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  • Ingannevole bellezza

  • "Di un’ingannevole bellezza. Le ‘cose’ dell’arte"
  • La meraviglia del nulla 
  • La bellezza secondo Massimo Donà
  • di Giovanni Sessa
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    • Tra i filosofi italiani contemporanei Massimo Donà occupa un posto di rilievo. Sta perseguendo, con coerenza, un percorso teoretico originale e fuori dal coro. Nella sua ultima pubblicazione, Di un’ingannevole bellezza. Le ‘cose’ dell’arte, edita da Bompiani (euro 11,00), riapre la discussione sul tema che ha presentato in, Teomorfica. Sistema di estetica, uscito nel 2015 per i tipi dello stesso editore milanese.
    • Donà, lo ha ricordato Mario Perniola nel suo recentissimo, Estetica italiana contemporanea, ha una concezione aporetica dell’arte, essa è il luogo dell’enigma e, proprio per questo, può indicare all’uomo contemporaneo un modo di vivere l’aporia che non induce allo scoramento nichilista ma, al contrario, rende capaci di euforia, vale a dire di ‘ben sopportare’. Dei tre topoi estetici attraversati in Teomorfica, solo uno pare essere in grado di garantire il futuro all’arte e alla bellezza: il topos tomista, i cui esiti novecenteschi sono leggibili, tra gli altri, nelle opera di Marcel Duchamp, René Magritte e Man Ray. Pertanto, i saggi che compongono il libro, proseguono il discorso su tale Via “a partire dal rinvenimento del mistero costituito dalla bellezza” (p. 190).

  • La bellezza ci pone di fronte alla sacralità delle cose, al loro non essere riducibili alla dimensione di mezzi-per, legati a significati e finalità date. Ogni oggetto bello è, innanzitutto, semplicemente colto nella sua dimensione di ‘esistente’, di presenza. In ogni espressione della bellezza si palesa quella struttura che Tommaso riteneva esser propria di Dio. Ciò vuol dire che “ogni cosa, se dotata di bellezza, sarà cosa e insieme Dio” (p. 191), particolare e universale, essere e nulla. La bellezza si configura per Donà essenzialmente come inganno: essa è sempre doppia e ambigua. Il filosofo veneziano rileva come nell’arte i distinti riescano ad esibire il loro non essere affatto distinti. Ben lo sapevano Novalis e Breton: entrambi consapevoli che il ‘furore’ ermetico-alchemico aveva permesso “di sciogliere le morte contrapposizioni, di sciogliere, cioè, il metallo vile […] e farlo diventare per una vera e propria alchimia del verbo […] oro puro” (p. 168). Il furor divampa anche nella creazione artistica. Arte come magia finalizzata a smuovere il noto, il de-finito, figlio del dominio del logos, al fine di alludere allo sfondo magico-poetico del mondo. Eros è fuoco che alimenta le azioni magiche, pertanto l’arte era, in illo tempore, espressione chiarissima del fare magico. La ratio calcolante ci impedisce di averne piena contezza.  L’immaginazione non è, come Kant avrebbe voluto, semplice facoltà, ma forza incondizionata che ci congiunge simpateticamente al tutto.

  • Lo comprese nella sua disputa animico-tellurica contro lo spirito logocentrico, il cosmico monacense Ludwig Klages “Il fondamento […] può rivelarsi solo là dove la coltre categoriale familiare all’intelletto sappia accoglierlo dismettendo l’habitus che, solo, sembra in grado di garantire risultati solidi e ben fondati” (p. 171). L’arte autentica, come la magia, ci dice di un’opposizione assoluta vivente in ogni cosa, ci dice di un’impossibile che, facendo, genera un limitato quale presenza dell’illimitato.  Nel Seicento, in pieno Barocco, ne ebbe sentore Giambattista Basile con il suo Lo cunto de li cunti. Nei suoi quarantanove racconti si susseguano alterazioni della catena casuale, che rendono possibile l’esplicarsi del ‘mondo alla rovescia’.  Esso ha i tratti di uno specchio deformante che, in realtà, è profonda descrittività della vita, del suo mistero, molto più di quanto lo sia qualsiasi resoconto di fatti reali. La fiaba ed il racconto fantastico “risultano massimamente ‘veri’ in misura inversamente proporzionale alla loro plausibilità” (p. 47). Il fantastico delucida la flebile distanza che distingue l’esperienza dalla fantasia, dicendo come il noto contenga sempre l’ignoto. Il Barocco e il fiabesco, per Donà, invitano a rovesciare “il quadro sistematico approntato da Platone e da buona parte della filosofia classica” (p. 51). Nel Seicento, nella letteratura del secolo d’oro, nel Don Chisciotte torna a darsi ciò che Bruno sapeva: è la natura ‘individuale’ a mostrare il sigillo divino.

  • Tale visione è presente nel teatro di Shakespeare, nel Sogno di una notte di mezza estate e nella Tempesta. Il bosco diviene l’ambientazione prediletta di tali azioni insensate, folli, non-logiche o, comunque, attestanti un’altra logica.  Del resto, nei racconti mitici di tutti i popoli, il bosco dà ricovero alle passioni amorose e alla cerca del Sé.  Non è casuale che tale ‘paesaggio d’anima’ abbia attratto il trascendentalista Emerson e il suo discepolo Thoreau, che nelle foreste nord-americane visse al fine di dimostrare che ognuno “può farsi protagonista di un’esperienza realmente unica e irripetibile e che non vi sono modelli” (p. 58).  Il bosco è al centro della narrativa di Buzzati, tanto nel Segreto di bosco vecchio quanto in Barnabo delle montagne: nel bellunese, l’ambiente boschivo e montano diviene luogo di possibili iniziazioni, oltre “il dominio della coerenza e del progresso, fondati entrambi sull’ ideale dell’efficacia” (p. 62).  Per Buzzati il mistero è sempre davanti ai nostri occhi: la goccia d’acqua, protagonista di un suo bellissimo racconto, sale i gradini di una scala.  Essa è un fatto naturale che non si comporta da fatto naturale “testimonia l’irruzione di una dimensione ignota nel mondo regolare dei fenomeni fisici” (p. 65).  Lo scrittore porta alla luce, come in ogni arte autentica, il tratto inconcettualizzabile del reale, già annunciato nella Tempesta di Shakespeare. In essa nulla, a cominciare dalla tempesta iniziale, è ciò che sembra essere: domina l’incantesimo e la metamorfosi di ogni cosa testimonia che ogni ente è manifestazione del ni-ente.


 

 

 

 

 

 

  •    La custodia del nulla di ente, dell’origine, è affidata alla bellezza, questa la sua meraviglia, come rammentano le mirabolanti avventure di Alice pensate da Carroll, discusse magistralmente da Donà. La bellezza è libertà e, proprio in funzione di ciò, richiede il coraggio dell’azzardo, dell’euforia e della serena sopportazione. L’esperienza estetica ri-propone, per queste ragioni, nella contemporaneità, la medesima interrogazione originaria della filosofia. Entrambe, “in quanto determinantisi come modi dell’unico possibile ‘inizio’ di ogni discorso[…] in quanto veritativo, sarà per ciò stesso destinato ad un’infinita erranza” (p. 208). Solo in tale modalità l’arte potrà tornare a mostrare l’eccedenza del reale, e sarà allora davvero, per usare le parole di Gianni Carchia, ‘arte della filosofia’.