• Prigioni di Francia

  • Rivoluzione   Terrore
  • Prigioni di Francia sotto il Terrore
  • rec.  di
  • Giovanni Sessa
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  • Molto si è scritto e detto della Rivoluzione francese. Essa è un evento paradigmatico della storia, momento apicale dell’avvento del Moderno. È nelle librerie per i tipi di OAKS, un volume che consente al lettore uno sguardo a tutto tondo su tale svolta epocale. Ci riferiamo al libro di Albert Savine, Prigioni di Francia sotto il terrore, introdotto da Giovanni Damiano (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 236, euro 20,00). L’autore, vissuto tra la metà del secolo XIX e i primi tre decenni del Novecento, fu traduttore di vaglia. Fondò, una volta stabilitosi a Parigi, una casa editrice di tutto rilievo che registrò puntualmente l’atmosfera culturale e politica di quel frangente storico. Il catalogo di tale casa editrice, scrive Damiano: «ha finito per riflettere quel magmatico mondo in cui antisemitismo, socialismo non marxista e boulangismo s’incontrano e si mischiano» (p. II). Del resto, è noto, il boulangismo fu un fenomeno trasversale che mostrò come, in dati contesti storici: «le masse popolari possono facilmente sostenere un movimento che trae dalla sinistra i propri valori sociali, dalla destra i propri valori politici» (p. III). Di lì a poco, la storia europea avrebbe confermato, su ampia scala, questa intuizione.

 

  • Il libro di Savine disegna uno spaccato assai interessante degli anni del Terrore in Francia, sia sotto il profilo storico che letterario. La narrazione si apre con l’assalto rivoluzionario al castello di Chantilly: in essa, l’autore, con rara capacità descrittiva, fa emergere la radicale volontà iconoclasta degli assalitori, animati da odio di classe e rifiuto della bellezza. Inoltre, l’intero narrato ha quale luogo elettivo, le prigioni. La rivoluzione francese era stata inaugurata dall’assalto alla Bastiglia, carcere dell’Antico Regime e si chiuse con le detenzioni di massa e le stragi del Terrore giacobino. Il carcere non fu solo simbolo per antonomasia della Rivoluzione ma: «epicentro, a Parigi, di una campagna a sfondo paranoico e complottista, passata alla storia come cospirazione delle carceri» (pp. XXII-XIII). Il libro che presentiamo fa chiarezza sugli anni del Terrore nella provincia francese, portando l’attenzione del lettore sia sui perseguitati, ai quali concede finalmente dignità umana, ma anche sui persecutori, di cui descrive minutamente le pulsioni interiori e le motivazioni ideali.
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  • L’interesse di Savine si sofferma su quanto accadde ad Arras, Lione, Nantes ma anche nel Midi, dove, fino al 1794, si registrarono centinaia di condanne a morte. I due tribunali rivoluzionari del Nord, di Arras e di Cambrai, furono guidati da Joseph Lebon. Le loro sentenze portarono alla ghigliottina oltre cinquecento persone. Savine descrive la psicologia perversa di un pubblico accusatore di Arras, il fanatico Augustin Darthé che, paradossalmente scampato alla reazione termidoriana, finirà ghigliottinato nel 1797. Lione, per la sua ribellione del 1793 al governo giacobino, subì una devastazione “cartaginese”. Oltre duemila furono i giustiziati, il nome della città venne cambiato in Ville Affranchie. La si sarebbe voluta radere al suolo per ricostruirla ex novo, quale città modello della rivoluzione. A Nantes furono condotti i prigionieri vandeani, la cui triste fine nelle noyades, negli annegamenti di massa nella Loira, è raccontata in termini realistici e drammatici .
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  • Queste pagine inducono il lettore a riflettere sull’esito della Rivoluzione. Molti esegeti e storici, ricorda Damiano, si sono interrogati sulla relazione tra l’evento rivoluzionario in sé e il Terrore. Lo hanno fatto liberali come Constant, pensatori controrivoluzionari e studiosi marxisti. A riguardo, preliminarmente, è necessario tener conto dell’avvertimento di Furet: va rigettata: «ogni lettura “fatalista” del Terrore» (p. XIII).   Alla luce della concezione aperta della storia, Damiano ritiene che il Terrore sia stato una delle storie possibili cui la rivoluzione avrebbe potuto andare incontro. Per questo, hanno torto i “necessitaristi” storici controrivoluzionari, quanto i liberali come Constant. Il Terrore non fu un deragliamento irrazionale della rivoluzione. Anzi, esso risponde alla logica rivoluzionaria, quando venga intesa correttamente quale «stato d’eccezione permanente» (p. XIV). Insomma, a mettere in atto il Terrore, a produrre l’eccezione, è: «quell’eccezione che è la stessa rivoluzione» (p. XIV). Tale evento è dotato di energia politica autonoma: giacobinismo e Terrore si tengono insieme reciprocamente.
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  • Essi furono paradigmatico esempio degli esiti dell’utopismo. La società che i giacobini volevano realizzare era un “mondo paradossalmente trasparente”. La società dei “virtuosi” teorizzata da Rousseau in Julie o la nuova Eloisa, è il luogo della restaurazione della bontà originaria, della naturalezza perduta, quindi spazio a-conflittuale, pre-politico. La “virtù” dei giacobini è assai diversa da quella, dal tratto eminentemente politico, propria di Machiavelli. I giacobini vogliono “moralizzare” la dimensione civile e furono disposti a farlo anche attraverso l’uso indiscriminato della violenza, come mostra il periodo del Terrore. Essi sono il più tipico prodotto dell’utopismo settecentesco che, dopo aver conquistato, rispetto alle utopie rinascimentali, la dimensione temporale, declinarono in termini di filosofia della storia, in termini futuro-centrici.  
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  • Nella fase attuale l’utopismo ha indossato altre maschere, ma al fondo, è mosso dagli stessi ideali di allora. Per questo, le pagine di Savine possono essere significativo contro-veleno dei mali contemporanei.

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