raccoglievo alcuni sintomi (…) di tale sviluppo, da non trascurare, e da non ignorare continuando un gioco datato e patetico di contrasti fra fazioni ormai tenute in vita solo dalla memoria dei reduci”.  Oggi, a trent’anni di distanza, la dispersione di questa scrittura pittorica continua ad attrarre ulteriori seduzioni e ad avere le prime ricognizioni. Come quella che ho espresso, nel 2010, sulla rivista Arte & Cronaca (n. 74): con un testo introduttivo e un inserto sulla Scrittura-Pittura. Li ho riattraversati per l’occasione, ancora come “una storia anche personale” che vuole però incontrare altre storie.
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  •  Note:
  • [1] V. Conte, Marinetti / poesia visiva: in rumore azione arte-vita, in AA.VV., Marinetti 70, a cura di A. Saccoccio e R. Guerra, Collana Avanguardia 21, Armando Ed., Roma 2014.
  • [2] Nuovi Segnali / Antologia sulle poetiche verbo-visuali italiane negli anni ‘70-’80, a cura di V. Conte, con l’annessa cassetta Ultimi suoni di poesia italiana, Maggioli Ed., Rimini 1984 (nella collana I serpenti acrobati a cura di R. Roversi). In occasione della presentazione si svolge un dibattito sulle Esperienze verbo-visuali e di poesia sonora a Roma (Casa della Cultura, 5 aprile 1984) con M. Lunetta, F. Menna, C. Milanese, A. Perilli, M. Verdone, V. Conte. Una mostra sui Nuovi Segnali, a cura di V. Conte, si svolge a Roma (Centro L. Di Sarro, 1983), in cui espongono: M. Bentivoglio, T. Binga, L. Cattania, C.M. Conti, F. Falasca, G. Fontana, E. Gut, E. Minarelli, L. Pignotti.
  • [3] Alfabeti, mostra itinerante di T. Binga, L. Cattania, V. Conte, N. Varale (1984): Studio G 85, Napoli; Galleria La Seggiola, Salerno; Artivisive, Roma; Centrosei, Bari. Attraversamenti critici di: R. Mele, A. Trimarco, M. D’Ambrosio, L. Mango, A. Trabucco, S. Fizzarotti, ecc.
  • [4] Arte come Scrittura, in XI Quadriennale, Eur – Palazzo dei Congressi, Roma 1986. Catalogo (Fabbri Ed., Milano).
  • [5] Pittura Scrittura Pittura, a cura di F. Menna, F. Abbate, M. D’Ambrosio: La Salerniana, Erice; Gall. Civica d’Arte Contemporanea, Suzzara; 1987. Centro cult. Bellora, Milano; Centro di Cultura Ausoni, Roma; 1988. Catalogo (Mazzotta, Milano 1987).
  • [6] Passages (Scrittura-Pittura), a cura di L. Caramel, Marcello Silva / Galleria dei Banchi Nuovi, Roma 1988. Catalogo.
  • [7] Tra gli incontri, pubblicazioni e le altre mostre (di gruppo, collettive) sulla scrittura-pittura nel 1986-89:
  1. Scrittura recondita (pres. di L. Pignotti), Centro L. Di Sarro, Roma; Pittura-Scrittura (pres. di L. P. Finizio), Gall. Il Diagramma 32, Napoli; Dai Nuovi Segnali all’Iperscrittura, a cura di T. Carpentieri, Palazzetto dell’Arte, Foggia; Scrittura pittorica (pres. di F. Zoccoli), Gall. del Circ. art. Iterarte, Bologna. Depliant per ogni mostra. Espongono: T. Binga, V. Conte, D. Damato, L. Di Sarro.
  2. V. Conte, Eccesso e precarietà – in T. Ferro, F. Magro, M. Parentela, Ed. Questacittà, Catanzaro.
  3. Dai Nuovi Segnali alla Scrittura “Altra”, seminario di V. Conte, Accademia di Belle Arti, Palermo 23 febbraio.
  4. Scritture d’arte, a cura di V. Conte, Accademia di Belle Arti / Museo di Arte Contemporanea, Catanzaro. Espongono: T. Ferro, F. Magro, M. Parentela, A. Guillot, S. Guardì, O. Liuzzi, A. Puia, V. Fava, D. Damato, L. Cattania, T. Binga, W. Xerra, ecc. Depliant.
  5. Scrittura & Scrittura (incontro critico), Accademia di Belle Arti di Catanzaro, 29-30-31 maggio. Partecipano: F. Abbate, F. Carbone, T. Carpentieri, V. Conte, T. Sicoli.
  6. Nuovi sconfinamenti, a cura di G. Guglielmino, Studio Steffanoni, Milano 1989. Catalogo: Squero 3 (Ed. Anterem / Testuale, Verona-Milano1989) con testi di V. Accame, G. Ferri. Espongono: G. Bruno, V. Conte, C. Finotti, A. Guillot, A. Hapkmeyer, E. Minarelli.
  • [8] Scribble (alle origini del segno)[8], a cura di T. Sicoli, Chiostro di S. Domenico, Lamezia Terme 1988. Catalogo. Espongono: T. Binga, V. Conte, C. Di Ruggero, L. Di Sarro, S. Guardì, M. Parentela, A. Puja, A. Valla, W. Xerra.
  • [9] Sottosuolo del linguaggio (scrittura pittura scultura), a cura di F. Menna e F. Gallo, Gall. E. Pagano, Bagheria; Centro Voltaire, Catania; 1989. Catalogo (Ed. E. Pagano Artecontemporanea). Espongono: T. Binga, V. Conte, S. Guardì, G. Leto, W. Xerra.
  • [10] Parola Immagine / XVI Premio Nazionale Città di Gallarate – 1991, Civica Galleria d’Arte Moderna, Gallarate. Catalogo. Nella mostra sono invitati da una commissione (presieduta da L. Caramel) diversi artisti presenti nelle mostre sulla scrittura-pittura.


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  • "Norma, scarto, stile"
  • di
  • Sandro Giovannini
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    "Si ama solo ciò che non si possiede intero"   (Proust)


     

  • Questo testo nasce in proficuo dialogo con la scrittura complessiva di Vitaldo Conte che da tempo opera un tentativo serio e relazionato di rapportarsi efficacemente con tutta l’arte che vive nel presente ed opera per il futuro e nello stesso tempo è fedele ad una vocazione ove la ricerca centripeta rintraccia ontologicamente le polarità che fissano le strutture a priori sempre investigabili antropologicamente. In tal senso questo mio testo è molto più autobiografico della mia media scritturale, proprio perché si confronta necessariamente con un pensiero che non è sempre il mio ed allo stesso tempo deve ripercorrere, per assonanza e dissonanza, ogni significato di una storia individuale e personale che si è posta lungo direttrici ormai sostanzialmente delineate…



     

    Allora, inizierò dicendo che lungo tutta la mia esperienza creativa riconosco un  filo d’oro nella trama, ineliminabilmente complessa. La texture è tutta di empito ideale-politico. L’empito rivela però patentemente la carenza, quindi il non possesso e pertanto l’inquietudine spessa, mai del tutto superata. Tale ordito non si smentisce mai, dalle prime prove poetiche degli anni Sessanta, all’attivismo critico-organizzativo degli anni Settanta, alla formulazione artistico-comunitaria degli anni Ottanta, alla definitiva elaborazione personale-corale degli anni Novanta, all’azione-rivolgimento e riutilizzo con profonde revisioni di tutto il materiale artistico precedentemente elaborato, dal Duemila fino ad ora. Ma indubbiamente la rivelazione centrale è quel filo d’oro, cangiante di per sé eppur resistente e riconoscibile, che fa di quell’ordito e di quella trama un tessuto venato da un’inconfondibile sottile richiamo di valore sacrale in una materialità complessiva lineare e tenace, a volte persino rustica e comunque più apparentemente fruibile. Negli Ottanta, ciò avveniva decisamente nella nostra esperienza generazionale, proprio per tutte quelle suggestioni contestuali che Conte richiama validamentenel suo scritto (1) , ancor più agenti un tempo per me, ed altri come me, di quanto non lo possano essere ora, proprio perché noi si stava elaborando e definendo una poetica assieme personale e corale ed eravamo ben più giovani e - diversamente da quanto alcuni potrebbero credere - assolutamente attenti ad ogni stormire d’erba, determinandosi, appunto, quel filo d’oro nella trama di cui parla il Poeta…


     

    Quando Conte tratta di Nuovi Segnali all’interno della complessiva esperienza del rapporto tra scrittura-immagine e di tutte le dinamiche che portano all’eccesso l’una o l’altra, o ricompongono in un nuovo mix più o meno compatibile due entità nate anticamente da unico seme (le scritture ideografiche, geroglifiche, sacrali, ieratiche, pittografiche…), poi divaricatesi in una lunga storia ove alle due fu normale statuto ritrovarsi in una logica del tutto specifica salvo geniali ricomposizioni come nella tradizione epigrafica romana od in quella contenutistico/espressiva araba (e ne sono solo due eminenti esempi fra numerosi altri), racconta di una nuova sfida che molti artisti sentivano, soprattutto in quegli anni Ottanta, come atto apicale di un ripensamento organico iniziatosi appunto con le avanguardie storiche.



     

    In parallelo a tutto questo, l’iperscrittura, come sottolinea Conte, tendeva a perdere la semantica intrinseca per uno scivolamento nell’impatto generale ed in una prevedibile fuga per la tangente ben oltre la gestalt ancora giustificabile, ad esempio, nell’esperienza storica della parola coranica, che anche al massimo della propria configurazione espressionistica, come in numerosi esempi esplosi nella figurazione realizzata, ha sostanzialmente però mantenuto un minimo rapporto con la propria genesi. Per non parlare dell’epigrafica classica, che anche in casi estremi di rapporto con la configurazione architettonica ed urbanistica, è ben al di qua del limite raggiunto da altre avventure della scritturazione… Ma per comprendere sino a che punto alcune antiche “fughe per la tangente” (ma di valore eminentemente estetico-sacrale e non certo di deriva esistenziale o animica, com’è principalmente per le “attuali”) e quindi non avanguardistiche, avrebbero potuto fare da segnavia per alcune realizzazioni anche modernissime, basterebbe pensare alle “scritture-immagini”, sui più vari supporti, sanscrite, runiche, copte, precolombiane,  (…tutte da noi tenute in debito conto).

    La stessa esperienza, forse complessivamente sopravvalutata, di molta pittura segnico-gestuale, non trovava in noi una possibile forte rispondenza, perché nel complesso non poneva in chiaro matrici ideali ed istanze destinali, al di là dell’indubitabile forza singolare di alcuni maestri, infatti fortemente riconoscibili proprio differenziandosi dalla media/moda, in base alle due dimensioni in questione. (Un esempio per tutti: Burri).

    Lo scribble poi, come ancor più prevedibilmente certa scrittura automatica (ed il suo contraltare pittorico) magari in risibile funzione para-esoterica, od un inglobato informale forse anche validamente praticabile in un campo di piena astrazione, ma, a nostro avviso, poco significante come orizzonte citazionista di lacerti linguistici, sono stati del tutto laterali nella produzione proprio perché in noi dominavano altri poli attrattivi, altre evocazioni principe, anche se non abbiamo mai sentenziato con rifiuto programmatico e con pregiudizio sostanzialista, avendo sempre combattuto tra l’altro (paradosso della nostra scrittura-immagine), contro il letteralismo…, inteso però principalmente come pericolosa deriva esistenziale e filosofica. (Vedi: L. Binswanger, P. Bruckner, F. Füredi)


     

    In più il fastidio (quasi definibile genetico, ancor più che antropologico), che si poteva avvertire in troppa cultura da troppi decenni alla moda (anche per le ormai note storiche antinazionali mitologie massive delle maggiori forze culturali postbelliche in campo in occidente, in genere e nello specifico italiano), appena in noi s’annusava o forse più consapevolmente s’avvertiva il rispetto (se non l’amore) per l’identità e per l’origine, fattori (al di là - nel migliore dei casi - di sottili velature classicheggianti) ormai sostanzialmente invisi ed in molti casi evitati come peste e genericamente antipatici a pelle ai più, si faceva inevitabile specchio di una nostra corrispondente insopportazione altrettanto radicale e definitiva che ancor più segnava i nostri prodotti culturali e tutto il nostro racconto, con una sfida puntuale, sottile ma riconoscibile per animi avvertiti. Non c’era bisogno di troppe esplicitazioni, come fanno oggi i politici per il comprensibile uso e trattamento di una sensibilità sempre più ottusa… bastava essere quelli che siamo… E questo perdura, forse in diminuzione, lentamente, (per la fortunosa ma per noi fortunata decadenza delle mitologie sopraindicate) ancora nel presente… Qui s’innesta anche il nostro indistruttibile fastidio (se pur non sempre dichiarato esplicitamente sino ad una certa soglia d’intolleranza), per certe contigue esperienze artistiche che potremmo definire molto più mimetiche della nostra, ove il mimetismo non fosse generato da una comprensibile ed umanissima necessità d’autodifesa nella frequente lotta per bande culturali, o da una autentica apertura mentale che riesca ad apprezzare anche diversità forti di contesto salvandone le preziose ragioni nascoste o profonde, quanto un ben più radicato e condizionante fattore animico e caratteriale, spesso inconsapevole, comunque sfociante sovente nel ribellismo anarcoide e nel rifiuto generalizzato, spesso camuffato poi da nominazioni altisonanti…

    Quindi a differenza di molte scritture-immagini unicamente schiacciate sul secolo e soprattutto sulla presunzione di una sua sciocca efficacia ultimativa, la nostra complessiva azione è stata la risultante di molte sollecitazioni consapevoli dell’antico, sempre con un taglio convintamente attuale. Ciò non implicava e non implica ancora, tuttavia, non aver potuto cogliere gli autentici momenti di liberazione del significante, come principalmente nell’avventura futurista ed in parte anche in altre avanguardie storiche, quando il significato non abbia rischiato, o ancora non rischi, di perdersi definitivamente nel processo d’apertura. Personalmente ho sempre ritenuto, pur tra inevitabili discrasie, che lo slancio creativo non possa mai comunque giustificare un rischio del genere…


     

    Ora, tutte queste considerazioni erano ben presenti alla nostra azione artistica in quegli anni di sperimentazioni ed è per questo che in noi non era possibile andare oltre un certo livello di scarto, per non superare o rinnegare del tutto una vocazione d’equilibrio che sentivamo non come un dogma, ma come una esperienza già realizzata storicamente, pur diversamente (per ovvie condizioni contestuali) e quindi sempre meritevole di piena considerazione. Ora, alcuni di questi processi, allora, non erano del tutto a noi consapevoli, come poi sono divenuti evidenti nel raffronto inevitabile ed a volte per noi persino scioccante, col percorso, anche notevole, di tanti altri artisti. In più avevamo il sentito supporto di autentici specialisti che potevano frenare certi nostri entusiasmi, nel mentre ci fornivano materiali informativi di prima mano. Questo non è sempre frequente in un’autolegittimazione artistica e non solo per il naturale narcisismo creativo, ma anche per la diffidenza che spesso nell’artista, quanto più di valore, si determina verso ciò che appare appena fuori dal cerchio magico della propria disciplina. Ma in noi era più forte la corresponsione col mondo ideale originario, che non obbligava, dal punto di vista dell’empito ideativo ad una eccessiva immediata razionalizzazione, pur nel permanere del massimo rispetto per i fattori tecnico-produttivi. Proprio il meglio del discorso autocritico consistette, allora non solo, in re, nelle progressive realizzazioni, ma anche in vari nostri successivi manifesti ragionati, dal primo Manifesto Romano (1980, in: Né cani sciolti, né pecore matte, Il falco, 1982), al secondo in libro (Comunità vo cercando…, Heliopolis, 1986), al terzo, decisamente ancor più esteso, per gamma d’azione, (La scrittura esterna, 1990), forse persino fino al recentissimo testo sugli ELOGICON, del 2017, che s’innesta su altre evenienze e incorpora il mondo comunicazionale ultimo…


     

    Quindi non posso non sottolineare che, dai primi anni, una profonda autarchia dominava il mio (ed allora non solo mio) mondo interiore, anche se, ripeto, v’era interesse profondo per il contesto esistenziale complessivo, allora, forse ancor più per una protratta abnegazione che (come una mente vigile definì un tempo), è sovente il risultato… di un difetto di vita personale, di una sorta di carenza d’anima o di volontà che cerca l’espressione ma ancora, inquietamente, non trova, ma è onesta e pur facendo cose non mediocri, non presume troppo di sé e non ciurla nel manico (solo con le tecniche), sempre investigando con passione. E ciò per complesse ragioni che abbiamo, forse come pochi altri in termini d’autentica autocritica, approfondito in scritti, già allora, di valore riassuntivo. (2) Essendo del tutto sinceri, l’autarchia nasceva però anche da autodifesa e revenche, come ho, quindi, confessato in testi centrali del secondo manifesto del Vertex-Poesia, della metà degli Ottanta. (3) Ma al di là delle appassionate dinamiche individuali, pur prevedibili e persino comuni ad altri, è proprio con lo scritto “Stile tra norma e scarto” che si inaugura una via del tutto propria nel confrontarsi (ad esempio) da una parte con quella che allora era forse la massima espressione di novità nella consapevolezza critica, anche accademica, (Elementi di teoria letteraria, di Brioschi e Di Girolamo, Principato, 1984) e dall’altra con tutta la tradizione dell’avanguardia, in specifico con la lezione, mai per noi esauritasi, del Futurismo e del marinettismo, come trattavano specificatamente poi alcuni scritti, raccolti posteriormente nel mio primo libro di saggi e nel secondo. (4)



     

    Oltre ai grandi tanti amati da lontano e fortunatamente a volte conosciuti direttamente, veri presenti maestri di vita/letteratura e specificatamente in questo rapporto “parola-immagine”, sono stati, nel tempo, Vettori, Gianfranceschi, Principe, P. A. Rossi, Accame, Filippani Ronconi, Manfredi, Braccesi, G. R. Manzoni, De Cusatis, G. F. Lami, Perrotta, a volte persino lontani dalle nostre insistite scelte artistico-ideali, ma ove il mito di revisione ed un’autenticità virile inesausta dentro ed oltre le generazioni, sono stati complessivamente operativi nel profondo ed ai quali va una nostra convinta riconoscenza.

    Qui, lungo tutto questo percorso, consisteva quindi il comprendere a fondo quanto il problema del nostro stile tra norma e scarto fosse centrale nell’autoconsapevolezza, generando poi tutte le svolte operate dalla poesia alla materialità dei “volumina”, dall’oggettistica di richiamo colto alla più vasta lotta, concreta e sottile, per affermare una dinamica, fuori dagli schemi del potere culturale dominante ma sempre nella battaglia anche commerciale ed a viso aperto, non accademicamente preordinata, ma confrontata a campi d’eccellenza sovente col concorso d’istituti universitari, di valenti specialisti di antichistica, di epigrafia classica, di filosofia dell’antico e del presente. L’antico ed il nuovo rappresentavano per noi eminentemente norma e scarto. Qui l’autarchia poi consisteva davvero nel fare, proporre, brevettare, produrre, commercializzare, partendo dal grado zero dell’invenzione evocativa e spesso della proposta multimediale (perché eravamo fuori dalla scuola e dentro alla vita comune), un “conglomerato originario” (parafrasando la celebre definizione spartiacque di Dodds) che appunto avesse in sé la massima dose possibile (e, sopportabile, anche se obtorto collo per il mercato), di logica materiale e di pulsione più-che-razionale. Si riconosceva in esso completo eideticamente, sin dall’inizio, un ossimoro vitale in quanto in sostanza pleromatico, potendo idealmente ed intellettualmente esser conscio del mondo …come vacuità e destino.    La necessità di svelarsi divisi nella creazione, ma ove la ventura di questo gioco serio ambisse a darne lievemente ma risolutamente conto, come segnavia di una tabula fati e non solo di una tabula rasa. Fiduciosi del nostro non essere nati a caso e per niente… Evocazione di lares, penati, storie, comunità forti, dinamiche mai sottomesse. Una pulsione certa di pensiero-azione, ma, se ci si riflette sopra bene, antropologicamente, non necessariamente dogmatica.


    L’irrazionalità, poi nel concreto lavoro di ogni giorno (non sono state quindi solo… parole), consisteva anche nel voler stare come artisti nel mercato contro il mercato, operazione che avrebbe prodotto, in un mix di strana successione, sorpresa, sconcerto, successo, adesione, rifiuto.

    Che tutto questo, al di là dello stesso straordinario interesse sovente determinatosi contro ogni prevedibile calcolo, sia poi scivolato sostanzialmente a zero nella consapevolezza critica ufficiale (e spesso per dinamiche forse ancor più complesse anche in quella cosiddetta antagonista), era del tutto presumibile e noi ce ne eravamo ben fatta – tra alti e bassi – già una ragione, anche contro il ricorrente valido illusionismo della nostra stessa operazione complessiva (accorti della… māyā in divinis), che infatti ha determinato potenti ed agenti illusioni, di comprensione e partecipazione, anche a cicli alterni e non nello stesso modo evidentemente per ogni realizzazione, in molti compagni di strada d’autentico valore.

    Questo sembrerebbe essere un discorso astratto (ovvero eccessivamente intellettualizzato, magari a posteriori), ma è esattamente il contrario, perché ciò è stato ricorrente, nella mia o nella nostra, esperienza, potendo parlare infatti anche a nome di altri.

    Spesso infatti per noi, quello che vari artisti avrebbero consumato in una intera vita di creazione, anche tra i classici rifacimenti e modificazioni (i “periodi”), incapsulato in un’unica realtà autorale, l’abbiamo spremuto completamente in cicli compiuti, che potremmo definire decennali, determinandosi una pressione notevole per i vari piani contestuali percorsi… C’era un mondo dell’antico originario, né accademico, museale, maniacale, dilettantesco, da ripercorrere come degli autentici dilettanti, necessariamente fuori da schemi consueti e con gli occhi incantati. Le “poesie-immagini”, i “rotoli”, le “tavolette”, le “magliette letterarie”, la “scrittura esterna”, le incisioni laser letterarie (con varie applicazioni traslate da settori merceologici anche sperimentali ad altri del tutto imprevisti), i non pochi brevetti come “il “rotolo-astuccio”, di poi le “istallazioni creative”, ed infine l’applicazione telematica degli “ELOGICON”, (5) che utopicamente riprendono, su campi del presente e del futuro, parte eminente di un passato ideativo e creativo e, per ultime, ma questa è storia davvero unicamente individuale, le mie grandi sculture.

    La lateralità all’“arte del secolo” non poteva per noi che procedere proprio nella norma e nello scarto, appunto, anche per esiti con pochi confronti di genere, giudizi, approfondimenti e disgusti. I compiaciuti disgusti numerosi come i convinti consensi.

    Ma se fino a questo punto del discorso ho usato la potente metafora dialettica, in modo solo iconico, andiamo veramente dentro l’apparente contraddizione. Ho detto sopra che due erano state le scaturigini prime. Una riflessione seria sul rapporto tra norma e scarto e lo scoprire, quasi subito, che tale contraddizione creativa agiva lungo ogni spazio ed ogni tempo, applicandosi a molte delle potenti evocazioni che andavamo, ammirati, studiando e nello stesso tempo, entusiasti, realizzando. Qui non mi è possibile ripercorrere le dinamiche interne di tipo autorale che ho perseguito altrimenti in saggi (od opere), né riscontrare volta per volta un innesto materiale, un’evocazione sottile che ne riprendesse la ragione d’immissione. Serve, per procedere, magari di poco oltre l’icona critica, già definire un più esteso tratto dialettico e comprenderne almeno in parte la potenza. Non per niente il titolo del mio secondo libri di saggi s’intitola “…come vacuità e destino”. Al di là dell’irriverente allusione, tutta la vita si accorpa attorno ad una evidenza. Evenienza per tanti anni di lavoro ed evidenza, epifanica, ormai.

    Ed allora facciamo tre soli esempi, tra i tanti possibili. Il primo di ordine più teoricamente ideativo, il secondo storico-critico applicato, il terzo più consapevolmente creativo:


  • “”…Quando ho cercato di fare un bilancio di 12 anni di “Letteratura-Tradizione” (1997-2009), la rivista di cui sono stato redattore per tutti i numeri e che si è distinta per una straordinaria metodologia di ricerca con le direzioni alternantesi e le sezioni autonome, strumento eminentemente registrativo ma a suo modo e con i suoi tempi anche fortemente indicativo, ho potuto compiere un bilancio lucido della nostra distanza/presenza rispetto al mondo della usualità e contemporaneità filosofica, letteraria, scientifica, ideologica. La distanza/rammemorante o wei wu wei, è stata una caratteristica della nostra marginalità attiva, che non ci ha impedito mai però di anticipare paradossalmente e spesso sorprendentemente molti degli autori e delle tematiche del dibattito presente.   Questo dipende dal fatto che sovente non nuoce una certa separatezza rispetto alla corrività, non certo torre eburnea ma di guardia, separatezza derivata da mille cause che ho investigato, appunto esaurientemente in altra sede, se questa separatezza non è tronfia o velleitaria ma dolente/sapiente, scanzonata ed assieme serissima. Allora, ad esempio, sentire il rumore di fondo che compie il pensiero della fisica ultimissima, dagli ormai storicizzati Fantappiè e Costa de Beauregard, ove il concetto di sintropia entra in classica dialettica con quello di entropia, sino alle ricerche sul possibile superamento del Modello Standard della teoria quantistica, opzioni tutte ove comunque la fisica delle particelle è sperimentale per la comprensione del macrocosmo, ci serve per rammentarci della nostra relatività generale, ovvero della nostra visione olistica, postumanistica, tesa all’interazione efficace tra tradizione e ricerca. Spesso il mondo della complessità originaria (De Santillana) è più vicino alle ipotesi della ricerca scientifica attuale di quanto molti credano e si depotenzia in tal modo l’arroccamento letteralista tra le due culture che tanti danni ha fatto ed ancora genera. Certo, parafrasando Noica è dall’idiomatico che si raggiunge l’universale, come a dire che è anche dalla ricerca specialistica, in ogni campo, che possiamo (se vogliamo) cogliere barlumi di verità ampia e coinvolgente a tutti i livelli. Ma per dire qualcosa che assomigli ad una provocazione potrei richiamare il Carlos Wieder, protagonista sfuggente della Stella distante di Carlos Bolaño, come esempio di qualcosa che ci è sempre vicino e sempre più vicino diviene lontanissimo, perché le poste della complessità parlano chiaro delle cause che si moltiplicano e dei significati sempre più difficilmente significanti, se noi non si opera una scelta coraggiosa ed onesta, “ipotesi di lavoro”, comunque, nel Gran teatro del mondo apparecchiato… Ritorniamo così alla distanza rammemorante, che è dimensione eminentemente spirituale. L’uomo archetipale aurorale e/o hierarchicus, come l’uomo tecnologico e/o aequalis sono modellistica socio/civile, come nel grande Dumont tutta da investigare, ma in una sinergia ancor più tutta da costruire (nelle nostre vite) sono materia per l’azione. In tal senso non si può scappare dalla scelta di campo ma noi l’abbiamo fatta consapevole delle nuove poste in gioco, senza attardarci troppo ancora in quelle passate. “” (6)


  • “”In occasione dell’edizione critica per la Heliopolis Edizioni, del “Quarto d’ora di poesia…”, mi sono lanciato in un’ipotesi di valutazione sintetica dell’avventura marinettiana e futurista che cerca di cogliere i due elementi fondanti la forza complessiva della dialettica tra inventio e dispositio.    “…Ma trova ragione anche in una sorta di facilismo critico, di approccio al Marinetti - prima delle rivalutazioni degli ultimi decenni - facilismo venato d’improntitudine critico/filologica, come di pregiudizio ideologico. Siamo spesso dovuti passare attraverso le forche caudine di una rivalutazione in chiave artististica, movimentista, strutturalista, neoavanguardista, para-semiotica, di sociologia della letteratura, persino di maledettismo da salotto, pur di pervenire, nei critici di sistema (per non dire di regime), ad una valutazione più organicamente seria e globale del fenomeno Marinetti e Futurismo. E questo ha troppo a che fare col fenomeno moda. Ma il “Quarto d’Ora...” si poneva comunque come un ostacolo ad ogni approccio interpretativo di tipo generalista o buonista o perdonista o semplicemente artistista della poetica marinettiana, anche per la sua magica concentrazione di riuscite sintesi. Questo per quanto riguarda una sommaria storia del testo e della sua aura paraletteraria. Per il giudizio critico partirò invece da molto più lontano e mi rifarò, per ritornare poi al “Quarto d’ora...”, a considerazioni che cercano di trovare una nuova via di comprensione, speriamo efficace. Così ciò che mi preme dire, ad un lettore consapevole delle varie avventure e disavventure critiche del marinettismo e del futurismo è che una possibile nuova linea interpretativa è quella d’intersezione tra la componente esoterico-simbolico-evocativa e quella meccanicista-materialista-sensualista. Una risultante di tre rispettive linee di forza agenti (nei due campi) nella stessa direzione, ma individuabili nettamente nelle loro identità distinte sia pur afferenti.   Il “risultato” Marinetti è, usando una metafora più icasticamente apprensibile: Egitto+Parigi > Italia (Milano+Roma). Ciò spiega, in una progressione dinamica, tante apparenti antinomie, riducibili, ciascuna ad un quadro inorganico, schizomorfo, della figura marinettiana. Se è vero che per comprendere analiticamente tali componenti è necessario uno studio che ne individui, con precisione, scaturigini ed essenze, è pur vero che è difettata sovente una forte capacità sintetica in grado di comprendere la dialettica degli opposti in un precipitato di maschera e volto, sostanzialmente stabilizzato, pur attraverso fasi vitali, generazionali e temporali ben distinguibili. Direi che due testi possono essere portati non a prova (le cosiddette prove residuano dai primissimi ai più maturi lavori di Marinetti), ma a chiave simbolico-interpretativa di tale lettura, che, ci rendiamo ben conto, non è priva di rischi nella sua perentorietà. “Il fascino dell’Egitto” del ‘33 ed, appunto, il “Quarto d’ora di poesia della Decima Mas” del ‘44. Ripetiamo che scegliamo questi due testi per alcune linee creative, che ci appaiono risultanti perfette. Il primo è un collage d’occasioni critico-esperienziali, ma che, alquanto a posteriori (dai fatti, una trentina d’anni!), suggerisce il fascino di una vocazione complessa ove lasciti esoterici profondi ed influssi multiculturali filtrati da un occidente ancora prorompente e dominante si fondono in un unicum magico ed irripetibile. “Il poeta Cavafy”, una delle prose d’occasione di tale libro, n’è una testimonianza potente. Sottilità, ambiguità, capacità introspettiva, grande finezza interpretativa nella presentazione del personaggio Kavafis, in una classica carrellata futurista mediata da un riuscito equilibrio fra suggestioni indirette e definizioni penetranti.   E su tutto il profumo di una marcatura magico-esoterico-esperienziale che unisce grecità del mediterraneo africano, influssi ottomani, fierezza di un occidente coloniale culturalmente cosmopolita ed intellettualmente tollerante. Qui scompare velocemente, si potrebbe dire futuristicamente, ogni sovrastruttura del dinamismo paroliberista di tipo programmatico ed artististico, per il fine del dire, raggiunto, con piena riuscita, invece per una intrinseca necessità più profondamente sentita. Il fascino dell’Egitto, paradossalmente, ricrea un equilibrio sostanzialista - sempre però in termini fortemente formalizzati - che acquisisce una sua indipendenza dallo stile dei collaudi marinettiani, atemporalizzando, con naturalezza ed incisività, un incontro in una temperie ormai diacronicamente resa disponibile e recuperabile. Invece, “Il quarto d’ora...”, totalmente imparagonabile a molti altri testi di Marinetti per una sua ultimità tesa e tragica (per la massima possibile riuscita tra sensibilità assorbita da un tempo fosco e crudele e positività del sogno, dell’utopia e della passione) è anche imparagonabile agli scenari realizzati o sereni degli anni ‘30. E’ - a nostro dire - l’altro terminale nervoso del cervello marinettiano. Questo cervello opera, dai primi alla metà del secolo, in una parabola vitale ed artistica segnata da Disordine ed Ordine, che, quali maschere del teatro tragico, si danno la voce in una rappresentazione ultimativa ed anche urlata (necessariamente), ma onesta nel proprio statuto letterario, conscia della realtà ossimorica, uscente ed entrante dal velario delle codificazioni nominalistiche e delle utopie sostanzialistiche. Ma il “Quarto d’ora...” è misura apparentemente breve di un tempo che invece ritorna e può ritornare, ove, in ogni dimensione, si determini la centratura degli opposti ed una scelta, sicura e disincantatamente responsabile, del mito e della sua pervadente e ritornante “inutilità”. Ormai libero da ogni quadro obbligato, parlante a futura memoria ma di uomini e cose concrete, non sogno ma visione, non dichiarazione ma testimonianza, non lascito ma bottiglia lanciata alle onde furiose di tempesta, è pulito, vero, bello, essenziale, forte, unico, rasserenante la foschia artificiale (sì, artificiale, più che naturale) degli odi e delle follie umane. La magia diviene cosa, lo spirito materia, la parola carne, inverando mille manifesti vitali ed inutili, mille scene calcate ed urlate, mille necessari compromessi, mille battaglie d’avanguardia e di salmeria, mille occhi stranieri nell’unico volto autoctono ed idiomaticamente universale.   Magia e figura della ragione.   Sintesi che parla e discute, per sempre, con noi...”      “…Se in Marinetti quindi ritrovo, nell’esemplificazione emblematica riportata, la sintesi di due forze, nel futurismo movimento espresso nelle sue infinite forme legate alle personalità specifiche degli autori, autentica avanguardia esplicitata massivamente e realisticamente (e non solo letterariamente, artisticamente od utopisticamente) e mai più ripetuta per numero, incidenza e sostanziale volontà unitaria, qualsiasi sia il giudizio di valore espresso od esprimibile sul movimento medesimo… rinvengo sostanzialmente la stessa caratura come risultante di due volontà: passione d’incidenza e d’integrazione (quanto poi riuscita effettivamente è tutto da investigare, valutare, giudicare…) nel tessuto civile sociale e politico ed estrema caratura d’individuazione artistica (d’indipendenza), nella sempre ripetuta valutazione piena della spinta personale pur nella cornice complessiva, ove Ordine e Disordine giocano ancora un ruolo ineliminabile e comunque irriducibile. Per poi arrivare agli ultimi fuochi espressivi del secondo dopoguerra, con l’orizzonte ormai di luci lontane e disperse per impossibilità di contesto e di legittimità politica, trasformatosi (e definitivamente serratosi) lo spazio sociale ed in tal modo resasi inoperante l’illusione di potere. Ma il giogo inflitto dal sistema non cambia, se non a soggetti invertiti o geneticamente modificati: la pressione che la società che si voglia conquistare o condizionare o redimere, infliggendo sempre una sorta di similare pena agli autori che vogliano essere anche iniziatori di un’autentica dialettica sociale, oltre quella interiore. Il movimento quindi non va sopravvalutato (difetto dalla superficie verso il supero…), come la dimensione privata non va rivalorizzata oltre il segno (difetto dalla superficie verso il profondo…). Ma Ordine e Disordine (...in altri tempi abbiamo scritto: ‘stile tra norma e scarto’), archetipi ben isolati ed assolati, comunque remunerati, rimangono le due colonne d’Ercole ove si scontrano (ma fluiscono) le correnti della scelta artistica ed i sommersi ed i salvati, alla fine, lo sono, non più - o non solo - per appartenenza a solo codici d’etichetta riconosciuta, ma, al meglio, a registri - ben tenuti - di forze e di compatibilità interno/esterno.”” (7)   La storia artistica di alcuni grandi futuristi anche “post1945” né è prova.

  • “”…Per cui non aver nessuna paura di sperimentare sempre, tagliando ogni svolazzo, qualsiasi sia la prima reazione che divarichi letture varie, sulle e delle pratiche… sappiamo che è poi la realtà dura a imporci il ritmo, ed a schiacciarci, anche noi, seppur in altro modo, magari per accelerazione gravitazionale, al muro. Forse è per questo che alcuni atti estremi (cosiddetti), soprattutto dell’arte ultima rifuggono del tutto come peste, paradossalmente più del passato remoto (cfr., fra mille, Martirio di San Giovanni Evangelista di Donatello), dai veri bolliti nelle pentole, dai veri bruciati nelle gabbie, dai veri sgozzati e sollevati a trofeo pei capelli e da tutti quelli buttati nelle fosse, (…più o meno, vedi i terroristi moderati).  Mi attenderei (ma non ci credo proprio) che qualcuno seguisse (sul serio) le orme feroci del vero. Magari inorridendo come tutti. E i suicidati dell’arte sono quelli che più (non perché l’eccesso in sé sia un valore ma perché l’eccesso - se portato fino al termine della notte - valore)… si sono comunque avvicinati. Ma è come se l’arte pretendesse proprio di non essere mai troppo reale, di dare sempre di gomito e di rappresentare solo sogni, proiezioni, contraltari, tendenzialmente evasivi, suadentemente devianti, tra i parodianti a volte pure orrifici, ma intimamente distaccata (…infatti è un’altra vita, su tutt’altro piano, chissà, forse, più reale), persino se ci affascini, esalti, trasformi. Io stesso - che pure ne vivo - la considero solo una lettura tra altre, nella grande rappresentazione della vita…  Così a noi artisti, poeti e variamente pensanti non residua comunque che testare che ogni ascesa voluta comporta rischi e ogni non evitata battaglia, da quelle carsiche a quelle frontali, un discutere disperatamente, ma alla fine, di tutto (senza presumere di noi, se non il giusto), decidere, partecipare, pagare…”” (8)       “”…Infatti, se accettiamo il mondo dell’armonia cosmico-matematica (…che sia in chiave sacrale e/o scientifica), risolta in una ineluttabilità (il vecchio e nuovo Fato, il vecchio e nuovo Destino, il vecchio e nuovo Tragico) sostanzialmente insuperabile, ove vengano ricomprese tutte le dinamiche (personali ed impersonali), pure rimane impregiudicata la nostra personale risposta. Che non è e non può essere solamente individuale ma che spartisce comunque ciò di cui noi siamo insuperabilmente responsabili. Ed a livello singolo si pone infatti ogni processo di autodeterminazione, autoperfezione, autotrascendimento, che non può mai trovare sponda di scusa in apparati (il più d’uno) derubricanti o delegittimanti l’insopprimibile qualità individuata. Un libero arbitrio che in tal senso agisce, possiamo dirlo con buona approssimazione, subordinatamente, posteriormente, limitatamente. Ma in tale quadro dell’armonia cosmico-matematica e lungo tale processo, chi ha già solo orecchiato tutte le pratiche perfezionanti, d’occidente e d’oriente, del passato e del presente, sa che maggiormente si staglia quella che va… verso l’estinzione. Perché? Perché, sia in occidente che in oriente, sia nel passato che nel presente e sempre facendo la tara di ogni letteralismo o cascame di genere, chi rappresenta meglio l’armonia dei contrari è ciò che rappresenta il costitutivo e dinamico non-duale, ovvero Essere/Nulla, Apollo/Dioniso, Yin/Yang, Sostanza/Forma, etc…   Ma essendo noi l’Esserci, dell’Ente, dell’Essere è ovvio che l’altro polo è l’Estinzione, nel Nondesiderante, nel Nulla, nel Senzasuperiore (della “Trentina della Suprema”), nel Nirvana.   Molti, tra i meno settari, hanno ben pensato e scritto intorno ai due poli, fin dalla notte dei tempi ed io non posso che aggiungere la mia sommessa domanda che non ne scalfisce affatto la rilevanza ineluttabile (…non può, non riesce a farlo). Perché se tutto il processo comunque come sommo vero (ed andare dal sommo vero… al sommo bene comportava già ab antiquo una deriva possibile dell’autorappresentazione del Fato, proprio perché in una non più del tutto impersonale meccanicità cosmica s’insinuava una richiedibile umana corrispondenza, essendo il bene un valore eminentemente etico-sociale), va verso l’estinzione, questa estinzione a noi piacerebbe (non certo per verità ineluttabile ma per - anch’essa insopprimibile - umana ricerca d’empatia), che non rimanesse del tutto impregiudicata ed indifferenziata, ma qualificata e rappresentabile. Quindi in una logica - per noi umani - minimamente comprensibile.   Cosa che però - al livello di rarefazione a cui si pone o si dovrebbe porre tale domanda - non solo non ha mai trovato risposta (se non appunto nelle Rivelazioni, Personalizzazioni o Devozionalità), ma probabilmente non può trovarne alcuna… Qui molto penosamente sfiaterebbe l’asino all’eterna immane mola della ricerca…”” (9)      Problematicità - non diminuita - di ogni vera ricerca…


  • Ecco i tre esempi, tratti da miei precedenti scritti, che riassumono senza ambiguità un percorso esistenziale esemplare, non per forza nella sua originalità ma nella sua effettiva rispondenza, il più possibile lucida, alla dialettica interiore.

  • Note:
  • 1) Vitaldo Conte, Scrittura_Pittura in Italia. In via di pubblicazione su vari siti e su: www.heliopolisedizioni.com.
  • 2)L'interpretazione dell'esperienza di "LETTERATURA-TRADIZIONE" (1997-2009), è  più che mai necessaria” . www.heliopolisedizioni.com sezione: “Notizie”. In questa ricognizione, che si incentra specificatamente sull’esperienza di 12 anni di “Letteratura-Tradizione”, viene però colta una distanza di fondo che è comune a tutte le nostre varie esperienze comunitarie susseguitesi lungo i decenni, dalla fine degli anni Sessanta fino ad ora. Una breve citazione da quel contesto: “…Tale "assenza/presenza" non era e non è voluta, è una condizione vocazionale e formativa, di cui si deve avere chiara consapevolezza per poter valutare se stessi ed il proprio operato (ed i propri esiti pubblici). Dimensione che poi determina anche la preferenza per una condizione creativa ove il dato sacrale, metapolitico, simbolico e fenomenologico (stile di vita), è fondante ed antecedente ogni espressione nominalmente espressiva e critica.  (E questo per noi è una cosa sacrosanta).”
  • 3) AA.VV. “Comunità vo cercandoManifesto delVertex-Poesia’, tra identità creativa e nuova organicità di riferimento”, Heliopolis Edizioni, Luglio 1986. In particolare, negli interventi a mia responsabilità diretta: II Parte, “Verità come espressione”: 4) Cultura della crisi ed atto creativo; 5) Logica del dilettante; 6) Stile tra norma e scarto.
  • 4)    S. G., L’armonioso fine. Riflessione critica su crinalità e stile, Società Editrice Barbarossa, 2005. In particolare: 4) Il mostro dell’apparato; 7) Poesia ed identità nazionale (L’eroe necessario); 9) Semplificazione, atto rivoluzionario. S.G. “…come vacuità e destino”, NovAntico Editrice, 2013. In particolare: 7) Sul “Quarto d’ora di poesia della Decima Mas”, di F.T.M.; 49) “La scrittura esterna, dai primi volumina alle Istallazioni creative; 51) “Urfuturismo. Ipotesi di lavoro”.
  • 5) “ELOGICON, progetto generale e pratica attuativa”. Testo dell’applicazione telematica, con giustificazioni ideative, giuridiche, brevettistiche, commerciali ed icone degli ELOGICON, Heliopolis Edizioni, 2018.
  • 6)  S.G., Nuova Oggettività, oltre  il '900 estetico e il New Realism... Intervista a  S. Giovannini a cura di Roby Guerra, su vari siti e su: www.heliopolisedizioni.com 2018.
  • 7) S.G., Alcune considerazioni su marinettismo, futurismo e neo-futurismo. Su vari siti e su: www.heliopolisedizioni.com 2018.
  • 8)  S.G., L’origine futura, (a proposito diAntico Futuro, Richiami dell’origine”, di Vidaldo Conte, Dalmazio Frau, Emanuele Ricucci, Solfanelli, 2018. Su vari siti e su: www.heliopolisedizioni.com 2018.
  • 9)  S.G., Fato ed estinzione, su vari siti e su: www.heliopolisedizioni.com 2018.