• EUROPRONI
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • L’accordo raggiunto tra l’UE e i cattivissimi Orban e Morawiecki ha scatenato i media mainstream (ossia la maggioranza), solidali nel criticarlo, ma differenti nelle ragioni addotte.  Quella più frequentemente allegata, anche se la meno probabile, è che la Merkel avrebbe piegato alla volontà europea i recalcitranti di Visegrad, concedendo poco o nulla.   Prima di spiegare i motivi di tale impostazione occorre citare che il Consiglio U.E., nell’esporre il testo dell’intesa ha sottolineato che si è cercata una “soluzione reciprocamente soddisfacente” per “rispondere alle preoccupazioni espresse in merito al progetto di regolamento relativo a un regime generale di condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione” assicurando il rispetto dei trattati, delle peculiarità nazionali degli Stati; l’U.E. ha accettato che, in caso di ricorso alla Corte di giustizia non potranno essere prese misure a carico degli Stati disobbedienti prima della sentenza e che comunque (con espressione poco chiara) nel regolamento impugnato saranno incorporati “eventuali elementi pertinenti derivanti da detta sentenza”. Peraltro solo violazioni che hanno impatto sul bilancio U.E. possono essere sanzionate: “Le misure a norma del meccanismo dovranno essere proporzionate all’impatto delle violazioni dello Stato di diritto sulla sana gestione finanziaria del bilancio dell’Unione o sugli interessi finanziari dell’Unione”; inoltre “la semplice constatazione di una violazione dello stato di diritto non è sufficiente ad attivare il meccanismo” e “le misure si applicheranno solo in relazione agli impegni di bilancio previsti nell’ambito del nuovo quadro finanziario pluriennale, compreso Next Generation Eu”.
  • Più che una resa incondizionata dei discoli l’accordo appare per quello che è ogni soluzione a carattere transattivo, dove le parti si sono fatte “reciproche concessioni”: ciascuno ha dato e ottenuto qualcosa. Di guisa che, rispetto ai puri, agli estremisti, alcune critiche hanno qualche fondamento: basti ricordare che, prima dell’accordo, alcuni euroestremisti erano giunti nell’ordine a sostenere: a) la cacciata dei discoli dall’U.E.; b) l’abolizione del diritto di veto nell’ordinamento europeo.
  • Il tutto peraltro “giustificato” con le conseguenze economiche della pandemia – e la necessità di porvi rimedio. Ma se l’obiettivo era questo (emergenza sanitaria e risposta economica), non si capisce perché il negoziato era stato complicato e reso difficile con la condizionalità rafforzata del rispetto dello Stato di diritto. La quale, a pandemia in corso, appariva come un espediente per estorcere un consenso minacciando reazioni a comportamenti estranei all’emergenza sanitaria ed alla necessità di porvi rimedio.   Ma la questione che qui affronto è diversa:   per quale ragione le élite dirigenti italiane (e i loro accoliti) vogliono dimostrare che la reazione di polacchi e ungheresi non ha ottenuto nulla (o molto poco) piegata (come sarebbe stata) dalla volontà sovrana (scusare l’aggettivo da turpiloquio) della U.E.. Con la quale è meglio assentire, sottomettersi senza discutere (tanto, si perde solo tempo).   Atteggiamento che è quello preferito da governanti eurolirici che hanno diretto l’Italia (quasi sempre) negli ultimi dieci anni e in buona parte del periodo precedente. Bastava una richiesta europea (“ce lo chiede l’Europa”) per eseguirla prontamente: e farsene titolo di merito quali novelli De Gasperi o Martino. Anche quando era evidente che qualche sgarbo dall’Europa l’avevamo ricevuto (come nella vicenda della caduta di Berlusconi e degli eurosorrisetti), bisognava incassare e fare penitenza. La quale, per gli eurodipendenti è castigo scrupolosamente riservato ai governati, anche quando una siffatta pretesa non è stata avanzata dalla Merkel o dalla Von der Layen.
  • Gli è che gli eurodipendenti esternano delle trattative un’immagine da solotto o da bocciofila: che per dialogare bisogna (necessariamente e previamente) assentire. Nella realtà non è così, e rientra nei fondamentali del politico: per trattare l’accordo più agognato, ossia la pace, occorre trattare col nemico.   Perché questo sia durevole, la pace deve tener conto degli opposti interessi e posizioni (se no, da trattato diventa dettato di pace; come capitò a quello di Versailles). Avete mai visto trattare qualcosa, dalla pace in giù, tra amici, cioè non solo non belligeranti, ma neppure aventi volontà e obiettivi differenti?   Quindi contrariamente all’opinione dei nostri eurodipendenti, trattare è cosa logica (e quasi sempre opportuna): avere volontà ed interessi diversi è naturale; conciliarli con quelli dell’altro è – in genere – normale e conveniente. Non c’è nulla di contrario al bon-ton diplomatico nel comportamento di chi prima minaccia, litiga e poi tratta.   Ma per i nostri ciò voleva dire legittimare (anche) la posizione di Salvini il quale, per l’appunto, chiudeva i ponti ai migranti per costringere l’Europa a farsi carico – proporzionalmente – del problema degli stessi. Atteggiamento risultato pagante dato il calo drastico, tuttora perdurante (anche se in misura minore) dei medesimi. Con sollievo delle strutture di accoglienza e del bilancio dello Stato. Ma con grande scorno di coloro che dell’accoglienza – ben remunerata – avevano fatto un affare. Strano ed inconsueto è l’atteggiamento remissivo e sottomesso praticato (e predicato) degli eurolirici. A proposito dei quali occorre dire che se polacchi e ungheresi avessero avuto la loro stessa tempra ed attitudine – mentale e morale – l’Est europeo sarebbe ancora diviso dalla cortina di ferro.