• COP. SESSA EVOLA def


  • Julius Evola e l’utopia della tradizione.
  • L’antimodernismo filosofico del Barone
  • nell’ultimo lavoro di
  • Giovanni Sessa 
  •  di
  • MICHELE  RICCIOTTI


  • Con Julius Evola e l’utopia della tradizione trova compendio la ricerca di uno dei principali studiosi del pensiero del filosofo romano. I saggi di Giovanni Sessa raccolti nel volume manifestano una rara capacità di penetrazione esegetica nei confronti di uno dei grandi ‘maledetti’ del novecento italiano. Se Franco Volpi fu tra i primi ad avvertire la novità speculativa rappresentata dall’idealismo magico evoliano, è Massimo Donà, autore della prefazione e a sua volta artefice di una meritoria riconsiderazione del contributo speculativo evoliano, a ricordare come «il pensiero di Evola non si lasci assolutamente catturare da nessuna delle semplificatorie definizioni che avrebbero voluto costringerlo in questa o quella casella del pensiero novecentesco», giacché il teorico dell’Individuo assoluto intendeva anzitutto «rinnovare la propria vita; e invitare ognuno di noi a liberarsi delle insopportabili catene che rendono sempre troppo poco ‘vissuta’ la vita e troppo poco libera la libertà che in ogni caso ‘risuona’ nelle azioni, anche quelle ‘obbligate’, che l’esperienza ci costringe a svolgere» (p. 8).

 

  • Fin dal titolo del libro, nell’accostamento di una tipica manifestazione della filosofia moderna quale l’utopia all’orizzonte senza tempo della Tradizione, appare chiaro l’intento dell’autore di scardinare l’impostazione esegetica volta a rintracciare nel tradizionalismo evoliano nient’altro che l’espressione di un piatto antimodernismo ornato di elementi sapienziali ed esoterici (una lettura affetta quanto meno da superficialità interpretativa, quando non da sconclusionate pregiudiziali e di cui si resero rappresentanti anche illustri studiosi, da Furio Jesi ad Umberto Eco).  Il volume si propone quindi di rintracciare il fondamento filosofico dell’antimodernismo di Evola, cogliendo il carattere intimamente unitario della sua opera, di là da semplicistiche letture che concentrandosi su singole ‘fasi’ dello sviluppo spirituale evoliano finiscono inevitabilmente per perderne di vista la complessità e straordinarietà.  Dapprima Sessa mette in relazione la giovanile speculazione sull’Individuo assoluto con gli studi di Evola sull’alchimia e sul Graal, mostrando come, anche in tali opere, ad essere descritto sia il processo di liberazione dell’io, cui soggiace un principio di assoluta libertà e contingenza. Sessa opportunamente evidenzia il debito di Evola nei confronti di Michelstaedter, segnalando al contempo il compiuto superamento del filosofo goriziano, ancora avviluppato nella stringente nonché escludente logica ‘diairetica’, e così ‘destinato’ a concepire il rapporto tra ‘persuasione’ e ‘rettorica’ in termini alternativi, laddove nella prospettiva evoliana l’una non esclude l’altra, ma l’io si trova di volta in volta, lungo l’intero itinerario del proprio cammino esistenziale, chiamato a confermare la propria originaria ed incondizionata libertà. A tal proposito, sostiene Sessa: «Evola era sostenuto da un incrollabile ottimismo nelle possibilità umane. L’utopismo è una delle cause del disastro moderno, perché è il portato di una coscienza chiusa. L’utopia, al contrario, è sempre transitabile, perché, in via preliminare, riguarda il singolo, la sua coscienza come mezzo per avvicinarsi al Centro e, dati certi contesti storici, renderlo manifesto nel tempo» (p. 38).
  • Illuminante si rivela anche il confronto tra il pensiero di Evola e la riflessione di Andrea Emo, quest’ultimo già oggetto di un precedente lavoro di Sessa (La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo, Bietti, Milano 2014). I due filosofi, accomunati da un’intima philìa spirituale (mutuando l’espressione che Sessa adotta a proposito del rapporto tra Evola e Nietzsche si potrebbe parlare di amicizia ‘stellare’), sviluppano in un senso originale e profondo l’indirizzo speculativo gentiliano in una direzione ‘transattualista’. Essi portano infatti a galla un inaudito senso della negazione e si fanno latori di un orientamento di vita e di pensiero dionisiaco, in quanto in grado di cogliere l’intima potenza racchiusa in ogni ente. Sia per Evola che per Emo «il mondo è schiudersi e ritrarsi in grado di destare la meraviglia e, attraverso essa, l’ascesi gnostico-erotica, la physis è un tale dischiudersi che cela in sé anche la possibilità opposta» (p. 110).  Davvero pionieristico è il sesto dei dieci saggi che costituiscono il volume, volto a ridiscutere la lettura evoliana del pensiero di Bachofen, avvalorando ulteriormente il ruolo di ‘promotore culturale’ del filosofo tradizionalista. Egli non solo ha contribuito alla diffusione del pensiero del filosofo svizzero, ma ne avrebbe inverato le intuizioni in tema di morfologia della storia e delle civiltà, criticandone l’impostazione evoluzionista ed il primato dell’elemento tellurico-femminile su quello uranico-virile. È da Bachofen che Evola avrebbe ereditato, sviluppandola nel contesto di un rinnovato tradizionalismo, una concezione della storia in cui un ruolo di primo piano venga svolto dal ‘simbolo’, inteso come ciò che è in grado di dischiudere l’orizzonte del trascendente nell’immanenza del divenire storico, di mostrare l’eterno in ciò che è soggetto a mutamento e a metamorfosi.
  • Merita una menzione a sé anche il capitolo ottavo, in cui, a partire dal rintracciamento da parte di Thomas Vasek di una citazione da Rivolta contro il mondo moderno in un manoscritto heideggeriano, Sessa discute criticamente i rapporti speculativi tra i due autori, segnatamente in relazione alla concezione della storia e alla critica della modernità, confutando una volta per tutte gli sterili accostamenti dei due autori nel comune alveo dei pensatori ‘razzisti’ e ‘antisemiti’. L’auspicio è che tale suggestivo ritrovamento possa fungere da fattore propulsivo che inneschi studi comparativi tra due pensatori il cui confronto è fino ad ora mancato.  Non manca, nella terza e conclusiva parte del volume, dedicata a «Il mondo della Tradizione e le vie realizzative», un’attenta ridiscussione del metodo tradizionale e di alcuni dei fondamentali principi che lo informano e che svolgono un ruolo paradigmatico nella metafisica della storia evoliana, della quale viene individuata l’eredità romantico-schellinghiana. Tali principi vengono ricavati a partire dalla concretezza della storia medesima, che fornisce la materia greggia da cui, tramite un passaggio dalla derivata alla funzione, si giunge all’oro della Tradizione. È a proposito del modo tradizionale di vivere e concepire il tempo che vengono introdotti altri decisivi confronti, dapprima con Schelling, la cui teorizzazione del processo mitologico-rivelativo di automanifestazione dell’assoluto è indicato quale vitale riferimento della concezione evoliana di un principio che è fondamento infondato, trascendenza immanente; e poi con Ernst Jünger, autore quanto mai in sintonia con Evola, segnatamente nel tentativo di recupero di una immagine ‘pagana’ della temporalità, che privilegi la dimensione qualitativo-contenutistica tipica delle civiltà tradizionali rispetto a quella quantitativo-formale caratteristica del razionalismo moderno.

  • Il volume di Sessa consente di incunearsi nella visione del mondo evoliana, nel suo tentativo di contrastare il nichilismo non opponendovisi staticamente, ma sprofondandovi senza alcuna garanzia di riemersione. È proprio tale nichilismo ‘attivo’, tale richiamo alla sempre vigente Origine, costitutivamente ‘utopica’, senza luogo, ad emergere nelle parole dello stesso Evola che corredano, in appendice, il testo: «È il senso d’infinito che arde nel profondo dell’uomo. Esso lo spinge già in questa vita mortale senza sosta di là dai limiti che paralizzano la sua forza e la sua luce: tanto più, per quanto più questi gli si stringono da presso. E come i suoi sguardi si protendono verso i confini degli spazi siderei, e le sue algebre si adeguano all’illimitato e piegano in nuove membra di potenza le forze elementari, così pure, per una identica ansia, egli tenta di forzare anche il limite del tempo, e di vedere, di ritrovare la sua propria idealità, là dove si dischiusero i primi albori della storia» (p. 255).