• Tradizione Giovanni Sessa

  • INTRODUZIONE
  • a: 
  • "Tradizione, demitizzare la modernità"
  • di
  • Giovanni Sessa
  • (Abbiamo chiesto a Giovanni Sessa d'autorizzarci a pubblicare l'introduzione al libretto
  • in questione  - "Nazione Futura edizioni" - perché pensiamo sia un ottimo ricapitolo, essenziale e penetrante,
  • del nostro complessivo mondo ideale, utilissimo in un  tempo come questo
  • di confusione architettata e spesso non sempre facilmente ricusabile...
  • S.G.)

    • I
    • Nel mondo della dismisura e dello sradicamento

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  • Il titolo di questo volumetto e, soprattutto, i suoi contenuti, segnano una cesura netta nei confronti del clima spirituale, ma anche esistenziale, politico e sociale, dei giorni in cui ci è dato vivere. Tra il 2017 ed il 2018 si sono celebrati i centenari di due eventi storici di spessore epocale: la Rivoluzione d’Ottobre e la conclusione del Primo conflitto mondiale. Eventi con i quali si è di fatto inaugurato il «secolo breve», latore, al medesimo tempo, di grandi speranze palingenetiche e di tragedie immani. Un secolo fa l’Europa viveva in profondità la crisi che la stava per marginalizzare in termini geo-politici, a vantaggio della potenza atlantica, gli USA. Questi, obliata la dottrina di Monroe del 1823, davano inizio, con la partecipazione alla Grande guerra, alla weltpolitik globalizzante che oggi, sia pur con grande difficoltà, tentano di perpetuare, ricorrendo, da un lato, all’esportazione balistica del «migliore dei mondi possibili», centrato sull’american way of life, mentre, dall’altro, gli organismi economico-finanziari internazionali dettano le priorità decisionali della governance transnazionale. Decisioni, inutile perfino ricordarlo, mirate ad imporre non solo lo sradicamento politico (delegittimazione degli Stati nazionali e della sovranità popolare), ma anche culturale e spirituale, ben più pervasivo del primo.

 

 

  • All’inizio del Novecento il sentimento della crisi fu ben sintetizzato dalle pagine profetiche del Tramonto dell’Occidente di Oswald Spengler, il cui primo volume fu dato alle stampe proprio nel 1918, ottenendo una vastissima eco. Fu, quel libro fatidico, uno dei primi esempi di filosofia della crisi: tra il 1914 e il 1939, anno dell’esplosione del Secondo conflitto mondiale, tale corrente di pensiero produsse una letteratura imponente ed eterogenea, centrata non solo sulla deprecatio temporis, ma sul tentativo di individuare una «uscita di sicurezza» dal presente. Antonio Banfi, filosofo italiano oggi poco discusso, indicò, in due taccuini di appunti che avrebbero dovuto servirgli da canovaccio per la stesura di un’opera sulla crisi della civiltà, le ragioni che produssero tale malessere esistenziale: «Ora a noi sembra che l’ordine ideale e la sua continuità si sia spezzato […] Ci mancano le certezze ideali (il rifugio di concretezza dall’urto della vita). Siamo a cielo scoperto, tutto è inquieto e tutto è problema»[1]. Da allora poco è cambiato. Anzi! La crisi ha subito una straordinaria accelerazione. Storici e sociologi concordano nell’individuare il momento di intensificazione dei processi disgregativi, individuali e sociali, negli anni Settanta del secolo scorso. In tale decennio sarebbero venuti meno, sul piano economico, i benefici effetti indotti dal Welfare State e, soprattutto, avrebbe avuto inizio l’implosione del progetto illuminista, posto a monte della Modernità.
    La ratio, fin dal Settecento, era stata posta al centro della vita degli uomini. I philosophes ritenevano che nel passato l’umanità avesse vissuto in uno stato di insopportabile insicurezza, che aveva determinato l’inevitabile affidarsi dell’uomo a Dio, così come ad ogni altra forma di ‘superstizione’. Bando alle superstizioni, allora, si era argomentato! Solo la ragione, assoggettando la natura e utilizzandola per soddisfare bisogni ed esigenze degli uomini, avrebbe liberato dall’insecuritas un’umanità incapace di aderire al kantiano: «Abbi il coraggio di sapere!», se necessario ricorrendo alla Rivoluzione. Cosa rimane di tale sogno irrealistico, di tale volontà titanica di cancellare il reale, in nome di un uomo nuovo, di una società e di un mondo nuovi? Nulla! La Modernità e l’Illuminismo, a partire dagli anni Settanta, si sono inverate nella post-modernità della quale hanno persuasivamente detto, tra i primi, Lyotard e Bauman[2]. Sotto il profilo politico essa si connota per il rigetto del Leviatano, espediente adottato per sedare l’endiadi ‘anarchia e potere’ che, stante la lezione di Carl Schmitt, indicherebbe le due possibilità nelle quali si muove necessariamente ogni esistenza politica.

  •    Nel corso di tre secoli il Leviatano ha assunto volti disparati: quello iniziale, hobbesiano-poliziesco, è stato via via smussato, fino ad acquisire connotati apparentemente ‘deboli’ e soft[3]. Nell’idea contrattuale e nello stesso Leviatano, covava il germe soggettivista. Il corpo del Gigante politico descritto da Hobbes era la risultante dell’unione artificiale dei ‘corpi’ dei cittadini che delegavano in toto la loro libertà, la loro capacità decisionale, allo Stato assoluto. Nella versione liberal-contrattuale di ascendenza lockiana, invece, i cittadini rinunciavano alle libertà individuali in modo limitato e parziale. Tutto ciò ha condotto, nella società liquida, all’emersione del tratto che più di ogni altro connota l’attuale governance, quello epidemico. L’aggettivo va ricondotto al suo etimo greco: le istituzioni democratico-rappresentative contemporanee hanno finito, con i loro apparati, con i loro rappresentanti, con il sovrapporsi al popolo, con il ‘porvisi sopra’, sottraendogli ogni ruolo decisionale. La cosa fu rilevata, al termine del Secondo conflitto mondiale, dal filosofo Andrea Emo[4].
  • Sotto il profilo economico la Modernità ha dato vita a due diversi progetti: capitalismo e comunismo. Il primo ha registrato il più ampio grado di sviluppo nella razionalizzazione produttiva del ‘fordismo’, sistema di produzione centrato sullo «spazio dei luoghi». Capitale e forza lavoro si incontravano nella fabbrica, erano entrambi territorializzati, avevano un rapporto simbiotico con i «luoghi» e le appartenenze. Lo Stato vigilava, con i suoi istituti, sulla coesione sociale, in quanto le parti in causa avevano l’una bisogno dell’altra e, pertanto, le disuguaglianze furono tenute sotto controllo. Al contrario, il sovietismo rappresentò una scorciatoia dirigista, esplicitamente atea e materialista, nella realizzazione del Regno della Modernità. Per questo: «la sua implosione e il suo crollo furono parte integrante del declino e del fallimento della Modernità»[5]. Alla trasformazione post moderna e liquida del mondo occidentale ha contribuito quella frazione della borghesia che Golbraith ha chiamato maggioranza appagata, portatrice dell’esigenza di abolire le tutele dello Stato sociale. Se, fino ad allora, il profitto lo si cercava nel lavoro di fabbrica, dalla fine degli anni Settanta, lo si è rintracciato nello sfruttamento del consumatore e dei suoi ‘incontri’ con la merce. Perfino il non-abbiente fu abilitato al consumo, attraverso l’apertura del credito facile. Ciò è avvenuto mentre i singoli Stati si indebitavano. All’indebitamento pubblico ha fatto seguito quello privato, mentre le politiche liberiste eliminavano le tutele del lavoro. Altro che sicurezza generalizzata indotta dalla Ragione illuminista! Nel mondo contemporaneo assistiamo, grazie all’economia fondata sullo «spazio dei flussi» finanziari, alla precarizzazione universale, tanto nell’ambito socio-economico, quanto in quello psichico-esistenziale.
  • Il fenomeno in questione fu intuito ed analizzato già da Max Weber, che lo ritenne implicito al primo capitalismo. Infatti, le modalità produttive capitaliste hanno progressivamente realizzato l’ emancipazione del profitto da ogni istituzione socio-culturale, dedita alla supervisione e al controllo delle regole. Mentre nel periodo fordista i manager poterono svolgere un ruolo di primo piano, nella conduzione aziendale e nei confronti del dominio del denaro, con l’attuale rivoluzione economica, definita da alcuni osservatori «economia dell’esperienza», la programmazione a lungo termine non ha più senso a vantaggio della breve durata e della fluidità. La flessibilità produttiva è stata pagata dai lavoratori che hanno visto smantellate le tutele conquistate in anni di lotte e sacrifici. Gli esclusi nelle società contemporanea appartengono alla categoria del precariato sociale generalizzato. Il sogno moderno è naufragato nell’incubo della post modernità.
  • I processi di globalizzazione in atto hanno quale obiettivo prioritario la destrutturazione delle identità culturali, a cominciare dalle appartenenze familiari, etniche e comunitarie. La cosa, del resto, è stata colta dall’antropologo Arjun Appadurai[6]. In tale contesto le domande di senso, dei giovani in particolare, non trovano più risposte nelle figure dell’autorevolezza genitoriale, scolastica, sociale, ma trovano apparente soluzione nell’anonimato dei social network. Con il Sessantotto, i ‘contestatori’, convinti di lottare contro il Sistema, in realtà liberarono in modo assoluto lo spirito mortifero del moderno, mettendo in atto l’assassinio del Padre. Questi è il vero custode della Tradizione, snodo vitale e dinamico del tradere, vivente possibilità di trasmettere il patrimonio ideale, spirituale, e le consuetudini che ne discendono, ereditate dal passato, da chi ci ha preceduti. La «morte del Padre», del modello paterno inteso quale «precedente autorevole» sul quale modulare la nostra presenza e la nostra azione nel mondo, è il vero problema del nostro tempo. La sua assenza ha indotto la crisi dell’istituto familiare, sostituito dal nulla delle relazioni umane atomizzate, le cosiddette relazioni pure, in cui l’altro è reificato, ridotto a cosa. Ogni atomo umano si sente il centro del mondo, soggetto di desideri che non possono essere contrastati (‘Proibito proibire!’, si urlava nei cortei del Sessantotto) e che spingono, chi se ne faccia travolgere, verso il basso.   In tal senso, momento culminante della triste metamorfosi dell’Uomo senza Tradizione, categoria antropo-sociologica atta a definire l’uomo contemporaneo, l’abitatore della crisi, succedaneo del musiliano Uomo senza qualità, va individuato nel narcisismo imperante, che fa di ogni atomo umano il mondo. Un unico, si badi, che si esaurisce nell’eterno presente della produzione-consumo che, con la teoria del gender, mette in dubbio la stessa identità sessuale e di genere. E’ la merce a regolare la vita dei narcisi contemporanei, una merce caricata di un’aura salvifica che, paradossalmente, deve sempre smentire se stessa, per rinviare ad altri consumi. Se l’uomo-folla dell’inizio del XX secolo tratteggiato da Gustav Le Bon, tendeva a vivere insieme, a mostrarsi sulla scena del mondo come parte di un gruppo che poteva dar luogo da atti impulsivi, isterici ed irrazionali, l’unico vive nella dissoluzione di questi stessi rapporti concreti, oniricamente connesso al gruppo attraverso la Rete, all’interno di una comunicazione simulata ed irreale. Queste le ragioni del disagio psichico di massa dei nostri giorni. Abbiamo perso il «Centro» sul quale costruire le nostre vite e pur nella coscienza, ormai evidente ai più, di vivere in un mondo in crisi, assistiamo passivamente al suo tramonto, senza riuscire a progettare nuove aurore[7]. Non dissimile da quella di un secolo fa è, quindi, la condizione esistenziale contemporanea. Lo conferma una recente pubblicazione collettanea che raccoglie contributi di eminenti pensatori dei nostri giorni, curata da Carlo Bordoni, Il declino dell’Occidente revisited [8]. Nel saggio del filosofo Umberto Galimberti, qui raccolto, leggiamo che per superare il momento di impasse: «non si tratta di approntare una nuova strada, ma di liberare l’antica»[9]. Concordiamo con questa affermazione.
  • Se un secolo fa era necessario diffidare di quanti, tra i filosofi della crisi, individuavano soluzioni e possibili «uscite di sicurezza» dal presente rinviando alla cultura che aveva prodotto la «malattia», vale a dire quella «moderna» nelle sue diverse espressioni, oggi si deve dubitare di chi, pur descrivendo la crisi compiutamente, com’è nelle corde della sociologia più accorta, si rifiuta di sviluppare una proposta di pensiero realmente alternativa e antitetica rispetto a quella vigente e alla sua degenerazione post-moderna. Non ci resta, pertanto, che guardare agli autori del pensiero di Tradizione, in particolare a Julius Evola, certamente il più originale interprete di tale corrente, dato il tratto dinamico che seppe conferire al proprio iter speculativo e alla propria proposta tradizionale. Nelle pagine che seguono il lettore troverà sintetizzate le coordinate teorico-pratiche afferenti alla Tradizione. A tale lavoro, che non pretende di avere tratto esaustivo, ma che si presenta, al contrario, come introduttivo al mondo valoriale della Tradizione, siamo stati indotti dalla confusione che registriamo attorno a noi, perfino negli stessi ambienti che culturalmente e politicamente a questo mondo si richiamano. Prima di entrare nel vivo della trattazione sarà però necessario procedere ad una rapsodica esegesi dell’origine del Moderno e della sua degenerazione contemporanea, seguendo la lezione di uno dei massimi interpreti della filosofia cattolica nel Novecento, Augusto Del Noce.
  • Nell’ introdurre queste pagine ci auguriamo che questo breve lavoro sia d’ausilio a quanti, giovani e non, siano alla ricerca di una vita Altra ed Alta rispetto alla mestizia esistenziale proposta dal tempo presente.
  • [1] Cfr. Michela Nacci, Tecnica e cultura della crisi (1914-1939), Loescher, Torino 1982, pp. 9-10.
  • [2] Cfr. Jean François Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, Feltrinelli, Milano 1988; Zygmunt Bauman - Carlo Bordoni, Stato di crisi, Einaudi, Torino 2014.
  • [3] In tema cfr. Joseph Nye, Soft power. Un nuovo futuro per l’America, Einaudi, Torino 2005; Guy Hermet, L’inverno della democrazia o il nuovo regime, prefazione di Giovanni Sessa, tr. it. di Cristin Le Foulon, Settimo Sigillo, Roma 2010.
  • [4] Cfr. Andrea Emo, Il monoteismo democratico. Religione, politica e filosofia nei quaderni del 1953, a cura di Laura Sanò, prefazione di Massimo Donà, Bruno Mondadori, Milano 2003.
  • [5] Cfr. Zygmunt Bauman, Danni collaterali. Disuguaglianze sociali nell’età globale, tr. it. di M. Porta, Laterza, Roma-Bari 2014, p. 34.
  • [6] Cfr. Arjun Appadurai, Modernità in polvere, Raffaello Cortina, Milano 2012.
  • [7] Cfr. sul tema, Marcello Veneziani, Tramonti. Un mondo finisce e un altro non inizia, Giubilei Regnani Editore, Roma-Cesena 2017.
  • [8] Cfr. AA.VV., Il declino dell’Occidente revisited, a cura di Carlo Bordoni, Mimesis, Milano-Udine 2018.
  • [9] Ivi, p. 31.