Donà


  • Sapere il sapore
  • La filosofia del cibo e del vino di
  • Massimo Donà
  • di
  • Giovanni Sessa
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  • La produzione filosofica di Massimo Donà sta crescendo, di anno in anno, in modo esponenziale. Il pensatore veneziano sta “applicando” le idee-forza del suo sistema a molteplici ambiti del sapere e dell’esperienza umana.  E’ nelle librerie per i tipi di ETS il volume, Sapere il sapore. Filosofia del cibo e del vino (per ordini: info@edizioniets.com, pp. 157, euro 15,00).  Donà è, co-direttore del Master di filosofia del cibo e del vino dell’Università Vita-Salute San Raffaelle e ha recentemente curato, con Elisabetta Sgarbi, il primo numero della rivista, Pantagruel.  Sappia il lettore che i saggi che compongono il volume, mirano a mostrare come: «l’anima sia realmente funzione del corpo» e che: «si vive […] cercando il fondo, pur nella consapevolezza che un fondo, molto probabilmente, non lo si troverà mai» (p. 11).
  • In queste pagine, il filosofo mette in discussione il primato attribuito alla “vista” da gran parte del pensiero europeo, in nome: «di un “sentire”quasi sempre rimosso […] di un sentire da cui il nostro tempo ha finito per tenerci lontano» (p. 13).  La conoscenza, a cui un corretto rapporto con il cibo e il vino può dar luogo, produce una con-fusione di facoltà sensoriali, di con-tatti e de-gustazioni, atte a mettere in gioco: «l’irripetibile singolarità che tutti […] ci riguarda» (p. 18), oltre il dominio dell’idea.    Con Baudelaire, Donà ricorda che proprio il vino, bevanda sacra, ci parla dalla prigione di vetro in cui è contenuto, la bottiglia, intonando versi luminosi e mirati a liquefare ogni escludente distinzione.  La vite rimanda alla vita, incessante metamorfosi.   Il cibo, ab initio, scandisce le nostre esistenze, segnando, durante l’infanzia, i ritmi della vita famigliare, ma anche i nostri gusti e disgusti.   Più tardi, nel percorso di vita di ognuno, dal cibo si trae la spinta al novum, al “sorprendente” che, il trascorrere degli anni, sembra, via via, volerci sottrarre.   Per queste ragioni, i filosofi si sono interrogati sul cibo.  Si pensi al detto di Feuerbach: «L’uomo è ciò che mangia», che riduce l’essenza umana al mero dato fisiologico-materiale.   Donà si pone oltre tale riduzionismo, sostenendo la nostra “animalità” non essere mai disgiunta dalla co-originaria logicità.
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  • L’animalità è: «nella vita dell’essere umano […] s-naturata» (p. 29).  Per questo l’uomo, è il: «sempre diversamente mangiante» (p. 30). Mangiando, tendiamo ad evitare la ripetizione.   Le posizioni dei filosofi in argomento, sono le più varie: Epicuro, invitava alla soddisfazione dei soli desideri necessari, rinviava, anche a tavola, al piacere katastematico; Hegel evidenziava il proprio debito teorico nei confronti del cristianesimo, nel ridurre il cibo, agostinianamente, alla dimensione della natura, ritenuta inessenziale. La verità di tali indicazioni speculative, viene meno, rileva il pensatore veneziano, di fronte all’umana esistenza.  Qui, il logos: «dimostra tutta la propria fragilità. Mostrando che la potenza del proprio dire è inversamente proporzionale alla potenza del fare» (p. 34).   Nell’atto del mangiare sono, infatti, in gioco pulsioni profonde, perfino di natura erotica.   Non casualmente, Freud ritenne primaria la fase orale, nella manifestazione di tale impulso.  Ma, nota, Donà, la bocca, al contempo, è organo dell’orare, del pregare, da cui transita la spinta alla trascendenza, per la nostra specie quint’essenziale.   In tal senso, emblematico è il vagito dei neonati, testimoniante l’insecuritas degli uomini: «“per” la meraviglia nei confronti di un abisso tutt’altro che rassicurante» (p. 37).
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  • Per l’autore, il cibo può avere tratti propri dell’esperienza estetica: il “cibo d’arte”.   Ciò avviene quando una pietanza si presenti come unica, per il fatto che le regole che stanno alla base della sua produzione (idee, ricetta) si confondono perfettamente con essa, con la sua singolarità: «in tale pietanza il dettato della ricetta (l’universale) si fa certo presente…ma nella forma di un’assoluta “individualità”» (p. 54).   In tale precipitato culinario-alchemico si mostra qualcosa di non riducibile alla ricetta, senza escluderla.   Il cuoco, in tal caso, è chiamato a svolgere rispetto ai distinti (gli elementi utilizzati), funzione demiurgica.   La medesima funzione che Tommaso d’Aquino diceva esser propria dell’artista, che con l’opera creava: «Una sorta di analogon del “divino” […] quale perfetta identità di essenza e di esistenza» (p. 57). L’arte del cibo realizza una metamorfosi dell’atto del mangiare, rendendolo gesto esemplarmente simbolico.   Il cibo non è più l’altro da negare, secondo l’esempio dantesco di Cerbero, ma diviene latore di un’esperienza trasfigurante, quella che Proust descrive a proposito della madeleine.  Tale esperire: «subito aveva reso indifferenti le vicissitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita…non si sentiva più mediocre, contingente, mortale» (p. 67).   Un’esperienza empatica, in cui il: «diverso riesce a differire senza “escludere” quel che differisce da lui» (p. 150): lo si evince in un alimento per eccellenza italiano, la pizza, i cui ingredienti sono distinti l’uno dall’altro, ma la pasta che li tiene insieme li unifica senza eliminarli.
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  • Vi sono, inoltre, cibi da sempre considerati sacri, che rivelano il tratto dis-velativo dell’atto del mangiare, tra essi il formaggio. Il colore bianco che lo connota è: «assolutamente gratuito ed eventuale […] come ha da essere […] il primo principio […] il “principio” di tutto. Che in quanto arché, deve riconoscersi anche perfettamente “libero” […] irriducibile a qualsivoglia rappresentazione fenomenica» (p. 86). Mangiare formaggio è un modo per nutrirsi dell’origine, la cui unità è manifestata dal biancore.  Con il formaggio ci abbeveriamo alla fonte cui il “principio” è stato sempre paragonato ma: «mangiamo il frammento, il diverso ossia il frutto che da quella origine è stato necessariamente originato per via di separazione» (p. 96).   Donà si occupa del vino, nell’attraversamento critico delle Baccanti di Euripide. La sua esegesi, ci presenta Dioniso, dio della vite e del sacro nettare che ne scaturisce, quale potestas paradossale, duplice e ambigua.  A Dioniso, al vino, alla loro potenza fascinatoria, non si resiste: essi liberano dalle false distinzioni, dalla astratte differenze imposte dalla “luce” della ratio e illuminano la vita, allentando tensioni e dissolvendo paure.   Bere vino permette di aver contezza che ogni vita è sempre altra da sé, in forza della singolarità che costituisce qualsivoglia produzione enologica, mai normabile dall’universale del concetto. 
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  • Medesima singolarità connota di sé i cocktail, la cui essenza è data dalla mescolanza degli elementi che concorrono a costituirlo, con il come, la modalità realizzativa che il sagace barman vi ha profuso.  Vino e cocktail, quindi, quali metafore delle nostre vite: ognuno di noi: «si riconosce solo in certe misure, ossia in certi “modi” di unificare le componenti che vanno a costituire» (p. 142) la nostra personalità.   Si sa, si conosce, si vive davvero, solo assaporando

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