• ENTRACTE
    • Appunti sul cinema dada
    • Al di là della breve scala cromatica
    • di
    • Carmen De Stasio
  • Nella dialettica della molteplicità e nell’intolleranza al (pre)confezionamento di rituali liturgici dell’arte, il movimento dada irrompe ‒ significativamente in quello scorcio di inizio secolo XX calato nel pieno della Grande Guerra ‒ sulla scena europea come antisistema provocatorio e in permanente scissione rispetto a parametri che acuiscono nella borghesia del tempo la banalizzazione dell’esistere (ovvero la messa al bando, nei termini arendtiani, del valore universale dell’esistere). Dada non ambisce alla nettezza del disegno, ma a una tipologia di arte-azione distaccata da tutto quanto sia artatamente dettato da regole. È espressione di conoscenze impregnate di ricercativa spontaneità del gesto che solo deriva dal (saper) conoscere.

Vormittagsspuk

  • In quanto espressione dell’individualità, dada accettava perfettamente, e addirittura preconizzava, l’impiego delle diverse discipline plastiche o poetiche. 1
  • Tra le discipline plastiche e poetiche, la cinematografia dada legittima un montaggio nel quale le responsabilità, al pari di una comunità metropolitana, distribuiscono gli impegni e, quindi, i meriti di contro a risposte di annullamento. Oltretutto, dispone la facilità con cui la parola possa assumere una derivazione o una variazione che assembli il sintomo della molteplicità. Di fatto, il programma dada nel cinema non solleva granché l’azione perpetrata dalla parola o dall’immagine pittorica, poiché il metodo poli-linguistico dada prevede un’articolazione in grado di ricomporre caratteri particolari in una cornice a sua volta determinata dalla scansione di dettagli emergenti in continua casualità e dall’aspetto aleatorio. In questo caso si rende opportuno parlare di impercettibilità come condizione per riqualificare la centralità del territorio simbiotico prodotto dal cinema dada, attraverso una valorizzazione della letteratura che nell’happening trova la sua specificità etimologica, vale a dire, potenzialità evolutiva in svolgimento simultaneo (Le pensée se fait dans la bouche afferma Tzara nel Manifesto dada) che concorre al rifiuto di saperi consunti.

  • È, dunque, nell’azione dada che lo spostamento avviene senza l’invasiva prevalenza di atti primari e/o secondari, la dominanza dei soggetti protagonisti rispetto alle comparse, la scenografia rispetto alla coreografia, eccetera: sottoposto a continuo mutamento, il tutto in primo piano è sostanza che si presenta nella velocità d’esposizione con una rilevanza composta da forma interiore-esteriore-obliqua e un’incessante e inattesa originalità, la cui scaturigine deriva, in ogni caso, da un’approfondita conoscenza di canoni pregressi, cancellando i quali non sarebbe possibile opporre una distanza totale affinché l’accadimento, in quanto tale, possa affluire in un’universale contemporaneità. Ciò prevale in quella che definisco letteratura dada-filmica cronotopica per via dell’assenza di finitezza, quanto d’inizio, riferibile all’estensibilità di un incompiuto che qualifica l’infinitezza creativa, la follia entro la quale le immagini in movimento e il movimento stesso si sottopongono a incessante riposizionamento costruttivo e parimenti destrutturante. Ne sono garanzia i titoli stessi delle pellicole dada, sia in aperta allusione, sia quando sembrino destinare altrove. In ogni caso, si tratta di un coesistente arricchimento contiguo, che nell’osservazione rende possibile sia l’azione per intero del guardare l’oggetto, che le azioni che riguardano l’oggetto, il suo comportamento implicito, pregresso, senza ricorsi ad apofantiche e inconsistenti previsioni.

  • Definibile come potere-in-potenza2, l’arte dada-filmica non aspira a una collocazione che argini intromissioni ed interferenze, anzi, queste intervengono quale ulteriore nutrimento, giacché la realtà dell’arte è anamorfica; é universo multi-stratificato di essenze che esistono per la complicità e la commistione che ne regolano – senza portarle a sistema – le disgiunzioni e le disaffermazioni come un reticolato in continuo mutamento (e, per ciò detto, potenziamento). Gravido di tali caratteristiche è il film Rhythmus21 3 di Hans Richter.  Qui la scomposizione incessante su uno sfondo ottico oscuro conferma la varianza di una geometria inattesa, la cui azione del vedere-sembrare è pari alla differenziazione della pluralità dell’io su un palcoscenico assente, nell’indeterminanza spaziotemporale di un ritmo generato dalla manipolazione della luce, là dove la geometria si scompone costantemente e si anima partendo dalla variabilità del punto di origine. Con Rhythmus (il regista ne realizzò tre: 21, 23, 25) la trasformazione sinfonica delle forme risponde compiutamente a un’individuazione sperimentale che, pur contenendo ancora segni di cubismo, presenta una propria dada-mobilità nelle esponenze del nascondere (pensare) e della grafica (rendere pubblico) lasciando espansive spazialità architettoniche, il cui fulcro sembrerebbe crearsi e dissolversi nel nulla. Poggiandosi alla maniera flaubertiana sul nulla (ambizione di Flaubert era scrivere un libro sul nulla), attraverso un montaggio irrefrenabile, la realtà dada-cinematica contribuisce non poco a illuminare orizzonti molteplici che, nell’esorbitanza oggettuale, ripongono l’interesse sulla facoltà individuale dell’operatore. In questo modo, la cinematografia dada apre alla multimedialità con un idoneo superamento degli incastri posseduti e la proiezione possibile attraverso opzioni derivanti da un (autorevole ma non investito di autorità, beninteso) meccanismo tecnologico che consente di tracciare una rotta, senza descrivere o decrittare la finitezza di un’immagine incorniciata dalla prolissità. Il movimento, che nei film d’avanguardia realizza una cronologia in dissoluzione, va a corrispondere, pertanto, con il variabilismo che anima le situazioni, come altresì testimonia Le retour à la raison 4 di Man Ray.   Nel film l’incessante spostamento ha valore in quanto accadimento psico-visivo; è richiamo al recupero della ragione e si giova di una simultaneità che, se per un verso interagisce con la ricerca d’innocenza nell’arte (Sartre parlava di ostinazione degli artisti a cercare l’innocenza nella pittura), per altro ricompone la frattura tra le percezioni, i fenomeni e le facoltà individual-psichiche in una moltiplicabilità che rifugge l’accumulo storico e porta alla concentrazione di combinazioni mentali, forte della scia disposta a fine XIX dalle nuove scienze, tendenti alla sottrazione, piuttosto che all’accumulo, come anzi detto.   Espressione progressiva del genere potrebbe essere Installation in progress dell’artista Marina Abramovic: un vero e proprio happening che continua al di fuori di un formulario informativo. Ovverosia: perché l’intenzione si concretizzi, il pensare a una maestosa diversità di materiali utilizzabili consente il recupero delle facoltà pre-liturgiche della dialettica per instaurare un rapporto diretto, adimensionato con le cose. Oltretutto, ciò consente di sconvolgere la consueta paura di sconfinare oltre l’annichilimento ottico, mettendo in atto i congegni elaborativi della mente. Il dada cinema ci riesce, al punto da evitare il riciclo di parole oltraggiose alla risoluzione intelletto-grafica e ortografica che emana dall’immagine aniconica in movimento. Diversamente dalla reiterazione del teatro (basato su un canovaccio stabilito tanto per la parola, che per la gestualità), nella dinamica artistica del dada oggetti e movimento assumono sostanza vivente per il semplice fatto di esistere.   In tal senso l’invenzione dell’inutile di Duchamp devia nel segno in cui i dada scoprono una nuova forma di lirica e di emozione. 5   Punto cruciale è, dunque, l’artista con la sua continua azione, la reimpostazione costante del suo montaggio e non già il valore finito dell’opera.    Dada ha tentato non tanto di distruggere l’arte e la letteratura, quanto l’idea che se ne aveva. 6

  • L’incastro tra i mezzi e i materiali conferisce forza all’azione dada e nell’humour si rappresenta bene il rafforzativo al contrasto, piuttosto che allo svecchiamento, cui si radica una tendenza del momento e parlo del modernismo come del futurismo. Come continua Tzara nella sua introduzione, i dada non si ritengono modernisti perché rifiutano il concetto deviante della relatività, così com’è stata letta in ambito letterario. 7    È quanto i dada-cineartisti tentano di liberare con un’orchestrazione che inserisce al contempo elaborazioni e oggetti in una posa che è effetto ed è creatrice con uno scopo senza l’attesa di un finale. Le interconnessioni, l’intercambiabilità, la forza trasformazionale e la spontaneità sono testimoni di una ricercabilità che è a seguire nel tempo a partire dal loro tempo.  Testimonianza di un eclettismo che trova specie nella variabilità e si assesta in quel virtuale che connota la nuova comunicazione multimediale, capace di liberare lo slancio verso l’inespresso. 8

  • La refrattarietà a una narrativa storicistica attiene alla competenza maturata secondo leggi della contemporanea Performing Action anticipata da pellicole dada quali Vormittagsspuk 9 di Hans Richter. Opera mediana tra dada e surrealismo, la pellicola solidifica il fattore combinatorio del montaggio, al quale va attribuito – e attraverso esso al dada-cineartista – lo smantellamento di consuetudini descrittive impigrite rispetto alla polisemanticità e alla potenzialità del sema nell’esprimere dis-gusto, piuttosto che allinearsi alla proliferazione del gusto copiativo. In un certo senso, mediante una combinazione oggetto-centrica e cinetico-centrica i dada-cineartisti riescono a produrre emozioni attraverso una resistenza all’emozione 10 che li condurrà a essere modello per la cinematografia complessa (penso ad Ejsenstejn, al Welles di Quarto potere, a Le chien andalou di Buñuel fino al cinema d’essay).  Inoltre, applicando quello che negli anni ’70 sarebbe stato definito Humour Power, il cinedada genera situazioni con una tecnica mediale tra l’intaglio e il contrasto; annulla l’esattezza e il rigore matematico in uno stupore che via via assume i toni dell’impersonalità. In questi termini, il cinema dada si conferma quale situazione preconizzante di una filmografia underground, sommersa anche in un procedimento che consente di parlare di apertura bi-logica matteblanchiana, disponendo l’oggetto-situazione-movimento non già come realtà visualizzata e pertanto unica esistibile, quanto come oggetto-funzione-obiettivo-mezzo di conoscenza, sì da sconvolgere la visuale optometrica aperta al riconoscimento del cosa integrativo con il come.    È quanto avviene in Paris qui dort di René Clair (1923), secondo film in stile dada. Qui il regista fa appello alla telecamera per calibrare l’assiomatica solitudine di uomini ipnotizzati in una città dormiente, assuefatta nel rigore di un abusivo ricorso all’intelligenza meccanica (il sonno in cui Parigi cade è il risultato di un esperimento scientifico). Qui l’aspetto dada è presente nell’annuncio della devianza che una città soggiogata dal torpore di chi si lascia vivere possa essere destinata a sparire fin dall’idea stessa di città.   In un istante tutto può essere sconvolto senza avviso. Viepiù, nel film la conoscenza diviene strategico sovvertimento che placa la sete tecnologica (i dada avversano il potere totalizzante della tecnica) mediante l’assuefazione e l’avvilimento degli uomini, responsabili (da qui il sarcasmo aspro e accanito) della propria infermità.

  • Egual sintesi situazionale si riscontra nel primo film dada, Entr’acte, sempre di René Clair (1921). Qui la gestualità converge con l’intenzione e la tensione emozionale che la macchina ferma ma non frena. La sequenza di immagini aniconiche (vere fino all’elaborazione cinetica) rende l’approccio diretto e immediato, in contrasto alle attese di un pubblico istruito al boato freak nel quale si immortalano incubi e desideri voyeuristici. Così il cinema dada accantona la straordinarietà visuale in favore dell’idea contenuta nell’oggetto. Nell’idea-oggetto trova corrispondenza il rifiuto dell’ordine giacché ciò che è altro è già all’interno di un’a-realtà integrativa, anziché disintegrativa. Una corrente inarrestabile che, secondo Tzara, provoca la scissione e incanala verso una completa distrazione dalla centralità percettiva.    La complessità al prezzo di una “assenza di sforzi” è il risultato della viltà della borghesia legata alle convenzioni. 11

  • Pur mai apertamente contrastiva, la cinematografia dada poggia sulla compresenza dei contrari, portando al ridicolo gesti nel tempo avallati da una visione esometrica, collaudata (esemplare il corteo funebre lanciato in folle corsa dietro il feretro) secondo un movimento capace di bilanciare tutte le forze in una simultanea visione-accelerazione che permette ai fotogrammi di rappresentarsi come opere minime disincagliate da oscena musealità; opere d’arte sincroniche che si dilatano in un’optometrica deviazione rispetto alla breve scala cromatica che noi percepiamo. 12


  • Note:
  • 1) Tzara, Introduzione a L’avventura dada a cura di Georges Hugnet, Mondadori, 1957, 1972, p.7.
  • 2) Cacciari, Il produttore malinconico, Prefazione a «L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica», W. Benjamin, Einaudi, Torino, 2011, p. VIII).
  • 3) Rhythmus 21, regia di H. Richter, 1921, DVD «Il cinema delle avanguardie, 1923 – 1930», Ermitage cinema, distribuito da Medusa Film S.p.A., Cologno Monzese, 2010.
  • 4) Le retour à la raison, regia di Man Ray, 1923, «Il cinema delle avanguardie, 1923 – 1930», op. cit.
  • 5) H. Richter, dada art and anti-art, H. Richter, Thames&Hudson, London, 1965, 1997, pp. 96, 97.
  • 6) Tzara in Introduzione a L’avventura dada, op. cit., p.7.
  • 7) Introduzione a L’avventura dada, op. cit., p. 9.
  • 8) L’avventura dada, op. cit., p. 16.
  • 9) Vormittagsspuk (Fantasmi del mattino o Fantasmi degli oggetti), regia di H. Richter, 1927, «Il cinema delle avanguardie, 1923 – 1930», op. cit.
  • 10) Bresson in Dizionario del Cinema, Newton, Milano, 1995, p. 20.
  • 11) Richter, dada art and anti-art, op. cit., p. 28.
  • 12) Piazza, Viaggio dentro una stanza con un cieco in «La Scena Illustrata» n. VII, 1 Aprile 1913, p. 9.