• Benjamin

  • Walter Benjamin e la filosofia del ’900
  • La nuova edizione di
  • ‘Origine del dramma barocco tedesco’
  • di
  • Giovanni Sessa
  • Uno strano destino è stato riservato all’opera di Walter Benjamin. Le riviste patinate dell’intellettualmente corretto si occupano da tempo di lui, mentre nei salotti buoni dell’editoria italiana ed europea il suo nome, non solo è spendibile e non ostracizzato ma, per taluni, è una sorta di nume tutelare. Eppure, quanti hanno letto davvero Benjamin? E, soprattutto, quanti hanno capito il senso, rilevantissimo, della sua opera?  Domande alle quali è possibile dare, senza tema di essere smentiti, una risposta certa: pochi, per ragioni diverse. Innanzitutto, per il tratto aforistico-erudito della sua prosa, ma anche per l’esplicita estraneità che il suo pensare mostra rispetto alla filosofia che ha prevalso nell’agone teoretico del Novecento. La straordinarietà e la crucialità della filosofia benjaminiana emergono con evidenza dalle pagine di una delle sue opere capitali, apparsa da poco nelle librerie in una nuova edizione. Ci riferiamo a, Origine del dramma barocco tedesco, curato e tradotto da Alice Barale, pubblicato da Carocci editore (euro 43,00). Il testo è impreziosito dalla prefazione di Fabrizio Desideri e da un saggio introduttivo, contestualizzante il lavoro, della stessa Barale, oltre che da una serie di documenti che facilitano la comprensione dell’opera e la sua complessa gestazione.
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  • Il libro avrebbe dovuto aprire al filosofo l’accesso alla docenza universitaria che, purtroppo, non riuscì ad ottenere per la miopia di chi era preposto alla valutazione, tra essi il francofortese Horkheimer, allora assistente di Cornelius, ordinario di Estetica. Il Consiglio di Facoltà dell’Università di Francoforte suggerì a Benjamin, affinché non andasse incontro ad un certo rifiuto, di ritirare la domanda, cosa che questi fece, sia pur con riluttanza. La lettura del volume consente di chiarire, come rileva Desideri, quanto le tesi benjaminiane siano distanti dalla filosofia della Scuola di Francoforte, alla quale, per pigrizia manualistica, il suo nome ancor oggi è rinviato. La filosofia dell’Angelus Novus, rappresenta una posizione assolutamente eccentrica nel pensiero del ‘900. Certo, le suggestioni del nostro autore agirono potentemente sulla maturazione speculativa di Adorno. La Teoria estetica di quest’ultimo è impensabile senza riferirsi al contributo di Benjamin, in merito a simbolo ed allegoria. Ma l’Introduzione al libro, come scrisse l’autore all’amico Scholem, rappresentava, in termini teorici, uno ‘smisurato azzardo’, una sfida lanciata al pensiero contemporaneo. Conserviamo la prima Introduzione, che in seguito fu eliminata dal corpo del testo, in quanto l’autore la inviò a Scholem stesso; essa, infatti, fu sostituita da una Premessa critico-storica, un vero e proprio schiaffo inflitto a Madama Verità, come nella fiaba della Bella addormentata, perché, finalmente, si svegliasse!
    Lo spirito cartesiano che pervade la filosofia moderna ha ridotto la verità ad oggetto di conoscenza, ad un avere, ad un possesso. Benjamin critica ogni movimento fenomenologico centrato sulla intenzionalità della coscienza, quindi è distante dallo stesso Heidegger: «alla logica del possesso intrinseca alla strategia conoscitiva, Benjamin sostituisce la questione della rappresentazione: l’essere rappresentato inerisce alla forma stessa della verità» (p. 17). Il filosofo mette in atto un tentativo di ritorno all’epoca pre-moderna: evoca lo spirito del pensiero medievale e la forma del trattato. La verità intesa come essere rappresenta, dopo Kant, un compito per il pensiero, al quale, in sintonia con il nostro, si accinse, guardando a Schelling, Rosenzweig ne La stella della redenzione. Benjamin rinvia, invece, direttamente a Platone. Le idee in quanto date in anticipo rispetto agli enti, sono esterne alla mente e ad esse si tende attraverso l’eros. Per questo la verità di Benjamin non è dis-velante, ma ri-velante, non annienta il segreto, ma lo custodisce nell’ascolto. A questo punto, nell’esegesi delle idee, Benjamin si serve di strumentazione teoretica di origine ebraica, che rimarca l’audacia del suo tentativo. L’essere delle idee è: «pensato in chiave energetica: come potenze oggettivamente interpretanti, che costituiscono di volta in volta la configurazione del mondo fenomenico» (p. 20). La loro datità è però di natura linguistica, per cui vero Padre della filosofia risulta essere Adamo, colui che dando nomi alle cose le fa essere.
  • Il debito cabalistico è chiaro, Benjamin realizza la saldatura tra la dottrina delle idee e la teologia del nome che aveva approfondito durante la frequentazione di Scholem. Una via Altra della filosofia europea che, come suggerisce Desideri, potrebbe rendere colloquiante d’eccezione del nostro, Pavel Florenskij. Anche il pensatore ortodosso rifiutava la centralità del soggetto nella costruzione del discorso speculativo in nome: «di un’idea metafisica di totalità di ispirazione eleatica» (p. 22). Rappresentazione in senso benjaminiano vuol dire ‘esporsi in teatro’, rendersi manifesto.  Pertanto, il metodo che emerge nell’Origine è attento al dettaglio, all’analisi di fenomeni estremi al confine della loro significazione, come nelle corde dell’Istituto Warburg.  Il singolo frammento del reale assume un’esistenza intensiva.  E’ il tema dell’origine al centro delle problematiche che emergono in queste pagine. Essa: «sta nel fiume del divenire come un vortice […] l’originario […] vuol essere riconosciuto da un lato come restaurazione, come un ripristino, e dall’altro come qualcosa […] di imperfetto, di inconcluso» (p. 25). Quando il fenomeno si rivela originario, pur nella sua segnatura storica, è salvato e realizza una restaurazione incompiuta della rivelazione.
  • Nello specifico delle analisi relative al dramma barocco tedesco, va ricordato che esso è letto dal pensatore in discontinuità con la tragedia greca. Al tacere dell’eroe tragico, nel Trauerspiel barocco e nel dramma moderno fa seguito il parlare dei protagonisti, che vivono in un cosmo creaturale. La sua origine è ravvisata da Benjamin nei Misteri medievali, il suo tema centrale è la storia stessa, intesa come decadenza, come continuo ritorno dello stato di natura. Situazione ben rappresentata  dalla figura del ‘sovrano’, centrale in molti drammi moderni: questi dovrebbe tenere in mano le redini della storia, non potrebbe permettersi irresolutezze, ma vive nel dubbio. Tutto ciò, sotto il profilo formale, si mostra nell’allegoria. Il simbolo che unisce sensibile e sovrasensibile, ha il proprio tempo nell’attimo immenso, l’allegoria si esprime in un tempo di rinvio, dilatato: tempo secolarizzato in un processo infinito.  Quindi, il tema cruciale del dramma barocco è la presentazione della storia quale processo frammentario e doloroso, ma la morte non ha in esso l’ultima parola. L’allegoria ha un fondamento dialettico capace di presentare un possibile ribaltamento di tale situazione, in funzione del suo costituivo rimando teologico: «La caducità […] si capovolge in forma significante, e dunque in ‘allegoria della resurrezione’» (p. 32). Ciò che conta per Benjamin è quindi: «il sigillo dell’origine impresso nei fenomeni» (p. 91).
  • Tali posizioni, fondate sull’idea dell’origine inespressa, sul sentimento del passato e della Tradizione quale meta, attendono di essere re-interpretate, magari da chi viene considerato, sotto il profilo teorico, ‘totalmente altro’ da Benjamin. Riteniamo che il frammento benjaminiano non abbia affatto bisogno di salvezza, perché da sempre l’Uno si dà solo nei molti. Benjamin attende di essere liberato dall’eleatismo di fondo che pervade le sue pagine ricche di fascino.