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  • Daniele Manin  - La tenacia del leone
    • di
    • Gabriele Sabetta
    • (da: l’Intellettuale Dissidente, del 1° maggio 2018)
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  • Figura luminosa del nostro Risorgimento.
  • Per comprenderne il pensiero e l’azione, è indispensabile un riferimento
  • al contesto politico e culturale della Venezia del primo ’800.

 

 

  • Alla vigilia dei tumulti del 1848, la “morte” di Venezia – oltreché un topos letterario e storiografico – era una mesta realtà politica. La fine legale della Serenissima Repubblica risaliva al 12 maggio 1797, quando il doge Ludovico Manin abdicò, sulla spinta delle truppe francesi, in favore di un governo municipale democratico; ma il trattato di Campoformio del 17 ottobre successivo, che consegnò la città agli austriaci, concluse la parentesi rivoluzionaria. Dunque, per Venezia, il termine Risorgimento ebbe una duplice valenza: oltre la dimensione nazionale, sollecitava il risveglio della città dopo mezzo secolo di torpore. Non è plausibile comprendere gli eventi di quel periodo senza tener conto di questo retaggio; soprattutto, non è possibile accostarsi ad uno dei più grandi uomini del pantheon risorgimentale italiano: Daniele Manin.

  • Trasse i natali in Venezia il 13 maggio 1804, figlio di Pietro, celebre avvocato, e di Anna Maria Bellotto padovana. La famiglia del padre era di stirpe ebraica: il cognome originario fu mutato in “Manin” in seguito alla conversione avvenuta al tempo dell’ultimo doge della Serenissima. Com’era in uso al tempo, i convertiti presero il nome del padrino – in questo caso, proprio un fratello del doge Ludovico.  Studiò presso i Somaschi e a soli diciassette anni ottenne la laurea in giurisprudenza presso l’antica università di Padova. Aveva approfondito la lingua nazionale con intenso amore, così come il patrio dialetto – tanto che ebbe la massima parte nella compilazione di un vocabolario che andò arricchendo fino agli ultimi suoi anni. Conoscitore della lingua latina e del francese, sapeva molto anche di greco e di lingue orientali.  Nel 1825 si unì in matrimonio a Teresa Perissinotti, dalla quale ebbe prima Emilia, poi Giorgio. Nominato avvocato, fece le sue prime esperienze in Mestre.  Dovette a poco a poco costruirsi una raccolta di libri che servissero ai suoi studi; raccolta che in seguito accrebbe, non conoscendo miglior modo di spendere i suoi risparmi. Nelle ore di ozio, non disdegnava occuparsi di falegnameria: nel piano più elevato della propria abitazione, teneva una piccola officina, convegno dei suoi amici più cari, e mentre segava o intagliava il legno, rivolte le maniche della camicia, discuteva i piani ed i progetti insurrezionali contro il governo austriaco.

  • Nel 1841 cominciò l’agitazione legale e colse l’occasione di allargare i contatti col notabilato lombardo, per portare avanti la causa indipendentista, quando si trattò di predisporre una strada ferrata lombardo-veneta – scorgendone il contribuito per legare maggiormente i due popoli. Vide con piacere l’approssimarsi del congresso scientifico tenutosi in Venezia nel 1847.  Prima condizione per riuscire nell’impresa era la conoscenza perfetta della lingua, dei costumi, di tutta la giurisprudenza antica e moderna applicata all’amministrazione di Venezia e delle sue province; in questo, vi riusciva il Manin meravigliosamente. Proprio in quel fatidico 1848, diede alle stampe il suo studio sulla Veneta Giurisprudenza, nel quale compì una mirabile sintesi della tradizione giuridica della Serenissima Repubblica.  Rammentò, al principio dell’opera, che nelle venete lagune giunsero uomini in fuga dalle invasioni barbariche, a partire dal V secolo: la fondazione di Venezia rimontava al 25 marzo dell’anno 421. La vita austera e laboriosa delle rinnovate origini poté essere gestita senza leggi positive e complicate formalità processuali – potendosi dare giustizia sulla scorta del buon senso, secondo i dettami della legge naturale, e con l’ausilio delle massime del romano diritto (le cui reminiscenze fornivano un solido sostegno all’innato sentimento del giusto).  In appresso, con l’inevitabile sviluppo politico, sociale e commerciale, si formarono le prime leggi scritte, che andarono moltiplicandosi, rendendosi conveniente raccoglierle ed ordinarle. Venne dunque il lavoro di collazione compiuto nel corso dei secoli, affinché il diritto civile, criminale, mercantile e processuale fosse reso disponibile alla popolazione nel modo più semplice e chiaro.  Nella veneta legislazione, rilevava il Manin, vi era un “difetto” – allora comune in tutta Europa – che si mantenne finché durò la Repubblica: la non uniformità di leggi in tutta l’estensione dello Stato. Infatti, si lasciava che le province di terraferma e d’oltremare si reggessero con particolari loro statuti municipali – il diritto veneziano valendo come sussidiario, e per mezzo di questo veniva resa giustizia ai veneziani quando si trovavano in dette province. Se ciò appariva al Manin come “difetto”, è pur comprensibile: chi scrive, in fin dei conti, è un intellettuale che operava nel clima culturale del positivismo ottocentesco – tendente a raggruppare, catalogare e uniformare ogni aspetto del reale – mentre la disomogeneità legislativa appariva ancora, nel XVIII secolo, come forma tradizionale di autogoverno e autonomia politica alla maniera delle antiche poleis elleniche, dei municipii romani, dei comuni medievali.  Non vi sono cenni alle fonti di diritto romano, anche se è innegabile, a partire dalla rinascenza giuridica del Mille, che esso abbia esteso la propria autorità anche nei centri della laguna: tuttavia, Venezia, fedele a Costantinopoli, reputava che quel diritto, così tanto studiato e citato in ogni angolo d’Europa, significasse sudditanza all’impero dei germani, che ella non volle mai riconoscere come legittimo erede di Roma. Quale legame è possibile ritrovare, dunque, tra quel rifiuto storico del tedesco e la lotta contro il coevo dominio austriaco?  Le considerazioni del Manin sulla giurisprudenza veneta, il suo interesse per il dialetto, il continuo riferimento ai costumi della propria terra mostravano il suo incedere sicuro nel solco della tradizione. Si noti che il Risorgimento italiano si oppose chiaramente allo stato mentale seguito al 1789 e fece questione di riannodarsi alla grandezza del genio italico dell’era antica e moderna. Già un Vincenzo Cuoco, ad esempio, aveva criticato la rivoluzione francese per essere stata una costruzione di concetti astratti, contraria alle leggi di natura, senza profondità temporale – in altre parole: senza radici. A Venezia, il Manin era convinto che le “nuove libertà” potevano essere stabilite solo se rispettavano l’ordine naturale e storico della città lagunare.  Prima di giungere allo scontro diretto con il governo austriaco, aveva prodotto, nel 1847, alla Congregazione Centrale – organo consultivo – la sua mozione per le riforme. Proprio a causa di questa, il 18 gennaio 1848 venne arrestato, insieme all’amico Niccolò Tommaseo.  Al 17 Marzo dello stesso anno fu tratto dal popolo dalle prigioni e portato in trionfo, non prima di essersi assicurato di aver ottenuto la libertà per vie legali, su ordine del tribunale.


  • Le notizie pervenute sulla rivoluzione scoppiata a Vienna destarono in tutti il desiderio di un avvenire più lieto. I fatti del 22 marzo sono noti: a capo di un plotone di guardie civiche, il Manin, arditamente, con il solo fuoco delle parole, avendo intimato al comandante di arrendersi entro pochi minuti, guadagnò l’arsenale e si impadronì delle armi, distribuendole ai cittadini. Senza sangue ed eccidi, con la calma e la fermezza d’animo propria di un civis romanus, liberò Venezia dallo straniero e proclamò la Repubblica fra quel popolo dove era esistita con gloria per quattordici secoli. A suo dire, proclamando la Repubblica, non faceva che ristabilire lo stato legale del paese che nell’ottobre del 1797 era stato sospeso di fatto, ma non distrutto di diritto, in seguito al trattato di Campoformio, per il quale il generale Bonaparte aveva ceduto all’Austria un territorio che non gli apparteneva in nessun modo.  Nei primi momenti dell’entusiasmo, nei quali potevano accadere fatti deplorabili, raccomandava la moderazione contro gli stessi nemici poiché, per mostrarsi degni della vittoria ottenuta e meritare nuovi felici successi, si doveva innanzitutto rispettare i vinti, tenendo per dogma politico la fraternità, poiché nella gran famiglia di Dio tutti gli uomini sono fratelli. Propostogli ripetutamente dall’Assemblea dei deputati veneti uno stipendio, sempre rifiutò d’accettarlo.  Gli atti ufficiali del governo provvisorio della Repubblica portavano in testa il leone di San Marco, dopo cinquanta anni di assenza. Il simbolo non evocava solo l’antica Venezia, ma anche il suo impero: quindi, doveva essere una chiamata agli antichi possedimenti dell’Adriatico ad unirsi all’ex dominante nella lotta per la libertà. Mentre la guerra si intensificava, apparve, tra i piedi del leone, anche una spada, per evidenziare lo sforzo bellico che porterà alla proclamazione della resistenza ad ogni costo nell’aprile del 1849.  Il Manin, sulle prime, rifiutò l’idea di un’Italia unita come risultante dell’ampliamento di un singolo Stato a danno degli altri: l’unico esito ammissibile doveva essere quello di un’adesione spontanea ad una federazione, con estesi riferimenti alla tradizione comunale italiana. La città come piccolo stato, comunità solidale e organica in cui la cittadinanza è vissuta in modo diretto, si rivelava la più adatta per l’apprendimento dei valori civici; ecco perché non è così sorprendente notare che nel XIX secolo, nel pieno del Risorgimento, si sviluppò una vera mitologia comunitaria, proprio mentre gli italiani combattevano per l’unità nazionale.   Nel 1848, la Repubblica Veneta era “una delle famiglie italiane”, come ricordava il leone di San Marco in alto a sinistra sul campo verde, nella bandiera tricolore adottata dal governo provvisorio. Tuttavia, accortosi dappoi che la Repubblica non poteva tornare a vantaggio del popolo veneto e dell’Italia intera, rinunciando con molto dolore al principio federalista, il Manin acconsentì alla fusione col Regno di Sardegna.  Venezia cedette per ultima fra le città italiane – benché colpita dal colera, estenuata dalla fame, assalita e bersagliata dalla guerra. E a persuadere un popolo così fiero, non poteva riuscire che il Manin: per distoglierlo da una virtuosa ma inutile resistenza, raccoglieva in Piazza San Marco la guardia civica, per affidare ad essa la custodia dell’onore di Venezia; era l’ultimo addio che dava il padre ai suoi cari e diletti figli, prima di partire per l’esilio. Era, insieme, un appello a combattere e morire per l’Italia quando si fosse offerta nuova occasione. Scelse come rifugio Parigi, quasi a presagio dell’alleanza fra italiani e francesi che si ebbe dieci anni dopo tra i campi di Magenta, Solferino e San Martino – ed è incontestabile il suo contributo nell’aver destato simpatie per la causa italiana.  Diede insegnamento privato di lingua italiana in casa sua e visse di quel modesto profitto. Cittadino di antichi costumi, sospirando alla patria, morì alla vigilia della sua redenzione, il 22 settembre 1857.



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