• Carica Izbuscenskij Savoia Cavalleria

  • ORFANI di MARTE
  • di
  • Piero Visani
  • (da Il Primato Nazionale, cartaceo di ottobre 2018)
  • Parlare di deep state, in riferimento all’apparato militare italiano, mi pare molto suggestivo, per usare un eufemismo. Ho lavorato per diciannove anni come consulente esterno della Difesa e non ho mai trovato alcuna delle pulsioni che vengono generalmente attribuite dal mondo esterno all’universo militare. Ho trovato invece, nell’ordine: il formidabile peso della storia (in particolare dell’8 settembre 1943), non tanto all’interno quanto all’esterno dell’istituzione stessa; notevoli problemi identitari, legati a dubbi sulla funzione militare nel nostro Paese, da molti percepita come una finzione; un forte senso di smarrimento o comunque l’esistenza di robusti interrogativi sulla reale possibilità di fare il militare di professione in un Paese come l’Italia; una crescente incertezza, destinata con il tempo a trasformarsi in autentico fraintendimento, sugli effettivi compiti da assolvere; la sostanziale inesistenza di una concezione guerriera, autentico tabù per l’intera istituzione, alla quale mai fare riferimento anche solo per semplici opportunità (e opportunismi...) di carriera.
  • Mi accostai al mondo militare, nella seconda metà del 1988, per una serie di circostanze relativamente casuali, animato dalle migliori intenzioni e molto presto mi accorsi che quel mondo era assai diverso da come me lo ero immaginato da fuori. Per quasi un decennio, fino a tutto il 1996, curai una rassegna quindicinale sull’atteggiamento della stampa italiana in materia militare, destinata a tutti i vertici, compreso il titolare del dicastero della Difesa. Feci conferenze nelle principali sedi di studio dell’istituzione (come il Casd, l’Ismi, il Cemiss, l’Istituto di Guerra Marittima), scrissi libri come “Lo stratega mediatico”, (Roma, 1998), partecipai a numerosi convegni, alcuni anche all’estero. Mi accorsi in breve che era un mondo molto particolare, dominato da logiche sue proprie, relativamente al quale fui costretto a modificare molti miei giudizi. «Allineati e coperti». La funzione di comando, ad esempio, era molto frammentata e non esisteva una grandissima collaborazione tra le tre Forze Armate (Esercito, Marina e Aeronautica), costantemente impegnate in una disputa per contendersi le non soverchie risorse disponibili, per non parlare della posizione particolare dell’Arma dei Carabinieri. Era dunque difficile dire chi comandasse davvero, come e perché, e ancora più difficile era dire chi «tracciasse la linea». Più facile era dire a quali logiche rispondesse la struttura, poiché erano spesso logiche di assoluta autoreferenzialità e di non particolare collaborazione reciproca. Dominava un senso di forte burocratizzazione e, anche se talvolta - ad esempio nel campo della comunicazione istituzionale, che era quello che mi riguardava più da vicino - venivano discussi bei programmi di innovazione, di cambiamento, di presa di distanze da un certo conservatorismo, alla fine tutto si esauriva in un nulla di fatto, anche per la presenza di un’autentica ossessione, quella di mantenere i migliori rapporti possibili con il potere politico, la migliore e più solida garanzia di carriera esistente. «Legare l’asino dove vuole il padrone» era la logica dominante, che non mi pare sia granché cambiata neanche oggi, con la sola eccezione del comando della Guardia Costiera, anche se bisognerebbe chiedersi se il vertice di quest’ultima intenda la figura del «padrone» come il governo attualmente in carica o le forze per nulla occulte che lo contrastano in ogni modo e intenda dimostrare loro di attendersi che, in tempi neppure troppo lunghi, torneranno in sella... Rimanere «allineati e coperti» era dunque l’espressione dominante nell’ambiente militare ed anche quella cui ciascuno si atteneva (le eccezioni ad essa si contavano e contano sulle dita di una sola mano, e comportavano sempre le dimissioni o l’allontanamento, con la conseguente stroncatura della carriera), sulla base di una logica curiale molto prudente, che induceva tutti a ripetere piuttosto pedissequamente, e talora anche stancamente, lo storytelling della Prima e pure della Seconda Repubblica (per nulla   differente   dalla   precedente   in   termini   metapolitici,   per  l’assoluta inconsistenza culturale della quasi totalità dei suoi protagonisti). In effetti, la transizione tra i due momenti politici della nostra storia repubblicana avrebbe dovuto segnare - a mio avviso - un netto momento di stacco rispetto alle geremiadi sui «soldati di pace» che avevano caratterizzato la parte finale della Prima Repubblica e invece - per totale ignoranza del valore di cambiamento legato all’adozione di una nuova metapolitica - queste continuarono assolutamente identiche a prima, solo proferite da politici di centrodestra, invece che di centrosinistra.
  • L’eterno 8 settembre
  • Qui il discorso sarebbe lunghissimo, non certo affrontabile all’interno di un articolo, ma è fin troppo chiaro che, in un Paese come il nostro, che ha nella sua Costituzione un articolo come l’11 (quello dedicato al ripudio della guerra), la funzione militare assume necessariamente un’identità fragile, per non dire fragilissima, per non parlare del fatto - e lo scrive chi ha avuto notevoli esperienze all’estero in questo campo - che l’opinione di una larga parte del mondo esterno, e non solo di quello anglosassone, sulle capacità belliche degli italiani è, dopo l’8 settembre 1943 e la Seconda Guerra Mondiale, assai bassa, molto più bassa di quello che i nostri stessi militari e l’universo politico e mediatico siano disposti ad ammettere pubblicamente. Il grande storico militare Piero Pieri, sul declinare della sua vita, mi rivelò che si era arruolato volontario nella Grande Guerra perché voleva contribuire di persona a sfatare il mito che «gli italiani non sanno battersi», già molto diffuso all’epoca. Il vittorioso esito del Primo Conflitto Mondiale segnò una salutare battuta d’arresto in tal senso, ma poi vennero i disastri, le vergogne e i tradimenti del secondo...

  • Miti da sfatare
  • Per quanto concerne le ideologie dominanti all’interno dell’istituzione militare, il primo mito da sfatare è quello che essa sia un concentrato di soggetti «destroidi», con più o meno scoperte propensioni neofasciste. Non è assolutamente così, pur se non mancano inclinazioni di questo genere in singoli soggetti e - talvolta - in singoli reparti, anche se queste manifestazioni assumono il più delle volte una connotazione goliardico-folklorica, che ha come unico esito quello di scatenare alti lai da parte del robusto e «sempre vigile» antimilitarismo nostrano, per cui nei fatti esse si trasformano in genere in casi esemplari di eterogenesi dei fini, di autorappresentazione di sé in conformità alle esigenze dell’avversario politico, con grande soddisfazione di quest’ultimo, che senza spesa alcuna passa all’incasso della delegittimazione politica e mediatica procuratagli dalla stupidità altrui... Nei miei quasi vent’anni a stretto contatto con l’istituzione militare, ho riscontrato la presenza di un certo conservatorismo destroide (tipo «ordine e disciplina»), vissuto e interpretato nel peggiore dei modi dagli amanti dei vuoti formalismi; una forte - quando non fortissima - inclinazione a compiacere il potere politico, per ottenerne vantaggi di carriera e altro (compreso l’inserimento in prestigiosi consigli d’amministrazione industriali subito dopo il pensionamento); un orientamento - largamente dominante - a un irenismo umanitario che, a leggere certe odierne dichiarazioni di ufficiali anche di grado medio-alto, è intriso di religione cristiana, di mondialismo, di «valori» estrapolati dal «pensiero unico» egemone, al punto che spesso non sembra che l’intervistatore parli con militari, ma con crocerossine. Questo orientamento è frutto ovviamente dell’aver respirato e dello stare respirando lo «spirito del tempo», ma appare altresì convinto, sentito, partecipato, ai limiti dello «strappalacrime». Fa un po’ sorridere, ma credo che questi siano i militari preferiti dalla Comunità di Sant’Egidio, la cui influenza all’interno delle Forze Armate dura da molto tempo e meriterebbe sicuramente uno studio approfondito, da intendersi come dedicato a un’efficiente longa manus del Vaticano. Quanto al ruolo delle sinistre, certamente la loro presenza oggi non è più ideologica come un tempo - e neppure potrebbe esserlo, visto che gran parte di esse, in Italia, è scaduta a semplice succursale del globalismo internazionalista - ma si manifesta semmai negli ami che vengono lanciati a chi, nel corpo ufficiali, voglia far carriera in fretta e senza troppa fatica, e tali ami vengono indubbiamente raccolti, a fini di  captatio benevolentiae, da soggetti che non solo ascendono ai vertici dell’istituzione, ma spesso «condiscono» tale ascesa con tirate irenico-umanitarie che piacerebbero moltissimo a George Soros e ai suoi sodali di ogni specie e colore. Qualche resipiscenza (tardiva) si ha tra gli alti gradi che vanno in pensione, alcuni dei quali, il giorno dopo che hanno raggiunto l’agognata meta e le relative prebende, si scoprono assertivi fautori di una «militarità» di cui però non avevano fatto cenno per tutto il tempo della loro permanenza all’interno dell’istituzione...
  • La deriva «civilistica»
  • In definitiva, mi pare difficile pensare che i militari, in Italia, possano fare parte del deep state. I rapporti di forza esistenti con il mondo politico sono tali da impedire il formarsi di una situazione del genere e, al tempo stesso, è del tutto evidente che, per essere davvero  deep state, occorrerebbe prima essere state. Questa ipotesi è assolutamente esclusa dalla deriva «civilistica» di questi ultimi anni, come ampiamente dimostrato - con un esempio a mio parere assolutamente eloquente - dalla parata militare del 2 giugno, alla quale vengono ormai fatti partecipare pure i vigili urbani. Il che può essere sorprendente per alcuni osservatori superficiali, ma non lo è affatto in un Paese dove, in fondo, l’unica difesa ammessa è quella civile, campo nel quale peraltro, dalle alluvioni ai terremoti, le Caporetto e gli 8 settembre si accumulano a ritmo serrato... Ci sono ovviamente anche altre forme di difesa, militarmente molto più brillanti, ma di quelle non si può quasi parlare, perché l’unico soldato ammesso in questo Paese è quello «di pace». Quello di guerra - anche se spesso la fa, abbastanza deplorevolmente, per conto terzi (leggasi americani) - non è proprio ammesso, non esiste, non deve esistere. La cultura dominante non lo accetta.