• Ancora una fil

  • Herder e l’idea di nazione
  • Una filosofia della storia fuori dal coro progressista 
  • di
  • Giovanni Sessa
  • Tra il XVIII e il XIX secolo si affermarono nel pensiero europeo, in termini definitivi, le filosofie della storia. L’idea di rintracciare un telos, uno scopo al corso degli eventi e, soprattutto di indicare la storia quale percorso chiuso, inevitabilmente tendente a realizzarsi in una fine, è lascito del processo di secolarizzazione della visione ebraico-cristiana del mondo, che trovò dirompente accelerazione nel pensiero illuminista. In tale frangente storico, il filosofo tedesco Johann Gottfried Herder scrisse un libro il cui contenuto è, al medesimo tempo, in continuità con tale atteggiamento di pensiero, pur segnandone un’evidente rottura. Ci riferiamo al volume, Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità. Contributo a molti contributi del secolo, nelle librerie in nuova edizione per Meltemi. Il testo è stato tradotto ed introdotto da Franco Venturi ed è accompagnato da un saggio di Francesca Marelli (pp. 154, euro 15,00).

 

  •    L’opera fu scritta tra il 1773 e il 1774, quando l’autore aveva trent’anni, a Bückeburg, città nella quale egli viveva in estrema solitudine, animato dal bisogno di determinare un «ringiovanimento» dell’umanità, un suo Nuovo Inizio: tale situazione interiore di Herder è ben testimoniata in ciò che, egli stesso, definì il suo «sogno marino» nel Diario di viaggio del 1769, scritto dopo essersi imbarcato su un veliero che da Riga lo avrebbe condotto in Francia. Il libro che qui presentiamo risente dei colloqui che il giovane filosofo aveva avuto a Strasburgo, qualche tempo prima, con l’uomo che rappresentava l’anima e l’intelletto della cultura tedesca del periodo, Goethe. Tale influenza la si evince nelle pagine del testo, costruite per dare sintesi alle prospettive di filosofia della storia e filosofia della natura, nel simbolo dell’albero. Questi, infatti: «cresce, si sviluppa come l’umanità nei secoli» (p. 30). Il libro è stato letto secondo molteplici modalità: quale reazione al razionalismo e testo d’esordio dello storicismo, opera mirabile: «per la difesa dell’individualità storica e della continuità della tradizione» (p. 7). Isaiah Berlin lo pose in diretta continuità con Vico, mentre Chabod lo interpretò quale testo fondativo della concezione di nazione in senso biologico-naturalistico, ma anche quale esempio del processo di secolarizzazione dell’eschaton teologico. Altri videro in Herder: «un antesignano del nazionalpopulismo pangermanista» (p. 8).
  •    L’«Ancora» che apre il lungo titolo, sottolinea il porsi del filosofo in sequela della precedente tradizione filosofico-storica, ma anche la sua volontà di rompere con l’ottimismo e il progressismo illuminista. Il saggio è caratterizzato da una chiara polemica antimoderna, da: «una veemente invettiva contro il mondo dei lumi, contro Voltaire […] contro il meccanismo di tutta la vita moderna» (p. 8), rileva Marelli. A ciò il pensatore fu indotto dai suoi studi linguistici ed estetici. Infatti, come compiutamente colto da Venturi, nelle pagine di Herder aleggia la polemica antimoderna di Roussseau, ma qui l’elemento «primitivo» è pensato in chiave estetica. Nell’esegesi herderiana dell’Urspung, dell’origine, letta dal filosofo come cosa assolutamente altra dall’Anfang, dall’inizio, un ruolo centrale è rivestito dalla poesia: «in essa soltanto è possibile ritrovare quell’elemento originario che inutilmente si pensava di riacquistare nel selvaggio» (p. 21), da qui l’importanza assunta dal linguaggio in Herder, ai fini della fondazione dell’idea di nazione.  Nel pensatore tedesco è, quindi, ravvisabile un’anticipazione profetica delle tesi che Nietzsche esprimerà, nella seconda Considerazione inattuale dedicata alla storia: l’elemento essenziale per fare storia, per comprenderne i moti interni, è l’empatia: «Dobbiamo simpatizzare […] con la nazione […] o sul libro non resta che un vuoto nome» (p. 66). Per Herder ogni cultura ha tratto peculiare, è un’individualità storica da comprendere nella sua unicità e incomparabilità. Il tratto vichiano delle sue analisi si mostra, al contrario, nella volontà di ricostruire in termini classico-erodetei, la storia universale, la cui genesi è esperita in termini biologici-vitalisti, ma fondata: «sul parallelismo tra l’ordine di sviluppo delle civiltà e quello delle facoltà umane e dell’intero universo» (p. 10). Insomma, il percorso storico, a dire del filosofo pre-romantico, metterebbe in mostra il dispiegarsi dell’idea di Humanität, all’interno del quadro provvidenzialistico di matrice vichiana. La storia quale: «corso di Dio attraverso le nazioni» (p. 130). 
    L’anima originaria dell’umanità andrebbe ricercata nell’Oriente biblico, mentre negli Egizi egli individuò la maggiore espressione, mediata dalla loro originalità culturale, dell’individualità storica. La giovinezza del corso storico fu esemplarmente testimoniata dalla perfezione armonica conseguita dalla civiltà dell’Ellade, anche se il nostro polemizzò con il movimento neo-ellenista che, a suo giudizio, andava stemperando il valore della grecità tragica negli ideali del classicismo moderno. L’Impero romano rappresentò la fine del mondo antico e, in quanto civiltà dispiegata, proprio come il Rinascimento, esso: «appare ad Herder come un punto d’arrivo e di dissolvimento» (p. 28). Una nuova era fu annunciata nel cristianesimo ed essa fu effettivamente realizzata, oltre l’ecumenismo imperiale romano, dalle stirpi nordico-barbariche che riaffermarono: «il radicamento etnico […] e le libertà delle piccole società del mondo germanico» (p. 12). Il medioevo cristiano-germanico è sottratto dal filosofo al discredito nel quale, in quanto età oscura, era stato fatto precipitare dalla vulgata illuminista. Per Chabod, tale esegesi dell’età di mezzo sarebbe risultata prodromica all’affermarsi, tra XIX e XX secolo, del «nazionalismo spirituale» pangermanista.  Per Herder nazione è: «comunità legata alle condizioni storico-culturali della sua nascita, come totalità culturale e non come entità politica legata alle istituzioni statali e a norme di diritto astrattamente fondate su basi giusnaturalistiche» (p. 13).
  •    La verve antimoderna di queste pagine si manifesta pienamente nella critica alla ratio che, con la cultura dei lumi, ha costruito un mondo dominato dalla quantità e dalla riduzione meccanica ad Uno: «Gran parte della cosiddetta nuova cultura moderna è in realtà una meccanica […] sorse la macchina ed uno solo basta a condurla con un sol pensiero, con un sol cenno» (p. 98). Parole profetiche rispetto alla struttura omologante della società post-moderna. Un libro da tornare a leggere, un filosofo, Herder, per molti aspetti da rivalutare.