"Scuola Romana di Filosofia politica"

è diretta da

Giovanni Sessa

La S.R.F.P. fondata, a suo tempo, da Gian Franco Lami ed Emiliano Di Terlizzi, docenti alla “Sapienza”, è oggi un forum critico di filosofia e metapolitica.

 

 

  • Melchionda

  • Jünger,
  • Melchionda
  • e
  • l’empiria estatica
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • È da poco nelle librerie per Bietti editore un prezioso volumetto di Roberto Melchionda intitolato, "La politica dello spirito", curato da Andrea Scarabelli (pp. 33, euro 4,99, ordinabile su Amazon). Raccoglie quattro saggi dedicati dallo studioso all’analisi dell’opera di Ernst Jünger oltre ai Taccuini d’appunti relativi allo stesso autore o a tematiche a questi contigue. 
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  • A Roberto Melchionda devo molto. La lettura del suo Il volto di Dioniso, edito da Basaia nel 1984, ha influenzato, in modo determinante, il mio “apprendistato” evoliano ed è per me, ancora oggi, imprescindibile guida nell’esegesi dell’idealismo magico.
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  • L’ubi consistam dell’approccio dello studioso a Jünger va rintracciato nella sua chiarificatrice lettura della filosofia evoliana. Una visione del mondo, quella dell’Evola filosofo, radicalmente antidualista, sostenuta dal superamento delle distinzioni prodotte, nel corso della sua lunga storia, dal logocentrismo. Evola, lungo tale percorso, mostra l’identità di essenza ed esistenza, di essere e nulla, di fenomeno e noumeno. Il suo sguardo sul mondo ha il medesimo tratto della stereoscopia spirituale, fil rouge dell’opera di Jünger. Uno sguardo cristallino e trasparente sul mondo proprio delle “figure” cui lo scrittore tedesco ha affidato il compito di testimoniare la Sapienza folgorante, misterica e dionisiaca, di cui ha detto Giorgio Colli.
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  • Nel primo saggio della raccolta, Linguaggio e conoscenza in Ernst Jünger, Melchionda rileva come il linguaggio per lo scrittore sia, in uno, opera empirica, risorsa umana, ma anche «resto sacro dell’Assoluto, flatus vocis e paradigma universale». La Parola cui rinviano, con sobrietà classica ed eleganza espressiva, il tedesco e lo stesso Melchionda, è atta a offrire al nostro sguardo tanto la dimensione puramente esteriore delle cose, quanto la loro profondità archetipica. È linguaggio svincolato dalla mera dimensione connotativa e distinguente, teso a recuperare il Dire originario: in esso echeggia l’eterna e sempre possibile origine. In ogni fenomeno palpita l’essenza che il linguaggio trascrive quale testimonianza di un’esperienza gnoseologica che si pone oltre la ragnatela, puramente logico-intellettualistica, tessuta dai concetti. Si intuisce con l’occhio ma si vede con la mente, in quanto l’intera physis è attraversata da «un’identica corrente di potenza elementare» percepibile in attimi felici e immensi, in cui il tempo coincide con l’eterno, chronos e aion tornano a gemellarsi. In tale istante svanisce la distinzione di soggetto e oggetto, si attua la stereoscopia spirituale, vera e propria empiria estatica.
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  • Per sperimentarla è necessario un lungo e impervio apprendistato, spirituale in primis, ma che si trasfonde sulla stessa corporeità, svelandola nella sua nudità. Tale esperire richiede apertura dei sensi e dell’intelletto, l’esporsi alla vibratilità della dynamis, animante gli enti di natura. La frase jüngeriana, costruita con ricercatezza, ha tratto magico, allusivo, rimanda alla dimensione cristallina, magistralmente evocata da Adalbert Stifter nel suo Cristallo di rocca (Milano, 1984), che balugina nelle cose. Il linguaggio diviene campo di battaglia selettivo per i pochi che, in piena modernità, rifuggono la distinzione dominate che contrappone la materia allo spirito. Il “maestro di giovinezza” Nigromontanus, protagonista del racconto jüngeriano I rebus, insegnava ad aver fiducia nei sensi. Questi, stante la lezione di Quirino Principe, se convenientemente utilizzati, dicono il primato dell’oggetto sul metodo. Lo stesso Principe ha notato, da par suo, come Jünger abbia convertito la formula conoscitiva dell’empirismo classico in nihil est in sensu quod intellecutus non sit, a sancire la primazia della dimensione immaginale e archetipica in ogni processo gnoseologico che sia realmente tale.
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  • Nel secondo saggio, Melchionda si intrattiene sulla figura del Waldgänger, colui che passa al bosco. L’età segnata dal trionfo del Leviatano e della tecnica «tende ad imbrigliare il flusso metafisico». Solo il ritorno al bosco, il recupero del contatto con la potenza che la natura selvaggia manifesta, terrifica ma rigenerante, può ricondurre l’uomo ad agire onorevolmente. Nella selva si sperimenta l’elementare, l’originario, la libertà. L’azione “onorevole” ha una sua incidenza sul reale, a prescindere dalle circostanze storiche nelle quali ci è stato dato in sorte di vivere. È azione, chiosa Melchionda, che si invera nei “miracoli”: «Essi nascono dalla sfera in cui alberga la libertà» e donano, in ogni caso, “stile” alla necessità. La libertà è sostanza insostanziale, che rinnova il “cuore avventuroso”.
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  • Nel terzo scritto della silloge, Stereoscopia dei sensi, Melchionda sostiene le “Figure” del tedesco essere riproposizioni dell’Übermensch nietzschiano. In loro vive la conciliazione estrema di modernità e arcaicità, di tecnica e mito. Conciliazione “rivoluzionario-conservatrice” con la quale si esperisce il reale quale presenza avvolgente del numinoso, degli dèi solo apparentemente eclissatisi. Oltre la storia, Jünger profetizza il ritorno del mito.
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  • Infine, lo scritto che chiude la raccolta è Estetica della violenza. L’autore sviluppa una critica, pertinente e argomentata, alla lettura riduttiva della visione del mondo jüngeriana, che Wolfgang Kaempfer presentò nella sua monografia dedicata a Jünger. Kaempfer tenta di psicanalizzare Jünger, individuando nella sua produzione letteraria un “alibi” mirato a coprire, attraverso la “razionalizzazione” del pulsionale, la sua “dipendenza edipica”. Lo studioso in questione riduce il ludus mortis jüngeriano alla mera dimensione dell’inconscio. Ferruccio Masini ha spiegato che il richiamo all’avventura non fu vissuto dallo scrittore in termini romantici. Il “cuore avventuroso” gli ha concesso di approssimarsi all’irruzione dell’elementare. Poeta e combattente condividono la medesima destrutturazione della visione del mondo comune, in quanto vivono un’effettiva rottura di livello ontologica. Il confronto con la morte, la ricerca del pericolo, rendono edotto chi le pratichi del continuo “potenziarsi della vita”, del suo essere costantemente all’opera. L’avventura è sperimentazione del terribile e del meraviglioso.
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  • Melchionda lo ha ben compreso: intento di Jünger fu vivere e scrivere l’avventura come mito liberante. Da qui anche il suo interesse per l’onirico, che si evince dai Taccuini dell’autore. L’onirico è luogo del mysterium vitae, consente di comprendere l’essere uno di veglia e sonno, gioia vitale e angoscia. Solo la “doppia vista” ci espone sugli abissi aperti dal Mondo delle Madri. Le fasi del pensiero attraversate da Jünger sono fenomenologiche, come per Evola: corrispondono a esperienze realmente vissute.
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  • Riteniamo di poter sostenere che, di fronte all’irrompere della dismisura, lo scrittore maturò una sola certezza, appuntata nel suo Diario 1941-1945 (Milano, 1979): «Anche se tutti gli edifici verranno distrutti, rimarrà tuttavia sempre la lingua; castello magico con torri, merli, volte antichissime. […] Quivi nelle sue segrete, nei suoi misteri, si potrà ancora vivere e sfuggire a questo mondo. Così pensando mi sono, oggi, confortato».
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  • Dobbiamo esser grati a Melchionda per averci ricordato, in queste pagine dense e luminose, tale possibilità.

  • Cop. WAGNER BAYR def

  • Pubblichiamo di seguito un estratto della introduzione di
  • Giovanni Sessa,
  • Tertium datur. Wagner, temporalità e arte tragica,
  • al volume di
  • Richard Wagner, L’ideale di Bayreuth,
  • (Oaks Editrice, pp. 378, euro 25,00)
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  • Questo volume di Richard Wagner colma una lacuna nel mondo editoriale italiano. La sua prima ed unica edizione risale all’ormai lontano 1940 […]  L’ideale di Bayreuth raccoglie testi che Wagner compose tra il 1864 e il 1883, a esclusione dei bellissimi Saggi su Beethoven, già ripubblicati. Queste mie brevi note fanno seguito a quanto, a proposito del musicista, abbiamo scritto nella prefazione al suo, Religione e arte e nella introduzione alla biografia di Éduard Schuré, Richard Wagner. Nel primo saggio, ricordavamo il giudizio espresso da Herbert von Karajan, grande direttore d’orchestra, che dichiarò: «di considerare Wagner “più grande” di Omero e “più completo». Affermazione forte, che può, naturalmente, non essere accettata in toto, ma che il lettore dovrebbe tenere in debito conto per avere proficuo accesso anche agli scritti teorici che di seguito presentiamo.
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  • L’ideale di Bayreuth contiene i saggi wagneriani più significativi su musica e teatro, composti nell’ultimo quindicennio di vita del Maestro. Alcuni risalgono al periodo di Tribischen, altri furono scritti a Bayreuth. Il curatore della prima edizione, Ferruccio Amoroso, ricorda che tale frangente storico: «segna non solo la svolta finale e trionfale della vita dell’Artista, ma anche un approfondimento […] una chiarificazione del suo pensiero». Da ciò la crucialità di queste prose per la comprensione del mondo valoriale wagneriano. Sappia il lettore che l’attività propriamente critica di questo artista si è sviluppata in tre fasi successive. Nella prima, che corrisponde al soggiorno parigino del compositore, si mostra un’ideale estetico vago, non ancora completamente definito, accompagnato da: «un’intuizione presaga d’un titanico mondo futuro»; nella seconda, afferente al soggiorno zurighese, si fa sentire l’influenza dell’adesione politica dell’autore all’esperienza rivoluzionaria, agli ideali maturati nella dissoluzione dell’hegelismo realizzata dalla “sinistra hegeliana”. Inoltre, in essi si evince il definirsi dell’esperienza artistico-musicale cui Wagner giunse durante il soggiorno a Dresda: a tale fase sono ascrivibili la composizione del Tannhäuser, del Lohengrin e la stesura poetica della Trilogia. Un’epoca della vita del Maestro, in cui conseguì la maturità creativa […] Infine, nella terza epoca, condensata in questo volume, e sviluppata a Tribschen e Bayreuth: «Il suo pensiero […] si orienta sempre più verso la concreta realtà dell’opera d’arte rappresentata; il problema dell’interpretazione, come sintesi di creazione e di esecuzione diventa il problema fondamentale dell’ultimo Wagner; la persona dell’autore e quella degli interpreti si fondono […] in una superiore unità individuale».
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  • A differenza di Amoroso, che nega tratto filosofico alla prosa wagneriana, in quanto essa presupporrebbe: «la distinzione dell’arte da altre forme spirituali», siamo convinti che solo l’esegesi teoretica di questi scritti e, più in generale, della musica del grande compositore, possa consentire una loro effettiva comprensione e una loro decodificazione. Per il Maestro, infatti, la concezione della Regenerationslehre, Rigenerazione spirituale e comunitaria di ascendenza schopenhaueriana, rappresentava il cuore vitale della propria produzione artistica e teorica. Il problema cui cenneremo in queste pagine è dato dal fatto che il compositore, legando a un fine, a un obiettivo storico da realizzarsi, la dimensione poietica, “tradì” l’idea di arte quale trascrizione dell’Ur-grund, del fondo abissale che anima la vita: ludico, eracliteo, gratuito e tragico. Per chi scrive, l’origine del filosofare in Grecia, stante la lezione di Colli, va rintracciata in ciò che precede, che sta alle spalle del suo definirsi storico, nei pre-platonici, ovverosia nel sapere misterico e sapienziale.
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  • La filosofia aurorale ebbe tratto museale: sempre unita a un fare atto a trascrivere, in una poietica sempre-all’opera, la dynamis, la libertà-potenza-possibilità, la cui eco risuona nella physis. L’arte, davvero ricongiunta alla vita, s-determina le fissità stabilite dal concetto, recupera l’innocenza arbitraria del principio, non ha bisogno di visibilità, in quanto rompe la ragnatela tessuta dal logocentrismo, manifesta un’interiorità pura, la vita nuda. Tutto questo Wagner lo intuì e lo manifestò nella ripresentazione della musica tonale, patrimonio sonoro originario dell’uomo europeo, in particolare nel Tristano. Egli, essendosi successivamente fatto latore di un’estetica teleologica, si allontanò progressivamente da tale rilevante intuizione, che pur fa mostra di sé, di quando in quando, anche in questi scritti […]  L’incontro di Wagner con il tragico si è realizzato a metà. Il suo grande genio musicale, nonostante la straordinarietà compositiva, è rimasto troppo vincolato a concezioni escatologiche, proprie dell’epoca, finendo per chiudersi in una prospettiva redentiva e fideistica, implicanti l’accettazione degli idola tedeschi del tempo. Per cogliere il valore profondo della musica è il caso di ricordare quanto ebbe a scrivere Walter Friedrich Otto, uno dei maggiori esegeti della civiltà greca. Questi sostenne la musica trovarsi: «già nel regno animale […] presso leggerissimi insetti e prima di tutto presso gli uccelli alati, molti dei quali ci ammaliano con il loro canto». Solo tornado all’ascolto (ogni vero musicista, prima che compositore e esecutore, è un uomo all’ascolto) del suono vibratile e ritmico della dynamis nella natura, anche all’uomo contemporaneo sarà possibile, quantomeno, tentare di ri-sintonizzarsi sui ritmi di un’origine sempre presente. Nell’antica Grecia la musica fu esperita sotto il segno della potestas di Dioniso. Dio “ambiguo” per antonomasia, rappresenta il ritmo vigente in tutto l’esistente, incarnazione divina dell’energeia, della dynamis che palpita in ogni ente di natura, in ogni “atto” in senso aristotelico, mai normabile o tacitabile. Per questo, la musica si definisce in relazione a una natura che ha sempre tratto temporale, addirittura segmentario. […] La musica, le cui atmosfere disegnano il “regno” di pertinenza dionisiaca, disvela ai greci che l’uno è solo nei molti, nella parte, nel frammento e che nel tempo vive il perpetuo suono originario, come colto da Marius Schneider. Infatti: «L’identico, nella musica, esperisce la verità del proprio sempre essere diverso da sé»: è la dynamis, la possibilità dionisiaca a mostrasi nella mousiké […] Solo nel tempo della musica: «i diversi appaiono con la massima evidenza come l’autentico inverarsi dell’identità dell’identico».
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  • Dioniso e la musica mettono in scacco il theorein, il conoscere distinguente impostosi con il principio d’identità e con quello di non-contraddizione e, scardinando le certezze della visione di senso comune, permettono un’effettiva comunicazione degli umani con il divino […]Wagner intuì tutto questo […] Intuì la necessità di realizzare in musica la coincidentia oppositorum, ma legando la propria proposta a una visione escatologica di filosofia della storia, perse il tratto tragico della vita, non comprese fino in fondo la nostra esposizione alla libertà, la nostra costitutiva nudità. Comunque, come testimonia anche il libro che vi accingete a leggere, tutto quello che fece, lo fece da apripista, da ineguagliabile genio.


 

  • IL  NEMICO  E  L’ANTIFASCISMO 
  • di 
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Il richiamo alla liturgia antifascista che trova la usuale e puntuale recrudescenza tra il 25 aprile e il 1° maggio presenta un pericolo che quasi nessuno ha sottolineato, e di cui forse, molti tra gli stessi officianti non hanno consapevolezza. Non è mettere le effigi dei nuovi governanti a testa in giù, non è il richiamo ai valori dell’antifascismo e della Costituzione, peraltro condivisi in gran parte anche dagli a-fascisti e perfino dai (pochi) fascisti DOC in circolazione. No, il pericolo è un altro, immanente e presente in ogni situazione politica.
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  • Scriveva Machiavelli che in politica chi va dietro all’immaginazione e non alla realtà, va in cerca di guai e non della “propria preservazione”. La frase del Segretario fiorentino è l’espressione sintetica e concisa del realismo politico. Può essere declinata in tanti modi, tutti accomunati dalla priorità di considerare, per l’esistenza e l’azione politica, in primo luogo, i fatti, assai più che le parole che gli attori politici enunciano o si scambiano.
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  • Ma tra le declinazioni più importanti, anzi quella decisiva è di individuare il nemico reale. Perché il nemico è essenziale affinché l’attività sia politica e capire chi sia, costituisce interesse primario per l’esistenza della comunità. Scrive Carl Schmitt nel “Concetto di politico” che “Pensiero politico ed istinto politico si misurano perciò, sul piano teoretico come su quello pratico, in base alla capacità di distinguere amico e nemico. I punti più alti della grande politica sono anche i momenti in cui il nemico viene visto, con concreta chiarezza, come nemico. Ma il discorso vale anche in senso inverso: dovunque nella storia politica, di politica estera come di politica interna, l’incapacità o la non volontà di compiere questa distinzione appare come sintomo della fine politica”.
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  • E in effetti ciò che manca all’antifascismo come all’anticomunismo, è un nemico reale. Ossia qualcuno che attenti o possa attentare all’esistenza ed all’azione della comunità politica. Ma possono fascisti e comunisti (residui) farlo? Il fascismo storico è finito per debellatio quasi ottant’anni orsono, il comunismo da oltre trenta, per implosione.
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  • Né il Reich né l’Unione sovietica esistono, e non esistendo, non possono arrecare danni. Non sono nemici reali. Certo possono essere nemici ideali, ma senza Panzerdivisionen e bombe atomiche non possono nuocere.
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  • Tuttavia, proprio per quella insopprimibilità del nemico e del conflitto, il nemico anche se non fascista né comunista, esiste e non deve per farlo chiedere il permesso delle anime belle. Ma sicuramente ha l’interesse di non farsi riconoscere come tale, che è il primo espediente  “della volpe” per occultarsi, e così diminuire o eliminare le difese delle prede designate.
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  • All’uopo è assai utile sfruttare i vecchi sentimenti d’ostilità verso i nemici d’Antan, ormai immaginari.  Così l’antifascismo e l’anticomunismo facilitano il compito di chi, attualmente e concretamente squilibria a proprio favore e a danno della nazione il rapporto di potenza. E così, del pari, il modo d’esistenza comunitario che è la Costituzione reale di un popolo. Verso il quale, avrebbe scritto Machiavelli vanno costruiti degli argini.  Inutili per i nemici dei libri di storia.

 

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  • Il destino è nelle tue mani

  • Il destino è nelle tue mani
  •  Le quattro lezioni del maestro
  • Yuan Liao-Fan
  •  rec. di
  • Giovanni Sessa
  • In Cina, all’inizio del XVII secolo, era al potere la dinastia Ming. Il territorio del Celeste Impero era immenso. Nei suoi confini si viveva una situazione politica particolarmente difficile. La pace sociale e la giustizia erano messe in discussione da scontri sanguinosi con i Mongoli, mentre i giapponesi mettevano in atto continui atti di pirateria. I Ming tentavano di difendere l’idea di Impero “dall’alto”, il governo divino sul mondo. In tale frangente storico videro la luce, Le quattro lezioni del Maestro Yuan Liao-Fan, funzionario imperiale di prim’ordine. Il testo, notissimo in Cina, tanto da aver dato luogo in anni recenti alla produzione di audio-visivi a esso ispirati, è praticamente sconosciuto in Italia. Va, pertanto, particolarmente apprezzata la scelta di Mimesis edizioni di proporlo ai nostri lettori con il titolo, Il destino è nelle tue mani. Coltivalo con gentilezza. Il volume è nelle librerie per la cura di Erica Gallesi, sceneggiatrice e autrice tv. Il testo è, inoltre, impreziosito dal Commentario, firmato da Alberto Lomuscio, cardiologo, nonché vice-presidente della Società Italiana di Agopuntura (per ordini: mimesis@mimesisedizioni.it, 02/24861657, pp. 185, euro 16,00).
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  • Liao-Fan, in queste pagine, presenta la propria vita. Narra del cambiamento repentino e profondo subito nel momento in cui realizzò di essere il vero artefice del proprio destino. Si tratta di un’opera che si sviluppa in sintonia con i valori dominanti nella Cina di quel frangente storico: il neo-confucianesimo e il buddhismo. Maestri di riferimento di Lian-Fan furono Confucio e Mencio. Due furono le Guide con le quali entrò personalmente in relazione: «Kong, un saggio capace di predire il futuro, e Yun Gu, un Maestro zen capace di cambiare i destini» (p. 8). Dai due imparò a sentirsi libero e a migliorare il proprio stato esistenziale. L’autore, buddhista dichiarato, rivolge queste pagine al figlio e ai giovani, perché imparino a confrontarsi con la scommessa che la vita rappresenta, nella consapevolezza che: «solo se si è in armonia con i Principi Celesti e il Mandato del Cielo» (p. 8), si riesce a coniugare attimo ed eternità, in un “qui e ora” rasserenante. Per tale ragione, nel trattato svolgono ruolo preminente le considerazioni etiche che, si badi, non scadono mai in vieto moralismo. Protagonisti del narrato sono funzionari dell’Impero e studiosi intenti a superare le “prove” attraverso le quali veniva selezionata l’élite spirituale che affiancava l’Imperatore nell’espletamento dei propri doveri.
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  • Quattro sono le lezioni che l’autore, in forza dell’esperienza esistenziale conseguita, vuole trasmettere ai lettori: 1) Imparare a creare il proprio destino; 2) Come rivoluzionare sé stessi; 3) Come coltivare la gentilezza; 4) I benefici della virtù dell’umiltà. Una precettistica preziosa, mirata a nobilitare l’uomo e a farlo vivere in sintonia con il cosmo, espressa in forma leziosa e coinvolgente. Delle quattro lezioni, la più importante, propedeutica alle altre, è la prima. Alberto Lomuscio, con sagacia argomentativa, nel Commentario ci immette nelle vive cose dei rapporti tra Destino e Fato. L’idea di Fato immodificabile, a suo dire, avrebbe pervaso il pensiero occidentale, a muovere dalla tragedia attica per giungere alle note di Samarcanda di Vecchioni. Suo paradigma, la vita di Edipo, costretto al suicidio a causa dell’incesto con Giocasta e dell’assassinio del padre. Diverso dal Fato, è il Destino che: «contiene […] degli elementi di coercizione» (p. 132), una direzione indicata per la nostra vita, modellabile però dal nostro “saper vivere”. Nel pensiero cinese esistono tre tipologie differenziate di Destino: 1) Il Destino del Cielo, vale a dire il contesto nel quale siamo inseriti (cosmico, storico, sociale ecc.); 2) Il Destino della Terra, rappresentato dai condizionamenti genetico-fisiologici; 3) Il Destino dell’Uomo, comprendente il libero arbitrio. Ognuna di tali tipologie destinali condizionerebbe la nostra vita per il 30%.  Il rimanente dieci per cento viene attribuito all’educazione, al caso, ai condizionamenti.
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  • Il termine cinese che indica il Destino è Ming Yun. Ming: «sta per comando da parte di un’autorità superiore (il Cielo) a cui l’umanità riunita deve sottostare» (p. 111), mentre Yun rappresenta un percorso vitale sintonico alle leggi del Cielo: «La vera saggezza consiste nell’accettare e accogliere la propria natura più autentica, la qual cosa ci condurrà al raggiungimento di uno stato ideale, nella più piena e gratificante libertà personale» (p. 112), come nelle corde delle lezioni di Liao-Fan. Come giungere a tanto? Lomuscio lo spiega in un sintetico ma esaustivo percorso nelle diverse scuole del pensiero cinese. Tra loro, il Taoismo ebbe ruolo prioritario. Il Wu-wei, la non-azione si associa, in tale Via, al “Vuoto del Cuore”, simbolo del “Centro” spirituale, mentale e psicologico dell’uomo. Il Cuore dà senso alla vita del singolo, così come l’Imperatore svolge lo stesso ruolo a livello comunitario. “Il Vuoto del Cuore” sta a indicare l’atteggiamento dinamico con il quale dobbiamo rapportarci al principio (Tao) che anima le cose e il mondo e che è sempre all’opera: esso apre alla Conoscenza quale: «azione-non azione spontanea e aderente alla natura» (p. 148), atta a garantire la Salus, fisica e spirituale. Da ciò la rilevanza degli stili di vita, come suggerito da Liao-Fan nel trattato. È necessario eliminare ogni spinta egoistica, praticare calma e umiltà, agire con gentilezza nei confronti di vivi e trapassati.
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  • In tale caso, il Ming Shu, il “fare il calcolo del destino”, ci rende atti a modellare, costruire, entro i limiti che connotano la vita umana, una via tesa al continuo perfezionamento. Poiché l’Orsa Maggiore era ritenuta ponte di Luce tra Sole e Luna, Yin e Yang, i Cinesi ritenevano che l’uomo in cammino sulla Via dovesse abbeverarsi alla sua luce irradiante, per carpirne l’energia diffusiva. Tale riferimento permette di comprendere la centralità dell’astrologia in Cina, come si evince dalle pagine a essa dedicate da Lomuscio. Per tale ragione, Il destino è nelle tue mani può ritenersi testo importare, non solo per avere acconcio accesso alla filosofia cinese, ma anche in quanto latore di una visione della vita antideterminista. In un’epoca in cui riemergono concezioni soteriologiche o nella quale si mostrerebbe, a dire di altri, la fine della storia, questo è lascito prezioso, bagno ristoratore di “umiltà”, esempio di dotta ignoranza.

  • Buscaroli

  • Bruckner, gigante della Sinfonia
  • Un saggio musicologico di
  • Piero Buscaroli
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
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  • Tra il 1985 e il 1987 il Teatro Comunale di Bologna mise in cartellone un ciclo integrale delle Sinfonie di Anton Bruckner, musicista allora conosciuto a fondo in Italia solo da musicologi e  appassionati, mentre il grande pubblico ne ignorava ancora la straordinaria grandezza. L’idea venne al nuovo sovraintendente del Teatro felsineo, che individuò in Piero Buscaroli il critico cui: «affidare la stesura dei programmi di sala e le conferenze introduttive dei concerti» (p. 328). Direttori d’orchestra di fama garantirono il successo del ciclo bruckneriano. Buscaroli pensò di intitolare i propri contributi, Immagine di Bruckner, in quanto in essi si intratteneva non soltanto su aspetti meramente musicologici, ma disegnava un quadro a tutto tondo dell’uomo e del compositore,  sfatando i falsi miti con i quali era stato, fino ad allora, presentato. A Carlo Fontana e Luigi Ferrari va il merito di aver messo insieme quei testi di Buscaroli, dando realtà fattuale a una   intenzione dichiarata del grande critico e scrittore: pubblicare un volume monografico dedicato alla vita e all’opera di Bruckner. Il volume è uscito recentemente per i tipi di Bietti con il titolo, Bruckner, gigante della Sinfonia (pp. 366, euro 24,00).
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  • Buscaroli, in una prosa lucida e coinvolgente, dal tratto più giornalistico che libresco, presenta un’originale biografia intellettuale e spirituale del musicista austriaco, ricostruendone le vicende esteriori ed interori, soffermandosi, in particolare, su quelle che giocarono un ruolo determinante nel suo percorso creativo. Rimasto orfano di padre durante l’infanzia, Anton fu accudito dalla madre Theresia. Al fine di provvedere al meglio al suo futuro, questa lo accompagnò all’abbazia di Sankt Florian che sorgeva nei pressi di Ansfelden, paese natale del genio musicale. Venne accolto tra i ragazzi “cantori” e, al termine del ciclo di studi, nonostante lo animasse di già il sogno di diventare un grande musicista, intraprese la strada di insegnante nelle scuole primarie. Divenne, dapprima, assistente maestro in diversi villaggi rurali; infine, fu maestro salariato e organista nell’abbazia in cui aveva studiato dal 1851. L’occasione di lasciare Sankt Florian fu presa quando il giovane fece visita a Vienna a Simon Sechter, organista di Corte, che lo giudicò dotato di talento, ma senza un’adeguata formazione tecnica: «Anton Bruckner si accinse a ricominciare da capo» (p. 52). Trasferitosi a Linz nel 1855, si dette a studiare sotto la guida del maestro viennese.
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  • L’intera esistenza di Bruckner, presentato dai biografi quale “babbeo”, innocente e ingenuo campagnolo incapace di adattarsi al dinamico attivismo della città, è segnata dall’inesausta volontà di riscatto: egli fu perpetuamente alla ricerca di attestati di stima e della soluzione dei problemi economici, che angustiarono i primi decenni della sua vita. Buscaroli, da par suo, lo segue lungo questo itinerario, giungendo fino agli anni del trionfo. L’insicurezza di fondo che distingueva la sua indole non gli concesse di vivere appieno il successo conseguito, tanto che sentì sempre la necessità di rivedere le sue composizioni, a volte per le critiche malevole di improvvisati recensori o per i consigli di allievi interessati a metter mano a quelle geniali creazioni.
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  • Sotto il profilo musicologico, Buscaroli libera il musicista dalla vulgata esegetica, perpetuatasi anche attraverso Furtwängler che vide in Bruckner: «più che un musicista, un epigono dei mistici tedeschi, come Maister Eckhart, o Jacob Böhme» (p. 18). In realtà, esclusivamente nel primo periodo compositivo, Bruckner fu indotto a creare sotto la spinta di motivazioni religiose, ma la sua musica non rinvia ad “altro”, ha valore in sé: testimonia la potestas presente nella Natura, e lo fa attraverso una grammatica musicale rigorosa e sorvegliata, apparentemente in contrasto con il suo animo “innocente”, alla Don Chisciotte. L’autore sostiene, con pertinenza argomentativa, che lo spazio musicale bruckneriano deve essere collocato a ridosso del quadrilatero che comprende i nomi di Beethoven, Brahms, Wagner e Schubert: «La pratica della musica di chiesa lo ha tenuto attaccato al patrimonio barocco cattolico […] lungo una linea tracciata tra il Beethoven della Missa Solemnis e le ultime opere religiose del Cherubini» (pp. 20-21). Non va trascurato, d’altro lato, il contatto con le partiture moderne dell’Olandese volante e del Tannhäuser di Wagner.
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  • Alla fine, chiosa Buscaroli, Bruckner diventa: «musicista assoluto, non meno di Beethoven e di Brahms»(p. 22). Anton rimase sempre indipendente, musicalmente parlando, dagli stessi suoi presunti modelli. Ammirò Wagner, al quale portò in lettura la Seconda e Terza Sinfonia (che poi gli dedicò), per cui il “Maestro dei Maestri” doveva ben conoscere la forza creativa bruckneriana che ripagò: «di una strana indifferenza» (p. 23), nella consapevolezza che Brucker, assieme al “fratello separato” Brahms, in quanto musicista”assoluto”, era lontano dalla figura del musicista dell’avvenire e si sottraeva alle lusinghe della musica “a programma”, all’“opera totale”. Le “citazioni” wagneriane che taluno ha notato nelle partiture di Bruckner, non si riducono a sterile ripetizione, ma sono rielaborazione critica e originale. Il musicista austriaco supera Brahms come sinfonista, in quanto egli ha contezza di: «mantenere le misure monumentali stabilite da Beethoven con la Nona, senza ricorrere al coro» (p. 26). In particolare, egli riuscì nella Quinta Sinfonia a mettere in atto un’evidente compressione dell’energia cinetica della Fuga: «nell’ordine formale della Sinfonia» (p. 27). Si tratta della più geniale costruzione sinfonica dopo Beethoven.
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  • Fondamentalmente, l’intera produzione sinfonica bruckneriana, in un confronto serrato con Beethoven, è la sola che sia riuscita a esprimere: «la unnenbare Sehnsucht, l’indicibile nostalgia dell’originario eterno» (p. 39). A nostro parere è questo motivo che spiega, al di là del tratto umano del musicista, le continue revisioni cui egli sottopose le proprie opere. Le ritenne insufficienti a trascrivere degnamente l’eco, il riverberarsi, che Bruckner sapeva essere in atto nel cosmo, del “suono originario”. La vera musica, come l’autentico filosofare, ha tratto naturaliter iperbolico. Una monografia filosofica-musicologica di Bruckner è ancora di là da venire. Il libro di Buscaroli è un passo importante in questa direzione per quanti vogliano avvicinarsi a questo autore. Un unico appunto conclusivo: chi scrive non condivide la polemica anti-mahleriana che si evince tra le righe di Buscaroli. Bruckner, come sostiene il critico bolognese, rappresenta il punto apicale della Sinfonia, ma con Mahler ebbe inizio un iter musicale ulteriore, dipanatosi per tutto il Novecento. Ma questo è un altro discorso…  

   

  • cover A ROMUALDI

  • Sul problema d’una Tradizione europea
  • Torna un saggio di
  • Adriano Romualdi
  •  rec. di
  • Giovanni Sessa
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    È da poco nelle librerie una nuova edizione del saggio di Adriano Romualdi, Sul problema d’una Tradizione europea, comparsa nel catalogo de L’arco e la Corte editore. Il testo è arricchito dalla contestualizzante prefazione di Alberto Lombardo, dalla Premessa di Gaspare Cannizzo, che apriva l’edizione del volume pubblicata nel 1996, e dalla postfazione di Gianfranco de Turris (per ordini: info@arcoelacorte.it, pp. 94, euro 15,00).
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  • In realtà, questo scritto comparve per la prima volta, suddiviso in tre parti, sulla rivista «Vie della Tradizione», tra il luglio del 1971 e il marzo del 1972, quale rielaborazione di un precedente articolo romualdiano apparso sul mensile studentesco «Le corna del diavolo». Il periodico era espressione dei “giovani nazionali” che frequentavano, sul finire degli anni Cinquanta, il liceo romano “Giulio Cesare”. Romualdi ne fu caporedattore, sotto la direzione di Franco Pintore. L’autore scomparve tragicamente nella notte tra l’undici e il dodici agosto del 1973 a causa di un terribile incidente automobilistico, come ricorda, con toni commossi e partecipi, de Turris, che di Romualdi fu amico, nella postfazione “La civiltà che uccide”. Aveva solo trentatre anni. Nonostante la giovane età, le sue opere sono, a tutt’oggi,  punto di riferimento imprescindibile della cultura non-conforme. Tra gli studi di Adriano un ruolo rilevate riveste, Sul problema d’una Tradizione europea.
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  • Quando lo scritto uscì su «Vie della Tradizione» l’intento perseguito dal giovane studioso era di far uscire la testata  dalle secche del “vago tradizionalismo” che l’ aveva, fino ad allora, connotata, e fornirle una chiara impronta di matrice evoliana. Il saggio intende dare risposta al quesito: qual è il sostrato essenziale della Tradizione europea? Romualdi cerca la soluzione in un excursus che muove dalla preistoria indoeuropea, attraversa la classicità greco-romana, il cristianesimo medievale per giungere, infine, al razionalismo moderno e alla società contemporanea. Un volume snello che, nella sua sinteticità, tocca l’essenziale. Per quanto attiene alla prima parte, dedicata agli Indoeuropei, l’autore ritiene che la loro specifica Kultur, olimpica e solare, si impose sulla “Civiltà delle Madri”, tellurica e femminile, attraverso le ondate migratorie che tali popoli misero in atto a muovere dall’Urheimat, identificata dal Nostro nell’area nordeuropea prospiciente il Mar Baltico. Rileva, inoltre, che gli Indoeuropei, apparterrebbero alla fase mediana dell’Urvolk, furono “Popolo della Luce”, della legge, dell’ordine. L’autore legge il Neolitico e la cultura di Cro-Magnon, quali antefatti indoeuropei, individuando nella “tipicità nordica” il sigillo di ogni loro manifestazione storica.
  • ...
  • Il mondo ellenico, grazie all’impatto provocato da tali invasori, fu perfetta espressione di spiritualità solare, modello esemplare della civiltà europea: «al confronto, Roma ci presenta una spiritualità più secolarizzata, “una fisionomia più terrestre, una vocazione politica e organizzatrice”» (p. 12). La Grecia e Roma decaddero a causa della progressiva “denordicizzazione” cui andarono incontro. Al tramonto della civiltà classica, mentre montava l’alta marea cristiana, lo Stoicismo divenne l’estrema difesa cui fece ricorso la classe dirigente tradizionale, rimasta fedele all’antica visione del mondo: «pronta a testimoniare con la sua incrollabilità umana l’incrollabilità del kosmos divino» (p. 12). Anche l’eclissi del mondo antico fu, pertanto, circonfusa di Luce teofanica: «lasciava un modello di chiarezza, controllo e misura nel quale l’anima della razza bianca si sarebbe per sempre riconosciuta» (p. 13). Il medioevo ghibellino viene letto quale tentativo epistrofico, di ritorno alla visione del mondo originaria degli europei: in esso il cristianesimo fu: «come un velo che ricopre l’identità autentica » (p. 13) dei popoli del Vecchio continente. Anzi, la mistica del XIV secolo fu una via di liberazione dalla mera dogmatica monoteista. Dopo la Rinascenza, l’operosità sostituì l’estasi e, in Goethe, si assistette: «al suo disfarsi» (p. 14).
  • ...
  • Romualdi riconosce perfino nel razionalismo matematizzante il tratto apollineo dell’origine, in quanto vi è: «nella scienza e nella tecnica una aderenza allo stile interiore dell’uomo bianco che non si può disconoscere» (p. 14). Uno stile ormai divenuto “statico”, tradottosi in abitudine meccanica, decaduto. Per tale ragione, gli europei debbono, jüngerianamente, farsi carico della Tecnica. I fascismi, rileva l’autore, tentarono l’impresa rivoluzionario-conservatrice: coniugare l’arcaico e il moderno. Con Locchi, Romualdi individua il senso della Tradizione dell’uomo europeo: «la forma spirituale capace di contenere tre e più millenni di spiritualità europea sta nella riappropriazione dell’origine» (p. 16).
  • ...
  • Gli europei devono tornare, pertanto, a gemellarsi con le potenze divine che si mostrano nella physis. La natura è il volto dell’ordine divino. Probabilmente, a giudizio di chi scrive, per riavvicinarci alla physis ellenica, è necessario superare il dualismo iniziale da cui muove, con l’Evola tradizionalista, lo stesso Romualdi. Questi pone in posizione antitetica “Mondo dei Padri” e “Mondo della Madri”. In realtà, come ha rilevato Jean Haudry e la cosa è ricordata dallo stesso Lombardo, nella fase più antica della civiltà indoeuropea, il Cielo diurno aveva tratto femminile. L’arché, l’origine, è indivisa. In essa, maschile e femminile, Orfeo e Prometeo, sono in uno. Tale indivisa unità si ascolta e si mostra in ogni primavera, eterno ritorno klagesiano del simile, imperitura manifestazione meravigliante e terrifica della potestas di Dioniso.
  • ...
  • Per tali ragioni, Sul problema d’una Tradizione europea, è libro importante, da meditare.

   

  • Borghi

  • PRESENTE   E   DIVENIRE
  • Claudio Borghi tra filosofia e fisica
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • Usciamo dalla lettura di un libro davvero interessante che caldamente consigliamo a quanti siano interessati alle sorti del pensiero contemporaneo. Stiamo parlando del volume di Claudio Borghi, Presente e divenire edito da Neri Pozza (pp. 187, euro 14,00). L’autore è un ricercatore che ha già pubblicato articoli di fisica ed epistemologia, su riviste nazionali e internazionali, oltre a saggi di ambito filosofico. Il libro di cui parliamo fa seguito a L’ipotesi generativa (Milano, 2020), anzi può essere considerato lo sviluppo della tesi centrale che sosteneva il precedente testo: «l’origine non è da intendersi come una quantità statica […] ma come un’energia continuamente generata, che coincide con una generazione di tempo»(p. 7). Alla luce di tale premessa, egli è fermamente convinto, e le argomentazioni che adduce confermano tale ipotesi di partenza, che energia e tempo non siamo grandezze distinte: «laddove si concepisca il tempo come il generarsi dell’energia e il suo trasformarsi […] un diverso nome con cui intendiamo la generazione e la trasformazione» (p. 7). Tesi siffatta ha, quale conseguenza, il superamento dei dualismi che hanno connotato di sé la storia del pensiero, filosofico e scientifico, dell’Occidente.
  • ...
  • Teoreticamente, l’idea di natura energetico-entropica conduce, per molti aspetti, al recupero della visione tragica e meravigliante della physis, cui erano pervenuti i pensatori aurorali dell’Ellade: Parmenide ed Eraclito, le cui visioni sono state lette come antitetiche da una vulgata storiografica ancora vigente e riduttiva, ne furono, lo riconosce Borghi forse memore della lezione dell’allievo francese di Heidegger, Jean Beaufret, interpreti d’eccezione. Questo libro, si badi, ha un obiettivo dichiarato: «alimentare di nuova linfa il dialogo tra fisici e filosofi» (p. 8). Lo scopo ci pare raggiunto in forza della pertinenza argomentativa che l’autore mette in campo nelle due discipline. Ha come dialoganti d’eccezione in tema, il fisico Carlo Rovelli e il filosofo Massimo Cacciari. Con le posizioni dei due studiosi egli dialoga di continuo, in particolare nel capitolo che è la trascrizione di un dialogo immaginario, in tema d’origine, con loro.
  • ...
  • Per Borghi il problema del tempo deve essere riformulato. Allo scopo è prioritario lasciarsi alle spalle: «la pretesa di inglobarlo in una struttura logico-geometrica» (p. 14), come la fisica ha tentato di fare nel corso di tutto il Novecento. Solo il concetto di presente ripensato sulla scorta dell’ipotesi della generazione incessante di energia, da interpretarsi non solo con gli strumenti teorici della fisica relativista e quantistica, ma come: «energia ordinata generata nelle strutture originarie» (p. 14), potrà condurci a una nuova visione dell’inizio chiamata singolarità originaria. Essa conduce alla possibile confutazione dell’idea di genesi da cui il cosmo si sarebbe progressivamente evoluto e trasformato, espandendosi e dando luogo al tempo. Come per Cacciari che del problema si è occupato in molte sue opere, e sul quale è tornato anche in Metafisica concreta (2023), Borghi ritiene che l’inizio si dia in re, nella cosa: «immanente in essa come dato che si rinnova in forma di tempo» (p. 15). Questo è l’ambito teorico-esperienziale, in cui è auspicabile avvenga l’incontro tra fisici e filosofi: «Il tempo nasce come informazione energetica che si genera, rinnovando il presente in senso assoluto» (p. 15). Si tratta di un fatto empirico che rinvia in sé, nella sua datità, ad altro.
  • ...
  • La cosa, per la verità, era già stata compresa da Giorgio Colli nella sua Filosofia dell’espressione e, stando alla lezione di Cacciari, da Wittgenstein: «Il cuore del testo wittgensteiniano (il Tractatus) è il thauma che non si disperde nella rette delle relazioni che caratterizzano la cosa […] il singolo ente esprime l’in sé nel mentre che si manifesta» (p.57), nella perfetta coincidenza di esistenza ed essenza. La cosa è sempre in attività, all’opera e trascende ciò che la determina, è sempre oltre. Il passo della fisica oltre il silenzio, espletato in forma matematizzante, è sentito dal filosofo quale espressione dell’arroganza dell’intelletto. Di contro, il rinvio all’indicibile dei filosofi è sentito dai fisici quale testimonianza spiritualista. È in questo snodo che si inseriscono le riflessioni di Borghi: egli ritiene che lungo la strada indicata da Cacciari e da certa fisica teorica, si giungerà a una sintesi dei concetti di singolarità originaria e di singolarità della cosa. Allo scopo è necessario tenere in debita considerazione le tesi di Rovelli. Borghi apprezza il lavoro del fisico, il suo tentativo di portarsi oltre le esegesi idealiste e realiste, presentiste ed eterniste del tempo. Ritiene, inoltre, che Rovelli, nel suo tentativo di rinnovamento della fisica, si sia fermato a metà strada in quanto: «una rifondazione fisica del concetto di presente richiede la scoperta di un fenomeno generativo non riconducibile entri i postulati della relatività» (p. 38).
  • ...
  • Restando ancorati nella cornice teorica disegnata da Einstein si è indotti con Rovelli a sostenere l’inesistenza del divenire globale sincronizzato: «in quanto lo spaziotempo quadridimensionale è semplicemente una cartografia delle relazioni tra i molteplici divenire locali» (p. 48). In tale ottica, è escluso il problema dell’accensione del tempo. Se tale accensione è reale nella singola cosa a causa della singolarità originaria, ciò che manca alla tesi di Rovelli è il riferimento al pur eracliteo, al principio dell’energia generante-entropica accesa e vigente, assieme al tempo, in ogni ente. Tale principio, come sapevano gli antichi Sapienti, è solo nel mondo, nelle cose. L’incontro di fisica e filosofia dovrebbe riportare al centro del dibattito intellettuale la lettura di autori che tale identità perseguirono: Bruno, Spinoza e Fechner, tra gli altri. Per non dire di chi, nel secolo scorso, a tale visione si approssimò: Emo, Colli e l’Evola filosofo.
  • ...
  • Per tutte queste ragioni, Presente e divenire è un testo importante, sul quale riflettere non semplicemente nello spazio concesso ad una breve recensione.


  • Vince Ebert

  • Vince Ebert
  • Non è ancora la fine del mondo
  • (Liberilibri, Macerata 2024, pp. 191, € 18,00)
  • rec. di
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Quando un problema serio come la tutela dell’ambiente è affrontato da attivisti, politici, giornalisti, intellos in modo spesso improbabile e, non poche volte, involontariamente comico, il contrappasso è che a criticarlo sia un divulgatore scientifico come Ebert, ma anche styand-upcomedian.
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  • È la legge del contrappasso: a comici involontari replica un comico professionista. Come scrive Abbadessa nella prefazione, il saggio “si identifica nella tradizione che attraversa tutta la storia del pensiero occidentale, che vede nell’ “arma” dell’ironia la tecnica migliore per smontare quelle che a volte appaiono come verità consolidate. Ironia e preparazione scientifica per avere uno sguardo lucido e aperto sul mondo”.
  • ...
  • E in effetti usare l’ironia per argomenti seri ha generato alcune delle opere più acute e divertenti della cultura europea: dalle “Provinciali” di Pascal al “Tartufo” di Moliére, dalla “Sacra giraffa” di Madariaga all’“Ispettore generale” di Gogol.
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  • Gli è che gli argomenti, ironicamente demoliti o ridimensionati da Ebert, hanno in comune il connotato, prevalente, di trarre conclusioni apocalittiche da fenomeni di rilevanza assai più modesta, preoccupanti per il benessere di persone e comunità, ma del tutto inidonei a causare la fine del pianeta. Altre presentano evidenti errori, logici e non. Ad esempio la sostenibilità ambientale. Diversi ambientalisti ritengono che la crisi climatica sia dovuta al capitalismo. Ma Ebert ricorda che di solito “i Paesi economicamente più liberi hanno anche i punteggi più alti nell’indice di sostenibilità ambientale. I Paesi economicamente meno liberi sono quelli che hanno anche i valori peggiori di sostenibilità ambientale. Da un punto di vista ecologico, il capitalismo non sembra essere il problema ma la soluzione”.  E la Cina, sia quando era comunista che  post-comunista è il più grande bruciatore di carbone del pianeta.  Poi c’è la pressione di gruppo, cioè il ripetere corale (e coordinato) delle tesi ambientaliste.
  • ...
  • Ebert scrive che a tanto chiasso il più delle volte corrisponde un riscontro reale modesto: se “un extraterrestre atterra in Germania, legge un giornale qualsiasi, visita un sito di notizie, guarda una televendita o facendo zapping capita in un talk show politico... crederà che per i cittadini di questo Paese quasi niente è più importante del cambiamento climatico”. Ma non è così.   Stando ai dati reali “attualmente 1,6% dei tedeschi mangia vegano, il 5,7% degli alimenti acquistati è bio e la quota di auto elettriche è dell’1,2%”. La conclusione è che l’indifferenza è prevalente perché il Ragnarok ambientalista non è un pensiero che preoccupi le masse “il mainstream non è ciò che pensa la maggioranza, ma ciò che la maggioranza pensa che la maggiorana pensi”.
  • ...
  • D’altra parte se la Cina ha triplicato negli ultimi vent’anni le emissioni di Co2 e Sud-Africa e Nigeria investono in centrali a combustibili fossili, è chiaro che, anche se le richieste dei catastrofisti climatici fossero integralmente accolte a Parigi, Londra e Berlino, l’effetto sul riscaldamento globale sarebbe insignificante data la modesta percentuale europea di inquinamento.
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  • Nel complesso un saggio che in un dibattito carico di scomuniche e anatemi, porta l’aria fresca della ragionevolezza.

  • Piero Visani,
  • Storia della guerra nel XX secolo,
  • (OAKS editrice, 2020, pp. 313, € 20,00)
  • rec. di 
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Questo saggio è stato pubblicato tre anni orsono. Malgrado ciò, e anzi anche per quanto accaduto in tale periodo di tempo, è interessante recensirlo.
  • ...
  • Visani scrive una storia della guerra del XX secolo, che, pur nella concisa e gradevole scrittura, descrive sommariamente gli eventi bellici. La corposa bibliografia del saggio (quasi 100 pagine) e l’apparato esauriente delle note sono la misura dell’abbondanza delle fonti con implicito invito all’approfondimento dei fatti (e delle relative valutazioni). Quello che è il merito maggiore dell’opera è di aver distinto, anche nella storia contemporanea le regolarità della guerra (e della politica), dalle novità dei conflitti moderni.
  • ...
  • All’interno dei quali regolarità e novità ricorrono entrambe. Ad esempio che la guerra è essenzialmente uno scontro di volontà. Sia nella genesi: alla volontà di aggredire si contrappone quella di difendersi (senza la quale, cioè con la resa, la guerra non inizia). Sia nel condurla (la volontà di sopportare i sacrifici che comporta) sia nello scopo di imporre la propria volontà al nemico (Clausewitz e Giovanni Gentile); sia nella conclusione (la volontà di concludere e di dare un nuovo ordine).  Tutti gli altri fattori e rapporti sono importanti; ma subordinati a quello.
  • ...
  • Così’ il fattore potenza: tante guerre, in particolare nel XX secolo quelle partigiane, presentavano uno squilibrio enorme tra potenza dell’occupante, e potenza dei movimenti di liberazione, ma si sono concluse, il più delle volte, con la sconfitta di Golia e il successo di Davide. Né la disparità ha dissuaso il debole dall’iniziarla, né il forte dall’accettare la sconfitta.  O le regolarità dell’obiettivo politico, il cui conseguimento e la possibilità dello stesso è condizione del successo.  Il XX secolo ha rappresentato la novità della potenza distruttiva della tecnica, culminata nel bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki. Ma il carattere distruttivo (anche del pianeta) ha fatto sì che le guerre successive non abbiano mai ripetuto questa “ascesa agli estremi”. Per cui la guerra si è sviluppata nei rami bassi: ha guadagnato in estensione quello che perdeva d’intensità.
  • ...
  • Il che è particolarmente chiaro nel capitolo dedicato alla guerra ibrida.  Scrive Visani che “La guerra ibrida è forse la più importante forma bellica emersa in questi ultimi anni e può essere definita come una forma di strategia che mescola diverse forme di guerra, da quella politica a quella mediatica, da quella regolare a quella irregolare, dalla guerra informatica a quella economica, fino ad altri mezzi di influenzamento dell’avversario… La sua maggiore peculiarità è che essa ha luogo a tre livelli diversi: quello convenzionale, quello della popolazione locale e quello dell’opinione pubblica mondiale… Naturalmente non si tratta di una forma bellica del tutto nuova, ma nuova è l’estrema dilatazione dei livelli e degli scenari in cui essa può oggi avere luogo”. Il pregio della guerra ibrida, oltre che essere “sottosoglia” atomica, è di permettere di “sfruttare deliberatamente la creatività, l’ambiguità, la non linearità e le componenti cognitive della guerra”. La guerra russo-ucraina, in particolare nella narrazione prevalente sui media occidentali, ha evidenziato questi caratteri. Per cui il saggio di Visami è profetico.
  • ...
  • L’opera si apre con la frase di Eraclito che “La guerra è il padre di tutte le cose”. Nella conclusione l’autore chiede “se la guerra non sia diventata – per quanto in forme sempre più ibride e non lineari – l’essenza stessa delle nostre vite, sempre più atomizzate, parcellizzate, conflittuali, in cui al nemico – non importa se interno (inimicus) o esterno (hostis), secondo la nota distinzione schmittiana – non solo non sia più riconosciuta alcuna legittimità, ma neppure ci sia lontanamente l’intenzione di riconoscerla”. Cioè il contrario di quanto pensano le “anime belle”; col risultato, scrive Visani, se “avrà avuto ragione Eraclito, nel senso che la guerra non sarà più solo il padre di tutte le cose, ma sarà TUTTE le cose. O forse lo era già…?”.

 

  • DAnna

  • Simboli e Misteri dell’Etruria antica
  • Un nuovo saggio di
  • Nuccio D’Anna
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

 

  • logo brocca
  • Nuccio D’Anna, valente storico delle religioni, ha di recente dato alle stampe un nuovo significativo studio, Simboli e misteri dell’Etruria antica, comparso nel catalogo di Iduna Edizioni (per ordini: associazione.iduna@gmail.com, pp. 142, euro 16,00). Si tratta di un testo di rilievo nel quale, attraverso un vasto lavoro di comparazione storico-religiosa e archeologica, l’autore accompagna il lettore, con sagacia narrativa, nelle vive cose della religione e misteriosofia degli Etruschi. Si badi, il titolo trae, almeno parzialmente, in inganno. D’Anna non si occupa solo della civiltà etrusca:  giunge a individuare una comune linea di sviluppo nella religiosità misterica mediterranea (e non solo), che ebbe quale epicentro diffusivo l’Ellade. L’esegesi fondamentale del testo è centrata sui simboli e suoi rituali effigiati sulla famosa oinochoe (vaso di ceramica a corpo ovale con un’unica ansa) di Tragliatella, recuperato nel 1878 in una tomba a tumolo in una località nei pressi di Caere, l’odierna Cerveteri. Per quasi un secolo l’oinochoe fu custodito nella collezione del sen. Tittoni, la cui famiglia nel 1964 ne fece dono ai Musei Capitolini di Roma.
  • ...
  • Si tratta di: «un reperto emerso dalla vasta e variegata koiné religiosa affermatasi al centro della penisola durante il VII secolo a.C.» (p. 10).  Le variegate decorazioni del reperto, nota D’Anna, rendono plausibile un accostamento stilistico di questo reperto alla “ceramica orientalizzante” o “proto-attica”, diffusasi tanto in Grecia quanto nella Magna Grecia, dopo il tramonto dello stile “geometrico”, carico di simboli solari. L’intera superficie dell’oinochoe è decorata da ricchi fregi che definiscono una vera e propria “narrazione visiva”. In essa si distinguono, innanzitutto, i cosiddetti “denti di lupo” capovolti, da cui fluiscono verso il basso le fasce sacramentali.  Da questo particolare si evince che: «nel territorio di Caere si era ampiamente sviluppata una […] simbiosi di elementi dottrinali e stilistici di sicura origine etrusca con la variegata cultura latina, con le tradizioni elleniche fiorenti nelle vicinissime […] colonie greche e […] con molti aspetti delle forme religiose coltivate nelle tante città italiche» (p. 19). Il patriziato di Caere, in forza delle positive relazioni con la Magna Grecia, aveva stretto rapporti con l’élite apollinea di Delfi, al punto che, tra i “tesori” custoditi nella città ai piedi del Parnaso, vi era quello della cittadina etrusca.
  • ...
  • Ciò trova conferma nel fregio principale dell’oinochoe, in cui la scena madre è strutturata in due parti. A sinistra, sono visibili sette guerrieri all’uscita da un labirinto: l’artista si è soffermato sui dettagli del loro abbigliamento. Di particolare rilevanza risulta essere, per l’esegesi di D’Anna, lo scudo rotondo sul quale è effigiata la testa di un cinghiale. Il valore simbolico di quest’animale è, tanto in Oriente quanto in Occidente, associato: «alla più elevata dimensione sapienziale e all’esercizio dell’autorità sacerdotale» (p. 29). Nel caso della processione dei guerrieri etruschi rappresentata sul vaso rinvia, al contrario, alla casta guerriera e ai suoi riti di iniziazione. I sette giovani presentano le medesime fattezze somatiche a indicare la loro appartenenza a una fratria, a un sodalizio chiuso. La loro nudità rituale, inoltre, rimanda alla realtà spirituale connotante di sé l’efebia ellenica. Per questo, la presenza del cinghiale nell’oinochoe, pur richiamando la vittoria di Teseo sul Minotauro, della Luce sulle Tenebre, del cosmos sul caos, è qui indicativa della “guerra santa” che ogni guerriero vive in sé per diradare il disordine spirituale.
  • ...
  • Allo scopo, i giovani in armi durante le processioni sacramentali davano luogo a vere e proprie danze rituali. Con W. F. Otto, D’Anna è convinto che la danza consenta all’uomo: «di fondersi direttamente con il “fluire universale della vita”», per la qualcosa il danzatore sacro si identifica con il cosmo. I sette guerrieri sono guidati, in una sorta di “danza pyrrica”, da un “Maestro” (come accadeva nella “danza armata” dei popoli del Nord). La fila è chiusa da un personaggio ieratico che alza un bastone sacro dalla forma curvilinea, richiamante quella del serpente: «L’abituale e periodico rinnovamento […] dello strato epidermico del rettile […] veniva interpretato come il simbolo della rinascita ciclica e della trasfigurazione spirituale» (p. 38). La figura del “Maestro” rinvia a Teseo che, come ricordato da Callimaco, quando giunse a Delo da Creta, guidò i sette giovani e le sette giovinette sottratti alle fauci del Minotauro in una danza. All’Eroe si deve l’istituzione della “danza delle gru” nel momento in cui, proprio a Delo, l’isola”invisibile”, “Centro del mondo”, poté celebrare il fulgore di Apollo Licio.
  • ...
  • In tale circostanza, per simbolizzare il dono di Ariadne, vale a dire il filo di lana che permise all’Eroe di uscire indenne dal labirinto, fece danzare i quattordici giovani con in mano un  filo che li legava l’un l’altro. Le loro circonvoluzioni ritmiche figuravano i volteggi armonici dei delfini in acqua. Il delfino era considerato, per antonomasia, uno dei veicoli di manifestazione di Apollo. Sull’oinochoe è ritratto un labirinto dal quale escono due cavalieri in armi. Il primo ha postura statica mentre, sullo scudo del secondo, è ritratta una gru nell’atto di librarsi in volo. L’artista ha voluto indicare con tale modalità figurativa due diverse realtà spirituali: la prima appesantita materialmente e spiritualmente, la seconda protesa verso la dimensione anagogica. Il candore delle piume delle gru era interpretato quale segno del nitore della conoscenza spirituale, la proverbiale lunga vita del volatile era considerata simile alla “longevità” degli iniziati, la  periodica migrazione verso Nord delle gru alludeva al ritorno nella Terra Iperborea. Sull’ultimo cerchio del labirinto dell’oinochoe si trova una scritta che può esser letta come truia, lemma rinviante all’area linguistica indoeuropea. L’iscrizione allude alla “danza del mulinello”, in cui è palese il riferimento ai veicoli apollinei del delfino e della gru: «Si tratta di un simbolismo […]  che ha alimentato […] anche il rituale del Troiae lusus» (p. 63), il che indica una continuità simbolico-rituale sopravvissuta fino all’età imperiale romana. Del Troiae lusus D’Anna si occupa nell’Addendum che chiude il volume.
  • ...
  • Sostanzialmente anche a Roma in questo rituale si afferma la medesima visione del mondo simbolizzata nel racconto di Teseo e il Minotauro: il guerriero si trasfigura nell’Eroe civilizzatore; il caos indistinto diviene cosmos, spazio ordinato da leggi; le regole iniziatiche delle consorterie guerriere si trasfondono nell’Urbe: «una Città nella quale si dovrà instaurare la pax deorum» (p. 121). Non è casuale, pertanto, che l’ultima rappresentazione dell’oinochoe raffiguri una coppia di giovani che si accoppiano: si tratta di un hieros gamos, l’attualizzazione dell’: «unione prototipica del Cielo e della Terra» (p. 84), che garantiva la rigenerazione universale.
  • ...
  • Questi alcuni dei temi che emergono dalla lettura di, Simboli e misteri dell’Etruria antica, un unicum nella pubblicistica storico-religiosa.

   

  • Ragnolini

  • Hyle
  • Breve storia della materia increata
  • Un saggio di
  • Davide Ragnolini
  •  rec. di
  • Giovanni Sessa
  • Chi scrive da tempo sostiene che compito prioritario del filosofare sia il recupero dell’idea di physis, di natura in senso greco. Essa indica il luogo sorgivo, originario, a cui gli enti fanno ritorno dopo il loro iter esistenziale. Di fronte al thauma, indotto dalla physis, nasce il pensiero: è il risultato, al medesimo tempo, dalla meraviglia e dal senso tragico del vivere, esperito nella constatazione del limite cui ogni vita è appesa.  Nel Novecento, Karl Löwith, più di altri, ha colto il senso della physis quale unica trascendenza cui guardare. Usciamo pertanto compiaciuti dalla lettura di un testo, in questo senso significativo, di Davide Ragnolini, Hyle. Breve storia della materia increata, edito da Rubbettino (per ordini: 0968/66642012, pp. 131, euro 16,00).  Il saggio è costruito su un’ampia conoscenza delle fonti e sulla più accreditata bibliografia critica, che l’autore discute, con organicità esegetica e pertinenza argomentativa.  Si tratta della storia filosofico-teologica dell’oblio nel quale, nel corso del tempo, in Europa è stato relegato il concetto di hyle, materia.
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  • Intento del saggio è suggerire: «che la stessa storia filosofica e teologica occidentale può essere riletta a partire dal problema della giustificazione della materia […] Dalla Patristica e dalla Scolastica, infatti, la storia della filosofia ha creato strategie speculative per domare questo problema» (p. 8). Ragnolini, nelle proprie analisi, ha ben presenti gli interpreti eterodossi intenzionali dell’aristotelismo, che hanno rilevato il tratto centrale, niente affatto secondario, della hyle nel sistema dello Stagirita. Non c’è dubbio, infatti, che fu proprio il filosofo della Metafisica a introdurre nella storia del pensiero tale concetto in modo compiuto e definito. Non è casuale che nel suo Lexicon del 1967, Francis E. Peters definisca la hyle: «termine puramente aristotelico» (p. 11).   A tanto lo Stagirita era giunto riflettendo sia sulla filosofia presocratica, quanto su Esiodo e il mito. Károly Kerény ha attribuito al caos esiodeo tratto spaziale: solo in tal senso il caos: «avrebbe potuto fungere da primum inter primas» (p. 15), cosa peraltro intuita dal filosofo della Fisica. Per Aristotele: «ha il primo posto la sostanza che è semplice ed è in atto» (p. 16). L’origine, pertanto, non è una non-sostanza, ma una realtà da cui derivarono “altre sostanze”. La hyle è ontologicamente indipendente, non ha causa efficiente che la preceda.
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  • In tale contesto, Aristotele non guardò solo agli ionici Talete, Anassimandro e Anassimene, ma si volse anche agli italici, agli eleati. A ben guardare, lo stesso essere di Parmenide, pensato in forma sferica, presentava dei “confini”, possedeva, dunque, una realtà “corporea”, non meramente spirituale. Se fosse stato mera realtà spirituale, l’essere del grande eleate  sarebbe dovuto essere “in ogni luogo” e, come tutto ciò che fluisce, non avrebbe potuto essere immobile, in quiete. Al contrario, era indissociabile dalla hyle. Le stesse “radici” di Empedocle avevano tratto “eterno”, come il cosmo di Democrito elogiato da Aristotele, il quale, rispetto al pensatore di Abdera, compì un passo ulteriore respingendo: «l’esistenza del vuoto» (p. 19).  L’universale di cui parla Aristotele non ha tratto extra-corporeo, non è platonicamente contrapposto alle “realtà particolari”, bensì ne rappresenta il “corpo” stesso. In luogo del dualismo platonico, nel libro XII della Metafisica lo Stagirita presenta tre principi: forma, privazione e materia. Se ben si legge: «alla materia è riconducibile la categoria di sostanza» (p. 27), tanto che nei Topici la definizione di sostanza corporea ha tratto pleonastico.
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  • In tale prospettiva, l’ex-allievo di Platone diviene sostenitore della realtà della hyle. In un passo della Fisica il filosofo si congeda non soltanto dal primato ontologico delle idee, ma dalla stessa prospettiva idealista della corruttibilità e quindi della irrealtà della materia (I9,192a). Per Aristotele la materia fonda l’essere. Del resto, una certa ambiguità in tema era presente nello stesso Timeo di Platone. L’Ateniese ha qui sostenuto che cielo e terra sono rigidamente separati, ma è altresì  presente, a suo dire, una terza dimensione: «il ricettacolo di tutto ciò che si genera» o «la natura che riceve tutti i corpi» (50b). Non casualmente Calcidio, esimio esegeta del Timeo, sosterrà che Platone a volte definisce la materia “errore”, in altri casi “necessità” ineliminabile. La tacitazione della materia ha preso inizio, sotto il profilo storico, dalla platonizzazione cui l’aristotelismo è andato incontro. Ciò ha determinato la reductio della hyle  a mera privazione e la presentazione della forma quale causa efficiente del sostrato: «La prima è un’interpretazione neoplatonica, fatta propria dalla prospettiva cristiana» (p. 29), mentre la seconda si sostanzia ancora del contributo aristotelico in cui privazione e hyle: «non risultano tra loro sovrapposte» (p. 29).
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  • Per Aristotele tra movimento dei corpi e sostrato sussiste un rapporto non accidentale. Mentre creazionisti e neoplatonici sostennero il primato delle idee o del Dio creatore dal nulla, in Aristotele la materia: «esiste dapprima come materia prima, e poi come sinolo» (p. 30). La hyle ha una sua potenziale attualità. Insomma, lo Stagirita utilizza la concezione di “potenza” in funzione anti-eleatica. A questo punto, Ragnolini ricostruisce in modo organico i diversi momenti della tacitazione della hyle nel pensiero tardo-antico e medievale, ravvisando, tra gli altri, nel “panteismo” dell’eretico David di Dinant, con il quale polemizzò Tommaso d’Aquino, un ritorno a quella materia divina e animata propria dell’aristotelismo. Per questo, le autorità ecclesiastiche a più riprese e per lungo tempo misero al bando la dottrina “fisica” di Aristotele: in essa risuonava ancora l’eco del fr. 30 di Eraclito, che sancendo l’eternità del cosmo e l’esistenza della materia increata, metteva in discussione i presupposti della nuova fede. All’inizio del Settecento, secolo dei Lumi, Berkeley lancerà i propri strali contro tale concezione. Non stupisce, quindi, che Aristotele, in tarda età, fu allontanato da Atene con l’accusa di “ateismo”, la stessa che sarà rivolta a Bruno e a Spinoza, sostenitori, in modalità differente, del Deus sive Natura.
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  • Fin dal III secolo d.C., ricorda l’autore, l’apologetica cristiana si rapportò alla hyle in termini anti-eternalisti. Venne affermata la temporalità del sostrato, non auto-sufficiente e ordinato da Dio. Successivamente, esso fu degradato a nihil concependo l’idea di creazione sostanziata da una metafisica della forma, nei cui succedanei teoretici si muovono le false opposizioni filosofiche su piazza, quelle degli analitici e dei continentali.
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  • Solo un filosofare atto a recuperare l’idea non dualista di materia-animata, può rappresentare l’uscita di sicurezza dallo stato presente del pensare.

  • De Turris

  • Gianfranco de Turris
  • La dittatura occulta
  • (introduzione di Nazzareno Mollicone,
  • Idrovolante edizioni, Roma 2023, pp. 325, euro 18,00)
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • Gianfranco de Turris ha da poco compiuto ottant’anni. Nonostante il trascorrere del tempo sia, per tutti noi, ineluttabile, il nostro autore può essere soddisfatto: la sua è stata sicuramente una vita “spesa bene”. Spesa al servizio dell’idea, del pensiero tradizionale, di Evola, della letteratura fantastica. Quanto dico è testimoniato dal contributo, che egli ha fornito per oltre sessant’anni, alla cultura che sarebbe riduttivo definire, sic et simpliciter, d’area. Il suo percorso ideale è  perfettamente cartografato da un suo volume da poco nelle librerie per i tipi di Idrovolante Edizioni, La dittatura occulta, introdotto da Nazzareno Mollicone. Il libro ha avuto una prima edizione nel 1997. Raccoglie  articoli e veri e propri saggi usciti su riviste tra il 1968 e il 1974 (in particolare su L’Italiano, Il Conciliatore, Dialoghi e Vie della Tradizione). Enrico Nistri notò, nella prefazione alla precedente edizione, riproposta anche nella nuova, come queste due date segnino significativi momenti di cesura nella storia d’Italia. Nel 1968 si concretizzò, con la contestazione, l’assassinio del Padre, della Tradizione, e fu aperta definitivamente la strada alla “dismisura” che trionfa in ogni ambito della vita. Il 1974, con gli attentati, le tragiche azioni delle BR, la morte di Evola, segnò momentaneamente la fine della stagione della “rinascita” della “destra” nel nostro Paese, concretizzatasi nel successo elettorale del 1972.
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  • Pur datati cronologicamente, questi scritti, come nota Mollicone: «si dimostrano ancora validi e forse più attuali rispetto alle situazioni che viviamo». Il titolo La dittatura occulta è tratto da un articolo comparso su L’Italiano di Pino Romualdi nel maggio del 1971. L’intero libro può essere letto come la denuncia del definitivo affermarsi in Italia del soft power, che non ha più il tratto dello Stato di Polizia novecentesco, non è una forma di dittatura palese, ma costringe alla marginalità culturale e politica, attraverso la congiura del silenzio, idee ed uomini che a esso si oppongano. Il testo è articolato in tre parti: «La prima si riferisce alla cultura “alta”: profili di scrittori non-conformisti […] di autori che la destra ignorava […] (Lovecraft, Tolkien) […] Punti di riferimento […] per una destra non proprio incolta». La seconda sezione prende in considerazione il “mondo medio”, vale a dire la centralità dei mass media nella società contemporanea. La terza è dedicata alla cultura “bassa”, alla cultura popolare, alla fantascienza e al fumetto. Generi ai quali de Turris ha attribuito, tra i primi, rilevanza e dignità culturale. Si legga, a riguardo, lo scritto, L’escalation politica di Linus.
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  • L’incipit del volume fornisce una lettura controcorrente di Borges. Il grande scrittore argentino  è tale in forza della presenza, nelle sue pagine, del “fantastico”. Le letture esclusivamente letterarie dell’opera borgesiana, allora prevalenti, non consentivano la comprensione del suo mondo valoriale di riferimento: «I miti, i valori in cui crede Borges sono indubbiamente l’onore, il coraggio, le tradizioni della vita patriarcale e pastorale, l’esistenza di un tempo ciclico».  Segnaliamo, inoltre, lo scritto dedicato a Dino Buzzati, il quale in un’intervista rilasciata a Il Conciliatore si smarcò, con forza, dall’idea che la letteratura dovesse essere impegnata e spalleggiare un progetto politico: «Lo scopo di un artista è per prima cosa la poesia». La vita di Buzzati e quella degli uomini formati dal pensiero di Tradizione, ha il medesimo tratto psicologico del tenente Giovanni Drogo, protagonista del più noto romanzo buzzatiano. Questi: «monta la guardia perennemente davanti al deserto in attesa dei tartari».
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  • Non possono essere trascurati neppure i saggi dedicati a Julius Evola, la cui opera omnia de Turris cura da decenni con acribia e competenza critica, contro gli sterili esaltatori agiografici, gli “evolomani”, e i critici pregiudiziali del pensatore. Si tratta di una ricostruzione sintetica e puntuale della visione del mondo del filosofo dalla quale si evince, al medesimo tempo, un accorato appello  rivolto al mondo della “destra”, per un “ritorno a Evola”. Il tradizionalista romano può fornire, non soltanto i mezzi diagnostici per comprendere i limiti della società contemporanea, materialista e utilitarista, ma anche la terapia ideale e politica per uscire da essa: «...Navigare necesse est. Vivere non est necesse: in quest’espressione, sintetica e bellissima che viene attribuita a Pompeo il Grande, può riassumersi la vita di Julius Evola», e quella di de Turris, aggiungiamo noi.  Tale atteggiamento esistenziale dell’autore lo si ricava anche nel commosso ricordo scritto in occasione della morte di Adriano Romualdi.
  • ...
  • Nel saggio La dittatura occulta viene presentata l’azione con la quale le “sinistre” realizzarono nei mezzi di comunicazione di massa e nelle case editrici la loro egemonia culturale, attraverso pratiche lottizzatrici, in nome di un anacronistico “antifascismo di ritorno”, ancora oggi vigente. Nulla è cambiato: le cronache quotidiane registrano, a partire dall’insediamento del governo Meloni, il piagnisteo di personaggi “sinistri”, “defenestrati” dai ruoli di potere ricoperti solo per mandato politico. Il “riequilibrio” nelle istituzioni culturali è atto dovuto, non negazione della libertà altrui. Le attuali reazioni sono speculari a quelle che si ebbero a metà degli anni Settanta, discusse organicamente da de Turris. Non è, peraltro, casuale, che a farne le spese sia stata e sia ancora la cultura di “destra”. Evola in particolare. Riportiamo un’affermazione di Valerio Riva allora contenuta in un’intervista ad Alfredo Cattabiani pubblicata da L’Avanti!, del tutto gratuita e disinformata sulla cultura tradizionale: «A parte l’accostamento quanto meno sorprendente ad un autore come Guénon (fatta da Cattabiani) (discutibile ma non privo d’interesse e niente affatto monopolio dei fascisti) e un relitto della sottocultura razzista quale Evola…». Non vi pare che questo giudizio fazioso, che mostra come Riva non avesse letto nulla del tradizionalista romano, sia assai prossimo a quanto recentemente ha scritto Mirella Serri a proposito del filosofo?
  • ...
  • Tutto ciò conferma l’attualità di questo volume:  gli articoli sembrano scritti per descrivere i nostri giorni. De Turris con questi saggi tentò di stimolare la destra a considerare la cultura terreno privilegiato di battaglia politica. Il suo appello è stato in gran parte inascoltato, ma conserva la sua validità. Nel 2024 si celebra il cinquantenario della morte di Evola: c’è da augurarsi che chi governa la cultura ne tenga conto. Troppe volte le speranze in tal senso sono andate deluse…

  •                                                                                                            

 

  • Mazzella CRITICA DELLA FOLLIA PURA

  • Luigi Mazzella
  • Critica della follia pura 
  • (a cura di Ylva Mazzella, Genesi Editrice, pp. 421, € 18,00)
  • rec. di
  • Teodoro Klitsche de la Grange 

  • A cura della moglie Ylva sono raccolti nel volume tanti scritti di Luigi Mazzella che, quasi quotidianamente afferra l’occasione per esercitare una intensa e serrata critica agli idola contemporanei; usiamo il termine di bacone perché quello moderno, cioè fake news è stato affibbiato dai padroni della parola alle esternazioni dei loro oppositori.  Il filo conduttore dei quali è la critica a convinzioni e idee che sotto l’apparenza di una razionalità (ma anche di bontà, di compassione, di umanità, ecc. ecc.) compiono le più profonde rotture col pensiero razionale e ragionevole.
  • ...
  • Scrive l’autore «la “follia” di cui io intendo parlare è quella racchiusa nelle fandonie utopiche e nei sogni irrealizzabili in questo o in altri mondi, diffusa dai “fratelli” cristiani di Erasmo e, dall’Ottocento, dai “camerati” e dai “compagni” figli del post-platonico Hegel. Più che una follia è una caligine (mediorientale e teutonica) che annebbia la ragione e induce gli Occidentali a fare scelte sbagliate». E l’autore non pensa che attualmente le ideologie se la passino tanto male, ad onta del fatto che nel secolo scorso hanno esaurito, con due colossali sconfitte rapidamente il proprio “ciclo”. Questo perché i fideismi hanno soltanto cambiato le derivazioni (scriverebbe Pareto).
  • ...
  • Al posto della società senza classi (Marx) e del Reich millenario (Hitler) hanno innalzato idoli (e idola) nuovi: dall’ambiente (e il clima) ai diritti umani, a quelli degli animali. E questi nuovi idola vengono usati essenzialmente per indicare il nemico da combattere, caricandolo di negatività ed anche di crimini, spesso di cui non è neppure responsabile. E dietro i quali si intravede una delle regolarità del politico: quella, tucididea della lotta per il potere e il dominio dell’uomo sull’uomo.
  • ...
  • Oltretutto con ragionamenti spesso ingenuamente (ma occultamente) irrazionali, quelli che Freund  chiamava “razioidì”. Ad esempio il cambiamento climatico che tanto preoccupa (anche) l’UE, attribuito al consumo di combustibili fossili. Ma i dati dicono che il più inquinante dei quali, cioè il carbone, è utilizzato, per circa un terzo della produzione mondiale, dalla Cina, e per un altro 15% dall’India, mentre l’UE ne brucia neanche il 7%.  C’è da chiedersi perché Greta (e gretini al seguito) non vadano a manifestare da Xi o da Modi, invece che a Bruxelles. Forse se convincessero i leaders cinesi ed indiani il pianeta ne avrebbe un beneficio superiore.  La scarsa congruità allo scopo dichiarato della transizine climatica limitata all’Europa fa pensare che gli interessi sottostanti siano tutt’altri.
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  • A questo punto tre considerazioni, per non gravare il lettore di una recensione che seppur meritata dal libro, sarebbe troppo lunga.
  • ...
  • La prima: è vero che le religioni monoteistiche sono connotate da una intolleranza strutturale, perché se Dio è unico, vuol dire che gli dei degli altri non sono tali o meglio sono creature infernali, per cui il politeismo greco-romano, apprezzato da Mazzella, è per sua natura tollerante (vedi il Pantheon). Solo che anche per il politeisti – e per qualsiasi altra comunità umana, c’è un  nemico.  Quello che nega la tolleranza del politeismo.  Così ai tempi nostri, i nemici dei liberali, anche di quelli classici, erano coloro che negavano la libertà: cioè i vari totalitarismi. I regimi liberali, nazisti e comunisti erano largamente secolarizzati, onde la regolarità amico-nemico funziona in assenza di Dio.  Perché in ogni sintesi politica c’è sempre qualcosa di assoluto: nel caso più “laico”, quello dell’esistenza della comunità.
  • ...
  • La seconda è che le derivazioni (anche) dei totalitarismo erano costituite da mete superiori, mai raggiunte dall’umanità: che richiedevano uno sforzo prometeico. Le odierne paiono alla portata di qualsiasi frequentatore di internet e delle di esso limitate (e private) aspirazioni.  Quelle erano ideali di società in  ascesa, queste di decadenti.
  • ...
  • Non a caso (e siamo a tre) Mazzella ci ricorda le ciminiere europee che scompaiono e il capitalismo che qui è diventato essenzialmente finanziario.
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  • Le conseguenze, ci ha ricordato qualche anno fa un generale, uno dei più influenti teorici militari cinesi è che il potere militare (e quindi politico) è quello di coloro che producano più beni reali, cioè, già da oggi, della Cina. E chi ha più potere, finisce sempre col comandare a chi ne ha di meno.


  • LA LEGITTIMITÁ DI PUTIN
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • 1.0
  • L’esito – scontato – delle elezioni presidenziali in Russia, con un plebiscito a favore di Putin ha suscitato, in Occidente, una copiosa contestazione della legittimità delle stessa (e quindi dell’esito).
  • ...
  • A parte il fatto che, indubbiamente, le condizioni in cui si sono svolte e, ancor di più, la storia della Russia – così diversa da quella dell’Europa occidentale – fanno sì che pretendere lì le stesse garanzie normali da noi è come sparare sulla croce rossa.  Altro sono le elezioni in Stati che da secoli si sono evoluti in democrazie liberali altro quello di un popolo che, a parte qualche mese nel 1917 (!) fino al 1989 è passato da autocrazia al totalitarismo. Insomma il Cremlino e S.Basilio possono essere belli, ma sicuramente non profumavano di democrazia e libertà come Downing Street.
  • ...
  • Tuttavia l’occasione è provvida per tornare sul concetto di legittimità, di cui, specie da noi, si fa, a parte questa occasione un uso parsimonioso e, nemmeno a dirlo, parziale.  Legittimità è definita (trascriviamo il tutto dal Dizionario di politica di Bobbio-Matteucci-Pasquino) consistere “nella presenza in una parte rilevante della popolazione un grado di consenso tale da assicurare l’obbedienza senza che sia necessario, se non in casi marginali, il ricorso della forza” tuttavia “il processo di legittimazione non ha come punto di riferimento lo Stato nel suo complesso, ma i suoi diversi aspetti; la comunità politica, il regime, il governo... Pertanto la legittimazione dello Stato è il risultato di una serie di elementi disposti a livelli crescenti, ciascuno dei quali concorre in modo relativamente indipendente a determinarla”.   Riguardo al potere costituito si possono individuare “due tipi fondamentali di comportamento. Se determinati individui o gruppi percepiscono il fondamento e i fini del potere come compatibili o in armonia con il proprio sistema di credenze e operano per la conservazione degli aspetti di fondo della vita politica, il loro comportamento si potrà definire come legittimazione. Se, invece, lo Stato viene percepito nella sua struttura e nei suoi fini come contraddittorio con il proprio sistema di credenze e questo giudizio negativo si traduce in un’azione” allora non c’è legittimazione.
  • ...
  • Ora Weber individuava tre tipi di legittimità: tradizionale, razionale-legale, carismatica.
  • ...
  • In genere strumenti istituzionali di verifica della compatibilità dei governanti, con il common sense dei governati si trovano soltanto in un tipo di Stato: quello democratico, soprattutto attraverso le elezioni (a larga base elettorale). Il che non vuol dire che non votandosi in altri tipi di Stato questi non siano legittimi.  Pellicani scrive che “La legittimità è lo specifico attributo che hanno gli Stati che godono di un diffuso consenso da parte dei governati. Essa non va confusa con la legalità, Questa si riferisce al modus operandi del potere sovrano, mentre la legittimità riguarda la titolarità dello stesso. È legittimo il potere che l’opinione pubblica percepisce come l’istituzione che ha il diritto di governare” onde “naturalmente, il principio di legittimità varia da civiltà a civiltà, società e società e da epoca a epoca. Ma la sua funzione è sempre la stessa: quella di conferire a un soggetto (individuale o collettivo) il diritto di comandare e di dare all’obbedienza dei governati una base morale”.   Onde anche se non legittimati elettoralmente, come ad esempio i monarchi negli Stati dell’età moderna (come anche di quella feudale), erano legittimi perché i sudditi credevano che avessero il diritto di comandare. Fino al punto di prendere le armi per difenderne il trono come nell’insurrezione vandeana e nelle guerre partigiane (ossia di popolo) in Italia e in Spagna.   Nel caso di Putin quindi, e premettendo che le elezioni, tenuto conto della situazione interna, hanno comunque dato una legittimazione positiva a Putin, vediamo perché.
  • ...
  • Dicono i sondaggi che il Presidente russo goda di un’ampia popolarità, non lontana dalla percentuale di voti favorevoli riscossi. Non sappiamo se fidarcene: comunque bisogna registrarla e cercare in altre, possibili cause il consenso che Putin avrebbe.  In primo luogo se è vero che il concetto più condiviso di legittimità è quello della “coincidenza di valori” o meglio dell’idem sentire de re publica tra governati e governanti è noto che ce n’è anche un altro, dovuto ad Hobbes, cioè della concreta ed effettiva prestazione della protezione da parte dei governanti a fronte dell’obbedienza richiesta ai governati che esponiamo trascrivendola dal Dizionario di politica citato:  “Quando il potere è stabile ed è in grado di assolvere in modo progressista o conservatore alle proprie funzioni essenziali (difesa, sviluppo economico ecc.), esso fa valere contemporaneamente la giustificazione della propria esistenza, facendo appello a determinate esigenze latenti nelle masse, e con la potenza della propria positività si crea il consenso necessario”.  Orbene Putin ha conseguito indubbi risultati positivi nel suo più che ventennale governo della Russia. Emerge dai dati internazionali che il PIL individuale è cresciuto di circa 4 volte (tanto per fare un confronto in Italia la crescita è stata, nello stesso periodo, di pochi punti percentuali).   Quanto alla difesa non ha esitato a difendere lo Stato sia contro le forze secessioniste (v. conflitto ceceno) sia contro le intromissioni internazionali (Georgia ed Ucraina).  Se poi si condivide idea di un pensatore come Bonald secondo il quale la Costituzione è (in primo luogo) il modo di esistenza di un popolo, Putin, sia con le opere che con i discorsi, ha dimostrato di voler proteggere il mondo d’esistenza russo, e ancor più di non volerlo fotocopiare da quello americano-occidentale.  In sostanza la legittimità di Putin può essere contestata ma prendendo come elementi qualificanti l’accettazione  da parte dei governati e la conformità allo spirito e agli interessi nazionali.

  • 2.0
  • Diversamente gli osservatori occidentali delegittimano Putin sulla base di presupposti e valutazioni ideologiche e soprattutto non riferentesi alla legittimità come rapporto tra capo e seguito, lubrificante del potere e del presupposto del comando/obbedienza. Vediamo come.
  • ...
  • Sui soggetti. A giudicare se un potere sia legittimo o meno sono coloro che gli sono soggetti. Cioè i russi e non politici e giornalisti occidentali. Che un potere sia legittimo o meno è un giudizio su fatti: il consenso, la pace, l’ordine. Potrà pure essere un colossale errore condiviso, ma resta il fatto che se i sudditi sono convinti del diritto dei governanti a governare il potere è legittimo. Il fatto che non lo pensino gli stranieri non ha significato e conseguenze di rilievo.
  • ...
  • Sui parametri. Anche qui mentre i parametri con cui gli esterni giudicano il potere di Putin sono procedurali e valoriali (e soprattutto non sono – o solo in parte – quelli dei russi); quelli dei russi sono assai più ampi e soprattutto più concreti: a cominciare dall’incremento del benessere economico e della salvaguardia delle specificità nazionali. I diritti LGBTQIA+ e l’attuazione del green deal non sembra che siano in cima alle aspirazioni ed ai giudizi dei russi. Probabilmente una maggiore libertà lo sarebbe: ma tenuto conto che ne hanno sempre avuta poco, quel di più che i governi post-comunisti hanno loro assicurato non appare disprezzabile.
  • ...
  • Infine è curioso che a giudicare della legittimità di un governo siano coloro che, con quello, sono in uno stato di ostilità manifesta. A parte il resto, è chiaro che contestare, fino a demolire la legittimità del nemico è una risorsa importante – e spesso decisiva – della guerrapsicologica. Perché indebolisce il nemico; e quindi è poco credibile sia come giudizio sine ira et studio che come strumento di pace.

  • 3.0
  • C’è una terza considerazione da fare: politici e giornalisti omettono di considerare che se Putin deve fare ancora molta strada per essere considerato un ineccepibile liberaldemocratico, anche ad ovest della Vistola ci sono stati e governanti che dovrebbero “rifare gli esami”; e non ci riferiamo al solito Orban. Ma soprattutto all’Italia. Specialmente alla c.d. “seconda repubblica”. Se è vero che Putin è poco liberale, è altrettanto vero che in Italia abbiamo avuto: a) governanti mai eletti dal popolo, non solo in elezioni per la carica di governo ma in nessuna elezione, neppure nell’assemblea di condominio (Monti e Draghi). Per cui è impossibile verificare elettoralmente il consenso che avevano (per Draghi) e verificarne solo a posteriori (per Monti) accertando che godeva di percentuali da prefisso telefonico (v. elezioni europee del 2014 il risultato delle liste “montiane”); b) che tutti i Presidenti del Consiglio dal 2011 sono stati nominati malgrado non designati elettoralmente ma altrove. La prima a infrangere questa costante è proprio la Meloni, che ha rammendato (per noi) lo strappo tra democrazia parlata e oligarchia praticata; c) per essi come per il Presidente della Repubblica a decidere è il Parlamento. Pertanto se Putin ha riportato un consenso plebiscitario, anche se contraffatto, in genere i governanti italiani né sono stati nominati dal popolo, né al popolo piacevano un granché. E questo senza voler approfondire circostanze che, forse, hanno alterato i risultati elettorali in maniera decisiva (v. politiche 2006 con la maggioranza risicata dei voti al centrodestra in una Camera e nell’altra al centrosinistra) e che è superfluo ricordare. In particolare quelli che conseguono al controllo dei principali strumenti di informazione. Per cui se Putin lascia, come liberaldemocratico, a desiderare, certi governanti nostrani non sono certo un esempio di virtù. Anche nel senso di Machiavelli.


  • DAnna

  • Simboli e Misteri dell’Etruria antica
  • Un nuovo saggio di
  • Nuccio D’Anna
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
     logo brocca
  •  

  • Nuccio D’Anna, valente storico delle religioni, ha di recente dato alle stampe un nuovo significativo studio, Simboli e misteri dell’Etruria antica, comparso nel catalogo di Iduna Edizioni (per ordini: associazione.iduna@gmail.com, pp. 142, euro 16,00). Si tratta di un testo di rilievo nel quale, attraverso un vasto lavoro di comparazione storico-religiosa e archeologica, l’autore accompagna il lettore, con sagacia narrativa, nelle vive cose della religione e misteriosofia degli Etruschi. Si badi, il titolo trae, almeno parzialmente, in inganno. D’Anna non si occupa solo della civiltà etrusca:  giunge a individuare una comune linea di sviluppo nella religiosità misterica mediterranea (e non solo), che ebbe quale epicentro diffusivo l’Ellade. L’esegesi fondamentale del testo è centrata sui simboli e suoi rituali effigiati sulla famosa oinochoe (vaso di ceramica a corpo ovale con un’unica ansa) di Tragliatella, recuperato nel 1878 in una tomba a tumolo in una località nei pressi di Caere, l’odierna Cerveteri. Per quasi un secolo l’oinochoe fu custodito nella collezione del sen. Tittoni, la cui famiglia nel 1964 ne fece dono ai Musei Capitolini di Roma.
  • ...
  • Si tratta di: «un reperto emerso dalla vasta e variegata koiné religiosa affermatasi al centro della penisola durante il VII secolo a.C.» (p. 10).  Le variegate decorazioni del reperto, nota D’Anna, rendono plausibile un accostamento stilistico di questo reperto alla “ceramica orientalizzante” o “proto-attica”, diffusasi tanto in Grecia quanto nella Magna Grecia, dopo il tramonto dello stile “geometrico”, carico di simboli solari. L’intera superficie dell’oinochoe è decorata da ricchi fregi che definiscono una vera e propria “narrazione visiva”. In essa si distinguono, innanzitutto, i cosiddetti “denti di lupo” capovolti, da cui fluiscono verso il basso le fasce sacramentali.  Da questo particolare si evince che: «nel territorio di Caere si era ampiamente sviluppata una […] simbiosi di elementi dottrinali e stilistici di sicura origine etrusca con la variegata cultura latina, con le tradizioni elleniche fiorenti nelle vicinissime […] colonie greche e […] con molti aspetti delle forme religiose coltivate nelle tante città italiche» (p. 19). Il patriziato di Caere, in forza delle positive relazioni con la Magna Grecia, aveva stretto rapporti con l’élite apollinea di Delfi, al punto che, tra i “tesori” custoditi nella città ai piedi del Parnaso, vi era quello della cittadina etrusca.
  • ...
  • Ciò trova conferma nel fregio principale dell’oinochoe, in cui la scena madre è strutturata in due parti. A sinistra, sono visibili sette guerrieri all’uscita da un labirinto: l’artista si è soffermato sui dettagli del loro abbigliamento. Di particolare rilevanza risulta essere, per l’esegesi di D’Anna, lo scudo rotondo sul quale è effigiata la testa di un cinghiale. Il valore simbolico di quest’animale è, tanto in Oriente quanto in Occidente, associato: «alla più elevata dimensione sapienziale e all’esercizio dell’autorità sacerdotale» (p. 29). Nel caso della processione dei guerrieri etruschi rappresentata sul vaso rinvia, al contrario, alla casta guerriera e ai suoi riti di iniziazione. I sette giovani presentano le medesime fattezze somatiche a indicare la loro appartenenza a una fratria, a un sodalizio chiuso. La loro nudità rituale, inoltre, rimanda alla realtà spirituale connotante di sé l’efebia ellenica. Per questo, la presenza del cinghiale nell’oinochoe, pur richiamando la vittoria di Teseo sul Minotauro, della Luce sulle Tenebre, del cosmos sul caos, è qui indicativa della “guerra santa” che ogni guerriero vive in sé per diradare il disordine spirituale.
  • ...
  • Allo scopo, i giovani in armi durante le processioni sacramentali davano luogo a vere e proprie danze rituali. Con W. F. Otto, D’Anna è convinto che la danza consenta all’uomo: «di fondersi direttamente con il “fluire universale della vita”», per la qualcosa il danzatore sacro si identifica con il cosmo. I sette guerrieri sono guidati, in una sorta di “danza pyrrica”, da un “Maestro” (come accadeva nella “danza armata” dei popoli del Nord). La fila è chiusa da un personaggio ieratico che alza un bastone sacro dalla forma curvilinea, richiamante quella del serpente: «L’abituale e periodico rinnovamento […] dello strato epidermico del rettile […] veniva interpretato come il simbolo della rinascita ciclica e della trasfigurazione spirituale» (p. 38). La figura del “Maestro” rinvia a Teseo che, come ricordato da Callimaco, quando giunse a Delo da Creta, guidò i sette giovani e le sette giovinette sottratti alle fauci del Minotauro in una danza. All’Eroe si deve l’istituzione della “danza delle gru” nel momento in cui, proprio a Delo, l’isola”invisibile”, “Centro del mondo”, poté celebrare il fulgore di Apollo Licio.
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  • In tale circostanza, per simbolizzare il dono di Ariadne, vale a dire il filo di lana che permise all’Eroe di uscire indenne dal labirinto, fece danzare i quattordici giovani con in mano un  filo che li legava l’un l’altro. Le loro circonvoluzioni ritmiche figuravano i volteggi armonici dei delfini in acqua. Il delfino era considerato, per antonomasia, uno dei veicoli di manifestazione di Apollo. Sull’oinochoe è ritratto un labirinto dal quale escono due cavalieri in armi. Il primo ha postura statica mentre, sullo scudo del secondo, è ritratta una gru nell’atto di librarsi in volo. L’artista ha voluto indicare con tale modalità figurativa due diverse realtà spirituali: la prima appesantita materialmente e spiritualmente, la seconda protesa verso la dimensione anagogica. Il candore delle piume delle gru era interpretato quale segno del nitore della conoscenza spirituale, la proverbiale lunga vita del volatile era considerata simile alla “longevità” degli iniziati, la  periodica migrazione verso Nord delle gru alludeva al ritorno nella Terra Iperborea. Sull’ultimo cerchio del labirinto dell’oinochoe si trova una scritta che può esser letta come truia, lemma rinviante all’area linguistica indoeuropea. L’iscrizione allude alla “danza del mulinello”, in cui è palese il riferimento ai veicoli apollinei del delfino e della gru: «Si tratta di un simbolismo […]  che ha alimentato […] anche il rituale del Troiae lusus» (p. 63), il che indica una continuità simbolico-rituale sopravvissuta fino all’età imperiale romana. Del Troiae lusus D’Anna si occupa nell’Addendum che chiude il volume.
  • ...
  • Sostanzialmente anche a Roma in questo rituale si afferma la medesima visione del mondo simbolizzata nel racconto di Teseo e il Minotauro: il guerriero si trasfigura nell’Eroe civilizzatore; il caos indistinto diviene cosmos, spazio ordinato da leggi; le regole iniziatiche delle consorterie guerriere si trasfondono nell’Urbe: «una Città nella quale si dovrà instaurare la pax deorum» (p. 121). Non è casuale, pertanto, che l’ultima rappresentazione dell’oinochoe raffiguri una coppia di giovani che si accoppiano: si tratta di un hieros gamos, l’attualizzazione dell’: «unione prototipica del Cielo e della Terra» (p. 84), che garantiva la rigenerazione universale.
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  • Questi alcuni dei temi che emergono dalla lettura di, Simboli e misteri dell’Etruria antica, un unicum nella pubblicistica storico-religiosa.

   

  • Haupt

  • Processo alla democrazia
  • Un saggio di Jean Haupt
  • rec. di Giovanni Sessa
  • Torna in libreria per Oaks editrice un volume pubblicato già due volte nella nostra lingua. Una prima volta nel 1950, a ridosso della vittoria elettorale democristiana del 1948, successo che determinò la definitiva adesione italiana al fronte atlantico, e una seconda volta nel 1971, dopo la contestazione studentesca in un frangente storico convulso, in cui furono ipotizzati possibili colpi di Stato, furono messe in atto stragi, mentre andava organizzandosi la lotta armata “per il comunismo”. Si tratta di, Processo alla democrazia di Jean Haupt (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 178, euro 18,00). Il volume è accompagnato dalla prefazione di Francesco Ingravalle.   Si tratta di pagine non solo attualissime, ma dirimenti rispetto al tratto “autoritario” assunto, negli ultimi decenni, dalle democrazie liberali.  Infatti, Haupt, nell’elaborare la sua critica al sistema liberal-democratico, in realtà non fa che descrivere il sistema liberticida della governance contemporanea.
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  • L’autore nacque nell’Algeria francese nel 1914. Laureatosi in lettere a Aix-en-Provence, divenne docente presso l’Istituto francese di Lisbona. Tornato in patria, aderì a Vichy. Dopo la guerra si trasferì definitivamente in Portogallo, dove fondò la rivista in lingua francese «Découvertes», sui cui «Cahiers» uscì la seconda edizione del libro che qui presentiamo (la prima, sempre in portoghese, comparve nel 1949): «Il volume costituisce, sostanzialmente, un’apologia dell’Estado Novo, creato in Portogallo da Salazar» (p. III) e dell’esperienza petainista. Generalmente i regimi di Salazar e del Maresciallo Pétain sono derubricati dalla vulgata storiografica al calderone del fascismo europeo. Ciò non corrisponde, in senso storico e filologico, a verità: mentre il fascismo tese alla mobilitazione (sia pure in chiave di modernizzazione conservatrice) delle masse, i due personaggi ricordati centrarono la loro proposta politica sulla “demobilitazione delle masse”. Erano convinti, lo ricorda Ingravalle: «che il nazionalismo», elemento essenziale nei fascismi, fosse «una costruzione ideologica fondamentalmente democratica» (p. IV). Guardarono a modelli conservatori, sia pure connotati in senso identitario, rifiutando la legittimazione “dal basso” del potere.
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  • Salazar, divenuto presidente del Consiglio nel 1932, in forza anche delle proprie competenze in ambito economico, impose al paese lusitano il sistema corporativo. Si ispirò, in particolare, all’enciclica di Pio XI, Quadrigesimo anno. Introdusse una Costituzione che amplificava i poteri della Presidenza, sospese la libertà di stampa e abolì i sindacati. Vicino a Franco, all’esplosione della guerra civile spagnola rimase neutrale. Anche il nuovo ordinamento dello “Stato Francese” di Pétain ebbe impianto corporativo e il Parlamento venne esautorato e non più convocato. In sostanza, a dire dell’autore, il sistema corporativo era atto a mettere in scacco l’individualismo liberista: fu una variante di un generale “New Deal”, realizzato allora con modalità e intenti diversi, in tutto il mondo occidentale e che darà luogo al Welfare state.  Nacquero, così, sistemi economici: «che hanno scoperto (scoprirono) la straordinaria potenza coesiva dell’economia sociale» (p. XI).
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  • I fascismi, ricorda lo studioso francese, risanarono i sistemi liberal-democratici dalla loro inevitabile decadenza. Com’era possibile, pertanto, spiegare il consenso che la democrazia riscosse nel secondo dopoguerra? Haupt risponde: «l’uomo ascolta con piacere chi cerca di convincerlo che egli vale più di quanto non valga in realtà e che gli promette più di quanto egli possa mai ottenere» (pp. XXIV-XXV). La democrazia, inoltre, si basa su astrazioni: presuppone la bontà dell’uomo e persegue il progresso materiale, senza tener conto che a esso non corrisponde un progresso morale. Non esiste la libertà in assoluto, la libertà ideale, ma solo molteplici libertà a volte contraddittorie tra loro. Per questo, l’uomo politico deve realisticamente attenersi al “meno peggio”: pensare la maggioranza come “infallibile”, idolatrarla, porta alla morte dei sistemi politici. I “partiti”, con la loro elefantiaca burocrazia, presto danno luogo a un loro sistema di potere, noto come “partitocrazia”. Riproducono al loro interno la medesima parzialità presente nei Parlamenti: si frazionano in correnti, il cui equilibrio, proprio come quello del potere liberal-democratico, è sempre precario: «Ogni maggioranza è instabile, essendo costituita da coalizioni assai “volatili” di partiti» (p. XXVII). Il potere democratico ha tratto epidemico: si insedia sul popolo in quanto dittatura collettiva, anonima.
  • ...
  • Di fronte all’incompetenza del personale politico democratico, Haupt si fa latore di una svolta tecnocratica e oligarchica delle liberal-democrazie, o almeno in tal senso interpreta alcune, lo si è visto, delle esperienze maturate nell’alveo del fascismo, cui guarda con interesse. Pertanto, Processo alla democrazia, nella realtà del XXI secolo: «rischia di tracciare un quadro realistico delle democrazie parlamentari, non soltanto occidentali» (p. XXXI). Va ricordato che le precedenti due edizioni italiane furono utilizzate quali strumenti critici nei confronti della democrazia parlamentare, intesa quale “anticamera del comunismo”.  Negli anni Cinquanta e Settanta, la proposta dell’autore fu accostata, lo ricorda il prefatore, a quella di molti pensatori che si confrontavano con il problema rappresentato delle istituzioni democratiche, Rougier, Plevris, Spirito: «la prospettiva di Haupt è […] più prossima a quella di Rougier nel metodo, ma analoga al nazionalismo radicale di Plevris nel merito» (p. XVI), in quanto entrambi contrari alla moderna mobilitazione delle masse. Sotto il profilo politico fu proprio il comun denominatore anticomunista a unificare tali differenti prospettive esegetiche maturate a “destra”.
  • ...
  • Nel mondo della globalizzazione, in cui fascismo e comunismo hanno un’esistenza ectoplasmatica evocata nelle sedute spiritiche tenute dai padroni del vapore, forse bisognerà guardare a diversi denominatori intellettuali e politici per uscire dall’impasse della democrazia tecnocratica.

  • IL PAPA E LA BANDIERA BIANCA 
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Dopo il discorso del Papa sulla “bandiera bianca” (ossia sull’esigenza di negoziati) c’è stata una copiosa produzione di articoli, asserenti in sostanza che, essendo Putin un aggressore era doveroso, lecito e necessario che fosse sconfitto e punito.
  • ...
  • Cui è facile rispondere che siccome lo zar non è convinto di ciò, tutto questo argomentare si scontra con l’unica condizione indispensabile alla cessazione della guerra, la volontà di ambo le parti di fare la pace, e così anche di Putin. Ma se dalle critiche da salotto si va a valutare l’esortazione del Papa alla luce della teologia cristiana – che tanta parte ha avuto nel diritto internazionale – si nota che i presupposti di quanto sostenuto dal pontefice vi sono tutti.
  • ...
  • Andiamo a leggere Francisco Suarez oltre che teologo anche gesuita. Scrive che la “guerra di difesa non solo è sempre lecita ma talvolta anche prescritta” e peraltro anche quella d’aggressione non è il male in sé “ma può essere lecita e necessaria” se ne ricorrono le condizioni individuate dai teologi: che la guerra sia dichiarata dal potere legittimo, che vi sia una justa causa e un corretto modo di condurla.
  • ...
  • Anche De Vitoria riteneva legittima in ogni caso la guerra difensiva, anche da parte di privati (aggrediti). Ogni comunità politica (cioè una e totale) può comunque dichiarare e condurre la guerra. Anche la guerra d’aggressione può essere giusta ove rivolta a tutelare un (proprio) diritto offeso.
  • ...
  • Ma se anche la guerra di aggressione può essere giusta e quella difensiva lo è sempre, al riguardo i teologi-giuristi scolastici si ponevano il problema conseguente che, in tal caso, poteva succedere che i belligeranti vantassero entrambi di combattere per una justa causa.
  • ...
  • Deriva da ciò che se si desidera che la guerra cessi non è realistico condizionare il risultato al ripristino del diritto leso dal “crimine d’aggressione”, come è stato declinato in tutte le forme dalle anime belle (???), ma raggiungere un accordo che possa tener conto delle  posizioni (e situazioni) delle parti belligeranti, anche se non coincidenti – anzi quasi mai lo sono - con l’ordine precedente. Quasi tutte le guerre si concludono con trattati: le poche non concluse così sono le peggiori. Perché o chiuse con un diktat non negoziato ma imposto dal vincitore ovvero quando il nemico è politicamente distrutto (v. la Germania nel 1945, il Regno delle due Sicilie nel 1861 ecc. ecc.) onde non c’è un nemico con cui trattare, che rappresenti la comunità vinta.   Perché quello che si dimentica e che invece la Chiesa non ha obliato è che il nemico non è soltanto colui che ci fa (o cui facciamo) guerra, ma anche il soggetto con cui si può – e normalmente si conclude – la pace. Non è solo il perturbatore dell’ordine – come nella narrazione degli Sceriffi globali – ma quello con cui si costruisce un ordine nuovo.

  • COMMENTO A LEOPARDI

  • Commento a Leopardi
  • L’esegesi leopardiana di
  • Carlo Diano
  • rec.  di
  • Giovanni Sessa
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  • Carlo Alberto Diano (1902-1974) è stato filologo, filosofo, grecista, traduttore e poeta. La sua opera è ascrivibile a una corrente carsica, ma rilevantissima, del “pensiero italiano”: quella che, con estrema serietà, ha guardato, a muovere proprio da Leopardi, al tratto tragico della vita.  È nelle librerie per Mimesis il suo, Commento a Leopardi, a cura di Francesca Diano e Gaspare Polizzi (per ordini: 02/21100089, mimesis@mimesisedizioni.it, pp. 192, euro 18,00). Si tratta della tesi di laurea alla quale Diano cominciò a lavorare, ventunenne, nel 1923 sotto la guida dell’italianista Vittorio Rossi.  Il volume è impreziosito da un testo della figlia Francesca, Dell’infinito bene. Dialogo fra Leopardi ed Epicuro, nonché dai saggi introduttivi dei curatori.
  • ...
  • Non sia tratto in inganno il lettore: pur trattandosi di un’opera giovanile, le sue pagine risultano fondamentali per avere acconcio accesso alla visione del mondo del pensatore. Quest’edizione va segnalata in quanto i curatori hanno tenuto conto di appunti e scritti conservati nell’Archivio Diano.   In realtà, lo studioso avrebbe voluto laurearsi su Eschilo, sul quale aveva lavorato seguito da un illustre docente, Nicola Festa, ma le condizioni economiche della famiglia lo indussero a spendersi su Leopardi, sia per un reale interesse nei confronti del poeta-filosofo, sia perché tale argomento avrebbe ridotto i tempi di composizione della tesi, consentendogli in un lasso di tempo limitato, di inserirsi nei ruoli dell’insegnamento liceale. Il Recanatese rimarrà comunque, per tutta la vita, uno degli “autori” dello studioso di Monteleone. Diano rimase orfano di padre durante l’infanzia e poté, pertanto, prestissimo esperire il senso ultimo e tragico dell’esistere. Il carattere prevalente ed esegeticamente rilevante del Commento, va individuato, come messo con chiarezza in luce dalla figlia, nell’essere la “storia di un’anima” narrata da un’anima affine: «Il suo metodo fu quello di analizzare e ricostruire la personalità di Leopardi […] quel che di fatto ne risultò fu un’analisi di Leopardi che in termini junghiani potremmo definire “del profondo”» (p. 35). Figlio della Magna Grecia, Diano ereditò dell’Ellade la dimensione più arcaica, che gli consentì di evincere nella poesia leopardiana: «quella “segreta luce” del cuore, che […] è la luce del Sacro, quella luce che vede vibrare a circondare la forma» (p. 38).
  • ...
  • Polizzi rileva che le tesi del volume raccolgono i risultati cui la critica leopardiana era pervenuta in quel frangente storico (i primi decenni del Novecento), e quindi sono cariche di riferimenti a Croce e soprattutto al maestro di Diano, Gentile, ma si badi: il giovane studioso le lesse e fece proprie in modalità critica. Diano non risparmiò critiche neppure a uno studioso di vaglia, quale Porena. La perla dell’Infinito è avvicinata dal Nostro ai versi di Correspandances di Baudelaire, in cui venne delineata: «la funzione “mistica” della poesia» (p. 13). Le sue analogie nascoste in linguaggio allusivo sono: «più vicine alla musica che alla poesia» (p. 13). In tale contrapposizione poesia-musica va individuato il contrasto tra: «tra vita e forma […] la visione del rapporto tra dionisiaco e apollineo in Nietzsche» (p. 14). Questo è il tema centrale nell’intera produzione di Diano: la forma, l’atto aristotelico, ciò “che avvolge”, cela l’evento, la dynamis, la possibilità-potenza originaria della physis. Un rapporto che, come colto da Cacciari: «I mortali […] potranno imparare soffrendo solo a portarne il duplice gioco» (p. 15). Per questo, ricorda Diano, la creazione poetica di Leopardi, lo si evince in particolare nella canzone Ad Angelo Mai, è sospesa nella lotta tra fede e disinganno: «La forma eventica è un vissuto in cui immagine allusiva e struttura razionale dell’immagine convivono in unità primitiva», come ha scritto Rigobello (p. 16).   Sarà la riflessione logocentrica a distinguere i due piani.
  • ...
  • Tale distinzione condurrà Leopardi ne L’ultimo canto di Saffo, testimonianza del dramma esistenziale dell’autore, a smarrire l’autentica vocazione poetica mentre, come esemplificato nel Dialogo con Torquato Tasso, Giacomo come il Tasso: «non potendo vivere, sogna» (p. 16). La potenza poetica si ripresenterà in A Silvia, in cui: «dopo tante pene […] egli riconquista la serenità pura d’una nobile e cosciente rassegnazione» (p. 17).  Nelle Operette morali, ci dice Diano, Leopardi trascrisse i quattro stati d’animo da lui attraversati: 1) la contemplazione cupa che perviene a una disperazione calma che, a volte, assume volto cinico; 2) un sorriso ironico che si fa sarcasmo; 3) un entusiasmo dolente; 4) uno sfogo che si ripiega su sé stesso. In essi, Francesca Diano coglie l’analogia con gli stadi del processo di individuazione in Jung, Confessione, Chiarificazione, Educazione e Trasformazione, corrispondenti alle fasi del processo alchemico: «Forse Leopardi non giunge alla piena individuazione,, non compie l’“Opera al rosso”» (pp. 47-48), ma si pose lungo il cammino. Leopardi, eroe tragico, rileva Diano, non poteva vincere la delusione della vita se non: «gustandola in tutta la sua amarezza» (p. 49).
  • ...
  • A differenza di quanto sostenuto da filosofi contemporanei (tra gli altri, Severino, Giovane, Donà, Capitano), per Diano la produzione leopardiana, almeno apparentemente, non sembra avere valenza filosofica. In realtà, leggendo tra le righe del Commento, il sentire pensante del grande recanatese, recupera la dimensione “mistica” che, stante la lezione di Colli, connotò la visione del reale propria dei Sapienti.   Nei suoi versi, lo ricorda la figlia, respira l’Anima di cui disse Jung e, più recentemente, Hillman: «La mistica risolve il conflitto tra l’io e il mondo con l’annullamento totale, che sia in Dio, o nell’Infinito, o nel nulla eterno. O in quel silenzio cui ogni parola tende» (p. 55).   In sostanza, a dire di Diano, a Leopardi mancò l’ancoraggio alla trascendenza, intuì il sacrificio della Croce, il sacrificio del Dio “sofferente” e “trionfante” in uno, ma non seppe contrapporre alla “negazione assoluta”, l’ “affermazione assoluta”.   
  • ...
  • In realtà, per chi scrive, il dio che muore e risorge, la potenza dell’evento che si dà nella forma e solo in essa, era già stata significata in Grecia dalla potestas di Dioniso: il dio che ha insegnato agli uomini a vivere accettando il dolore e la morte, senza cercare ricovero all’inclemenza del mondo nel trascendente. A tale visione è ascrivibile il mondo poetico del Recanatese. Diano resta autore rilevantissimo, il Commento e le sue opere, ponendo il lettore oltre le false dicotomie in cui l’asfittico dibattito teoretico oggi si muove, indicano un cammino da seguire, un “sentiero interrotto”, un itinerario da riscoprire.

  • Cop. DE TURRIS DEF

  • Pubblichiamo l’Introduzione di Andrea Scarabelli e Giovanni Sessa al libro di AA.VV., Gianfranco de Turris. Uomo di espressioni varie e Tradizione una, fra qualche giorno nelle librerie per Oaks editrice (pp. 402, euro 30,00) in cui 77 autori rendono onore agli ottant’anni di de Turris e alla sua instancabile attività letteraria e intellettuale.
  • Il libro che avete tra le mani non è solo un omaggio a una delle personalità intellettualmente più curiose e trasversali degli ultimi sei decenni italiani. Ne è una collezione di memorie o un resoconto di improbabili “come eravamo”. Piuttosto, è la cartografia di tutto un ambiente culturale, fatto di uomini e incontri, libri e convegni, iniziative progettate e altre realizzate, che ha visto in Gianfranco de Turris un punto di riferimento. Sparsi tra i saggi qui raccolti – occasionati dal suo ottantesimo compleanno – non è difficile individuare alcuni dei momenti fondamentali della cultura cosiddetta “non-conformista” e dei saperi “di frontiera”, sensibilità che ha attraversato e attraversa tre generazioni, come dimostrato dall’età anagrafica dei compilatori. Un ambiente che, agli inizi del nuovo millennio, ha ancora molto da dire. Anzi, di più: è forse il solo a disporre delle giuste coordinate per decifrare il futuro.
  • ...
  • Questo volume nasce da un’idea di Nuccio D’Anna, accolta dai curatori e da Luca Gallesi, che ci ha permesso di farlo arrivare in libreria, trasformando efficacemente la dimensione privata di “una festa a lungo attesa” in una controstoria della cultura italiana. Essa appare tra le righe dei contributi qui raccolti, alcuni più personali, altri relativi alle attività di GdT, altri ancora dedicati ad alcuni dei molti argomenti di cui si è occupato: il fantastico in tutte le sue forme ed espressioni, Tolkien e Lovecraft, lo studio critico dell’opera evoliana, l’impegno politico-culturale, il ruolo di promotore editoriale… Non mancano nemmeno racconti, soprattutto di tipo fantastico (preponderante, naturalmente, la quota lovecraftiana), che in pochi scambi di battute evocano atmosfere e suscitano mondi, portando i lettori in universi tanto ignoti quanto maledettamente familiari.
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  • Una polifonia di voci che converge però su un unico fuoco: l’attività di qualcuno che ha saputo introdurre nella cultura italiana autori, correnti e pensieri ben prima che il mainstream li riscoprisse, facendolo con una serietà e un rigore editoriale quasi unici in un Paese dove la produzione culturale è venduta un tanto al chilo. Non sono pochi, soprattutto tra i più giovani, coloro che hanno fatto tesoro di questo metodo, realizzando riviste, collane e iniziative prendendo a modello quelle di GdT.   Che, tra le altre cose, ha sempre evitato quelle passerelle mediatiche che finiscono per stregare – e, spesso, fregare – molti altri.   Alla domanda: «Quanti libri ha curato?», risponde sempre: «Non li ho mai contati», quasi scocciato, con una certa impazienza, come a dire: «E ora passiamo a cose più interessanti, come ad esempio il prossimo libro, la prossima rivista, il prossimo convegno…».   Anzi, i prossimi, essendo il Nostro capace di lavorare indefessamente su tre o quattro progetti contemporaneamente, senza mai mancare di rispondere alle email, al telefono, né sottraendosi ad amici e collaboratori, in un’epoca di “uomini sfuggenti”.
  • ...
  • Ecco, abbiamo ceduto alla tentazione, citando Evola, che ha parlato anche di “impersonalità attiva”, espressione che spesso finisce in bocca a ipertrofici dell’Ego, con i loro eterni ritornelli: «Non mi hai chiamato», «non mi hai citato», «non mi hai invitato»… Nulla di tutto ciò affligge Gianfranco, che attivo lo è, senza ombra di dubbio, e anche impersonale.   Impossibile dimenticare infatti la sua attività di cacciatore di talenti nell’ambito della letteratura fantastica.  Un talent scouting di cui pochissimi si occupano, preoccupati soprattutto di vedere pubblicate le proprie opere, più che quelle altrui.   GdT, no: legge tutto ciò che gli viene spedito (e non è poco), dà consigli, promuove o boccia, suggerisce correzioni, dopodiché, se l’opera è giudicata meritevole di attenzione e pubblicazione, la passa a uno dei mille editori con cui collabora – e tutto questo, gratis et amore Dei, “per puro amore della cosa”, come ama ripetere.
  • ...
  • Questo e altro troverete nel libro che avete fra le mani.  Introdurlo non è semplice.  Difficile chiedere una introduzione al diretto interessato (soprattutto perché, come da antica tradizione, la copertina non gli piacerà, piacendo a noi!).   Più facile curarlo, come abbiamo fatto.       Auguri, Gianfranco.

  • Scarabelli

  • Vita avventurosa di Julius Evola
  • La monumentale biografia evoliana
  • di
  • Andrea Scarabelli
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • Julius Evola è morto cinquant’anni fa. Sul suo nome continuano a gravare pregiudizi aprioristici recentemente rinfocolati dal battage giornalistico mainstream mirato a promuove un volume poco informato, in cui il pensatore tradizionalista è presentato, nientemeno, come il “mandante morale” dello “stupro del Circeo”.  Aveva davvero ragione il filosofo Piero di Vona, uno dei più accorti esegeti della visione del mondo evoliana, nel rilevare l’urgenza improcastinabile, al fine di sottrarre Evola alla denigrazione preconcetta o all’altrettanto sterile esaltazione agiografica, di scrivere una biografia oggettiva ed equilibrata di questo intellettuale che ha attraversato il “secolo breve” da protagonista.
  • ...
  • A questa esigenza di chiarificazione storica ha risposto Andrea Scarabelli con il suo, Vita avventurosa di Julius Evola, nelle librerie per Bietti (per ordini: 02/29528929, pp. 830, euro 39,00).
  • ...
  • Si tratta di una ricostruzione minuziosa della vita del tradizionalista, sviluppata in dieci capitoli dal tratto organico, revisionata prima della pubblicazione da numerosi studiosi di Evola e non solo.  Il lavoro di Scarabelli ha, innanzitutto, evidente qualità letteraria. La vita di Evola, di certo non comune e al di “sopra delle righe”, nella narrazione è indagata anche attraverso opportuni riferimenti al suo percorso di pensiero. Queste pagine non si limitano alla presentazione di dati biografici, di contingenze storico-esistenziali, ma sono ritratto del: «pensiero incarnato» di Evola.   Il lettore abbia contezza che leggerà la: «biografia di qualcuno che non voleva essere biografato, la periodizzazione di un pensiero che ha fatto di tutto per librarsi al di là della Storia, salvo poi scommettere sulla Storia stessa» e sull’impegno in essa al fine di “rettificarne” il corso.  Si esce dalla lettura con una certezza: la linearità dell’iter evoliano è più problematica di quanto il filosofo abbia voluto far credere, costituita com’è da punti d’arrivo e ripartenze conseguenti che, in alcuni casi, rappresentano una rottura rispetto alla fase precedente.    Scarabelli si è servito di vasta documentazione d’archivio, ha scandagliato (è la prima volta che ciò accade) l’intero materiale custodito dalla Fondazione, ha consultato epistolari (in alcuni casi inediti), ha raccolto nuove testimonianze, seguendo le tracce lasciate da Evola in Italia e in Europa.   Grazie alla vasta documentazione prodotta, si può parlare, e non soltanto per la mole del lavoro, di un libro monumentale, di un’opera spartiacque nella bibliografia critica riguardante il tradizionalista.   Il personaggio Evola è qui indagato a tutto tondo, se ne rilevano le positività, la grandezza, ma anche i limiti e i tratti “umani, troppo umani”.   Ne esce un ritratto equilibrato: un Evola davanti allo specchio. Nell’incipit viene ricostruito, compiutamente (per quanto i documenti consentono) l’ambiente familiare, rilevando la natura nient’affatto gentilizia della famiglia di origini siciliane (l’appellativo “Barone”, con il quale Evola è spesso designato, in realtà è un nomignolo attribuitogli nel periodo dadaista). Suggestiva è la ricostruzione del mileu esoterico-occultista di cui Evola fu animatore nella Roma dei primi decenni del secolo scorso all’epoca del «Gruppo di UR», con le sue divisioni e con gli straordinari personaggi che lo animarono, da Reghini a Maria de Naglowska. L’autore presenta anche una puntuale ricostruzione d’ambiente dei circoli futuristi che l’artista-filosofo, dapprima vicino a Balla e poi maggior interprete italiano del dadaismo pittorico-poetico, frequentò nel mentre animava serate memorabili alle “Grotte dell’Augusteo”.
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  • Evola fu anche appassionato viaggiatore. Amò la Capri pre-turistica, cuore del Mediterraneo panico-dionisiaco, rifugio, in quel frangente, di “eretici” di ogni specie e dove Evola acquistò casa, assieme a due amici nel 1943 (Villa Vuotto, in Via Campo di Teste). Qui lavorò a una delle tante riviste progettate ma che non furono realizzate, «Sangue e Spirito», coadiuvato da una giovane e bella segretaria tedesca Monika K., figlia di un fotografo berlinese, la quale, Evola assente dall’isola, si suicidò ingerendo un’ ingente quantità di tranquillanti. La cosa indusse Evola a tornare repentinamente a Capri e a scrivere una missiva accorata alla sorella della giovane amica (l’episodio, fin qui, non era noto). Anche a Vienna, il pensatore, oltre a partecipare alla fondazione, con gli elementi di spicco della Rivoluzione Conservatrice locale, del Kronidenbund: «passa in rassegna […] la dimensione notturna della città». Frequenta un locale denominato, non casualmente, “Il Nulla”, sulle cui pareti si stagliavano simboli ermetico-astrologici e dove: «Al posto dei tavoli vi sono bare e le bevande vengono servite in teschi». In Germania  fu ben accolto negli ambienti dell’aristocrazia, intrattenne un rapporto positivo con Edgar Julius Jung, segretario di von Papen, poi eliminato dai nazisti.
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  • Non mancano episodi della vita di Evola legati al paranormale: fu invitato, per esempio, al Castello di Tuafers di Campo Tures dove avvenivano fenomeni medianici. Al suo ingresso, tali fenomeni anziché placarsi si accentuarono. Evola li riferì a: «Influenze erranti, energie allo stato libero». Visitò, inoltre, la certosa di Hain, nei pressi di Düsseldorf, dove poté assistere a un rito che: «nel cuore della notte evoca qualcosa di radicale».   
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  • Due sono gli aspetti, a nostro parere, più rilevanti che emergono dalla biografia: 1) una relazione medica anonima dell’ospedale dove Evola venne ricoverato dopo l’esplosione della bomba del 21 gennaio 1945 (bombardamento indubitabilmente americano!) in cui compare l’anamnesi dello stato di salute del pensatore e le terapie cui venne sottoposto. Sino ad ora si era sempre ipotizzato che Evola, subito dopo il bombardamento, fosse rimasto paralizzato agli arti inferiori. Dall’esegesi della cartella clinica si evince, al contrario, che furono le terapie applicate, inadeguate alla patologia di Evola, a far peggiorare e degenerare la situazione: si trattò di un caso di malasanità, spiegabile con le condizioni in cui versavano allora gli ospedali austriaci; 2) l’analisi del razzismo evoliano. Il “razzismo spirituale” proposto dal filosofo non solo alla luce delle contingenze storiche era impraticabile e, quindi, inservibile politicamente, ma fu avversato, in quanto “antitedesco”, oltre che dai nazisti, da ambienti afferenti alla Compagnia di Gesù, a padre Agostino Gemelli e a Tacchi-Venturi. Perfino Giorgio Almirante (che più tardi definirà Evola: «il nostro Marcuse») e Giulio Cogni contribuirono all’isolamento di Evola.
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  • Scarabelli nota che, in alcuni scritti e circostanze, anche il filosofo cedette alla cultura del tempo, al razzismo “popolare”, sviluppando considerazioni non condivisibili. Resta il fatto che il “razzista” Evola fu meno “razzista” e “antisemita” di molti altri, successivamente convertitisi agli ideali dei nuovi padroni. Abbiamo fatto riferimento solo ad alcuni dei molteplici aspetti che emergono dalla biografia. La storia terrena di Evola si chiuse con la deposizione delle sue ceneri tra i ghiacci del Lyskamm, dopo non poche vicissitudini: «È la conclusione di una vita avventurosa e non comune, che ha attraversato il’900, indossandone le maschere e interrogandone gli enigmi».

  • eminenze grigie

  • Lorenzo Castellani,
  • Eminenze grigie
  • rec. di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • (Liberilibri, Macerata 2024, pp. 167. € 16,00.)
  • Lorenzo Castellani è particolarmente attento ai rami intermedi del potere; già nel saggio “L’ingranaggio del potere” (Liberilibri 2020) aveva valutato il ruolo  e il “peso” sia dell’organizzazione del potere che dei collaboratori dell’apice; tenendo presente la lezione di Carl Schmitt, in particolare del saggio, tradotto in italiano sul Behemoth n. 2 da A. Caracciolo col titolo “Colloquio sul potere e l’accesso al potere”.
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  • Com’è noto il giurista tedesco pone a fondamento del potere il rapporto di comando-obbedienza “Per il solo fatto che si trovano uomini che prestano obbedienza ad un altro uomo, essi procurano a questo il potere, Se non gli obbediscono più, cessa allora il suo potere”; perché hobbesianamente “Chi non ha il potere di proteggere uno, non ha nemmeno il diritto di pretendere da lui obbedienza. E viceversa: chi cerca protezione e la ottiene, non ha nemmeno il diritto di rifiutare l’obbedienza”. Tuttavia anche il potente è vincolato dai limiti della natura umana. Se poi deve governare realtà particolarmente grandi e complesse, come gli Stati, deve fare affidamento su resoconti, informazioni, giudizi dei propri consiglieri. I quali perciò sono partecipi del potere, per cui, scriveva Schmitt: “ogni potere diretto è… sottoposto a influssi indiretti”.
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  • Tra i quali Castellani, nel saggio, tratta sia del tipo di potere indiretto che del collaboratore del potente. La cui caratteristica – per distinguerlo dagli altri aiutanti – è di essere più un partecipe del potere che un ingranaggio della catena di comando cui è delegato (e istituzionalizzato) in un ambito decisionale, una “competenza” delimitata.  Invece il proprio delle eminenze grigie è di indurre, influenzare comportamenti e risoluzioni di vertice più che provvedere in materie delegate.
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  • Castellani lo fa ricordando dodici “eminenze grigie” (a partire dell’eponimo della categoria, padre Giuseppe) e – brevemente – i rapporti con il potere diretto e formale da loro influenzato, al di là della carica loro conferita.  L’autore formula anche regolarità dei poteri indiretti: aumentano con l’incremento di complessità, partecipazione e ampiezza dell’organizzazione politica. E una seconda che, al contrario del potere diretto, non hanno una necessità di legittimazione democratica.  Comprovato anche, come ricorda l’autore, dai modesti risultati ottenuti dalle eminenze grigie presentatesi alle elezioni.
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  • Questo, pur mantenendo la loro scarsa o nulla visibilità, concentrata sul potere diretto. La conclusione è che non è possibile fare a meno delle eminenze grigie, neanche nei regimi più trasparenti e democratici. Sono come gli Arcana Imperii, connaturali ad ogni potere perché necessitato a servirsene.

    MEGLIO  FOUCHE'

  • di   
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • La morte di Navalny in detenzione (oltre il circolo polare artico) pone problemi non solo come quelli discussi (ed agitati) in questi giorni, sul tasso di democrazia del regime putiniano, sui diritti umani in Russia, sul ruolo (e lo status) dell’opposizione in un regime democratico (più o meno), ma, ancor di più sulla convenienza di chi ha il potere di uccidere (o procurare la morte) ad un avversario politico.
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  • Due esempi (tra i tanti offerti dalla storia) vengono in mente: l’assassinio dopo un processo-farsa (al fine di contentare i legalitari un tanto al chilo) del Duca d’Enghien da parte di Napoleone. Il quale fu accusato di avere commesso un crimine (accusa non infondata). A tale proposito fu attribuito a Fouché (ministro di polizia di Napoleone) di aver così commentato la vicenda “è peggio di un delitto, e un’idiozia”. Giudizio esatto: la morte del Duca non arrecava alcun beneficio alla Francia e a Napoleone. Invece sia per le circostanze del fatto (il Duca era stato rapito dai francesi nel territorio di un altro Stato, era stato giudicato da un Tribunale ad hoc ecc. ecc.) che, e ancor più, per senso e conseguenza politica dell’azione (la quale allargava il divario di Napoleone con i legittimisti) generava gravi inconvenienti.
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  • L’altro esempio è quello del trattamento praticato da Churchill a Gandhi durante la seconda guerra mondiale. Nel 1942, a seguito dell’intervento giapponese, l’India era invasa. I giapponesi conquistarono gran parte della Birmania (oggi il Mianmar). Il partito del congresso lanciò una (energica) campagna per l’indipendenza indiana (Quiet India) seguita da una sanguinosa repressione inglese. I leaders del partito del Congresso, Gandhi compreso, furono arrestati. L’accortezza politica di Churchill, tuttavia, fece si che Gandhi fosse recluso nel palazzo dell’Aga Khan a Pune, con moglie al seguito. Però il Mahatma aveva deciso di praticare lo sciopero della fame; dato che era un vecchietto macilento c’era un alto rischio che morisse prigioniero degli inglesi.    Il Premier britannico ordinò ai medici che assistevano Gandhi di alimentarlo anche a sua insaputa. Il tutto per evitare che la morte del leader indiano aggravasse la già difficile situazione politica e militare.
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  • Putin non sembra aver preso esempio da tali vicende: aver fatto condannare Navalny, averlo recluso oltre il circolo polare artico (e non nel palazzo dell’Aga Khan) e quant’altro ha finito per provocare (o almeno agevolare) la morte dell’oppositore. Con “ritorno” politico a favore dei nemici della Russia, proprio quando la vicenda della guerra in corso, e il ridotto (forse) appoggio dell’Occidente dell’Ucraina, fa intravedere una soluzione – o almeno una fase discendente del conflitto.  Un risultato controproducente: proprio quello che un politico prudente deve evitare.

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  • Un inevitabile destino:
  • escatologia e pitagorismo romano nella vita politica e statale
  • di Roma nel I Sec. a.C.
  • tra religiosità popolare, sfera apollinea,
  • astrologia e pratiche divinatorie,
  • di
  • Gabriele Bux
  • Le prospettive escatologiche dei pitagorici romani del I sec. a.C. pare presentino un nesso con l’escatologia, l’astrologia e le pratiche oracolari e divinatorie in cui assumono rilevanza la religiosità popolare e in particolare la figura di Apollo.  Vorremmo chiarire il valore politico di queste riflessioni sui destini finali del mondo umano e naturale, nel periodo che in Roma vede il declino della repubblica il sorgere dell’impero.
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  • Va detto che le vicende neopitagoriche a Roma si intrecceranno con le dottrine di Posidonio – pensatore stoico nato ad Apamea, vissuto presumibilmente dal 135 al 51 a.C.. (1)   Il posidonismo  riprende molti dei lineamenti metafisici dello stoicismo antico fra i quali «immortalità dell’anima, palingenesi, fondatezza della divinazione» (2) da cui il neopitagorismo attingerà pienamente.  Punto di incontro cruciale tra queste due correnti è la concezione dell’universo come ordinato e presieduto da un principio razionale. Tale visione cosmologica giustifica l’efficacia delle arti divinatorie e dell’astrologia, nonché fornisce un’interpretazione teoretica di alcune credenze della religiosità popolare avallate anche dai neopitagorici romani. Tuttavia la specificità del neopitagorismo romano,ci sembra essere quella di un movimento intellettuale dalle radici eterogenee in cui i vari aspetti che lo compongono  (3)  formano un complesso organico subordinato a un risvolto sociale e politico ben preciso: quello di vedere riflessi i destini del mondo in quelli di Roma.  Il termine dei cicli universali e la palingenesi, divengono allora nei neopitagorici rappresentazione di una rinascita-restaurazione all’insegna della pace sociale e della giustizia.
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  • La maturazione del legame fra astrologia, divinazione ed escatologia non si sviluppa appieno prima del I sec. a.C.. Leonardo Ferrero (4)  spiega come «Il pitagorismo romano dalle sue origini al II sec. a.C. è improntato soprattutto agli interessi dominanti della religiosità e dell’ordinamento politico, mentre la fisica gli è affatto estranea». (5)  Dopo il II sec. a.C. torna l’interesse verso gli astri e la divinazione collegato, sembra, alla diminuzione del peso politico e istituzionale delle dottrine pitagoriche (6) i cui seguaci si organizzano in comunità iniziatico-esoteriche. Il settarismo assunto dal pitagorismo romano si concretizza nella figura di Publio Nigidio Figulo. Personaggio misterioso e affascinante, è di indubbia importanza in questo contesto, visti i suoi contatti con le posizioni mistico-scientifiche di Posidonio.  (7)   Si ha l’impressione che Nigidio e i proseliti del pitagorismo a lui coevi, connettano le discipline profetiche e oracolari, l’astrologia e la speculazione escatologica. Il filo rosso tra questi elementi culturali crediamo stia nella sfera religiosa apollinea. Occorre però prima prestare attenzione alle parole di Alberto Gianola  (8) riguardo all’impatto di magi e astrologi nel panorama sociale romano dal II sec. a.C. sino all’età augustea.
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  • «Abbastanza numerosi in Roma nel II e I secolo a. C., col decadere dei culti ufficiali e l’infiltrarsi di riti stranieri, massimamente dall'Egitto e dall'Asia, divennero a grado a grado così potenti da trovarsi persino ad essere qualche volta arbitri delle sorti dello stato». (9)    Con queste personalità – sapienti o ciarlatani che fossero – si misura il pitagorismo romano di questo periodo. Sappiamo che venivano chiamati – senza troppe distinzioni – caldei, maghi o genetliaci e che differissero dagli indovini o mathematici per un deciso orientamento filosofico-speculativo: «[…] gli uni partivano dal concetto che gli dei manifestassero la volontà per mezzo di segni celesti; gli altri dal concetto che tutto fosse armonico e regolato da leggi e da rapporti immutabili nell’universo; e che quindi all’apparire di determinati fatti o fenomeni dovesse normalmente seguire l’avverarsi di determinati eventi umani». (10)
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  • Questi aderirono a diverse credenze derivate dalla religiosità popolare che vollero configurare su un piano filosofico-scientifico. Le più significative sono: la resurrezione della carne, connessa ad alcune predizioni dei responsi sibillini, l’idea che gli eventi umani si potessero prevedere osservando i corpi celesti  (11)  e poi – molto diffusa tra i magi – l’identificazione del Sole con Apollo. L’immagine apollineo-solare è espressione simbolica della tappa finale dell’intero ciclo cosmico che Gianola identifica nella conflagrazione universale. Al termine di quest’ultima, rinnovato l’universo, si sarebbe ristabilita una nuova età dell’oro per gli uomini, ritornati a nuova vita.  (12)   Le convinzioni appena esposte, condivise dai genetliaci, sono avvalorate dai pitagorici romani loro contemporanei in un quadro escatologico dal messaggio politico. La loro escatologia presenta un versante apollineo la cui accezione palingenetica – di matrice stoico-posidoniana – segna l’inizio di una vera e propria renovatio. In più l’aspetto oracolare e profetico del Dio fa da sfondo culturale alla sua essenza apocatastatica.   (13)
  • ...
  • La presenza letteraria di questa prospettiva apollinea e rinnovatrice del cosmo è rintracciabile – secondo un prezioso studio di Carlo Pascal (14)  – in alcuni autori dell’età augustea.   (15)    Celebre a tal proposito è la profezia della Sibilla Cumana contenuta nella IV Egloga delle Bucoliche virgiliane. (16)   Qui si parla di un’età di Apollo, una futura età aurea caratterizzata da pace e prosperità durante la quale l’universo e l’umanità sarebbero rinati.  (17)  Questa fase sarebbe succeduta ad un’epoca di estremo decadimento umano: quella del ferro. (18)  Un commentatore romano di Virgilio, Servio, (19)  spiega la profezia attribuendo «alla sibilla Cumana una divisione delle età del mondo per metalla (le quattro età, dell'oro, dell'argento, del bronzo o di ferro — che appartengono veramente alla tradizione classica da Esiodo)».  (20)   Opera poi una «divisione della storia del mondo in 10 periodi, o dieci settimane, di cui 7 sono passate, le tre successive destinate al regno messianico, che, alla fine della 10 settimana «sarà conchiuso dal Giudizio». (21)  L’ultima età descritta nell’oracolo sibillino – quella dell’oro – viene nel responso, riporta Servio, associata al Sole a sua volta identificato con Apollo.  (22) 
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  • La ricezione dei pitagorici del tempo della renovatio apollinea è abbastanza esplicita e presumibilmente si inscriveva in una rappresentazione simbolica dell’andamento di una società e cultura a loro sfavorevole. Il mutamento dello scenario politico  (23) esercitò un peso non secondario sul pensiero dei seguaci del pitagorismo nella Roma del tempo, infatti il fenomeno storico-filosofico detto «neopitagorismo romano» nasce in circostanze socio-politiche avverse. Fra i suoi esponenti più illustri possiamo annoverare Nigidio Figulo e Varrone Reatino che ebbero un rapporto col potere politico che potremmo dire travagliato.   Publio Nigidio fu uomo colto e dottissimo. Amico – stimato e apprezzato – di Cicerone, quest’ultimo lo presenta come renovatoret ovvero «restauratore» del pitagorismo a Roma  (24) e ci informa della sua nomina a pretore tra il 59 e il 58 a.C.  (25)    L’assunzione della carica pubblica lo rese parecchio influente e in tal periodo – scrive N. D’Anna, (26)  «Nigidio appare nel pieno della sua funzione pubblica. Interviene nella vita politica, è ("acerrimus civis") un rigido accusatore di malefatte, consiglia gli amici potenti, nel 52 viene addirittura mandato in Cilicia e nei regni del Vicino Oriente quale membro di una legazione per conto dello Stato» (27)    Fece parte di un «Collegio sacro, esclusivo ed autorevole come quello degli Aruspici e la cui attività rituale era stata tale da investire spesso la stessa funzionalità dello Stato».  Schieratosi nella diatriba tra cesariani e pompeiani  (28)  a favore dei secondi, a seguito della vittoria dei primi, nel 49 a.C. venne esiliato, e poco dopo, nel 45 a.C., spirò.  (29)  È difficile pensare che le istanze filosofiche, spirituali e cultuali nigidiane – in cui gli elementi astrologici e divinatori assumono una funzione escatologica – siano disgiunte dagli ideali etico-politici di questo erudito. Ciò pare corroborato da vari argomenti, fra cui due – per noi – parecchio significativi.  Una prima motivazione risiede nel suo prestigio intellettuale, tramite cui acquisì una notorietà sufficiente a riunire dei proseliti in un sodalizio. L’organizzazione del sodalicium è di tipo settario e si sostiene che: «verosimilmente intendeva riprodurre la struttura iniziatica dell'antico pitagorismo.  E tuttavia questo sodalizio deve aver avuto anche una sua "proiezione" politica a fianco della parte conservatrice, una presenza talmente cospicua da spiegare, almeno in parte, l'ostilità mai venuta meno dei cesariani nei confronti di Nigidio». (30)     D’anna cita poi la tesi di B. Gallotta (31) – malgrado la veda azzardata – (32)  che vede la ricostituzione di un’associazione pitagorica a Roma come un fenomeno di matrice reazionaria. (33)  Il secondo argomento è costituito dall’appartenenza del renovatoret agli ambienti conservatori.   Qui si contemplava l’ideale del primato politico degli optimates, la cui presunta superiorità morale e intellettuale (34) fondava il loro diritto a governare. È ipotizzabile che Nigidio condividesse almeno parzialmente il modello etico dell’ottimate.  (35)   Le sue idee politiche di stampo conservatore è probabile lo rendessero ostile tanto verso l’acquisizione di potere da parte di esponenti dei populares, (36)  quanto nei confronti delle tendenze anti-nobiliari. (37)  Questa diffidenza si ripercosse sulla condizione degli intellettuali conservatori, per cui: «la decadenza dell’aristocrazia conservatrice impediva anche l’attuazione di una politica culturale a largo respiro, e, venute meno le obiettive condizioni di fatto, l’opera degli intellettuali dovette arroccarsi nelle eccelse torri di una sapienza segreta e raffinata, dovendo abbandonare il campo della libera propaganda»  (38)  
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  • L’atteggiamento ritirato delle élite colte e aristocratiche riguarda anche Nigidio e i suoi adepti, oltretutto attanagliati dalla sempre crescente preoccupazione verso il problema del fondamento e dell’indirizzo etico e politico dello stato romano. (39)  In relazione a questo tema acquista senso la renovatio apollinea nella filosofia neopitagorica. La concezione della palingenesi configurata nel «regnum Apollinis» (40)  solare, emerge dallo scritto teologico nigidiano – del quale abbiamo pochi frammenti – De diis. L’opera espone una più ampia ed elaborata dottrina delle ere cosmiche legata all’articolato discorso astrologico di un altro suo scritto, il De Sphaera.   (41) 
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  • D’Anna suggerisce l’ipotesi per cui parte del contenuto del De diis   (42)  delinei «una specie di storia spirituale del mondo contrassegnata da varie ère, ognuna delle quali era presieduta da una particolare divinità che in ordine decrescente indicava le varie fasi del decadimento del mondo».   (43)  L’esito del progressivo annientamento cosmico sarà l'ekpyrosis dunque «la risoluzione finale del mondo e la conflagrazione cosmica».  (44)     Intendiamo ora concentrarci su questi due aspetti della teologia di Nigidio: il decadimento del mondo e l'ekpyrosis. Sebbene la renovatio riconduca la dottrina delle età del mondo ad Orfeo, non va dimenticato che: «appare molto verosimile che ci si trovi di fronte ad un frammento di quelle numerose teogonie e cosmogonie fiorite e commentate in epoca tarda, ma che nella maggior parte dei casi costituiscono annotazioni di cicli narrativi risalenti ad un'epoca arcaica, forse tramandati oralmente, un insieme dottrinale genericamente definito "orfico" dagli autori antichi».  (45)
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  • Un’ulteriore impressione di D’anna richiama la nostra attenzione. Accostando le cosmologie esiodea e nigidiana, nota che nella prima «Esiodo traccia la decadenza del mondo attraverso la delineazione delle diverse, progressivamente sempre più povere "qualità" divine delle età intermedie, fino alla conclusione oscura del ciclo cosmico» (46) mentre nella seconda è assente «un particolare "segno" distintivo, una "qualità divina" in grado di differenziare ogni epoca dall'altra».    (47)   Il concetto d'inevitabilità nel principio della caducità cosmica, accentuato in Nigidio, si pone come processo graduale verso l’annientamento «purificatore» dell’ekpyrosis  «non ci sono età dell'oro e dell'argento assolutamente distinte, nelle loro valenze spirituali e nelle loro implicazioni di tipo cosmologico, dalle età del bronzo e del ferro; le stesse divinità preposte alle sue singole ère, e lo sviluppo narrativo che ne esplicita la presenza, lasciano supporre solamente una progressione verso l'ekpyrosis».   (48)
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  • L’ekpyrosis è anche un principio cardine della fisica stoica inteso come risultato di un processo inevitabile e necessariamente razionale. La vicinanza teoretica di Nigidio al posidonismo è stata reputata pressoché evidente,  (49)   tuttavia va ricordato che l’ekpyrosis apollineo-solare è caratteristica del pensiero di Cleante di Asso, fra i primi rappresentanti dello stoicismo ellenistico.  Alcune delle categorie concettuali adoperate dagli stoici antichi e da Posidonio sul piano cosmo-teologico, paiono compatibili con la riflessione nigidiana sul cosmo nelle sue applicazioni metafisiche ed etiche. Il discorso parte dalla constatazione per cui tanto Posidonio quanto gli stoici antichi definivano Dio come «pneuma diffuso nell'universo»». (50)  Questo «costituisce la sostanza di dio, dell'universo e dell'anima, è razionale e ovunque diffuso» e si identifica miticamente con Zeus che è  «il cosmo, il logos, la natura, la ragione, il destino». (51)  Presupposti del genere si oppongono alla teologia epicurea. Quest’ultima viene criticata da Posidonio, secondo cui:  «Epicuro non crede affatto all'esistenza degli dei, e che tutto ciò che ha detto sugli dei immortali lo ha detto per non attirarsi l'odio del popolo; del resto, non poteva certo essere cosi folle da plasmare dio come un manichino; al contrario, […] un essere esile e trasparente, incapace di aiutare gli altri, disinteressato di tutto e nullafacente. […] un essere di questo genere nοn può in alcun modo esistere e infatti Epicuro, ben consapevole di ciò, di fatto toglie di mezzo gli dei, sebbene a parole li mantenga».   (52) 
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  • L’opporsi della teologia stoico-posidoniana a quella epicurea si innesta sul concetto di destino «che dipende da Zeus» ed è «di triplice ordine: in primo luogo Zeus stesso, in secondo la natura e infine il destino». Il destino dipende da Zeus, il logos, quindi la «causa della realtà ο ragione che presiede allo sviluppo del cosmo».   (53)  Dunque, Posidonio e gli stoici pensano esista «una provvidenza»,  (54)   non a caso per loro «la divinazione è una tecnica, come dicono Zenone, Crisippo nel secondo libro del trattato intitolato La divinazione e Atenodoro e Posidonio nel secondo libro della Fisica e nel quinto de La divinazione». (55)   L’urgenza di rinvenire una razionalità dell’ordine cosmico è rintracciabile anche in Nigidio, non a caso D’Anna nota che nel De Sphaera«non si trovano facilmente nozioni di una semplice osservazione dell'influsso degli astri nella vita umana, non emerge affatto con evidenza che l'opera serviva "a trarre oroscopi", e tutta la compilazione appare indirizzata, invece, a chiarire le modalità stesse del divenire cosmico».  (56) 
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  • Il termine sphaera poi «appare connettersi direttamente alle concezioni antico-pitagoriche relative al kosmos e all'“ordine celeste" che sottende questa complessa analisi», nonché «deriva direttamente dal simbolismo di "perfezione circolare" che esprime, è uno di quei termini che svela direttamente la realtà rappresentata.  In perfetta sintonia con quanto aveva affermato Pitagora sulla struttura circolare del mondo e sulla sua raffigurazione».   Nel De diis troviamo raffigurata una struttura «in diversi quadranti di un "cosmo circolare" diviso in 16 parti», (57)  dove ogni regione cosmica corrisponde a una divinità. (58)   Tale raffigurazione fornitaci dallo scrittore – vissuto tra IV e V sec. d.C. – Marziano Capella   «è molto simile alla suddivisione teo-cosmogonica del Fegato di Piacenza, il celebre reperto del II-I sec. a.C.; in questo modellino di bronzo quasi sicuramente utilizzato dagli aruspici come supporto mnemonico nei rituali, gli dèi vengono disposti all'interno di due templa (= "spazi"): nella parte interna del fegato troviamo un gruppo di dodici divinità, mentre nel bordo esterno, il cosiddetto "nastro periferico" suddiviso in 16 parti, sono stati collocati 16 dèi, esattamente come nel fr. Nigidiano». (59)
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  • Questa architettura cosmologica e razionale sembra – esattamente come in Posidonio – giustificare le «diverse scienze chiamate a dare consistenza a questa speciale partizione del cosmo (teologia, cosmologia, numerologia, aruspicina e divinazione) non fanno altro che specificare una omogeneità di base del rapporto dell'uomo col mondo e con la realtà divina».   Sui presupposti appena espressi D’Anna conclude che: «Il De diis di Nigidio sembra metterci davanti ad un tipo di spiritualità che appartiene ad uno stadio molto arcaico della religione romana, forse scaturita da (o connessa a) forme rituali appartenenti al patrimonio religioso etrusco e a quello dei più antichi popoli italici, là dove la cosmogonia e la "teologia" si intrecciavano sapientemente con l'aruspicina, la divinazione e l'azione rituale, un mondo immacolato svelava il significato della presenza divina, e tutti gli interventi dello Stato, tutti i suoi pronunciamenti grandi o piccoli, le stesse manifestazioni della natura (cambio delle stagioni, temporali improvvisi, fulmini, apparizione improvvisa di corpi celesti, etc.) venivano considerate cariche di valenze divine che solo un apposito Collegio di àuguri o di aruspici poteva interpretare».
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  • Riassumendo, diciamo che le linee base della teologia e dell’escatologia nigidiana sono: l’intrinseca razionalità e ciclicità della vita cosmica, l’interconnessione fra dimensione antropologica e cosmologica, la decadenza progressiva e la distruzione del mondo nell’immagine dell’ekpyrosis intesa cosmologicamente come conflagrazione universale e – nel mondo umano – come  disfacimento totale della società e insieme sua rinascita.  Ferrero conferma che la divinazione nigidiana avesse «un interesse per i grandi avvenimenti politici che stavano mutando la scena del mondo»; (61)  inoltre, su Posidionio, aggiunge che nei «pompeiani, repubblicani e conservatori doveva far più presa l’insegnamento e l’influenza di questo filosofo».  (62)   L’altro volto del neopitagorismo  a Roma è Varrone Reatino; affine alle tesi filosofico-religiose e politiche di Nigidio   (63)  ne sviluppa le istanze teoretiche con un approccio diverso. Il pensiero nigidiano si snodava in una pluralità di aspetti (la divinazione, la componente rituale, il simbolismo sacro, la speculazione astrologica). Mentre l’interesse varroniano è incentrato «in un enciclopedismo […] maturo ed esperto» caratterizzato dal «gusto per la contemplazione di un paradigma scientifico armonicamente organizzato». (64)  Si rileva perciò «una differenza importante di atteggiamenti l’uno prevalentemente scientifico-culturale, l’altro pratico-religioso». (65)
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  • Marco Terenzio Varrone fece parte della nobiltà plebea (66) e «volle se non vivere, almeno morire secondo i dettami del rituale pitagorico: fu così sepolto in un sarcofago d’argilla con foglie d’ulivo, di mirto e di pioppo nero».  (67)  Cercò di percorrere «la carriera politica e quella delle armi a fianco di Pompeo e degli ottimati»  (68)  ricoprendo due volte – prima nel 67 a.C. e poi nel 49 a.C. la carica di legato pompeiano.  (69)  L’approccio filosofico-teologico varroniano – dalla forte componente aritmologica – «si presenta sotto un aspetto di indagine razionalistica e scientifica, di studio antiquario, non già di rito o di pratica cultuale come in Nigidio».  (70)   Gli studi di Varrone – diversamente da quelli nigidiani dove «l’istanza mistica era in primo piano» – si muovono «sul piano umano della storia della moralità e del costume».  (71)  Nella sua opera Atticus de numeris «l’aritmologia varroniana si dimostra nettamente orientata secondo la concezione pitagorica nella quale emergono come elementi fondamentali l’ebdomade e la decade». (72)   Questa costituisce le fondamenta della sua riflessione dal punto di vista teologico ma anche etico e politico.  Nel suo De Philosophia «procedeva ad una analisi o inventario di tutti i possibili fini logici dell’etica, indi con un procedimento di riduzione, dalla somma di 288, si scendeva all’individuazione di dodici, poi sei ed infine tre fini fondamentali».   (73)  In tale concezione emerge un «dualismo fra virtù ed istinti naturali (prima naturae), fra anima e corpo, superato nella concezione della superiorità della virtù come regolatrice essa stessa dell’uso dei prima naturae», ciò  evidenzia il ruolo della sfera etica che  veniva così a rispecchiare la concezione della società e del mondo, nella quale il vincolo si estende dalla cerchia familiare a quella della civitas, e infine di tutta l’umana società ed al mondo «che come una divina dimora, in sé comprende gli uomini e gli dèi che sono amici dei filosofi, come i filosofi amici degli dei».  (74) 
  • ...
  • L’intersecarsi di escatologia ed etica in Varrone avviene sotto il segno di noti concetti pitagorici come quello dell’immortalità ed eternità dell’anima e della metempsicosi.  (75)   Quindi, pur distanziandosi nel metodo dal renovatoret Nigidio Figulo, Varrone aderisce a quella «teodicea neopitagorica» (76)  caratterizzata dalla palingenesi apollineo-stoica e le profezie sibilline.   (77)  Testimonianza di ciò è la volontà di Varrone Reatino di calcolare il ciclo di rigenerazione e ricongiungimento dell’anima col corpo.   (78)  L’aspirazione apocatastatica e la speranza dell’età aurea investe i dotti neopitagorici i quali, celandoli con complessissimi schemi dottrinali, bramano un radicale miglioramento umano – a cui assoggettano le scienze astrologico-divinatorie. Questo affinché la società si pacifichi e ritrovi una dimensione valoriale. Desiderano, pur inquieti e turbati dal continuo decadimento morale dell’umanità, ritrovare quell’essenza antropologica profonda e autentica che concili simbioticamente l’umano al divino. Un simile moto ascensionale, dalla marcescenza dell’anima al suo compiuto rinnovamento, è rinvenibile nella basilica detta “neopitagorica” di Porta maggiore. Risalente al I sec. d.C., i simboli della struttura richiamano il pantheon ellenico e sembrano voler rappresentare un percorso iniziatico dell’anima che da una dimensione infera e sotterranea di impronta dionisiaca arriva a risplendere nella dimensione apollinea. Scrive Domizia Lanzetta.  (79)  «Non si può fare a meno di notare che nella Basilica, in tutto il percorso della navata, si ha una preponderanza di scene rituali a carattere dionisiaco mentre, alla fine dell'itinerario, vale a dire nel momento conclusivo del percorso stesso, viene solennizzato l'elemento apollineo». (80)
  • ...
  • Le istanze neopitagoriche, per quanto temporalmente lontane, ci pongono davanti ad una realtà che vede una vera e propria entrata dell’uomo nella natura, vissuta in un’intimità così netta che persino i conflitti socio-politici venivano visti come ad essa collegati.   Da ciò possiamo trarne quindi un auspicio: poter tornare a questo originario senso di preoccupazione e attenzione verso gli equilibri sociali.

  • Note:
  • 1) Vimercati, Introduzione, in Posidonio,Testimonianze e frammenti, E. Vimercati (a cura di), Bompiani, Milano 2004, pp. 2-3.
  • 2) Ferrero, Storia del pitagorismo nel mondo romano, Victrix, Forlì 2008, p. 252.
  • 3) Ci accorgeremo più avanti delle numerose sfaccettature provenienti da tradizioni distinte: la religione etrusca, il pitagorismo antico, il già citato stoicismo posidoniano e anche gli oracoli sibillini commisti a profezie di matrice giudaica.
  • 4) «Leonardo Ferrero entra nella storia della storiografia filosofica per aver pubblicato nel 1955 la Storia del pitagorismo nel mondo romano. […] Nato nel 1915 a Cuneo, Ferrero […] dal novembre del 1958 sarebbe diventato professore straordinario di letteratura latina al Magistero dell’Aquila, di lì sarebbe passato alla fine del 1960 alla Facoltà di Lettere dell'Università di Trieste, di cui fu preside per breve periodo, dal 1963 alla fine del 1965: morì infatti improvvisamente il 31 dicembre di quell’anno». (P. Donini, Leonardo Ferrero storico del pitagorismo romano, in “Rivista di Storia della Filosofia” , vol. 66, Franco Angeli, Milano 1984, p.711).
  • 5) L. Ferrero, op. cit., Victrix, Forlì 2008, pp.227-228.
  • 6) Ibidem.
  • 7) Ibidem.
  • 8) Alberto Gianola è stato dottore in lettere e insegnante di storia e letteratura all’università di Szeged in Ungheria fino al 1933 (Cfr., J.Pàl, Un’università nella tormenta. L’Università di Szeged e il suo Istituto di Italianistica (1872-1957), in “Annali di Storia delle università italiane”, vol. II, Il Mulino Bologna 2022, pp.151-152).
  • 9) A. Gianola, La fortuna di Pitagora presso i RomaniDalle origini fino al tempo di Augusto, Francesco Battiato editore, Catania 1921, pp. 45-46.
  • 10) Carlo Pascal, La resurrezione della carne nel mondo pagano, in Fatti e leggende di Roma antica, Successori Le monnier, Firenze 1903, p. 190.
  • 11)  Cfr., A. Gianola, op.cit., pp. 45-46.
  • 12) Cfr., A. Gianola, op.cit., pp. 47-48.
  • 13) Il legame tra Apollo e i culti sibillini è un tema ampio e variegato, ci limiteremo a segnalare uno studio sull’argomento: M. Monaca, La Sibilla a Roma. I libri sibillini tra religione e politica, Edizioni Lionello Giordano, Cosenza 2005.
  • 14) Carlo Pascal fu professore dal 1901 di letteratura latina all’Università di Catania fino al 1909. Divenne poi ordinario di letteratura latina all’università di Pavia sino al 1926. Qui diresse una scuola di filologia classica da lui stesso voluta (cfr., Enciclopedia online Treccani, Carlo Pascal, in Dizionario Biografico degli italiani, URL: https://www.treccani.it/enciclopedia/carlo-pascal_%28Dizionario-Biografico%29/).
  • 15) Cfr., C. Pascal, Le aspirazioni di rinnovamento umano negli scrittori di Roma antica, in Fatti e leggende di Roma antica, Successori Le monnier, Firenze, 1903, pp. 195-202.
  • 16) Le profezie sibilline nel mondo romano «circolavano in forma scritta sia greca che latina» (Virgilio, Bucoliche, in Opere di Publio Virgilio Marone, Carlo Carena (a cura di), UTET, Torino 1971, p. 98  nota 2). Vi era un collegio di quindici sacerdoti (i quindecemviri) che al tempo di Augusto avevano l’incarico di custodi dei libri sibillini (A. Ferrari, Dizionario di mitologia greca e latina, UTET, Torino 2015, p. 599). Questi "testi sacri" custoditi al tempo di Augusto nel tempio di Apollo Palatino, è stato sostenuto non contenessero oracoli ma prescrizioni rituali (Cfr., J. Champeaux, La religione dei romani, Società editrice il Mulino, Bologna 2002, p. 62).
  • 17) Carlo Pascal chiarisce che l’oracolo sibillino relativo all’età di Apollo è da intendersi come conflagrazione universale ma anche come rinnovamento morale e ristabilimento della giustizia nell’umanità (Cfr., Pascal, op. cit., p. 209-210).
  • 18) Virgilio, Buc., IV, 5, 10, pp. 98-101.
  • 19) Servio fu un grammatico latino – vissuto tra il 4 e il 5 d.C. – nonché famoso interprete di Virgilio. Scrisse un commento all’autore pervenutoci in diversi manoscritti; fra questi abbiamo: una Vita di Virgilio un commento all’Eneide, alle Bucoliche e alle Georgiche (Cfr. Enciclopedia online Treccani, voce “Servio”, URL: https://www.treccani.it/enciclopedia/servio/).
  • 20) Gli oracoli sibillini giudaici, M. Pincherle (a cura di), Libreria di cultura, Roma 1922, p. XXVIII.
  • 21) Pincherle, op. cit., p. XXIX. La divisione in dieci settimane viene mutuata da Servio dalla tradizione delle apocalissi giudaiche (Cfr., M. Pincherle, op. cit.,ibidem).
  • 22) Cfr., Virgilio, op.cit., nota 2. Inoltre Servio riferisce alla Sibilla il ciclo del «grande anno» il processo per cui al termine di tutte le epoche, gli eventi si ripeteranno tali e quali.  Tale concezione è presente anche nelle dottrine dei neopitagorici e dei genetliaci (Cfr., Virgilio, op. cit., ibidem).
  • 23) Tra il II e il I sec. a.C. si susseguono nel mondo romano numerosi conflitti sociali, politici e militari suscitati da cocenti questioni quali: l’allargamento della cittadinanza romana – e dei suoi benefici – alle popolazioni italiche, la distribuzione delle terre nemiche conquistate e il fondamentale «processo di trasformazione dello Stato romano in oligarchia senatoria» (Cfr., A. Momigliano, Manuale di storia romana, A. Mastrocinque (a cura di), UTET, Novara 2011, pp.86-128). L’orientamento oligarchico della Repubblica indebolirà lentamente il potere aristocatico-senatorio, favorendo il passaggio alla forma politica del principato dunque «alla franca accettazione di un potere politico sostenuto dall'esercito» (A. Momigliano, op.cit., p.114).
  • 24) L’accezione di renovatoret – sottolinea D’Anna – implica che Nigidio abbia portato nuovamente in auge una tradizione già presente prima, piuttosto che averne fondata una (Cfr., N. D’Anna, Publio Nigidio Figulo Un pitagorico a Roma nel I sec. a.C., Archè-Edizioni PiZeta, Milano 2008, p.25).
  • 25) Cfr., N. D’Anna, op.cit., pp. 13-17.
  • 26) Nuccio D’Anna fa parte dell’Associazione Simmetria, e della Società italiana degli Storici delle Religioni. È autore di molti saggi sul mondo classico. Collabora con prestigiose riviste di studi storico-religiosi italiane e internazionali.  (Il leone verde edizioni, Nuccio D’Anna, URL: www.leoneverde.it/autore/nuccio-danna/).
  • 27) Cfr., N. D’anna, op.cit., p.17.
  • 28) Il conflitto tra Cesare e Pompeo si sostanzia nel contrasto – da parte di quest’ultimo – delle mire politiche cesariane.  Pompeo si fece strenuo difensore degli interessi dell’ala conservatrice Senato (pur avendo in un primo momento appoggiato gli interessi cesariani). Cesare invece capeggiava la fazione dei populares, una classe politica che voleva rappresentare i ceti popolari della Roma del tempo, vi fecero parte illustri personaggi fra cui i tribuni della plebe Tiberio e Gaio Gracco (Cfr., A. Momigiano, op.cit., 125).
  • 29) Cfr., N. D’anna, op.cit., pp. 18-19.
  • 30) Cfr., N. D’anna, op.cit., p. 30.
  • 31) Bruno Gallotta (Milano, 1946), è laureato in Lettere classiche e diplomato in pianoforte. È stato docente di ruolo per la cattedra di Poesia per musica e Drammaturgia musicale (in precedenza Letteratura poetica e drammatica) presso il Conservatorio G. Verdi di Milano». (Edizioni Sinestesie, Bruno Gallotta, URL: https://www.edizionisinestesie.it/autori/bruno-gallotta/).
  • 32) Le ragioni addotte da D’Anna sull’inadeguatezza delle tesi di Gallotta, riguardano il senso dell’azione pubblica di Nigidio. Il renovaret più che un’azione politica tesa a sovvertire concretamente l’ordine sociale in senso reazionario si è solo limitato a osservare la decadenza della Roma repubblicana di cui era sostenitore. Ciò si può desumere per D’Anna dal significato politico di uno scritto a carattere divinatorio di Nigidio: il Calendario brontoscopico che intendeva solamente applicare al campo sociale e politico le conoscenze che gli derivavano dalla sua attività rituale e spirituale (Cfr. N. D’Anna, op. cit., pp. 149-154).    
  • 33) Ibidem.
  • 34) Cfr., L. Ferrero, op. cit., p. 241.
  • 35) Cicerone vede negli ottimati una ristretta cerchia di indirizzo spirituale, non come gruppo politico o ceto sociale, ai fini di ulteriori approfondimenti rimandiamo allo studio di Ettore Lepore: E. Lepore, L’ideale del «politico» e la soluzione ciceroniana: il «princeps» come nuovo ottimate, in Storia di Roma. L’impero mediterraneo, vol. 2, Giulio Einaudi Editore, Torino 1990, pp.864-872. 
  • 36) sopra nota 22.
  • 37) La questione della definizione del concetto di nobilitas richiede specificazioni esaustive che rimanderemo altrove. Vorremmo solo sottolineare che si distingueva dal patriziato poiché per accedervi bisognava solo scalare il vertice delle cariche pubbliche che erano elettive. Sebbene idealmente possa intendersi come un’élite tendenzialmente aperta, il parere di diversi studiosi ha evidenziato che le magistrature e gli organismi di potere erano in realtà sempre in mano alle stesse famiglie, patrizie o plebee che fossero. Quindi l’emersione di nuove personalità politiche avveniva di rado. Inoltre bisogna far presente l’ irrobustirsi – negli ultimi due secoli della repubblica (II e I sec. a.C.) – della distanza tra il popolo e l’aristocrazia (Cfr., F. Cassola, Lo scontro fra patrizi e plebei e la formazione della «nobilitas», in Storia di Roma. Roma in Italia, vol. 1, Giulio Einaudi Editore, 1988 Torino, pp.470-472).
  • 38) Cfr., L. Ferrero, op. cit., p. 264.
  • 39) Ferrero ci fa presente che Cicerone riflette a lungo nel De repubblica sulla figura dell’ottimate e sottolinea che la costruzione di un ideale dell’uomo politico conservatore fosse centrale nell’opera.   (Cfr., L.Ferrero, op.cit., p.24).
  • 40) Il regnum apollinis nella cosmologia nigidiana identifica una “palingenesi restauratrice”. Infatti, l’origine del cosmo nel regno – anch’esso aureo – di Saturno culmina nel tempo mitico di Apollo dove «si ha un "nuovo inizio", una "ripresa del tempo" affidata al dio che non solo preservava l'armonia e la perfezione cosmica, ma spesso veniva considerato come la stessa personificazione del sole, l'astro che custodisce e regola i ritmi celesti» (N. D’anna, op.cit., p. 45). Quindi da qui si ha «un "ritorno" ad una nuova età della perfezione cosmica ritmata dalla centralità del sole» (ibidem) .
  • 41) Cfr., N. D’anna, op.cit., p.61.
  • 42) Il De diis sappiamo fosse composto da venti libri. Considerata l’opera teologica di Nigidio espone le varie sfaccettature che concorrono a formare la sua prospettiva cosmologica e filosofico-religiosa. È visibile un sincretismo fra: l’aruspicina, l’elemento stoico del rinnovamento apollineo e la religione etrusca. La cosmologia espressa prevede un cielo anch’esso diviso in sedici spazi volti a circoscrivere l’ambito di azione e rituale di ogni divinità – come nel fegato di Piacenza (v. sopra p.6). I dii Consentes hanno ognuno una propria partizione cosmica (dodici divinità etrusche sei maschili e sei femminili dal ruolo poco chiaro. Successivamente corrisposte a quelle romane, formavano una specie di consiglio del destino al quale neanche Giove poteva opporsi, si veda A. Ferrari, op.cit., p.190 e G. Dumézil, La religione romana arcaica, BUR, Milano 2001, p. 555). La frammentazione del cosmo pare connessa alle altrettante sedici lettere dell’alfabeto latino. Questo legame sembra fondarsi sulla convinzione di Nigidio per cui la corretta pronuncia del nome di un dio ne favorisse maggiormente la teofania (Cfr., N. D’anna, op.cit., pp.111-117). La delimitazione del cosmo è funzionale all’intervento dell’aruspice che «non solo svelava il volere degli dèi, ma indicava l'ordine che la vita umana doveva assumere attorno ai ritmi della natura» (N. D’Anna, op.cit., p.111).
  • 43) Cfr. N. D’anna, op.cit., p.43.
  • 44) Ibid.
  • 45) D’anna, op.cit., p.47.
  • 46) D’anna, op.cit., p.46.
  • 47) Ibid.
  • 48)  Ibid.
  • 49) Posidonio si staccava dal razionalismo paneziano improntato a un marcato naturalismo e a una rinuncia agli elementi metafisici dello stoicismo (Cfr., L. Ferrero, op.cit., pp. 251-252).
  • 50) E.Vimercati, Commentarioin Posidonio, Testimonianze e frammenti, E. Vimercati (a cura di), Bompiani, Milano 2004, p. 553.
  • 51) Vimercati, op.cit., p. 555.
  • 52) Posidonio, Testimonianze e frammenti, E. Vimercati (a cura di), Bompiani, Milano 2004. fr. A98, pp. 91-92.
  • 53) Posidonio, op.cit. fr. A102, p. 93.
  • 54) Posidonio, op.cit. fr.A105, p. 97.
  • 55) Ibidem.
  • 56) D’anna, op.cit., p. 63.
  • 57) D’anna, op.cit., p. 112.
  • 58) Cfr., N. D’anna, ibidem.
  • 59) D’anna, op.cit., p. 113.
  • 60) D’anna, op.cit., p. 115.
  • 61) L.Ferrero, op.cit., p. 273.
  • 62) L.Ferrero, op.cit., p. 251.
  • 63) Cfr., L. Ferrero, op.cit., p. 291
  • 64) L.Ferrero, op.cit., p. 292.
  • 65) L.Ferrero, op.cit., p. 296.
  • 66) L.Ferrero, op.cit., p. 291.
  • 67) Ibidem.
  • 68) L.Ferrero, op.cit., p. 292.
  • 69) Cfr., L.Ferrero, ibidem.
  • 70) L.Ferrero,op.cit., p.297.
  • 71) Cfr., L.Ferrero, ibidem.
  • 72) L.Ferrero, op.cit., p.295.
  • 73) L. Ferrero, op.cit., p.298.
  • 74) Ibidem.
  • 75) Cfr., L.Ferrero, op.cit., p. 301.
  • 76) L.Ferrero, op.cit., p.303.
  • 77) Cfr., L. Ferrero, ibidem.
  • 78) Cfr., L.Ferrero, ibidem.
  • 79) «Domizia Lanzetta è mitologa, esperta nella tradizione pagana occidentale. Docente di religiosità greco romana presso l’Accademia Tiberina, presso l’Associazione Simmetria e in numerose altre associazioni» (v. Domizia Lanzetta, il Giardino dei Libri Anima Corpo Mente Spirito, URL: https://www.ilgiardinodeilibri.it/autori/_domizia-lanzetta.php).
  • 80) D. Lanzetta, Roma orfica e dionisiaca nella Baslica “pitagorica”di Porta Maggiore, Edizioni Simmetria, Roma 2011, p.109.


 

 

  • Adelphi

  • Adelphi
  • L’origine di una casa editrice 
  • rec.
  • di 
  • Giovanni Sessa
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  • È di fatto impossibile comprendere l’Italia contemporanea, qualora non si tenga in debito conto l’influenza culturale esercitata da Adelphi editore.  Un recente volume di Anna Ferrando, docente dell’Università di Pavia, presenta la prima ricostruzione storica plausibile di tale casa editrice.  Il libro, Adelphi. Le origini di una casa editrice (1938-1994) é nelle librerie per Carocci (pp. 447, euro 39,00).  Il tratto affabulatorio della prosa dell’autrice rende coinvolgente la lettura, sottraendola alla mera ricostruzione accademico-documentaria: il testo, in fondo, è un’organica e oggettiva ricostruzione d’ambiente.
  • ...
  • Un milieu, quello adelphiano, che si costituì a partire dagli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, in pieno regime fascista. Goffredo Parise era convinto che per gli adelphiani, in quel frangente: «La cultura fosse catacomba, cunicolo privato, un regno di talpe lente e meravigliose che si incontrano nella cecità […] esse intanto scavano. Per quanti anni ancora, prima di uscire alla luce?» (p. 11).  Tre nomi erano al centro dell’ambiente da cui sarebbe nata, nel giugno del 1962, l’Adelphi: Luciano Foà, Bobi Bazlen e l’imprenditore Alberto Zevi, sostengo finanziario per venti anni del nuovo editore.
  • ...
  • Foà incontrò Zevi nella fucina della NEI di Adriano Olivetti, ma il loro legame si intensificò durante il comune esilio in Svizzera: entrambi erano ebrei. Cominciarono a pensare all’impellente necessità di pubblicare libri che potessero divenire: «lo strumento con cui pensare il futuro del […] paese» (p. 12). Gli sforzi di questi Adelphoi, fratelli in spirito, furono a lungo ostacolati, perfino nell’Italia repubblicana.  Del resto, proprio durante il Ventennio, i tre erano venuti in contatto con il meglio dell’intellettualità internazionale in quanto: «l’editoria si rivelava assai meno provinciale di quanto si sarebbe indotti a credere» (p. 11). Nell’Italia repubblicana, l’Adelphi volle presentarsi come l’anti-Einaudi, la casa editrice torinese che esercitava, con i sui tipi, un’azione pedagogica politico-culturale orientata a sinistra.  Il senso del catalogo voluto da Foà, Bazlen, Zevi e da molti altri collaboratori, tra i quali Calasso e Colli, é ben sintetizzato, rileva l’autrice, da questa frase contenuta nella prefazione a, Vite immaginarie di Marcel Schwob: «L’arte si pone dalla parte opposta delle idee generali, non descrive che l’individuale, non desidera che l’unico» (p. 14).   Da qui l’idea di pubblicare libri “unici”, in modalità editoriale leggera, ricorrendo, se non in casi rari, a snelle introduzioni, al fine di far giungere in modo diretto, non mediato, la voce dell’autore al lettore.
  • ...
  • L’Adelphi, fin dagli esordi, rifiutò l’idea di “collana”: «intesa in senso ordinativo, prescrittivo e didattico» (p.15), caratterizzante il catalogo dell’Einaudi, in quanto, a monte delle diverse scelte  adelphiane, va colto il rifiuto di Bazlen: «per la logica falsa, fondata sull’illusione dell’oggettività e della continuità delle nostre rappresentazioni» (p. 15).   Insomma, per dirla con Foà: «Fondai l’Adelphi, con i consigli di Bobi Bazlen, per rompere la monotonia dell’ideologismo editoriale di sinistra» (p. 15), e per riportare all’attenzione degli studiosi figure di intellettuali che avevano incarnato il modello dell’uomo colto, quale puro esteta e cultore del fantastico.  La ricerca di tali personaggi ha reso l’editrice milanese vero e proprio “ricovero” per il pensiero che la Ferrando definisce “irrazionalista” e che chi scrive, al contrario, ritiene dovrebbe essere più propriamente indicato come sovra-razionalista.  Suo tratto saliente è l’antistoricismo, pensiero anticausale: «negazione della storia, in quanto svolgimento progressivo e necessario» (p. 16).  Esso trovò, nella pubblicazione dell’opera omnia di Nietzsche, il punto apicale. Merito di tale operazione va ascritto, oltre che a Foà, a Giorgio Colli, ai suoi allievi, tra i quali Mazzino Montinari. La pubblicazione di Nietzsche condusse Adelphi a stringere rapporti con grandi editori esteri, quali Gallimard: fu onerosa sotto il profilo economico, coraggiosa in termini ideali e valse all’editore l’attenzione della critica e il definitivo successo di mercato.  Ferrando mette in rilievo, inoltre, la centralità, per la definizione delle scelte targate Adelphi, dello psicanalista Ernst Bernhard, di formazione junghiana. Altri ambiti di interesse elettivo per questo editore furono la cultura mitteleuropea (contesagli dall’ Einaudi), la metafisica e il pensiero orientale, ben rappresentati nella collana “Il ramo d’oro”.  L’autrice si sofferma anche sulla crucialità della figura di Roberto Calasso, divenuto nel 1971 direttore editoriale.   Quest’ultimo, in uno dei libretti autobiografici usciti postumi il giorno della sua morte, ha confessato di aver subito, fin da giovane, il fascino dell’opera di Guénon, anzi di esserne stato addirittura “ossessionato”.  La cosa ha rilevanza: nel 1994, infatti, Foà maturò la scelta di abbandonare la sua creatura editoriale, a seguito della scelta adelphiana di dare alle stampe il volume di Léon Bloy, Dagli ebrei la salvezza, contenente echi antisemiti.   Il libro fu distribuito nel frangente storico in cui si formava in Italia il primo governo di centro-destra del dopoguerra.  Lo studioso iniziò a riflettere sull’effettiva possibilità di un’editoria “impolitica”, “pura”. L’interesse per l’“irrazionalismo” e per la metafisica, per lui avrebbero dovuto significare l’apertura: «a diversi orizzonti di pensiero» (p. 25).   Al contrario, Calasso: «avrebbe invece cavalcato quei filoni in una direzione più vicina ai solchi tracciati da un Edilio Rusconi» (p. 25), che stava dando vita, con la sua casa editrice, sostenuto da Alfredo Cattabiani, a una vera e propria renaissance della cultura tradizionalista.
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  • Se l’Adelphi venne attaccata da sinistra per la sua distanza da qualsivoglia istanza “rivoluzionaria”, da destra venne criticata in quanto portatrice di istanze neo-gnostiche e anticattoliche. Tale polemica è ricordata e discussa, con specifico riferimento al volume di Maurizio Blondet, Gli Adelphi della dissoluzione. Viene rilevata, altresì, l’importanza, in tale contesto, di Elémire Zolla e del suo, Che cos’è la Tradizione.  Tra i molti documenti citati emerge una lettera del 1965 di Bazlen relativa a Tolkien, i cui racconti avrebbero presto avuto nel nostro paese grande risonanza.   In essa è scritto: «E’ da molto tempo che non ho letto un racconto così di gusto» (p. 286), segno tangibile dell’ineguagliabile sensibilità letteraria del triestino. Una ricostruzione meticolosa della storia dell’Adelphi, quella offerta dalla Ferrando, nonostante l’Archivio della casa editrice non conservi una messe di documenti molto ampia, almeno per quanto attiene ai primi trent’anni della sua esistenza. La lacuna è stata colmata dalla consultazione dei carteggi dei protagonisti della vicenda e dai colloqui con i loro famigliari. Un libro organico che, attraverso la storia dell’Adelphi, disegna una mappatura della cultura italiana dal secondo Novecento per giungere fino ai nostri giorni.

  • Koyré

  • La filosofia di Jakob Böhme
  • Un testo capitale di Alexandre Koyré
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
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  • Il pensiero di Jakob Böhme (1575-1624) è, per chi scrive, cruciale per l’influenza che ebbe sui romantici e la filosofia classica tedesca, quanto per il tratto dirompente dei suoi contenuti, soprattutto se confrontati con la vulgata teoretica e teologica contemporanea. Usciamo dalla lettura di un volume di Alexandre Koyrè, La filosofia di Jakob Böhme, curato da Francesco Novelli, nelle librerie per Mimesis (pp. 703, euro 32,00). Il lucido e dirimente saggio introduttivo è firmato dal curatore stesso. La filosofia di Jakob Böhme è una puntuale e organica esegesi della proposta speculativa-realizzativa del tedesco, che consente al lettore di coglierne gli aspetti sostanziali e quelli accessori.
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  • Koyrè, studioso franco-russo, fu uno dei massimi promotori della Hegel Renaissance in Francia. Fu docente all’École des hautes études di Parigi, dove operò sotto la sagace guida, tra gli altri, di Étienne Gilson. Successivamente, si avvicinò, attraverso la fenomenologia di Husserl, alla “filosofia del vissuto”. È questa una delle chiavi interpretative di cui si serve in queste pagine dedicate alla mistica böhmeiana. Obiettivo di Koyré è far parlare il teosofo con “la propria voce”: «prescindendo il più possibile da postulati genealogici di discendenze, influenze e derivazioni» (p. 9). Altri aspetti metodologici da tenere in debito conto, per avere acconcio accesso al libro, sono il rifiuto della ratio positivista e del determinismo marxista, nonché l’interesse di Koyré, condiviso con l’antropologo Lévy-Bruhl, per la riemersione della mentalità arcaica nel pensiero moderno, sospeso tra queste riviviscenze e: «nuove rivoluzioni epistemiche» (p. 10).
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  • L’esperienza di Böhme è un tentativo di rispondere a una domanda circostanziata: «A cosa mi serve una scienza nella quale io non possa anche vivere?» (p. 108). Quesito sollecitato dalla constatazione, nel frangente storico in cui gli toccò in sorte di vivere: «di una scissione tra il vissuto religioso e l’istituzione ecclesiastica luterana» (p. 10). La Slesia era, allora, terra devastata dalla guerra dei Trent’anni: in quella regione la nobiltà rurale impoverita e gli artigiani delle città erano particolarmente sensibili alle dottrine mistiche e critici nei confronti della chiesa visibile. Böhme si prefisse, pertanto, di corrispondere a due istanze vividamente avvertite: ricongiungere l’uomo a Dio e affrontare il problema della presenza del male nel mondo. A suo dire: «L’esperienza tragica dell’uomo è riflesso, immagine o similitudine […] di quella, altrettanto tragica, di Dio. La vita di Dio […] è evoluzione, storia, processualità» (p. 15). In Böhme, l’emanazionismo ipostatico assume una curvatura emozionale e fisica, che si lascia alle spalle l’autocostitursi del divino inteso in termini meramente concettuali e logocentrici. Esso ha, invece, a che fare con la “nascita”, Geburt. Per questo, il Dio cui allude il teosofo-ciabattino, è personale e vivente. In tal senso, egli si richiama, in modalità non scolastica e ripetitiva, all’henologia di Eckhart. Laddove questi e, più in generale la mistica renana, avevano pensato la Deità quale terminus ad quem del tragitto dell’anima,  Böhme, al contrario, esperisce la Gottheit quale terminus a quo della complessa, dolorosa, auto-gestazione del divino. Pertanto: «Il Dio-Persona […] contiene in sé  ogni “differenza”, tutto l’infinito di opposizioni e distinzioni che eternamente supera e riunisce […] È nel movimento, e il movimento è in lui» (pp. 17-18). 
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  • L’intera visione teologica del tedesco è irrorata dall’idea di seme, germe cosmico, (Keim), intesa quale mysterium vitae: «È […] una unione dei contrari, perfino dei contraddittori. Il seme è […] ciò che esso non è. È già ciò che non è ancora […] Eppure non lo è […] Il seme è […] la “materia” che evolve e la potenza che lo fa evolvere» (p. 217). È un chiaro riferiemento alla dynamis greca, che la ragione calcolante, identitaria e dicotomica, non è in grado di cogliere. Tale idea troverà in Schelling, un’eco profonda, in particolare, rileva Koyré, nella filosofia della libertà. Jean Wahl, autore di un noto volume sulla “coscienza infelice” di Hegel, recensì entusiasticamente l’opera di Koyré al fine di giustificare la propria esegesi del filosofo di Stoccarda: «come pensatore romantico animato da afflati mistici e tragici» (p. 13). In realtà, il “negativo”, la tragedia, nel sistema hegeliano, sono tacitati ab initio: «la sua tragedia è un tragedia del pensiero, non una tragedia vissuta […] il tragico che è reale per l’uomo, non è affatto reale per Dio: per Dio- e anche per Hegel- la tragedia è già superata» (p. 14). L’eredità speculativa di Böhme, al contrario, è viva  in Schelling, che aveva ben compreso, rileva Koyré, come in Hegel il tragico fosse fittizio, da sempre risolto dialetticamente in un nuovo positivo. Un Dio puramente spirituale, chiosa Böhme, sarebbe imperfetto, in quanto persona deve avere un corpo.
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  • Dio ha in sé una natura che pur non coincidendo con lui, lo induce, lo sospinge al novum, oltre se stesso, fino all’auto-rischiaramento. Per Koyré, in Böhme i contrari si richiamano l’un l’altro, si implicano: l’uno si dice solo nei molti: «Tale è il grande mistero dell’essere» (p. 360). Egli trasforma la “metafisica della luce” in una “metafisica del fuoco”: la natura divina è fiamma ardente, pyr eracliteo, potenza distruttrice e generatrice: «È in Dio quella morte che è origine della vita, il fuoco senza il quale non vi sarebbe né fiamma né luce» (p. 371). Il fuoco è principio infondato e spiega la polarità dinamica del reale. Il mondo, in tale ottica, ha le fattezze della paracelsiana signatura rerum, è espressione nel senso indicato da Giorgio Colli di un Ab-grund, ed è in relazione biunivoca e simpatetica con l’invisibile. Il linguaggio di Böhme, il suo tedesco “selvatico”, testimonia il tentativo böhmeiano di porsi oltre l’analitica della Vernuft, oltre il tratto dia-bolico e divisivo che la connota, al fine di alludere al mistero della coincidentia oppositorum: una faticosa pratica, quella del teosofo, che ha a che fare con la professione artigianale che egli esercitò in vita, quella di calzolaio, teso a concedere un Grund, un suolo, a un Dio vivente, “corporeo”, che agita, ab initio, gli enti.    Prassi artigianale e “demiurgica”, traslata in filosofia.
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  • Alla teosofia di Böhme debbono guardare quanti vogliano sottrarsi al dominio del concetto e dell’onto-teo-logia, quanti vogliano recuperare alla prassi teoretica la dimensione museale, immaginale, al fine di cogliere l’essere sempre all’opera del principio, della dynamis, libertà-potenza.    Il libro di Koyrè,  in tal senso, è utile e illuminante viatico.

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  • GIOVANNI SALLUSTI JPEG

  • Giovanni Sallusti,
  • Mi mancano i vecchi comunisti,
  • prefazione di Giuliano Ferrara,
  • Liberilibri, Macerata 2024, pp. 120, € 16,00.
  • rec. di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Chi scrive ha da anni la convinzione che nel cambio tra la vecchia sinistra pre 1989 e la contemporanea radical-chic, si è caduti, almeno per certi versi, dalla padella nella brace. Qualcuno, anche se non con la coerenza e l’approfondimento di Sallusti, ritiene che il marxismo avesse degli aspetti, per dirla à la Spengler, faustiani, ossia di apprezzamento – a tratti di vera e propria esaltazione – di quello che l’occidente e la sua ultima versione, cioè il capitalismo borghese (dal XIX secolo) aveva realizzato.
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  • I vecchi comunisti, scrive Sallusti, “accettavano la Rivoluzione industriale come fatto storico-economico, dandone persino un giudizio positivo il che già li collocherebbe tra gli eretici, al tempo in cui la sinistra continentale vota compatta all’Europarlamento una surreale legge per il Ripristino della natura, motivo più che sufficiente per giustificare il rimpianto inconsolabile dell’autore” (è la prima tesi “eretica”). Credevano nell’autonomia della politica… “sia come oggetto di studio che come tecnicalità (anche troppo) spiccia, la consideravano un valore acquisito da Machiavelli (due). Infine, scusate se è poco, il Vecchio Comunista riconosceva appunto l’esistenza, la specificità e addirittura l’eccezionalità di un’entità meta-storica a sé stante, una postilla chiamata Occidente. Non voleva cancellare la nostra cultura, intendeva celebrarne i fasti nella Società Perfetta” (siamo a tre).
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  • Invece i sinistri odierni, scrive Sallusti “Aboliscono la storia, questo è il punto di fondo, in favore di una posticcia metafisica buonista. Per questo sono ancora più pericolosi”, e hanno sostituito alla società senza classi, la “salvezza del pianeta”.
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  • Analizzando le tre principali fratture elencate, quanto al produttivismo, l’autore evidenzia anche altri punti di incontro tra pensiero marxista e liberale-libertario. Tra i quali la polemica antiburocratica e antiparassitaria, iniziata dal giovane Marx con una rappresentazione, tuttora insuperata, della Weltaschauung del burocrate nella “Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico”. E della centralità della fabbrica (e dei consigli di fabbrica) nel pensiero di Gramsci.  Quanto al realismo, Sallusti ricorda la polemica di Marx ed Engels contro il socialismo utopistico (Fourier, Saint Simon): ora si passa dalla “nuova Gerusalemme” della società senza classi al “vitello d’oro” (ma non sarà ottone?) del gretinismo planetario, cioè la salvezza dell’ambiente.  E sostanzialmente con la negazione della politica – e del “politico”, salvaguardata (eccome) dalla prassi del comunismo vintage, che la nuova sinistra occulta o non considera.  E così tende ad eliminare il conflitto e la lotta (cioè l’amico-nemico), senza – ovviamente – riuscirci perché fa parte della condizione umana e perché crea, insieme dei nemici nuovi, negandoli (l’industriale inquinatore, la partita IVA, l’evasore) favorendo così una tecno-burocrazia di cui è la chiassosa (e subordinata) banda.
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  • L’occidentalismo del vecchio comunista è evidente “Marx rimane hegeliano fino alla fine, dunque non cessa mai di essere occidentalista”; per cui “non si sognerebbe mai di rimuovere il padre, e di celebrare questo suicidio culturale chiamato Cancel Culture”. Per cui, contrariamente alla cultura Woke “Ogni volta che c’è occidentalizzazione c’è civilizzazione, è il teorema di Marx, ed è una spettacolare, a lungo occultata ma definitiva stroncatura ante litteram della lagna (auto)colpevolizzante Woke”.   L’irrazionalismo stigmatizzato da Lukacs è oggi incarnato nella cultura Woke. Questa (scrive Sallusti) non sfugge alla dialettica amico-nemico, anzi è il nemico... “nemico implacabile, perché più ancora che la Ragione (qui saremmo ancora a Lukacs) sente di avere i Buoni Sentimenti dalla sua, è Wokista”.   É nemico interno e il suo abito mentale è l’oicofobia (Scruton). Cioè il rifiuto della (propria) civiltà occidentale.
  • ...
  • Per cui conclude l’autore nostalgicamente sui vecchi comunisti: “li rimpiango amaramente, non è nemmeno più nostalgia struggente, è un appello disperato, è una seduta storico-spiritica, sono un vedovo inconsolabile dei Vecchi Comunisti”; mentre i nuovi sinistri “non perseguono la sintesi dell’uguaglianza, non hanno una meta, vivono in un eterno presente ringretinito e perseguono l’apocalisse petalosa, la mera e benpensante distruzione della ragione, della (nostra) storia, della (nostra) civiltà”. C’è ancora tempo per fermarli: ma di danni, purtroppo, ne hanno già fatti tanti.

 

  • Esprimere il vissuto COLLI

  • Esprimere il vissuto
  • La filosofia di Giorgio Colli
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • Chi scrive, fin dalle letture adolescenziali, ha considerato Giorgio Colli filosofo di grande spessore. Troppo spesso il suo operato è stato valorizzato esclusivamente in riferimento alla curatela dell’opera di Nietzsche. Taluno, tra i critici, ha addirittura criticato il suo approccio filologico-teorico al mondo dei Sapienti. In realtà, egli è stato: «filosofo nel senso classico […] impegnato in un radicale ripensamento della tradizione filosofica occidentale alla luce di una nuova configurazione del rapporto tra conoscenza e vita» (p. 13). È quanto si evince dalla lettura di un volume collettaneo a lui dedicato dall’Istituto Italiano per gli studi filosofici, Esprimere il vissuto. La filosofia di Giorgio Colli, curato da Ludovica Boi, Giulio M. Cavalli e Sebastian Schwibach (per ordini: info@scuoladipitagora.it, pp. 260, euro 24,00).
  • ...
  • Il testo raccoglie i contributi che furono presentati nelle giornate di studio tenutesi a Napoli, presso la sede dell’Istituto, dal 4 al 6 ottobre 2021. Il volume si compone di quattro sezioni. La prima contiene scritti di Riccardo Cavalli, Carlo Gentili e Alessio Santoro. Cavalli si occupa dell’interpretazione colliana del Parmenide di Platone, dialogo nel quale venne meno la pretesa di definire in termini razionali l’idea.  Nelle sue pagine, per l’ultima volta, secondo Colli: «rivive la ragione sana e vitale dei “filosofi sovraumani”, la cui natura distruttiva […] non compromette il possesso inscalfibile che il sapiente ha conquistato una volta per tutte dentro di sé» (p. 25).  Nel Parmenide tornò a baluginare la Sapienza, il cui lucore sarà spento dalla riduzione dell’idea a concetto, che indusse la separazione di vita e pensiero.  L’autore rileva come, nell’attitudine estetica platonica, sia rinvenibile un’articolazione del nesso idea-mondo non ancora del tutto disancorato dal sensibile: «Si coglie qui l’eco della teoria schopenhaueriana […] ma anche il decisivo scarto da essa, nell’insistere sulla natura non formale della soggettità pura […] e nel mettere in risalto […] la sua vitalità» (p. 29). Il principio, inteso in modalità statica e trascendente, è, a dire di Colli, cieco di fronte alla vita sempre in fieri.
  • ...
  • Gentili sposta il discorso sull’idea che della politica si fece il giovane Colli. In quel frangente, il filosofo torinese si servì delle analisi di Julius Stenzel e Christian Meier, non mancando di cennare alla visione schmittiana.  Il tema è affrontato muovendo da: «scorci offerti dalla tragedia attica» (p. 10).  Il senso del “politico” si disvela nei casi messi in luce da alcuni componimenti tragici, nei quali l’associazione politica incontra e si scontra con il suo contrario, la dissociazione, dando luogo alla stasis: «Il politico prevede una riflessione sui modi della democrazia e sulle relazioni con il suo apparente opposto: la tirannide» (p. 61). Colli ha contezza che la tirannide nasce dalla “tracotanza”, tratto spirituale “disordinato”, lo rilevò Voegelin, dell’uomo della democrazia estrema. Il tiranno radicalizza il tratto antropologico dell’uomo democratico: vuole estendere il proprio potere su un’infinità di uomini. In ciò è da individuarsi il suo “dionisismo”, pur essendo il “politico”, per definizione, appartenente al versante apollineo.
  • ...
  • Alessio Santoro si sofferma sulla lettura colliana di un passo del De Interpretatione (16b19-25) di Aristotele, dedicato al verbo “essere”. Il testo mostra che la critica della ragione nel filosofo italiano non è derubricabile all’irrazionalismo, ma muove dalla ragione stessa e si serve dei suoi strumenti, innanzitutto della logica, per indurre un riavvicinamento della Sapienza. Colli relativizza il ruolo conoscitivo del soggetto: «punto di vista parziale e provvisorio sul mondo» (p. 81). “Espressione” è la definizione attribuita dal pensatore ai nessi svincolati dal soggetto, che sono: «manifestazione di qualcosa di altro da cui l’espressione si è allontanata e che non potrà mai recuperare - l’“immediatezza”» (p. 81). Valerio Meattini porta l’attenzione su ragione e storia in Colli. Mostra come la loro critica possa restituire valore alla filosofia, rendendola “grammatica del limite” e sapere rigenerante, terapeutico. Ragione e storia non devono essere negate, in quanto sono segno del distacco dall’immediatezza. La prima ne fu causa, la seconda un effetto. In entrambe è celato l’immediato che può tornare a rivelarsi, sia pure per via allusiva, simbolica. Giulio M. Cavalli distingue due momenti nella critica alla ratio propria di Colli. Il primo è dato dall’approccio nietzschiano, storico-genealogico, il secondo da quello logico-dialettico, originatosi nell’eleatismo. L’esegesi dell’autore rintraccia nella nozione di contraddizione l’elemento cruciale di questo secondo momento.
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  • Ludovica Boi intrattiene il lettore, con pertinenza argomentativa, sull’influenza esercitata dalla teosofia di Böhme sul giovane Colli.  Il pensatore lesse Böhme alla fine degli anni Trenta. La sua esegesi del teosofo si avvalse degli studi di Paul Dessen e Karl Joël. Quest’ultimo sostenne che i presocratici e il teosofo furono portatori di un pensiero vivo, la cui eco si sarebbe riverberata fino al Romanticismo. I Sapienti e Böhme vissero, per Colli, un’esperienza extrarappresentativa, una cosmizzazione dell’interiorità.  Un’esperienza che non può essere comunicata, anche se a volte accade, come accadde al teosofo quando si accinse a scrivere Aurora, di essere colpiti dall’: «urgenza espressiva» (p. 142). Colli mostra particolare interesse per metafisica e cosmologia in Böhme. La realtà, per il tedesco, è risultato del processo di autorivelazione dell’Urgrund, principio infondato che: «trascende il piano stesso dell’essere come ciò che, nella sua più propria essenza, non è alcuna essenza» (p. 145). Tale elemento ha in sé un volere che lo induce a manifestarsi. Non è mera quiete e trascendenza, ma brama: «un pungolo a esistere» (p. 145). L’autorivelazione consta di sette determinazioni, che nella maggior parte dei casi sono corrispondenti a un elemento alchemico. Il cosmo è costituito da questo settenario e dall’inesausta azione ritmica di Amore-Odio. Tale ritmica fa capo all’unità divina. Tutti gli opposti sono nel principio, a cominciare da essere e nulla, unità e molteplicità, essenza ed esistenza. L’“abbandono” mistico di Böhme allude alla: «reintegrazione nell’ordine cosmico, è la consumazione dell’illusione del due» (p. 152), che si sperimenta come vissutezza, attraverso il corpo. Il pensiero e il principio hanno tratto corporale e, proprio come per i Sapienti, il Geist si dà nel Leib. Essenza ed esistenza, principio e physis, dicono il medesimo.
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  • Di rilievo anche gli altri contributi. Sebastian Schwibach si occupa di ciò che unisce e di ciò che divide Colli da Elémire Zolla. Rossella Attolini entra nelle vive cose del dibattito su apollineo e dionisiaco nella Filosofia dell’espressione. Ciò induce l’autrice a individuare prossimità e differenze delle tesi colliane rispetto a quelle di Nietzsche, Toffoletto inaugura, cosa rilevante, lo studio della filosofia della musica in Colli, mentre Corriero colloca l’esperienza colliana all’interno del pensiero italiano. Un volume ricco di stimoli teoretici.  Indica una strada da perseguire.

 

  • Tilgher

  • Il pragmatismo trascendentale
  • Torna l’opera capitale di
  • Adriano Tilgher
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

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  • La filosofia italiana della prima metà del Novecento, per chi scrive, non è stata affatto espressione “provinciale”, marginale, del pensiero europeo. Al contrario, l’Italian Thought, assai articolato per proposta teorica nel corso del secolo XX, ha espresso pensatori di tutto rilievo. Tra essi un ruolo centrale lo ha svolto Adriano Tilgher. La nostra asserzione ci pare confermata dalla lettura della nuova edizione della sua opera capitale, Teoria del pragmatismo trascendentale. Dottrina della conoscenza e della volontà, nelle librerie per InSchibboleth (per ordini: info@inschibboloethedizioni.com, pp. 357, euro 26,00). Il volume è curato da Michele Ricciotti, autore di un’introduzione organica, che consente al lettore di contestualizzare, sotto il profilo storico-teoretico, il pensiero di Tilgher. Il volume è, inoltre, arricchito da un’Appendice che raccoglie uno scritto dirimente in merito a, La polemica Croce-Gentile.
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  • L’iter speculativo del pensatore prese avvio, all’inizio del Novecento, sotto il segno di Croce. Il filosofo di Pescasseroli si spese a favore dell’intraprendente giovane, perfino per questioni personali: chiese e ottenne per lui un posto di bibliotecario a Torino e, successivamente, il suo trasferimento a Roma, presso la biblioteca “Alessandrina”. A lui affidò, inoltre, la traduzione della Dottrina della scienza di Fichte, che uscì per Laterza. Presto l’“irrequieto” Tilgher colse la problematicità della dottrina dei distinti. A suo giudizio, in Croce: «il passaggio dal “momento intuitivo” al “momento percettivo” sembrava avvenire per “un trapasso misterioso ed incomprensibile» (p. 11), nota il curatore. Tale “inspiegato” chiamava in causa: «la relazione di distinzione tra volizione e intuizione, che a sua volta implicava quella tra filosofia pratica e conoscenza teoretica» (pp. 11-12). Uno iato sembrava porsi tra i distinti e il loro “fuori”: lo si evinceva con chiarezza nell’arte. Il “sentimento”, contenuto dell’intuizione: «rischiava di sfuggire alle maglie del sistema» (p. 12). Tilgher faceva del “sentimento” un momento dialettico negativo. Tale posizioni vennero successivamente confermate, in modalità compiuta, nell’Estetica del 1931.
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  • Il pragmatista riteneva che, nell’Estetica crociana del 1902, l’arte fosse presentata quale conoscenza dell’individuale, che escludeva la materia caotica e informe. Successivamente, il pensatore abruzzese identificò tale materia con le forme dello spirito pratico. L’arte organizzava, per così dire, una materia già data, essa era ridotta a una: «teorica dell’intuizione» (p. 14). La Teoria raccoglie una decina di saggi pubblicati da Tilgher su riviste e giornali dal 1909 al 1914 che, rielaborati, andarono a costituire i dieci capitoli del volume. Il testo ha, pertanto, tratto sistematico. Nelle sue pagine, il punto d’avvio è da individuarsi nell’identità idealista di essere e conoscere. Ma, tale prospettiva speculativa, pone il conoscere, non quale dato ultimo, in quanto il suo principio sta: «nell’atto con cui lo spirito si pone come astrazione assoluta da ogni dato empirico, come volere puro» (p. 39), autoponentesi e autoaffermantesi. Pragmatismo trascendentale, pertanto, sempre in fieri. In questo contesto, torna ancora una volta in primo piano il tema dell’arte. L’originale esegesi tilgheriana si pone oltre le consuete letture della “morte dell’arte” hegeliana, e al di là della torsione storicista, che la questione ebbe in Croce: «L’arte non è affatto destinata alla fine “storica”, ma alla morte e rinascita dialettica» (p. 16). Solo il suo morire, la sua natura iconoclasta, le consente di risorgere in forme sempre nuove, in quanto la sua “forma” non può contenere l’autocoscienza, ma trascrive il ritmo vitale.
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  • Il ribaltamento dell’impostazione crociana esplicitava l’inevitabile temporalità dell’arte, la sua dimensione iperbolica. Per Tilgher è il “progresso”, il procedere, a fondare la storicità: «Non, quindi, progresso dell’arte, […] ma progresso nell’arte» (p. 145). Ad esser presente, nella dimensione poietica, è la dinamica dell’automediazione dell’immediato. Vita e pensiero sono in uno. In Teoria, l’ultimo capitolo testimonia una prossimità delle tesi tilgheriane a quelle di Gentile, bollato in seguito quale “bestione trionfante”. Dall’Appendice, inoltre, si evince come per il pragmatista, la polemica tra Croce e l’attualista, in realtà, fosse costruita su basi fittizie: i due erano più vicini di quanto entrambi ritenessero. Tilgher si pone a equa distanza dall’uno e dall’altro, rivendicando una sorta di primato cronologico nella critica alla filosofia crociana. Egli, fin dalle prime opere, era convinto che: «tra le “forme assolute dello spirito” non vi fosse […] alcuna gradualità […] ma rapporto dialettico tra opposti, oscillazione tra Io e non-Io, arte e filosofia, coscienza e autocoscienza» (p. 21), un convertirsi continuo. Cosa che indubitabilmente, rileva Ricciotti, avvicina Tilgher a Gentile: «Il primo della filosofia […] è […] un atto […] assoluto […] quindi negatività e libertà assolute, non ha nulla al di sopra di sé» (p. 334). A differenza dell’attualismo, si badi, per Tilgher: «l’autocoscienza restava un dato di partenza che […] andava dedotto. Di qui le riserve nei confronti di una coscienza intesa come atto puro» (p. 23), incapace di spiegare il divenire dello spirito.
  • ...
  • Al di là delle invettive antiattualiste de Lo spaccio del bestione trionfante, Tilgher ha contezza della svolta attualista (al pari di Evola ed Emo), in particolare per il modo di leggere la storia. Gentile esperisce il passato quale produzione del presente ribaltando, peraltro, la concezione aristotelica dell’atto puro. In tal modo, il filosofo di Castevetrano, restituì all’atto, depotenziato dallo Stagirita, la dimensione del possibile mai normabile, esponendo tanto la storia, quanto l’uomo, all’eterno novum della libertà. A parere di chi scrive, quest’esegesi dell’attualismo, è un lascito davvero prezioso. In tale tesi tilgheriana si riverbera l’eco dell’Io fichtiano. Purtroppo, l’immediatezza gentiliana rimase monade chiusa in se stessa, incapace di comprendere le “altre” immediatezze, sostiene Tilgher, e incapace di aprirsi alla stessa mediazione. Insomma, conclude Ricciotti, per contestualizzare l’esperienza tilgheraiana è necessario collocarla tra Croce e Gentile: «Non alla loro ombra, ma nell’interstizio che li separa e li unisce» (p. 30).
  • ...
  • Come scrisse Gian Franco Lami, che a lungo si spese su Tilgher, a proposito di Evola, anche il pragmatista trascendentale è autore che mira a compiere «un passo per la vita, un passo per il pensiero».  Dato lo stato attuale del dibattito filosofico, non è cosa di poco conto.


  • Nietzsche e il nazismo

  • Nietzsche e il nazionalsocialismo
  • Un saggio di Matteo Martini ripropone la vexata quaestio
  • rec.  di
  • Giovanni Sessa

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  • Nietzsche è uno dei pensatori più letti di ogni tempo. A tale primato hanno contribuito fattori diversi: lo stile poetico-aforistico che connota la sua opera, la sua asistematicità, il tratto radicalmente inattuale delle sue tesi, nonché l’esemplare apoditticità delle stesse. Aspetti che, in modalità differente, hanno indotto letture a volte divergenti della sua filosofia. Il momento più discusso e problematico della proposta del pensatore di Röcken va individuato nei suoi rapporti con la politica. Matteo Martini, in un recente volume edito da Controcorrente, Friedrich Nietzsche e il nazionalsocialismo e altre questioni nietzscheane, ripropone la vexata quaestio dei legami tra il pensatore e il regime di Hitler (per ordini: controcorrente_na@alice.it, pp. 191, euro 18,00). Il volume è arricchito dalla prefazione di Francesco Ingravalle e dalla postfazione di Marina Simeone.
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  • L’analisi dei testi è condotta dall’autore con metodo assai diverso da quello adottato da Giorgio Colli. Il grande antichista riteneva che l’esegesi del filosofo non potesse esser affrontata attraverso singole citazioni, in quanto ciò avrebbe indotto la “falsificazione” di un pensiero che, al contrario, ha tratto articolato, complesso, addirittura spiraliforme. Inoltre, Martini cita, per esplicita scelta, quasi esclusivamente testi scritti da Nietzsche negli ultimi anni, in particolare tratti dalla Volontà di potenza. Tale metodo lo sollecita a sostenere che: «Nietzsche ha inequivocabilmente preparato le basi filosofico-etico-culturali sulle quali il nazionalsocialismo […] avrebbe proliferato» (p. 30). L’affermazione può essere vera nello stesso senso in cui lo è sostenere che la Rivoluzione conservatrice ha preparato l’humus esistenziale-politico che permise ad Hitler di affermarsi nella società tedesca del tempo. Il problema è, per chi scrive, che il nazionalsocialismo ha realizzato il tradimento, tanto delle idealità nietzscheane, quanto di quelle Rivoluzionario-conservatrici (molti, tra i Rivoluzionari conservatori, durante il regime, vissero ai margini, appartati, o all’estero). Non si può sostenere, pertanto, una derivazione diretta del programma nazista di sterminio degli “indesiderati” e dei diversi da aforismi decontestualizzati di Nietzsche, di cui, peraltro, Martini, riconosce il tratto umano gentile e cortese.
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  • Al contrario, da queste pagine emerge, giustamente, come il richiamo ai valori aristocratici nel filosofo non faccia riferimento a: «requisiti di tipo razziale» (p. 31), nonostante una certa ambiguità di giudizio caratterizzi alcuni frammenti riferentesi agli ebrei. Nietzsche: «a volte ha per loro parole di elogio, altre volte di disprezzo, anche se non accenna mai a qualcosa che possa anche solo assomigliare a un’esortazione all’eliminazione sistematica del popolo ebraico» (p. 33). Il pensatore, rileva l’autore, era totalmente alieno dagli ideali del nazionalismo tedesco e ciò, tra altre cose, aveva provocato la rottura dei suoi rapporti con Wagner. Per il filosofo, la decadenza greca ed europea era stata preparata dal primato attribuito da Socrate al concetto, che aveva contribuito a oscurare la concezione tragica della vita propria degli Elleni arcaici. Con il “socratismo” si aprì la corsa al sovramondo, al teleologismo, ai dualismi essenza/esistenza, essere/nulla, che troverà il suo momento apicale nella visione cristiana. “La morte di Dio” in Nietzsche ha il senso di una constatazione di fatto di una realtà storico-spirituale in atto, che riguarda tanto il suo, quanto il nostro tempo, che non coincide, si badi, con una sua presa di posizione ateistica, come ci pare ritenere l’autore. Uno degli interpreti che egli cita, Eugen Fink, ben sapeva che la costruzione del pensatore era centrata su uno sforzo “teologico”, certamente non cristiano, avente al centro il recupero della sacralità della physis, luogo dell’origine sorgiva a cui tutto fa ritorno.
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  • Martini ha certamente ragione nel sostenere che Hitler non incarnò l’ideale dell’“oltreuomo”, ma cercò di riproporre, senza riuscirvi e distocendola tragicamente, un’altra figura creata dal Nietzsche, quella dell’“uomo grande”, del dominatore (principi del Rinascimento, Napoleone). “Oltreuomo” è colui che accetta la tragicità del mondo e la nobilita attraverso la creazione di nuove tavole di valori.  “Nuovi valori” centrati su menzogne “anagogiche”, non su menzogne “catagogiche” (il sovramondo e Dio), produttrici di decadenza. Egli è profeta di una futuro di là da venire (non incarnato dal nazismo, che semmai, come riconosciuto da de Benoist, con il motto: “Un Capo, un Popolo, un Impero”, faceva evincere la propria vocazione monoteistica, altro che pagana!): egli sapeva di essere “dinamite” perché aveva contezza che il suo annuncio epocale avrebbe sconvolto la vita dell’“ultimo uomo”, non certo in quanto profeta dei drammi del Secondo conflitto mondiale!
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  • La parte che ci è parsa più interessante del volume è la terza, in cui Martini affronta l’interesse del filosofo per il “quotidiano”, l’“umano”.   In realtà, tale interesse è legato al fatto che Nietzsche, come i Greci, ha in vista la nuda vita. Il suo guardare al corpo, all’alimentazione, al clima sono testimonianza del fatto che egli aveva contezza che tutto ciò che è vivo è “animato”, che non esiste alcun dualismo anima/corpo.  Martini pare intuirlo quando scrive: «per un motivo che non è facile spiegare […] in questa filosofia, nonostante sia caratterizzata da un materialismo sfrenato, ci sia (c’è) qualcosa di spirituale, una sorta di “materialismo raffinato”» (p. 120). No, nessun “materialismo”, in Grecia il corpo era sacro in quanto espressione della dynamis, possibilità-potenza che lo animava e che anima per Nietzsche tutto ciò che è.  Proprio in quanto possibile, la dynamis non ha alcunché di provvidenziale, come vorrebbe l’autore (l’“affidarsi” alla Volontà di potenza). Il filosofo di Röcken rappresenta l’ultimo anello della dissoluzione dell’hegelismo. In tale sequela di pensatori ci sono molti nomi che contribuirono, più di Nietzsche, alla definizione della cultura politica nazionalsocialista.  A Nietzsche, al più, si potrebbe imputare di non esser giunto a un effettivo recupero della physis greca.  Lo mostrano le ambiguità della dottrina dell’eterno ritorno dell’identico (rilevate, correttamente, anche da Martini), pensata attraverso la categoria metafisica per eccellenza, il principio d’identità. Tale limite fu colto da Klages che lo corresse parlando dell’eterno ritorno del simile, vigente in natura e nella storia.
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  • Con Klages, il lascito nietzscheano e la stessa volontà di potenza, possono venir lette e vissute oltre l’onto-teo-logia di cui il pensatore, a dire di Heidegger, è stato l’ultimo interprete.  In tal caso, la filosofia immaginale di Nietzsche potrebbe dar luogo a un Nuovo Inizio della civiltà d’Europa.

  • Idea

  • Idea
  • Un volume collettaneo su uno dei grandi temi della filosofia
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • È nelle librerie, per i tipi di InSchibboleth edizioni, un volume collettaneo significativamente intitolato Idea. Il testo, curato e introdotto da Marco Moschini, inaugura la collana “Nuova Teoretica” e raccoglie undici saggi di filosofi italiani e stranieri (per ordini: info@inschibbolethedizioni.com, pp. 248, euro 24,00). Si tratta della trascrizione di un percorso di ricerca iniziato con l’uscita di Nova Theoretica nel 2021 e proseguito con gli incontri di Milano, Castelsardo e Perugia del 2022.   A tali eventi presero parte pensatori animati dalla volontà di: «battere la pista di una ricerca filosofica che […] tenta di attraversare itinerari più profondi […] e a volte collaterali a quelli consolidati» (p. 9).   Gli autori vicini a questo progetto sono alla ricerca di: «un modo originario di fare filosofia» (p. 9), senza pretesa alcuna di giungere a conclusioni definitive. La cosa è tanto più meritoria in quanto, in queste pagine, al centro della discussione è posto un caposaldo teoretico, l’Idea.
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  • Ci soffermeremo, per ragioni di spazio, solo su alcuni degli scritti presenti nel volume, precisando che anche gli altri sono degni di attenzione. Massimo Donà in, Divisibilità e indivisibilità dell’idea, muove dall’esegesi della predicazione, per la quale in ogni dire conoscitivo di A si dice il suo essere B. Nella sua forma elementare a venire espresso è il convenire che: «implica e concede […] che il conveniente sia “altro” dal soggetto della convenienza medesima» (p. 110). In tale digressione, il filosofo veneziano rileva come l’universale: «determina l’esistenza che vale come suo soggetto, senza dividerla, se non da ciò che quest’ultima esclude in quanto altra esistenza […] Che la determina senza sancire la krisis della sua individualità» (p. 118). Sulla scorta di Porfirio sostiene che l’essere di ogni individuo è uno e identico e non ammette né aumento, né diminuzione. Dai molti si evince che a esistere è sempre un distinto, un de-terminato che, in quanto tale, manifesta l’indivisibilità della divisione esistente: «Dice cioè l’essere […] dice ciò che non è mai quel che è» (p. 119). Ciò in quanto, di fatto, non è la determinatezza che sempre mostra di essere. Anche per Porfirio, infatti, l’unità distinguendosi e moltiplicandosi nel reale non allontana: «la cosa dalla verità dell’universale sommo e intrascendibile» (p. 119).
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  • L’unica reale divisione è quella relativa all’esser presente di Mario, che è altro dall’essere uomo di Andrea, anche se in tale apparire: «è in verità sempre il medesimo mondo» a disegnarsi (p. 121). Se il genere è un tutto e l’individuo una parte è anche vero che il tutto è nelle parti, senza dividersi astrattamente. Per Platone, al contrario, la verità dell’esistente riluce solo nell’universalità dell’eidos, oltre il suo sviluppo temporale. Ma tale eidos, dal punto di vista dell’esperienza individuale, è l’impossibile. Lo spazio dell’idea è puramente affermativo, distino dalla realtà. Può solo essere “ricordato” in quanto: «oggetto di una inappagabile nostalgia» (p. 126). Ciò accade in quanto il grande Ateniese crede di essersi lasciato alle spalle il “non essere assoluto”, attraverso il “non essere relativo”, il diverso: «Eppure il non essere non s’è affatto defilato e respira a pieni polmoni in quella regione quasi inaccessibile» (p. 129). Ma è proprio per il dover concepire relativamente il diverso che: «la regione difficilmente riconoscibile dell’essere non sarà mai propriamente quel che è » (p. 129): l’esistere implica sviluppare la propria natura eidetica nel tempo. È il “non essere” a vivere in: «tutto l’essere che c’è» (p. 133). Donà si confronta, come colto da Perniola, con l’aporeticità della vita. Di fronte a essa il filosofo mostra un’euforica serenità.
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  • Marco Moschini intrattiene il lettore, Sulla sacralità del mondo. Arte e idea. Egli assume la sacralità quale livello in cui: «si offre un “altrove” che qualifica e che mantiene la distinzione tra finito e infinito […] ove le opposizioni si conservano e dove esse si richiamano, si conciliano» (p. 176). L’arte ha valenza sacra quando è esplicitazione dell’implicito: in quest’arte, altra tanto dall’astrattismo come dal mero mimetismo, l’uomo si avverte vivo: «avvolto nell’ombra e nella nebbia del mondo […] anzi immerso in questa umbratilità» (p. 180), che lo induce alla ricerca della luce. Artista e fruitore si immergono nell’oltre della vita che è nella vita stessa e nei corpi. É la: «“trascendenza” della cosa singola» (p.181), che traluce nel mondo, trascendenza immanente che disegna la positività del tempo. L’ autore ritiene che l’arte cristiana abbia portato a compimento le intuizioni del mondo antico, cantando: «l’oltre dell’umano come un “presente” qui e ora» (p. 187). Per Moschini l’arte ha tratto sacrale in quanto capace di evocare e “ideare” ciò che merita di essere pensato.
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  • Va segnalato anche il contributo di Michele Ricciotti, Idea e parola nel pensiero di Guido Calogero. In esso, lo studioso muove dall’esegesi della produzione giovanile del pensatore romano per giungere agli Studi sull’eleatismo e all’Estetica. Rispetto al tema indagato, la valenza del logo noetico e di quello estetico in Calogero, Ricciotti giunge a questa conclusione: «L’impressione è che si presenti una oscillazione oltremodo problematica in Calogero, un’indecisione tra Aristotele e Parmenide che, da un lato, lo conduce ad affermare la determinatezza dell’idea […] e dall’altro […] lo porta a separare l’idea dalla parola, istituendone […] il carattere noetico […] con l’esito esiziale di perderne la determinatezza» (pp. 207-208). L’arte, letta quale eidos di un pathos, pur permanendo nella determinatezza: «si sottrarrebbe […] alla sfera della dicibilità» (p. 211).
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  • Infine, cenniamo al saggio di Francesco Valagussa, La separatezza delle idee. L’interpretazione di Carlo Diano. La separatezza delle idee in Platone è, per Diano, in continuità con la visione di Parmenide. Entrambi hanno trascritto sul piano logico gli esiti di un mutamento teologico che in Grecia si ebbe con l’irruzione degli dèi olimpici, che relegarono in posizione subordinata le divinità ctonie. Da allora: «l’eternità non viene più pensata esclusivamente come radicata nella ciclicità perenne del ritmo vitale, bensì alla luce di una totale […] separatezza rispetto al mondo del divenire» (p. 218). L’eterno non muore mai, così si iniziò a pensare. L’idea non poté più essere nominata, non si trattava di un fenomeno, sarebbe stato pertanto necessario ricorrere all’ “alfa privativo” per alludere ad essa. Con Platone, il logos scopre i generi sommi tra cui è possibile costruire interrelazione dialettica, ma non sono più le idee pure. Ecco, dunque, venirci in soccorso Eros, della cui potestas l’Ateniese narra nel Simposio: le idee vanno amate.  Così Valagussa: «Noi amiamo le idee, ne siamo affascinati, le inseguiamo e continuiamo a inseguirle» (p. 227), ubi consistam erratico e aporetico del filosofare autentico.

  • Galli

  • Giorgio Galli, intellettuale libero
  • Un volume collettaneo celebra il politologo milanese
  • rec.  di
  • Giovanni Sessa
  • Giorgio Galli è stato uno studioso poliedrico. La sua produzione intellettuale è centrata sulla ricerca scientifico-accademica, ma è mossa dall’interno da ciò che i classici chiamarono curiositas, da un’attenzione non comune per tutto ciò che, nel mondo della cultura, della politica e delle relazioni umane, si muoveva attorno a lui. Lo si evince dalla lettura di un volume collettaneo in suo onore, AA.VV., Politica e culture “altre”. Giorgio Galli, l’intellettuale curioso, pubblicato da Biblion Edizioni. Il volume è curato da Rossana B. Mondoni e Vinicio Serino, prefato da Maurizio Belpietro e chiuso dalla postfazione di Stefano Bruno Galli (per ordini: info@biblionedizioni.it, pp. 228, euro20,00). Essendo molteplici gli interessi di Galli, il libro raccoglie contributi di accademici, giornalisti, politici, quali Sala, sindaco di Milano, di studiosi di esoterismo e di letteratura fantastica. Il testo è diviso, per tale ragione, in sezioni: I ricordi, Il professore, Lo storico, La società umanitaria, Politica Esoterismo e Culture “altre”, Politica ed elezioni.
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  • L’apertura intellettuale del personaggio è stata tale che, uomini dalle formazioni più disparate, hanno potuto trarre dalla sue pagine insegnamenti preziosi. Lo mostra, in prefazione, Belpietro. Questi ricorda come gli articoli di Galli, comparsi nella rubrica che lo studioso teneva su Panorama, abbiano esercitato su di lui, fin dalla prima adolescenza, un’influenza profonda, nel frangente storico dell’Italia degli “anni di piombo” e delle stragi. Il noto giornalista ammette: «Ho imparato (da Galli) che cos’erano la politica, le trame, il terrorismo» (p. 10). Quando Belpietro giunse, nel 2009, alla direzione del settimanale, Galli, aggiunge a malincuore il Direttore, si dedicava ormai esclusivamente alla saggistica. Interessante e sentito è il contributo di Francesca Pasini Galli. La critica d’arte ricorda che il suo primo appuntamento con Giorgio fu motivato dalla pubblicazione di un suo volume dal titolo profetico, Tra me e te. Libro galeotto, in quanto tra i due sbocciò l’amore che dal 1990 è durato fino all’ultimo giorno di vita del politologo. In particolare, la moglie di Galli si intrattiene sul volume, Il capitalismo imperfetto. In esso, l’autore chiarì che, nella società contemporanea: «decine di milioni di persone […] hanno l’illusione della libertà d’iniziativa economica […] mentre non sono che rotelle dell’ingranaggio del capitalismo diffuso dalle 500 multinazionali egemoni» (p. 16). Galli comprese che anche l’arte, in tale contesto, avrebbe risentito del disordine predatorio imposto dalle Fratrie transnazionali, incapaci di integrare in sé il “femminile” costitutivo dell’ “economia informale”, quint’essenza di ogni produzione creativa e intellettuale. Il campo di battaglia politico-culturale contemporaneo è, pertanto, da individuarsi nella dimensione estetica. Tesi non dissimile da quella del filosofo francese Bernard Stiegler, stante la lezione del suo, Miseria simbolica.
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  • A loro volta i curatori fanno notare che la curiosità intellettuale indusse Giorgio ad occuparsi perfino di un pensatore marginalizzato, quale il neo-pitagorico Arturo Reghini, per non dire del suo interesse per Julius Evola, considerato il “maestro segreto” dell’ultradestra. Con Foucault, il politologo è stato latore del sogno di una nuova età della curiosità. Francesco Menna, che fu allievo dello studioso, ricorda che all’Università egli: «teneva corsi ed esami sul pensiero reazionario […] apriva discussioni su Mably, Morelly, l’anti assolutismo nobiliare» (p. 123). Aldo A. Mola si occupa del coraggio mostrato dallo scienziato della politica nel dibattito giornalistico che imperversava in Italia al tempo della loggia “P2” di Gelli, interpretandola, contro la vulgata imperante, quale: «camera di compensazione per grandi affari […] collocati in una prospettiva di lotta al comunismo» (pp. 111-112). Per Galli, comunque, non esisteva, lo spiegò a chiare lettere ne, La venerabile trama, un “piduismo” eterno. Il progetto della loggia in questione era riassumibile nel: «Governare senza essere al governo» (p. 112). Non si trattava di un cancro del Grande Oriente d’Italia, tanto che ad un Convegno tenutosi in tema a S. Remo, lo studioso prese la parola contro un gruppo di facinorosi che avrebbero voluto, Gelli presente in sala, impedire lo svolgimento dell’evento. Intenzione della P2 era quella di surrogare la funzione formatrice delle classi dirigenti, fino allora esercitata dai partiti, in una fase storica dalla quale si evinceva la loro crisi. Il potere politico non riusciva più a rispondere alle istanze della società civile.
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  • Gianfranco de Turris muove dai contributi stimolanti e originali che il politologo produsse durante la collaborazione a «Linus» di Oreste Del Buono. Inoltre, fa notare che Galli fu tra i primi a cogliere come il brodo di coltura del terrorismo di sinistra andasse individuato nella contestazione giovanile del ’68. Precisa che, assieme a Tarchi, lo studioso presenziò, nel 1994, alla presentazione milanese del libro di un suo allievo, Fraquelli, dedicato a Evola, Il filosofo proibito. Scrisse, qualche tempo dopo, il saggio introduttivo al volume L’arco e la clava del pensatore tradizionalista e, addirittura, una prefazione al volume di de Turris, Elogio e difesa di J. Evola, in cui l’autore smentiva le tesi di Ferraresi, che individuavano un legame diretto tra pensiero evoliano e terrorismo nero. Ferraresi rispose piccato sul «Corriere della sera». De Turris conclude sostenendo che se nella sinistra ci fossero stati più intellettuali liberi come Galli, il confronto politico in Italia ne avrebbe beneficiato.
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  • Va ricordato anche il contributo di Daniele V. Comero, presidente dell’ISPG. Questi sottolinea l’importanza degli studi di Galli in tema di “flussi elettorali”, ripercorre le tappe che portarono alla nascita dell’Istituto stesso a partire dalla Fondazione Istituto Lombardo per gli Studi filosofici e giuridici. Ricostruisce, in ultimo, la storia della «Rivista Civica». Di rilievo anche lo scritto di Fulco Lanchester che si intrattiene sulla polemica intercorsa tra Galli, Sartori e Fisichella in tema di “bipolarismo imperfetto”. Con Francesca Pasini Galli è possibile affermare che dall’opera del politologo si evince, in sostanza: «la passione per la lettura, dalla politologia alla filosofia, alla letteratura, all’esoterismo, alla fantascienza […] alla storia di tutti e di tutte» (p. 15).   Un pensatore la cui opera non può essere dimenticata e rimossa.

  • MEGLIO  I  RUSTICI  DI  DULCAMARA   
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
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  • La settimana di Natale non ha recato doni, tanto meno ricchi, ai buonisti in servizio permanente effettivo: dai pandori della Ferragni ai rinvii a giudizio per i congiunti di Soumahoro, ai bonifici vaticani per il no-global Casarino.  È stato tutto un congiungere le buone intenzioni manifestate dai suddetti con le laute retribuzioni che ne conseguivano.
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  • Mi son detto se il comune denominatore dei buonisti è la pratica di congiungere strettamente intenzioni e profitti, cosa li distingue da un “vecchio” piazzista da fiera, come ad esempio il Dulcamara?     Anche il ciarlatano dell’elisir d’amore racconta un sacco di bugie agli ingenui paesani, e lo fa con logica di mercato: l’elisir che offre è magnifico, cura tutto: dal diabete all’impotenza, dal mal di fegato alla colite.   È pure efficace come crema per la pelle, contro le rughe ed è un insetticida insostituibile.   Il target di un prodotto del genere esonda nel (più) vasto pubblico dei consumatori, in ossequio alla prima legge di mercato: aumentare il numero degli acquirenti.
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  • D’altro canto Dulcamara fa leva sempre sull’interesse all’acquisto dell’elisir: il prodotto non è solo utile a tante cose (ha un grande valore) ma costa poco (uno scudo). È il rapporto favorevole qualità/prezzo l’argomento determinante della pubblicità di Dulcamara. Gli altri argomenti (l’autorità scientifica del ciarlatano, nota dell’universo e in altri siti, i certificati, il successo nelle vendite, i costi) sono di contorno.
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  • Ciò lo distingue dai suoi epigoni nostri contemporanei. I quali non promuovono pandoro, uova od altro facendo leva sull’eccellenza della merce e sulla modicità del prezzo. No. I nostri fanno leva sulle buone cause e sui buoni sentimenti. Chi non usa olio di palma salva tanti oranghi dalla distruzione del loro habitat (nessuno – per quanto risulta – si pone il problema di come la pensino i contadini indonesiani); chi acquista una macchina elettrica salva il pianeta dal cambiamento climatico; così coloro che mangiano pandori e uova della Ferragni aiutano i bimbi malati. E così via.
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  • Con ciò da una promozione che si fonda sull’interesse si passa ad una che si basa, per così dire, sui valori. Che un pandoro sia fatto con grassi e farine di bassa qualità non importa: conta invece che comprarlo serve ad assistere dei bambini, come dice il testimonial. D’altra parte il concetto di “valore”, come inteso oggi, è nato nella scienza economica, e ad essa fa ritorno (sotto diverse spoglie). C’è da chiedersi: se Dulcamara avesse propagandato il proprio elisir chiedendo ai “rustici”  di comprarlo per assistere i bambini, lo avrebbe venduto?   Penso che i rustici ci avrebbero riso su, abituati sia a far elemosina nelle sedi e modi tradizionali, sia a spendere oculatamente, come normale nelle società più povere.   Invece, malgrado e date le cifre pagate ai testimonials le ditte produttrici riescono evidentemente a realizzare lauti profitti.   Segno che i rustici di oggi abboccano assai di più che ai tempi di Dulcamara.   E oltretutto non hanno la prospettiva della fortuna di Dulcamara e del suo “gonzo” Nemorino, del lieto fine, dell’eredità che arricchisce il truffato.  Tutto a perdere, quindi, tranne che per i testimonials e i loro committenti.


  • La guerra addosso

  • La guerra addosso
  • Cronache storico-familiari di Giuseppe Del Ninno
  • rec.di
  • Giovanni Sessa

  • È nelle librerie l’ultima fatica di Giuseppe Del Ninno. Si tratta di, La guerra addosso. Grandi guerre e piccole storie familiari, apparso nel catalogo di Oaks editrice (per ordini: info@akseditrice.it, p. 152, euro 18,00). Usciamo da poco dalle lettura di questo testo coinvolgente e, soprattutto, ben scritto. Un’opera nella quale emerge la grande considerazione che l’autore nutre per i valori incarnati dall’istituto familiare, inteso quale luogo della tradizione, della trasmissione di valori condivisi. Del Ninno disegna la storia della famiglia da cui discende e di quella della moglie Patrizia, nella cornice storica che va dall’esplosione della prima guerra mondiale al termine del secondo conflitto, quando in Italia divampò la guerra civile.
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  • È convinto, e noi con lui, che un periodo tragico, divisivo, come quello indagato, possa essere compreso ponendo al centro dell’attenzione il quotidiano, il vissuto degli uomini. I singoli capitoli sono dei “medaglioni”: ritratti in cui fa rivivere l’atmosfera di ambienti e vicende, dalla quale si evince una visione della vita centrata sulla pietas. Lo scrittore ha contezza che nella storia e, più in generale, nelle relazioni umane, la verità non sta mai da una parte sola. La vulgata storiografica ha sempre presentato i “vinti” della storia del Novecento quali unici responsabili di quanto accade alla metà del “secolo breve”. La vita realmente vissuta, che palpita nel narrato, mostra, in tutta evidenza, il contrario: il bene e il male si presentano nel mondo, il più delle volte, commisti.
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  • La guerra addosso è un volume davvero “uscito dal cassetto”. Del Ninno resuscita i ricordi   rievocando incontri, ma non trascura il ruolo evocativo che hanno le vecchie fotografie ingiallite, tirate fuori da qualche vecchio armadio, atte a stimolare la proustiana memoria involontaria, capace di ricreare atmosfere sopite nella nostra coscienza. Per tale ragione il libro è impreziosito da un suggestivo apparato fotografico. Queste pagine possono esser avvicinate a un precedente letterario, di spessore e successo, il libro di Alessandra Lavagnino, Le bibliotecarie di Alessandria, affresco familiare intrecciato con la storia d’Italia nella prima metà del secolo scorso.
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  • Aspetto non secondario del libro di Del Ninno è l’aver colto come la partecipazione ai conflitti da parte dei protagonisti, il più delle volte non fosse dettata da scelte politiche, ma dall’accettazione del destino o dal: «dal coraggio innescato dalle circostanze e, almeno per i più giovani, quel pizzico di incoscienza tipico dell’età» (p. 11). Protagonista implicito delle storie è il silenzio, la reticenza in merito a quegli eventi mostrata da quasi tutti i parenti interpellati. Il dolore è sempre qualcosa di individuale, di segreto: si tende a celarlo nella coscienza. Entriamo ora in alcuni degli episodi e delle cronache familiari che costituisco il volume. Innanzitutto, nelle vive cose che riguardano un antenato della famiglia della moglie, originario di Campo Tures, Lorenz. Provetto sellaio e membro della banda del paese, provò una scossa esistenziale non comune all’annuncio dell’attentato di Sarajevo. L’idillio mitteleuropeo di quest’area dolomitica venne definitivamente meno nel luglio del 1914: data dell’arruolamento nell’esercito Imperiale dei suoi uomini, tra questi Lorenz, marito e padre. Nel 1916: «a Lorenz era stato ordinato di comandare il plotone che avrebbe accompagnato al patibolo» (p. 23), gli irredentisti Filzi e Battisti. Dopo l’esecuzione, alcuni militari austriaci urinarono sui cadaveri dei “traditori”. Solo gli uomini agli ordini di Lorenz, si sottrassero all’onta di questo gesto ignobile.
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  • Manlio, familiare di origine campana, combatteva nel Regio esercito italiano. Partecipò agli assalti in trincea. L’autore ricorda il suo ferimento: nei momenti immediatamente successivi, i suoi affetti, l’intera vita gli scorsero davanti agli occhi. Con molto sforzo riuscì ad avvicinarsi alla trincea, a trovarvi riparo. Dopo il ricovero in un ospedale militare, rientrò a casa e come molti altri combattenti, non vide riconosciuto il proprio sacrificio. Anni dopo: «sarebbe stato difficile […] riconoscere quel valoroso ufficiale di tanto tempo fa nell’anziano […] affossato nella sua poltrona» (p. 34). Bellissimo il ritratto di Romolo, calderaio che, dalla nativa Ciociaria, la guerra avrebbe proiettato in una contrada rurale dell’Impero, dopo essere stato catturato dal nemico. Fu ospitato in una fattoria in cui avrebbe dovuto sostituire il “capo famiglia”, anch’egli spedito al fronte. Nacque un amore con la padrona di casa: l’amena bellezza del luogo, il lavoro dei campi restituirono alla vita di Romolo un’apparente normalità. Al momento del rimpatrio: «provò un intreccio di sentimenti contraddittori: un’improvvisa nostalgia della famiglia […] e al tempo stesso un dispiacere acuto all’idea di lasciare quella nuova famiglia» (p. 45).
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  • Nei capitoli dedicati all’Italia fascista, Del Ninno offre: «degli scorci di vita quotidiana durante quel periodo, senza nasconderne o alterarne le realtà drammatiche, ma recuperando alle memorie familiari momenti e valori positivi ancor oggi» (p. 52). Ricorda la partecipazione di Guido alla guerra di Spagna e le vicende che videro coinvolto Aldo Boveri, collaboratore di Marconi, assegnato all’equipaggio di Bruno Mussolini. Nel 1938 fu protagonista della trasvolata, in due tappe, a Rio de Janeiro. Per quanto attiene alla seconda guerra mondiale, vengono presentate le figure del nonno Peppino e del padre Ormisda, coinvolto in un bombardamento aereo con la fidanzata, futura moglie, mentre si trovavano al cinema Aurora di Napoli. Tempo dopo, i due era seduti in un bar di piazza Municipio, quando si udì un allarme aereo: «Si guardarono negli occhi […] se pure fosse arrivata la morte dal cielo, li avrebbe colti insieme, come poi rimasero per sessant’anni» (p. 88). Del Ninno, rammemora anche il gesto eroico del caporale Giovanni Arena, cui fu conferita nel 1941, la medaglia d’argento al valor Militare, o il destino di Silvio e Maria che al momento dell’esplosione della bomba in Via Rasella a Roma, riuscirono a sottrarsi ai rastrellamenti tedeschi. Rilevante la storia della vita intensa del suocero dell’autore, Giuliano. Uomo dalle mille attività, compositore, imprenditore e medico, fu protagonista della Resistenza nel reatino, così come quella delle donne di famiglia che si distinsero, in Abruzzo, a difesa della popolazione locale.
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  • Chiude il libro la narrazione della tragica vicenda in cui fu coinvolto un amico dello zio Peppino, non fervente fascista ma che non volle girare le spalle al proprio passato. Preso alla sprovvista in casa davanti ai familiari durante le “Quattro giornate” di Napoli, fu percosso a sangue e fucilato seduta stante: «Ora è solo: un urlo disperato, lunghissimo si leva nel silenzio repentino. Poi il crepitare dei fucili» (p. 146). Nonostante la conclusione drammatica, si esce, dalla lettura rasserenati. Vera protagonista di queste cronache familiari è la pietas.

  • La sacra giraffa

  • Salvador De Madariaga,
  • La sacra giraffa
  • rec. di 
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • (OAKS Editrice 2023, pp. 307, € 25,00)
  • Diplomatico, insegnante, uomo politico, presidente dell’Internazionale liberale, Salvator De Madariaga tra tante opere storiche scrisse questo libro distopico connotato da un umorismo á tous azimouths, ma, in particolare rivolto alla società inglese del secolo scorso, che conosceva bene, avendo insegnato ad Oxford.
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  • Immagina di aver trovato e tradotto un romanzo che descrive la civiltà dell’anno 6922, dove l’Europa (e la razza bianca) è scomparsa, primeggia l’Africa e gli Stati – come le società umane – sono dominati dalle donne, mentre gli uomini sono relegati a compiti domestici. Come nota Ingravalle nella diffusa introduzione, comunque le regolarità delle comunità umane non sono cambiate: in particolare l’ordinamento gerarchico delle stesse, l’aspirazione al potere e l’esigenza del sacro (e al mito).         E anche i difetti: a cominciare dalla vanità e dall’ipocrisia pubblica e privata.
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  • A tale proposito basti leggere (il libro è stato pubblicato quasi un secolo fa) il trattato internazionale che chiude il romanzo: zeppo di passaggi roboanti e commoventi che occultano la realtà di una spartizione tra due Stati “forti” di uno Stato debole. O la relazione sulla letteratura inglese, fatta da una storica secondo la quale più per fantasia e ricerca dell’originalità che della realtà sostiene che la rilegatura – cofanetto di un antologia di poeti inglesi pubblicata dall’Università di Oxford sia opera di un solo autore (anzi autrice), Oxford per l’appunto, che avrebbe scritto da solo gran parte della poesia e della prosa inglese attribuendola ad autori di fantasia come Chaucer, Milton, Shakespeare, Kipling, ecc. ecc. Il tutto con una pseudorazionalità che mutatis mutandis anche oggi conosciamo bene.
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  • Il romanzo considera tanti aspetti della vita sociale; dal sacro al profano. Ai primi appartiene il mito fondatore dello Stato di Ebania; la cui prima regina sarebbe discesa dalla Luna alla Terra scivolando sul collo della sacra giraffa, la quale lo aveva allungato fino al satellite scambiandolo per una gigantesca noce di cocco; ai secondi la superiorità della donna sull’uomo, giustificata ad ogni piè sospinto, malgrado l’evidenza che non si tratta di una superiorità biologica, ma di ordinamento sociale.
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  • L’umorismo di Madariaga può apparire (e in effetti spesso è) troppo fine per i palati rozzi. Ad esempio questo mito della discesa sul collo della sacra giraffa appare come una rappresentazione simbolica della costituzione dal cielo del potere sacro e dell’origine celeste dell’autorità. Fatta nell’immaginario di un popolo africano.  Sempre ai secondi (il profano) appartengono le regolarità delle comunità umane che pur cambiando razza, sesso, costumi, rimangono per certi aspetti immutate.
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  • Così sia le società ove i dominanti sono maschi, ariani sia dove a dominare sono le donne di colore, le “costanti” della lotta per il potere e l’ordinamento gerarchico non mutano. Anche per questo “La sacra giraffa” rientra tra i migliori libri distopici del secolo scorso, come “1984” e “Il mondo nuovo”.    Buona lettura.

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  • Casalino1

  • L'essenza iniziatica del sapere in Hegel
  • Un nuovo saggio di
  • Giandomenico Casalino
  •  rec.  di
  • Giovanni Sessa
  • Giandomenico Casalino, studioso di cose tradizionali, da tempo va sostenendo nei suoi saggi una esegesi non convenzionale della filosofia di Hegel, tesa a sottrarre il filosofo idealista alle letture di impianto “moderno”, mirate a relegare l’idealista nell’ambito dello storicismo immanentista. Tale lavoro analitico ha, quale propria pars construens, la volontà di restituire l’hegelismo alla veneranda “Tradizione platonico-ermetica”.  Lo si evince anche dalla lettura dell’ultima fatica di Casalino, L’essenza iniziatica del sapere in Hegel, nelle librerie per i tipi di Arỹa edizioni (per ordini: arya.victoriasrl@gmail.com, pp. 80, euro 18,00).   L’intenzione dell’autore è esplicitata fin dall’incipit del volume: «Hegel appartiene, da Proclo attraverso tutto il platonismo medievale sino a Giorgio Gemisto Pletone […] alla veneranda Tradizione Platonica, che certamente concludeva la sua vita istituzionale nel 529 d.C. […] ma non cessava la vita spirituale, in termini di trasmissione» (p. 12).
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  • L’appartenenza hegeliana a tale sequela speculativa sarebbe mostrata dal fatto che il pensatore pensò la filosofia quale: «considerazione esoterica di Dio» (p. 13).   Il filosofare rappresenterebbe, pertanto, in tale ottica, il momento più elevato lungo la strada che conduce al Sapere: «in virtù del fatto che esso non è più fondato sulla convinzione fideistica dell’esistenza dell’Altro e della sua estraneità all’Io» (p. 13) come, al contrario, avviene nella rappresentazione propria del momento religioso ed essoterico.   Solo attraverso la filosofia è possibile conoscere l’Assoluto, il Divino.   Essa in Hegel ha tratto, rileva Casalino, teo-logico in quanto la Logica dell’idealista presenta quella che Mario Dal Pra definì la condizione del dio “incoato”, del dio prima della creazione, antecedente l’uscire da sé.   La Logica hegeliana è di fatto Ontologia, si identifica con la Metafisica e la Fisica, in quanto: «L’Essenza del Mondo-Natura è la stessa essenza concettuale e cioè eterna del Pensiero o che gli Dei-Metalli, come Potenze vive delle cose, sono gli stessi Numi-Astri-Metalli interiori, come afferma la Tradizione ermetica» (p. 14).
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  • Per Hegel, alla luce di tali asserzioni: «La Conoscenza è e consiste nella coincidenza identificatrice del conoscente e del conosciuto, dove il simile è conosciuto dal simile; il conoscere è l’essere il conosciuto» (p. 15).   In una parola, il panlogismo ci inviterebbe a prendere coscienza della nostra natura più vera e profonda, il divino, che da sempre vive in noi. Per questa ragione, il risultato cui giunge il sistema del filosofo di Stoccarda, lo Spirito, in realtà rappresenta un tornare all’origine. Si tratta di un processo anamnestico che induce il “Risveglio”, un processo auto conoscitivo circolare e uroborico.   In forza di tale contesto concettuale, Casalino ravvisa un’evidente prossimità delle posizioni hegeliane a quelle espresse nel Novecento da Evola e Guénon, esponenti del tradizionalismo, che miravano, per vie diverse, al superamento del momento meramente religioso, fideistico e sentimentale, in quanto centrato sul dualismo Uomo/Dio. L’autore mostra di prediligere l’approccio, che definisce eroico-apollineo all’Assoluto, di Evola: questi si sarebbe posto, proprio come accade al Sapere hegeliano, oltre la stessa Misteriosofia ellenica che, come aveva colto Aristotele nel fr. 15 del Perì philosophias, trasmessoci da Simplicio, non si spinse mai fino al mathèin, all’Intelligibile, fermandosi alla dimensione del pathèin, alla dimensione animica.
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  • In particolare, lungo tale iter, Hegel avrebbe avuto contezza di un elemento rilevante dell’insegnamento di Plotino. Il neoplatonico, memore della visione classica della vita e della Conoscenza, invitava, infatti, i propri allievi a liberarsi dalla “coscienza”, tanto cara alla gnoseologia moderna: «vi è coscienza vigile, desta, intenzionale, nel significato moderno del termine, solo quando c’è una diminutio dal Nous, un procedere verso il basso» (p. 44). La coscienza, cadendo nel corpo: «sostituisce all’eternità del pensiero la continuità nel tempo e nello spazio […] è un declassare della contemplazione» (p. 45). Una cosa è il pensiero, ci dicono Plotino ed Hegel, ed altro la coscienza del pensiero: «tutto quello che si trova sotto il governo della coscienza sono le cose a noi più estranee, meno nobili, mentre della cosa che è la nostra vera natura […] siamo incoscienti» (p. 47). Nell’insieme delle opere del grande idealista, La Fenomenologia dello Spirito, svolgerebbe il medesimo ruolo che nell’iter platonico tenne il Timeo: «è il racconto verosimile della “storia” simbolica della coscienza che giunge al Sapere Assoluto» (p. 53).
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  • La Scienza della Logica corrisponderebbe, al contrario, al Parmenide platonico. La nota affermazione hegeliana: «Il Vero è l’Intero» mostra che a tale visione si può giungere, a dire dell’autore, attraverso una Conoscenza intuitiva ed istantanea: «la quale non esclude, proprio perché ne è al di sopra […] la Logica moderna […] dell’identità […] essendo quest’ultima la legittima modalità di conoscenza della dimensione essoterica» (p. 19). Il Circolo dei Circoli hegeliano, secondo Casalino, non rinvia, pertanto, ad un già avvenuto che deve essere riguadagnato e neppure ad un futuro, ad un davanti-a- noi, ma a quel sempre che si dà nei fenomeni quale Intero presente.   Hegel, in tale ottica, si pone oltre il dualismo di essenza/esistenza, di interno/esterno e, libero dalla dimensione del sentire e del volere, invita ad ascendere al: «sovrasensibile mediante la thèoria […] l’indicibile visione dell’Idea che è l’Intelligibile» (p. 55).
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  • Conclusivamente, Hegel, per l’autore: «pur parlando[…] di movimento dell’Essere nel quale si compie l’Essenza che è l’Intero ed è l’Assoluto, questo è presente nel tempo e nello spazio ma è ab aeterno fuori dagli stessi» (p. 57). Si tratta di un sapere dal tratto ermetico, da realizzare nell’Istante che è l’Eterno, poiché in esso viviamo pur non avendone contezza. L’identità di reale e razionale non rinvia all’accettazione dell’esistente, in quanto: «L’Idea è reale, perché vera, solo nella Natura […] ed attraverso ed oltre essa così da essere […] Spirito!» (p. 42). Un’analisi da meditare…

  • Pensieri sulla guerra Von Klaus

  • Carl von Clausewitz,
  • Pensieri sulla guerra,
  • introduzione del generale Stefano Basset,
  • (OAKS editrice, € 10,00)
  • rec. di 
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Perché recensire una edizione di massime tratte da un classico del pensiero, come il “Vom Kriege” di cui circolano tante edizioni integrali? La risposta è duplice: da un canto perché la guerra nel XXI secolo è tornata alla “ribalta” - a scapito delle anime belle che credevano di averla seppellita per sempre – e nella sua forma “tradizionale” (Russia-Ucraina) e in quella “aggiornata” (Israele-Hamas).  Dall’altro perché il generale prussiano trattava della guerra come fenomeno, sia negli aspetti immutabili, sia in quelli più legati alle condizioni particolari (e così all’epoca e alle guerre napoleoniche).
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  • Ne consegue che molte considerazioni (in particolare tratte dai libri I, II e III) concernono l’essenza e la teoria della guerra (le regolarità di qualsiasi conflitto armato) e così costanti.; altre alle condizioni (variabili) delle epoche e dei mezzi delle singole guerre. Ad esempio il Reno fu attraversato – nella stessa direzione – da Giulio Cesare e dagli alleati (Remagen): ovviamente i problemi e le difficoltà che dovevano affrontare il generale romano e quelli angloamericani erano assai diverse, e così la tattica; onde i consigli di Clausewitz vanno presi cum grano salis.
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  • Il libro raccoglie massime sulle “regolarità”: è quindi adatto ad un lettore anche non esperto. Una introduzione del generale Basset completa il volume.

  • Scianca

  • Europa vs Occidente
  • Un nuovo saggio di
  • Adriano Scianca
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • È nelle librerie, per Altaforte Edizioni, un saggio di Adriano Scianca.  Si tratta di Europa vs Occidente. Fuori dal labirinto degli specchi. Come non essere occidentali (per ordini: info@altafortedizioni.it, pp. 98, euro 10,00).  Il volume è preceduto dalla introduzione di Lorenzo Cafarchio e inaugura la nuova collana dell’editore intitolata «Avanti».    Il testo, agile sotto il profilo della presentazione dei contenuti, ha il tratto tipico del pamphlet.  Scopo non dichiarato, ma esplicito dell’autore, è gettare un sasso nelle acque stagnanti della cultura anticonformista, al fine di suscitare un dibattito attorno alla vexata quaestio del rapporto Europa-Occidente.  Qualsiasi osservatore dello stato presente delle cose ha contezza che, dopo la pandemia e la guerra giunta sul territorio continentale: «questa contingenza avrebbe potuto rivelarsi assai fruttuosa per gli ambienti non conformisti e nazionalrivoluzionari […] i quali […] sono apparsi […] più dominati che dominatori del momento politico» (p. 12).
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  • Le ragioni di tale empasse, a suo dire, sono facilmente individuabili nella scelta culturale e politica, assolutamente ingenua e manichea, compiuta da gran parte del pensiero non-conforme, a favore di un rifiuto radicale dell’occidentalizzazione del mondo.  La cosa in sé non è criticabile aprioristicamente. Il problema, semmai, è da individuarsi, nella specularità che tale posizione presenta rispetto alle tesi, altrettanto unilaterali, dei filo-occidentalisti.  Entrambe le parti in causa, hanno maturato la certezza che bene e male si trovano da una parte sola della barricata: la loro.   Tali posizioni, sono giudicate da Scianca semplicistiche e improduttive sotto il profilo politico.  Esse sono il risultato di una esegesi esclusivamente sociologica del concetto di Occidente, ritenuto: «un grande blob acefalo che ingloba qualsiasi cosa e che funziona in autonomia» (p. 20).   Al contrario, una lettura pragmatica e organica di questa idea dovrebbe tener conto che essa presuppone in uno l’ordine geopolitico a guida americana, la cui genealogia discende dal giudeo-cristianesimo, dalla Riforma, dall’Illuminismo, rivitalizzata poi dall’antifascismo.   L’Occidente, inoltre, sorto in opposizione all’Europa, rappresenta l’insieme dei valori diffusi dal liberalismo e uno stile di vita centrato sull’immaginario costruito dalla Forma-Capitale.
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  • L’aver relegato nel dimenticatoio alcuni di questi aspetti ha ingenerato confusioni: i suoi momenti costitutivi, pur intersecandosi, sono tra loro diversi: globalizzazione, mondialismo, capitalismo e relativa egemonia imperiale, non dicono il medesimo.  Da tale errore è conseguita la diagnosi che sostanzia le posizioni, perfettamente incarnate, sul fronte anticonformista, dal “Grande Risveglio” teorizzato da Dugin: basta essere distanti dal “male” americano, mondialista ecc., per essere più vicini alla verità.   Alla luce di tale logica dicotomica: «tutti gli Stati, i movimenti, i capi che non sono […] in fase con l’agenda più avanzata del mondialismo costituiscano un “fronte”» (p. 25), cui far riferimento per battersi contro i paladini della “religione dei diritti” in nome della Tradizione.   Al contrario, argomenta Scianca, oltre tale dualismo, bisognerebbe conquistare: «un’altra modernità» (p. 31), tesi sostenuta anche da Damiano e Bigalli.  Del resto, alla specularità teorica, ha condotto la mitizzazione della geopolitica che, se ben intesa, è scienza dinamica, non statica.  Tale interpretazione non consente di decodificare le effettive relazioni tra le grandi potenze: si pensi ai Brics e al Quad: «Non si capisce perché il Brics sarebbe l’avanguardia della nuova civiltà (con due Stati su cinque che appartengono al Commonwealth britannico) mentre altri accordi analoghi (Quad) […] non debbano godere di altrettanta pubblicità» (p. 50).
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  • Per l’autore, solo con un’Europa politicamente forte (attualmente la situazione non è questa) sarebbe possibile poter contare su alleati filo-europei: «Con un’Europa forte, Putin può essere filo-europeo, senza un’Europa forte può allearsi con altri soggetti e diventare anti-europeo» (p. 56). Il problema è che per Scianca, memore della lezione di Faye, l’Europa “potente” potrebbe sorgere di fronte a un prometeismo altro dall’attuale, che egli ritiene annunciato dalla “singolarità tecnologica”, l’accelerazionismo: «il punto di sviluppo di una civiltà in cui il progresso tecnologico accelera vertiginosamente e in modo non più controllabile» (p. 85).  L’attuale “risveglio” europeo sarebbe, a suo dire, ancora “sonnambolico”, privo di “autocoscienza” politica.   Ricorda, al fine di delucidare il senso da attribuirsi alla modernità cui guarda, la distinzione di Heidegger tra Occident e Abend-Land: «Il primo è l’Occidente che conosciamo […] il modello globalista […] Il secondo è qualcosa di completamente diverso, è in collegamento con l’origine greca, ma allo stesso tempo ne rappresenta il superamento, è qualcosa che è davanti a noi, come un compito» (p. 89).   È l’ “esperiale” di Faye.
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  • Siamo convinti, con l’autore, che la Tradizione non debba più essere declinata in termini passatistici e politicamente reazionari, ma allo stesso tempo è necessario evitare che il Nuovo Inizio assuma tratti “prometeici”.   La civiltà ellenica sorse dalla conciliazione di Orfeo e Prometeo, cosa diversa da un “prometeismo” semplicemente riformato.  L’accelerazonismo cova in sé i germi della “corsa in avanti”, retaggio teologico cristiano.   Solo il recupero del primato della physis può restituire all’europeo contemporaneo l’orizzonte che gli è proprio.  Orizzonte di “potenza e libertà”, certo, il cui re-incontro farebbe venir meno le fissità ideologiche-idolatriche del presente.  Tale principio è, infatti, in quanto libertà, infondato.   Inoltre, se è vero che gli Stati nazionali sono istituzioni fortemente indebolite e causa, negli ultimi tre secoli, della fine dell’Europa novalisiana, d’altro lato, a differenza dell’autore, riteniamo che possano svolgere, ancora oggi, un ruolo di “mediazione” ricostruttiva anche nell’attuale frangente storico.  L’Europa è pluriversum, terra delle differenze, laboratorio di continui tramonti e rinascenze.
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  • Nonostante sia propria di chi scrive una lettura diversa del problema, riteniamo questo testo, libro da leggere, meditare e discutere.

  • De Turris

  • Julius Evola, un filosofo in guerra  
  • La quarta edizione ampliata del saggio di Gianfranco de Turris
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • Gianfranco de Turris è l’intellettuale che più si è speso per far conoscere l’opera di Julius Evola. Il suo lavoro, già significativo per la curatela della riedizione critica dell’intero corpus evoliano presso le Edizioni Mediterranee, oltre che per monografie in tema, è ora arricchito dalla pubblicazione della quarta edizione del volume, Julius Evola. Un filosofo in guerra 1943-1945,  nelle librerie per Mursia (pp. 300, euro 24,00).
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  • Un libro importante che si concentra su un arco della vita di Evola che va dal 25 luglio del 1943, alla metà degli anni Cinquanta. L’introduzione è di Giuseppe Parlato. La ricostruzione dell’autore è minuziosa, risultato di anni di ricerche su documenti noti e meno noti, fondata su un lavoro di scavo condotto in archivi, biblioteche e su un numero cospicuo di missive di Evola o a lui indirizzate, nonché su testimonianze dirette di contemporanei. In Appendice, è raccolta una parte della vasta documentazione su cui il libro è costruito. L’autore discute la più significativa bibliografia prodotta in argomento, sottolineandone, a seconda dei casi, gli aspetti positivi, oppure smascherando le falsità, fatte circolare ad hoc, per sminuire il personaggio.
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  • Al suo apparire, il libro ebbe immediato successo di pubblico e critica. La quarta edizione che presentiamo, ampliata, rivista e corretta, in qualche modo sembra, su quegli anni concitati, risolvere, almeno in parte, i dubbi e i “forse”, lasciati in sospeso nelle precedenti edizioni. Le novità più rilevanti della quarta edizione ci paiono le seguenti: la testimonianza dell’avv. Stefania Parola, nipote dei Sig.ri Ricci, che occupavano l’appartamento al piano sottostante a quello in cui risiedeva Evola. La donna spiega che il filosofo, sfuggito alla “visita” dei servizi americani, si rifugiò, per alcuni giorni, presso i nonni, dai quali ottenne la valigia in cui raccolse il materiale di «UR» e «KRUR», da portare con sé nella rocambolesca marcia che, lungo le Vie Flaminia e Cassia, lo condusse verso Nord (percorso ricostruito in una cartina in Appendice). La testimonianza di Fabio De Felice chiarisce molti particolari dell’incontro che il filosofo ebbe con i “giovani nazionali”, quando, nel 1950, era ricoverato a Bologna. Questi lo condussero alla II Assemblea del Raggruppamento Giovanile del MSI, presentandolo, nientemeno, che come un reduce della RSI! Ma i documenti davvero più significativi sono quelli inerenti al soggiorno viennese del tradizionalista. Essi ricostruiscono la frequenza evoliana del milieu rivoluzionario conservatore della Capitale austriaca, ipotizzando perfino dei contatti con Marcella d’Arle. De Turris svela il nome che Evola si era dato in Austria, Carlo de Bracornes, ricavandolo dall’epistolario intercorso tra il pensatore e Walter Heinrich, e aggiunge, riferendo i risultati delle ricerche in tema di Sandro Consolato, trattarsi del nome di un aristocratico sabaudo del secolo XIX. Viene, inoltre, pubblicato un rapporto medico anonimo dell’ospedale dove Evola venne ricoverato dopo l’esplosione della bomba del 21 gennaio 1945 (bombardamento indubitabilmente americano!) in cui compare l’anamnesi dello stato di salute del pensatore e le terapie cui venne sottoposto. Sino ad ora si era sempre ipotizzato che Evola, subito dopo il bombardamento, fosse rimasto paralizzato agli arti inferiori. Dall’esegesi della cartella clinica si evince, al contrario, che furono le terapie applicate, inadeguate alla patologia di Evola, a far peggiorare e degenerare la situazione. Leggiamo, infatti: «verso fine luglio 1945 il paziente è in grado di camminare per circa 300 metri e salire e scendere 30 gradini», ma, come attestato da Mariano Bizzari, medico e accademico di fama, consultato dall’autore: «l’adozione di terapie incongrue - roentgenterapia e farmaci acetilcalino simili - ha […] aggravato le condizioni in termini di ipertono che ha finalmente esitato in un quadro stabile di paralisi progressiva». Medesime informazioni possono essere tratte dalla lettera di Evola a Erika Spann del 12 maggio del 1946 (che contiene rilevanti informazioni sullo stato d’animo del filosofo). Di grande importanza anche le considerazioni relative all’ archivio Preziosi. L’unica cosa certa in tema è che dodici casseforti di color verde, dopo mesi di viaggio, giunsero nell’aprile del 1945 a Desenzano, presso gli uffici di Preziosi. A riguardo, de Turris spiega che l’archivio era composto di 4 parti diverse. Precisa, inoltre, che il materiale che a Roma Rauti consegnò a un prelato (poi paradossalmente finito forse negli archivi del PCI), era semplicemente la collezione della rivista «La Vita Italiana», che nulla aveva a che fare con i documenti massonici. Il volume è un’opera di ricostruzione e contestualizzazione storica, in termini stilistici ha il tratto del biografismo anglosassone, attento a far partecipare empaticamente il lettore alle vicende narrate. De Turris in ciò è stato agevolato dalla vita di Evola, molto simile a quella di tanti protagonisti delle spy stories. Saggio storico che si legge d’un fiato, dalla prima pagina all’ultima. Un testo, peraltro, costruito per cerchi concentrici ed aggiunte successive. L’incipit della narrazione prende avvio dall’8 settembre 1943. Evola si trovava in Germania in quanto, ambienti politico-militari tedeschi attivati da Preziosi, ne avevano chiesto la presenza, al fine di ricevere chiarimenti sulla “situazione italiana”. Dopo il 25 luglio egli aveva scelto di rimanere a Roma, non solo per motivi contingenti, ma per constatare chi e che cosa, dopo il crollo del regime, poteva essere considerato utile per la rinascita politica. Il filosofo ebbe immediata contezza del fallimento del piano fascista mirato a liberare Mussolini e si mosse tra Monaco, Berlino e il Quartier generale di Hitler, come ci racconta negli articoli estremamente dettagliati, che pubblicò sul quotidiano romano, Il Popolo italiano.
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  • Evola a Rastenburg, cittadina della Prussia orientale sede del Quartier generale di Hitler, assistette alla nascita, tra molte perplessità, del nuovo stato fascista, assieme a Pavolini, Vittorio Mussolini e Preziosi. Rientrò a Roma, all’aeroporto di Guidonia, la sera del 18 settembre. Il pensatore era certo dell’inevitabilità della sconfitta, ma convinto della necessità di battersi fino allo stremo. De Turris dimostra che nel periodo badogliano il tradizionalista non cercò affatto di accreditarsi presso i nuovi padroni. Infatti, nella lettera del 9 agosto ’43 chiedeva che gli fosse riconosciuto un arretrato guadagnato prima del 25 luglio e si batteva per la nascita di una “destra tradizionale” in un progetto, il Movimento per la Rinascita d’Italia, cui parteciparono Costamagna e Balbino Giuliano. Viene ribadita l’importanza del dossier del dott. Dussik, da cui si ricava la data esatta del bombardamento viennese e viene confermata la presenza di Evola presso il prof. Peto in Ungheria, al fine di ottenere un miglioramento del suo stato di salute.     Un libro ricchissimo di informazioni, imprescindibile, che fa luce su un periodo rilevante della vita del filosofo.

  • ...Studi Evoliani

  • Studi Evoliani 2022
    In libreria il nuovo numero
  • dell’Annuario della Fondazione Evola
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • Anche quest’anno è nelle librerie, con la consueta puntualità, l’Annuario della Fondazione Evola, Studi Evoliani 2022, edito da Fondazione Evola-Ritter Edizioni (per ordini:02/201310, info@ritteredizioni.com, pp. 312, euro 25,00). Anche questo numero è decisamente corposo ed interessante.
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  • La nota editoriale sottolinea il grande successo delle mostre delle opere pittoriche di Evola tenutesi al MART di Rovereto e a Villa Bertelli a Forte dei Marmi, chiusasi nel marzo 2023, visitate da spettatori attenti e numerosi. La prima sezione dell’Annuario, curato dal Presidente, dal Segretario e dal vice Segretario della Fondazione, raccoglie gli Atti del Convegno di studi tenutosi a Roma il 26 novembre 2022 con la partecipazione di eminenti relatori quali, Stefano Arcella, Sebastiano Fusco, Massimo Donà, Lorenzo Di Chiara, Mariano Bizzarri e Nuccio D’Anna, a cui ha assistito un folto pubblico. Il tema dibattuto era “Novant’anni de La Tradizione ermetica e de Il Mondo magico de gli Heroi”.
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  • La sezione successiva, dedicata ai Saggi, propone contributi di spessore. Innanzitutto, la traduzione della prefazione del filosofo Dmitry Moiseev all’edizione russa del volume Un filosofo in guerra di Gianfranco de Turris.  Giovanni Damiano intrattiene il lettore sul tema della temporalità in Cavalcare la tigre; Paola de Giorgi sviluppa la comparazione tra posizioni evoliane e tesi di pensatori cattolici, senza cadere nell’errore riduzionista di quanti, anche recentemente, hanno preteso di ricondurre tesi evoliane a posizioni fideistiche; Giorgio Calcara si sofferma sugli interessi esoterici di Franco Battiato, attraversandone criticamente l’intera produzione musicale; Antonio Calabrese analizza l’importanza delle pagine culturali di Diorama filosofico, diretto dal pensatore tradizionalista; Luca Valentini indaga prossimità e differenze di Evola e Kremmerz, mentre Mario Paulan ambienta, in modo fantastico, una conversazione evoliana nelle “Terre Alte” scozzesi.
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  • In 'Inediti e Rari', Andrea Scarabelli presenta due rari articoli austriaci di Evola, scritti dal filosofo durante il suo primo soggiorno in terre “tedesche”, sul finire degli anni Venti.  Guido Andrea Pautasso ripercorre la polemica del tradizionalista con il foglio cattolico «Frontespizio».  In 'Cronache e polemiche', Giovanni Sessa ricorda due indimenticati amici della Fondazione Evola, recentemente scomparsi: l’eminente arabista Alberto Ventura e il giornalista-scrittore Primo Siena, animatore di primo piano di molte battaglie e riviste della “destra” culturale.  L’Annuario è chiuso dalla sezione 'Rassegne' che contiene un numero rilevante di recensioni di volumi di contenuto tradizionale.
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  • Nella 'Nota editoriale' la Fondazione informa i lettori intorno alle prossime iniziative che verranno assunte dall’importante consesso evoliano.  Innanzitutto, si dice del Convegno di Studi che si terrà a Roma il 2 dicembre 2023 e che sarà dedicato alla discussione degli aspetti più rilevanti de La dottrina del Risveglio (un altro evento, non dissimile, dovrebbe tenersi nello stesso periodo a Milano e dovrebbe essere improntato all’esegesi di un’altra opera di Evola, l’autobiografia spirituale, Il cammino del cinabro). Tale fervore di iniziative troverà il proprio compimento nel 2024, anno in cui sarà celebrato il cinquantesimo anniversario dalla morte di Julius Evola.  La Fondazione organizzerà grandi eventi: Convegni di studio in diverse città d’Italia, mostre e dibattiti.  Oltre ciò, fin dai primi mesi del 2024 saranno date alle stampe opere di assoluto valore, inerenti tanto il pensiero quanto aspetti biografici del filosofo. Tra le altre cose, saranno pubblicati degli inediti assai importanti, che consentiranno sia ai semplici lettori che agli studiosi, approfondimenti inerenti diversi aspetti dell’opera di Evola.
    ...
  • In tutto ciò, bisogna augurarsi il venir meno dei preconcetti, dei giudizi infondati sul pensatore, dettati da mere ragioni di polemica politica, privi di verità storica o documentale. Nell’ultimo periodo abbiamo, infatti, assistito a una recrudescenza della sterile polemica e, addirittura, della censura anti-evoliana (vedi il caso Gressoney o alcuni articoli a firma cattolica apparsi su «Il Foglio»).  È come se il lavoro attorno a Evola, promosso dalla Fondazione e condotto da studiosi e accademici seri (a volte per nulla vicini alle scelte politiche del tradizionalista), secondo criteri meramente scientifici, non sia servito a nulla.  Dicerie, falsità e travisamenti dell’opera evoliana sono all’ordine del giorno, a destra e a manca, e accompagnano ancora il nome di Evola, che per molti resta un “tabù”.   Anche la lettura attenta e non faziosa di Studi Evoliani 2022, può essere d’aiuto nel far chiarezza e ancor più potranno svolgere tale funzione le pubblicazioni e gli eventi del 2024.   È un augurio…


 

  • Carlo Lottieri La proprietà sotto attacco

  • Carlo Lottieri
  • La proprietà sotto attacco
  • (Liberilibri 2023, pp. 88, € 16,00)
  • rec. di 
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Sarebbero necessari tanti saggi come questo per risvegliare il senso comune da quel “sonno mediatico” che occulta pratiche, mezzi ed espedienti di sfruttamento dei governati (alias sudditi) del nostro tempo, soprattutto di quelli della Repubblica italiana. L’argomento può essere affrontato da più angoli visuali: Lottieri lo considera soprattutto da quello filosofico. Così l’autore considera il neopositivismo di Kelsen, per cui il diritto è “ricondotto alla mera validità formale”, ed è un sistema normativo organizzato secondo una gerarchia di precetti, fino a quello fondamentale.  Questa «gerarchia ben precisa colloca obblighi e sanzioni ben al di sopra dei cosiddetti “diritti”. Questo positivismo giuridico, di conseguenza, si traduce nell’assoluto arbitrio di chi comanda»   (il corsivo è mio).
  • ...
  • Ciò era stato stigmatizzato già circa un secolo orsono da Carré de Malberg, secondo il quale la gerarchia di norme del giurista austriaco non era altro che la conseguenza della gerarchia tra organi dello Stato: la conformità dell’atto amministrativo alla legge era il riflesso della superiorità del Parlamento sul governo e l’amministrazione (e così via).  In particolare la proprietà è stata svuotata di contenuto attraverso una disciplina che sottraeva o limitava facoltà a favore dei poteri pubblici (quello che Rodotà, lato sensu, chiamava il “controllo sociale delle attività private").   Per cui sempre il giurista calabrese riteneva la proprietà un diritto sotto riserva di legge, ma del quale il legislatore poteva plasmare ad libitum il contenuto. I tedeschi, che avevano già assistito ad un dibattito simile relativamente al diritto di proprietà come regolato dalla Costituzione di Weimar, quando si dettero la Grundgesetz, tuttora vigente, si affrettarono per evitare simili concezioni, a disporre (all’art. 19) che “in nessun caso un diritto fondamentale può essere leso nel suo contenuto sostanziale”; oltre a vietare su tali diritti, di legiferare con leggi di carattere non-generale.
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  • In realtà, sostiene Lottieri “...esiste un’inimicizia originaria tra il potere e il diritto, e quindi anche tra il potere e la proprietà”, in ispecie da quando l’“ordine giuridico è stato ricondotto alle decisioni arbitrarie del legislatore”, onde “L’arbitrio anarchico del decisore politico stabilisce chi deve avere cosa, ma questo è reso possibile da una sorta di ipoteca collettivistica: dall’idea che ci sia un gruppo di potere titolato a disporre di ogni bene e che può attribuirlo a sua discrezione”. Lo Stato è il più grande distributore dei diritti (e delle risorse correlative). Peraltro nella cultura progressista e nel suo “Stato di diritto”; “è stato allora delineato, grazie alla teorizzazione dello Stato di diritto democratico e sociale, un super-costituzionalismo in ragione del quale alla tripartizione puramente istituzionale tra legislativo, esecutivo e giudiziario si affiancherebbe una tripartizione ben più rilevante, la quale rinvia al contrapporsi dei tre “poteri” (politico, culturale ed economico). In questo modo la sovranità collettiva trarrebbe la sua legittimità e necessità dal compito di contrastare le minacce provenienti dall’economia e dalla cultura, dalla ricchezza e dal pensiero”.  Onde funzione dello Stato sarebbe di contrastare i relativi (e così denominati) abusi. Ma “L’esito di tutto ciò è un potenziamento crescente, tendenzialmente illimitato, del dominio politico: del controllo che il ceto governante esercita sul resto della società, sempre più espropriata dai governanti e dai loro complici”.
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  • Il che non ha affatto impedito che dei poteri pubblici si servissero anche i grandi poteri privati, realizzando così un mélange pubblico-privato, d’altra parte spesso ripropostosi (storicamente) in gran parte delle comunità. Anche l’occidente, e non solo Putin (e Xi) ha i propri oligarchi. D’altronde, quanto alla dimensione temporale questo era già stigmatizzato da Pareto nella forma della “plutocrazia demagogica” molto simile all’attuale apparato economico-mediatico di controllo. Anche oggi, i poteri forti “hanno reso possibile un nuovo dirigismo, in cui la grande impresa lavora di concerto con i politici e gli intellettuali. Non c’è dunque da stupirsi se ora, un po’ tutti, stanno passando all’incasso”.
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  • Da ultimo, per favorire il controllo sui governati si è inventato anche degli stati di emergenza gonfiati, l’ultimo dei quali pressoché inesistente (quanto alla causa indicata).  È quello del riscaldamento ambientale, contestato da tanti scienziati e contraddetto dall’andamento ciclico delle temperature (da millenni, assai prima dell’uso dei combustibili, dei motori e delle caldaie moderne).
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  • Nel complesso un saggio assai interessante, che ne fa auspicare un altro: come nell’Italia della Repubblica sia stato conculcato legislativamente il diritto di proprietà e quanto ci sia costato. Speriamo che Lottieri sia disponibile a scriverlo.

 

  • Quigley

  • La fine dell’Occidente
  • Una raccolta di scritti di Carroll Quigley
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • Usciamo dalla lettura di un volume interessante, La fine dell’Occidente. Trame segrete del mondo a due blocchi di Carroll Quigley, pubblicato da Oaks editrice (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 283, euro 20,00). Il volume è curato da Spartaco Pupo, studioso del pensiero conservatore e docente dell’Università della Calabria. Il nome dell’autore è pressoché sconosciuto al grande pubblico in Italia, eppure, proprio grazie ai suoi studi: «si sono definitivamente superate le ricostruzioni teleologiche e deterministiche per far posto a una prospettiva della storia globale basata sull’analisi realistica e anti-ideologica degli eventi» (p. 7). Tale affermazione di Pupo accompagna, in modo diretto, il lettore nel mondo ideale dell’autore. Il volume è una silloge di saggi, interviste e conferenze di Quigley, i cui contenuti sono di stringente attualità.
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  • Chi era costui, si chiederà il lettore? Lo storico nacque a Boston in una famiglia di origini irlandesi. Educato in istituti cattolici si laureò ad Harvard. Presto si trasferì in Europa assieme a una collega, Lillian Fox, che divenne, in seguito, sua moglie. A Milano scrisse la tesi di dottorato, rimasta inedita, inerente la pubblica amministrazione durante il Regno d’Italia napoleonico. In quelle pagine Quigley sosteneva una tesi che metteva in scacco la vulgata storiografica in tema: Napoleone non impose ai paesi conquistati metodologie di sviluppo avanzate ma, al contrario, innestò, nel sistema francese, modalità amministrative e di bilancio già sperimentate in Piemonte e nel Ducato di Milano. Nel 1941 fu chiamato alla School of Foreign Service presso la Georgetown University di Washington, dove rimase per un quarantennio quale apprezzato e appassionato docente. Nel 1961 dette alle stampe la prima delle sue monumentali opere, The Evolution of Civilizations, nella quale presentò il proprio approccio olistico agli eventi storici. In un’intervista rilasciata al Washington Post, raccolta nel volume, si legge: «Noi olisti usiamo il pensiero come rete o matrice delle cose. I riduzionisti usano l’etica assoluta: le cose sono giuste o sbagliate; gli olisti usano l’etica situazionale» (p. 11). A suo dire, la civiltà rappresenta: «l’entità intelligibile dei cambiamenti sociali da un’epoca all’altra» (p. 11).
  • ...
  • La storia si sviluppa, in tale prospettiva, per fasi “espansive” e di “conflitto”. L’organizzazione militare, politica, religiosa ed economica è il volano dell’espansione che produce “eccedenze” di diversa natura. Esse, da un lato, sono strumento di stabilità politica, dall’altro vengono “consumate” dai popoli fino alla “spreco”, che induce il “declino” di un dato assetto storico. Da tale condizione riparte ciclicamente una nuova fase della civiltà, come avrebbe notato, sia pure in diversa modalità esegetica, Toynbee. Nel 1966, con il volume, Tragedy and Hope, Quiegly attirò su di sé gli strali dell’ “intellettualmente corretto”.  Di fatto, in quelle pagine, nota il curatore, elaborò un’inedita ed: «...eterodossa disanima storico-politica del mondo istituzionale angloamericano, fatta di trame segrete e intrecci complessi, messi in luce con rara lucidità» (pp. 12-13).  Tra il XIX e il XX secolo l’Occidente vide sorgere la propria “tragedia”, gettò le basi di una sua possibile fine, subordinando la politica al potere finanziario. Fu un’oligarchia di origine britannica, di orientamento liberale e socialista, facente capo al Royal Institute of International Affairs, i cui gangli giungevano a controllare l’informazione di massa e il mondo accademico, a realizzare tale progetto. Allo scopo, fu creata un’associazione segreta, The Round Table Group, i cui adepti si sentivano i difensori: «della bellezza e della civilizzazione nel mondo moderno», per questo, avrebbero voluto diffondere: «libertà e luce […] non solo in Asia ma perfino nell’Europa Centrale» (p. 14).
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  • Questa rete britannica ebbe importanti corrispondenti oltre Atlantico: i Rockefeller, i Morgan e i Lazard. Quigley non scrisse mai della presunta attività complottista di questo gruppo ma, alla luce dei documenti, svelò i canali di reclutamento di tale oligarchia e le sue modalità di infiltrazione nei potentati politici e culturali. In un capitolo de, La fine dell’Occidente, si legge: «la rete segreta è descritta come un sodalizio di entusiasti imperialisti rimasto in piedi fino a ben oltre il secondo dopoguerra» (p. 15). Per tale ragione le sue opere furono screditate, ritirate dal circuito librario e riproposte da case editrici della destra americana. Del resto, lo studioso collaborò con le più note testate del conservatorismo americano. Il tema più rilevante, che emerge dalle conferenze, è l’idea che l’origine dei conflitti sia da individuarsi nella volontà, non di distruggere il nemico, ma di costruire un duraturo periodo di pace. Inoltre, lo storico fa rilevare che l’economia non può essere elevata a deus ex machina della esegesi storica, in quanto tale posizione induce una sottovalutazione della “complessità” degli eventi.  Più in particolare, egli sostiene che la democrazia USA: «si è definitivamente affermata solo intorno al 1880, quando la distribuzione delle armi nella società era tale che nessuna minoranza fosse in grado di assoggettare con la forza la maggioranza» (pp. 20-21).
  • ...
  • Dirimente risulta la lettura che lo studioso propose del mondo diviso in blocchi.   L’instabilità occidentale era data dall’ipertrofia assunta dal mondo finanziario e dalla mastodontica burocrazia.  Gli occidentali continuano, anche oggi, a subire un continuo “lavaggio del cervello” che passa dalla Neo Lingua: «La certezza di poter cambiare la realtà modificando il significato delle parole» (p. 22), esito estremo del neo-gnosticismo. Il centralismo sovietico è letto da Quigley quale esito della storia russa, centrata sull’uso privatistico e semi divino del potere.  Modello non esportabile in Occidente, come avrebbero preteso i teorici della contestazione. Il problema occidentale andava individuato nell’accelerazione comunicativa e nella distruzione delle comunità, dei corpi intermedi, realizzato attraverso: «la commercializzazione delle relazioni umane», atta a rendere gli uomini atomi.
  • ...
  • Un mese dopo la sua ultima conferenza, il professore morì improvvisamente. Pertanto, alcuni dei testi contenuti nel volume, possono essere considerati il suo testamento spirituale. La fine dell’Occidente è un libro che riporta l’attenzione su un pensatore che, come si è visto, meriterebbe maggiore considerazione.

 

 

  • Matriarcato

  • Del
  • Matriarcato
  • Le società matriarcali e la nascita del patriarcato
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  •  
  • È nelle librerie, per i tipi di Mimesis, un volume della filosofa tedesca Heide Goettner-Abendroth, Le società matriarcali del passato e la nascita del patriarcato. Asia occidentale e Europa, la cui traduzione si deve a Luisa Vicinelli e Nicoletta Cocchi (per ordini: 02/24861657, mimesis@mimesisedizioni.it, p. 583, euro 28,00).  L’autrice, docente di Filosofia moderna a Monaco di Baviera, ha lascito l’insegnamento accademico per dedicarsi allo studio della cultura femminile.  Nel 1986 ha fondato l’International Academy Hagia, che si occupa di studi matriarcali e spiritualità matriarcale.  L’opera che sinteticamente presentiamo è il risultato di decenni di lavoro sul campo. Sotto il profilo metodologico, la pensatrice si è servita dei più rilevanti contributi forniti sul matriarcato dall’antropologia e dall’etnologia, relativamente ai popoli matriarcali ancora esistenti, ma si è altresì avvalsa delle ricerche archeologiche più accreditate, visitando, in prima persona, i siti delle aree geografiche oggetto di studio. Metodo induttivo il suo, mirato a liberare gli studi tematici dal pregiudizio “patriarcale”: «obiettivo del libro è di offrire un contributo che possa porre rimedio al pregiudizio e, attraverso un metodo integrato, riscrivere e riequilibrare la storia della cultura umana» (p. 13).
  • ...
  • Goettner-Abendroth ritiene che il termine “matriarcato” non sia l’opposto concettuale di patriarcato, in quanto non legge il temine nel senso di “dominio o regola della madri” ma ritiene che esso significhi “in principio le madri”.   Le sue tesi prendano le mosse dal “padre” degli studi matriarcali, lo svizzero J. J. Bachofen, autore nel 1861 di Das Mutterrecht.  Le ricerche condotte presso le popolazioni matriarcali hanno indotto l’autrice a formulare una compiuta definizione di tali società. Esse sono, a livello economico, società di reciprocità costruite su un’economia di equilibrio, in cui i beni vengono ripartiti attraverso il dono. A livello sociale si basano sulla parentela matrilineare e, al loro interno, i sessi hanno un ruolo paritario e complementare. Il matriarcato è, politicamente, una società del consenso, in cui un ruolo centrale è rivestito dai clan e in cui vige un sistema di delega affidato agli uomini. A livello culturale, tali società sono fondate sulla sacralità e sull’idea di animazione universale: «la visione del mondo è incentrata su un divino femminile […] immanente e non trascendente, (che) include anche il maschile» (p. 21).  Detto questo, l’autrice precisa che tale impianto definitorio è di tipo “aperto”, può essere modificato da nuove acquisizioni d’indagine: «Il punto è non proiettare nessun “tipo ideale” di società fisso e immutabile, stabilito in astratto e in cui può rientrare qualsiasi cosa» (p. 23).
  • ...
  • La filosofa rifiuta la rigida distinzione proposta dalla storiografia “ufficiale” tra storia e preistoria. Alla luce di tale dicotomia, la storia avrebbe inizio con l’instaurazione di modelli patriarcali: gerarchia sociale, fondazione di stati territoriali e nascita di religioni dogmatiche.  Al contrario, è necessario includere: «nella storia dell’umanità tutte le conquiste culturali compiute dalle donne e dagli uomini fin dai primordi» (p. 33), ponendosi oltre la visione lineare dello sviluppo degli eventi umani e della conseguente esaltazione del progresso. Goettner-Abendroth decostruisce l’idea che le ere primeve siano state connotate dalla “guerra infinita”, secondo la nota tesi dell’archeologo Lawrence Keeley.  Le guerre “preistoriche” sarebbero, in realtà, “faide”, conflitti temporanei e limitati, indotti da motivazioni marginali (furti, insulti, ecc.), il cui obiettivo non era di uccidere e sterminare il nemico: «il più delle volte si tratta di combattimenti per procura tra capi di schieramenti diversi» (p. 36). L’aumento demografico del neolitico non fu immenso, ci furono emigrazioni pacifiche, una distribuzione naturale della popolazione sul territorio. Il sorgere delle città megalitiche non fu il risultato dell’azione di un “Big Man” che avrebbe voluto impossessarsi di un dato territorio, in quanto tali fortificazioni all’inizio erano difese che tutelavano da disastri naturali. A tale quadro va aggiunto che gli studi archeologici più recenti hanno smentito la violenta pratica del cannibalismo in tale età.
  • ...
  • La guerra organizzata comparve solo con l’Età del Ferro e, nelle culture orientali, a muovere dall’Età del Bronzo, vale a dire con l’affermarsi del patriarcato. Ciò non significa, chiosa l’autrice, che prima gli esseri umani fossero angelicati. Anzi, esistevano forme di violenza spontanea, sedate da: «una gamma di strategie per la risoluzione dei conflitti» (p. 51), espressione dei valori materni. Nel paleolitico, in particolare, vigeva un’economia di raccolta e caccia mentre la visione del mondo era permeata da una religione della rinascita e la Terra era esperita quale Madre Primordiale: la donna ne era immagine. In Asia Occidentale, nel neolitico, vigeva un’uguaglianza complementare tra uomo e donna. L’economia era incentrata su agricoltura e allevamento e si praticava un’equa distribuzione dei beni. La società era ordinata in clan matrilineari. Alla religione della rinascita si affiancò il culto degli antenati e delle antenate in linea materna, che indusse la consapevolezza della storia: «La visione del mondo può essere definita una cosmologia polare […] che incorporava anche la polarità femminle-maschile» (p. 189).
  • ...
  • Il neolitico in Europa vide un’economia di sussistenza gestita dalla donne, mentre gli uomini si dedicavano alla lavorazione dei metalli e alla pratica edilizia. Nonostante la specializzazione tecnica, venne salvaguardata l’equa distribuzione dei beni. Le alleanze tra clan portarono alla nascita di società di parentela. Furono eretti monumenti per la religione della rinascita. Le madri primeve divennero dee: dea bianca (nascita), dea rossa (conservazione della vita), dea nera (fine della vita e rinascita). Presto i cambiamenti climatici nelle steppe euroasiatiche impedirono la pratica agricola. Si diffusero allevamento e pastorizia centrate sull’addomesticamento del cavallo e nacquero i primi conflitti tra confinanti. Con il nomadismo nacque il carro da guerra. Si affermò così il primo patriarcato con le sue élite guerriere e il relativo modello di dominio. Il bestiame divenne proprietà privata. Gli dei “maschili” furono considerati uranici, le dee femminili “inferiori”, ctonie. Situazione non dissimile visse la Mesopotamia, dove ci fu un graduale passaggio dal tardo-matriarcato al patriarcato. A Creta si registrò una resistenza al patriarcato durante l’Età del Bronzo, mentre nell’Ellade si affermarono gli Achei e popoli di pastori-guerrieri dorici che imposero un rigido dominio dei padri. Al contempo, la cultura matriarcale etrusca fu distrutta dai Romani nel mentre il patriarcato si affermava in Europa oltre le Alpi.
  • ...
  • I meriti del volume sono considerevoli, anche se chi scrive ne rigetta l’impianto generale dualista, la contrapposizione del maschile e del femminile. L’autrice, del resto, è consapevole della complementarietà dei sessi nelle società matriarcali. Il ritorno dell’origine presuppone l’equilibrio della polarità maschile-femminile, non il loro eterno confliggere.  

  • "DISAPPLICARE"
  • non è una parolaccia
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • A leggere la stampa, compresa quella non di sinistra, sulle recenti decisioni giudiziarie sui migranti, si ha l’impressione che venga criticata (anche) la possibilità per il Giudice ordinario di disapplicare gli atti amministrativi (nonché, in certi casi, norme di legge).  Dato che la disapplicazione ha una storia che quasi coincide con quella dell’unità d’Italia e della costruzione dello Stato nazionale e liberale, urge ricordare cos’è, chi l’ha voluta, e perché.
  • ...
  • Con la L. 2248/1865 all. E era abolito il vecchio contenzioso amministrativo degli Stati pre-unitari. L’art. 5 dispone: “In questo, come in ogni altro caso, le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi”.  Come scriveva Vittorio Emanuele Orlando, la portata liberale di tale riforma fu limitata da una giurisprudenza timida e favorevole alla parte pubblica. Scriveva: “L’abbiamo detto più volte, e l’osservazione non è nostra soltanto: la legge del 1865 fu troppo liberale, e non trovò le condizioni ambientali idonee al suo sereno e completo svolgimento. Il sentimento autoritario era ed è ancora troppo radicato in noi, popolo nato ora alla libertà. Sicché tutte le volte che essa ha potuto, la giurisprudenza ha allontanato da sé il calice amaro di agire come freno e limite del potere esecutivo”. A completarla comunque intervenne nel 1889 l’istituzione della IV Sezione del Consiglio di Stato con giurisdizione sugli interessi legittimi. Sosteneva Silvio Spaventa che, dato l’accrescimento del potere pubblico era necessario un controllo giudiziario più esteso e penetrante: “È evidente che, quanto il potere dello Stato è più grande, altrettanto, se non è più facile che esso ne abusi, maggiore però, per l’estensione sola del suo potere, può essere il numero dei suoi abusi. Il rimedio quindi, che si affaccia in prima alla mente di ognuno e contro gli abusi delle autorità pubbliche, è di restringere al possibile il loro potere… Tutti i tentativi quindi, che faremo per diminuire le ingerenze dello Stato, a me sembrano pressoché vani: non è per questa via che si troverà il rimedio che cerchiamo… la libertà oggi deve cercarsi non tanto nella costituzione e nelle leggi politiche, quanto nell’amministrazione e nelle leggi amministrative”.
  • ...
  • Ho riportato, tra i tanti, le opinioni di due tra i più noti e influenti giuristi per ricordare come l’intero “comparto” della giustizia amministrativa – disapplicazione inclusa - fu opera e merito della classe dirigente liberale; la quale, pur detenendo il potere, all’epoca ebbe il coraggio di approvare riforme il cui effetto era di limitarlo e controllarlo.
  • ...
  • Dopo che da un trentennio si sta facendo tanto per conculcare i diritti dei cittadini, come più volte e più estesamente ho sostenuto, occorre evitare l’errore di pensare che disapplicare sia abuso di potere giudiziario, che è contrario al principio di distinzione dei poteri (Montesquieu si rivolta nella tomba), che occorre un governo che possa governare, ecc. ecc.  Tutte cose in tutto o in larga parte condivisibili ma le quali con la disapplicazione (come “tecnica sanzionatoria” degli atti illegittimi della P.A.) hanno poco a che fare. E limitarla o anche solo deprecarla sarebbe fare un passo (enorme) indietro, che tutti i sedicenti liberali aspettano fregandosi le mani.
  • ...
  • Ciò stante, è comunque da valutare se e come siano “disapplicabili” atti o anche disposizioni con valore di legge perché contrarie al diritto internazionale, ed ancor più se qualche decisione giudiziaria, apparentemente sollecita del diritto delle genti non sia piuttosto frutto della personali convinzioni politiche ed etiche del giudicante.  Ma questo è un problema (enorme) che concerne l’esercizio di (ogni) funzione pubblica ed in particolare di quella giudiziaria.  E non solo della disapplicazione.


  • Freud

  • Freud e la tradizione mistica ebraica
  • Un saggio di
  • David Bakan
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • La psicanalisi è una delle forme deviate e più pervasive dello spiritualismo contemporaneo, come ben sapeva Julius Evola. Ha svolto un ruolo rilevante nella perdita del “Centro” da parte dell’uomo contemporaneo. Tale esito è inscritto nell’humus culturale e spirituale che agì sulla formazione del suo fondatore, Sigmund Freud. A ricordarlo ai lettori è David Bakan, già docente di Psicologia presso la York University in Canada, deceduto nel 2004, nel volume, Freud e la tradizione mistica ebraica, nelle librerie per Iduna editrice (per ordini: associazione.iduna@gmail.com, pp. 280, euro 24,00).
  • ...
  • Il volume è preceduto da un saggio introduttivo di Nuccio D’Anna. Quest’ultimo, in sintonia con l’autore, rileva come, fin da giovane, Freud avesse acquisito una conoscenza linguisticamente approfondita della Bibbia. Lo psicanalista aveva appreso a rispettare l’alimentazione tradizionale ebraica, a colloquiare con i propri familiari in yiddish, a praticare importanti forme meditative tipiche dello Hassidismo. Teneva, inoltre, nel proprio studio in: «bella mostra il testo dello Zohar, lo scritto Kabbalistico forse più celebre […], nel quale si trovano indicazioni rilevanti sull’unio mystica» (p. X). Probabilmente conosceva, inoltre, la tecnica kabbalistica: «del dilung e kefitsah […] insegnata ai suoi discepoli da Abulafia già nel XIII secolo» (p. X).  Tale tecnica consentiva di evincere la radice dal quale sorge il pensiero logico e di giungere all’“allargamento della coscienza”.  In realtà, il medico viennese si preoccupò, nella elaborazione della teoria e della pratica psicanalitica: «di trasporre questi antichi metodi sradicandoli totalmente dalle loro radici rituali e sacrali» (p. XI), mettendo in atto un evidente capovolgimento delle antiche metodologie rituali.
  • ...
  • A tanto giunse a causa dell’influenza di personaggi disparati. Innanzitutto, sul finire del secolo XIX, fu notevole l’influsso intellettuale del medico Wilhelm Fliess, fermamente convinto della latenza sessuale infantile, anzi della bisessualità dell’infanzia.  Tra i due vi fu, in seguito, una brusca rottura di rapporti. Ben presto, Freud incontrò sulla sua strada, grazie all’intercessione di Jung, la “Musa” di Nietzsche, Lou Andreas-Salomé, interessata al ruolo realizzativo dell’Eros. La donna affascinò lo psicanalista che la introdusse alla Società del Mercoledì, un gruppo strutturato in due livelli: uno esoterico, del quale faceva parte il gotha dell’ambiente freudiano e che tra i propri membri includeva Alfred Adler, e uno essoterico. Questo gruppo si riunì regolarmente dal 1902 al 1907. Nel 1912 Ernest Jones e Sandór Ferenczi proposero al maestro di costituire un Comitato segreto che, fino al 1936: «esercitò la propria attività di controllo discreto in tutte le iniziative dell’Associazione di psicanalisi» (p. V). In tal modo: «La società psicanalitica cominciò a configurarsi come una vera e propria parodia scimmiesca di una catena iniziatica» (p. VI).
  • ...
  • A seguito della morte del padre, nel 1897, Freud fu ammesso alla loggia viennese dell’Indipendent Order of B’nai B’rith, un sodalizio sovranazionale. In quegli anni il nostro pensatore iniziò, ricorda Bakan, a elaborare la teoria della sessualità infantile, centrata sui complessi di Edipo ed Elettra. Se le motivazioni esterne di adesione alla loggia erano dettate dalla volontà di ribadire la propria identità ebraica e di rispondere al montante antisemitismo nella Vienna del sindaco Lueger, d’altro lato, l’affiliazione gli garantiva un ampio uditorio per le proprie conferenze.  In una prolusione dedicata al Motto di spirito si servì del folklore ebraico in tema di Witz e motteggi, profanandone, in tutta evidenza, i contenuti sacrali. Nelle conferenze dedicate a Eros e Thanatos sottolineò il tratto “paternalista” dei monoteismi, giudicandolo produttore di psicosi e inibizioni.  L’adattamento che Freud metteva in atto dell’avita tradizione familiare: «chiarisce […] la direzione oscura verso cui conducono le terapie psicanalitiche» (p. XI). Una direzione catagogica, conducente, come era noto alla misteriosofia ellenica, alla “caduta nel pantano”, uno sprofondamento nel sottosuolo pulsionale umano, la cui manipolazione poteva risultare rischiosa tanto per il presunto terapeuta, quanto per il paziente.  La pratica dei Tarocchi con gli Arcani maggiori, tradizionalmente indicanti i principi “formanti” il cosmo, cui Freud si dedicava nei momenti liberi in Loggia, ebbe per lui il senso di una contro-celebrazione del “Giorno del Signore”.
  • ...
  • Tale tendenza la si evince dal volume Totem e tabù del 1913.  Nelle sue pagine, Freud prospetta nel mondo arcaico: «l’esistenza di piccole società formate attorno a un maschio adulto che autoritariamente avrebbe comandato una cerchia numerosa di donne immature» (p. XV). Introduce, in tal modo, un’equivalenza tra le religioni e le sue astrazioni totemiche, ritenute responsabili di gravi forme di ossessione psichica.  In tal senso è esemplare il saggio, Il Mosè di Michelangelo. Nella scultura del grande artista lo psicanalista non riesce a percepire la “luce” indicante la “Presenza divina”, ma semplicemente lo sforzo sovrumano di Mosè, atto a placare la collera che lo animava al fine di salvare le Tavole. Nel volume, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, Freud: «avanza l’ipotesi che Mosè non fosse un israelita, ma un esponente della casta nobiliare egizia» (p. XIX).  Bakan sostiene che il tentativo di Freud è simile a quello messo in atto da Sabbatei Tzevì: è intenzionato, infatti, a scalzare il fondatore del Giudaismo dal ruolo di Inviato di Dio.  Tale tesi è mirata a posporre: «su un piano parareligioso le sue ricerche sulla nevrosi […] e dichiara che tutte le religioni sono una speciale forma di “nevrosi ossessiva universale”» (p. XXI).
  • ...
  • Nell’interpretazione freudiana dei sogni, centrata sulla distinzione tra contenuto manifesto e latente, a dire di Bakan si evince la presenza delle dottrine sabbatiane e un esplicito riferimento al demonismo. Si tratta dell’inversione del sacro Patto che gli Ebrei avevano originariamente contratto con Dio. Il medico viennese attribuisce il ruolo salvifico che nel pensiero religioso era proprio di Dio, alla psicanalisi.  Tale “presunta” scienza è stata costruita ad hoc, ritiene Bakan, per sterilizzare la dimensione divina e luminosa dell’uomo.

 
  • contro egalitarismo

  • Murray N. Rothbard
  • Contro l’egalitarismo
  • a cura di Roberta Adelaide Modugno,
  • (Liberilibri 2023, pp. 122, € 18,00)
  • rec. di 
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Nel volume sono raccolti saggi del filosofo ed economista libertario, allievo di von Mises. Scrive la Modugno nell’introduzione che dell’eguaglianza avversata da Rothbard che “non si tratta del principio dei Padri fondatori della repubblica americana, cioè l’idea che tutti gli uomini sono creati uguali e dotati della stessa libertà. L’egalitarismo di sinistra proclama invece di voler rendere tutti gli uomini uguali, cosa ben diversa da un’uguaglianza nella libertà”.  Dato che gli uomini sono (fortunatamente) tutti diversi l’uno dall’altro, il percorso tra eguaglianza da realizzare e disuguaglianza fattuale è del tutto in salita.
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  • Anche perché a partire dall’eguaglianza più “soft”, cioè quella delle opportunità, le differenze fisiche di ciascun individuo fanno sì che ai punti di arrivo si ricreino disuguaglianze. Basti ricordare quanto pesino tali caratteri negli atleti, negli attori o nei cantanti (a tacer d’altro).  Anche se provvisti di borse di studio, palestre, ecc. ecc., decisivi per il successo del calciatore, del tenore e dell’attrice saranno la prestanza fisica, l’ugola e la bellezza. E così a ricreare la disuguaglianza sia delle possibilità e stili di vita che nella ricchezza.
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  • Inoltre come sottolinea Alessandro Fusillo nella post-fazione: “lo strumento per la realizzazione forzosa dell’uguaglianza è lo Stato… lo Stato, in quanto monopolista territoriale della violenza aggressiva ed entità collettiva che ricava i propri redditi non dalla produzione e dallo scambio ma dall’appropriazione fraudolenta o forzosa di quanto altri hanno prodotto o scambiato, è un’entità antisociale e asociale. Lo Stato, pertanto, non è, secondo la ricostruzione rothbardiana, un’entità magari inefficiente e farraginosa, ma fondamentalmente benevola e utile.  Lo Stato è il nemico della società civile, l’organizzazione che ne impedisce o rallenta lo sviluppo e la prosperità”.   Anche Rothbard nota che “La grande realtà della differenza e della varietà individuale (cioè, la disuguaglianza) risulta evidente dalla lunga storia dell’esperienza umana; da qui, il riconoscimento generale della natura antiumana di un mondo di uniformità forzata.  Socialmente ed economicamente, questa varietà si manifesta nell’universale divisione del lavoro e nella “Legge Ferrea dell’Oligarchia” – la consapevolezza che, in ogni organizzazione o attività, alcuni (generalmente i più capaci e/o i più interessati) finiranno per diventare leader, con la massa che riempie le fila dei seguaci”.  Quindi né l’ordine economico, né quello politico (anzi questo ancora di più) prescindono dalla disuguaglianza.
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  • Chi scrive è convinto che un’affermazione è sicuramente condivisibile, il resto lo è solo in parte.  A osservare la realtà, lo Stato moderno è anche il garante della libertà concreta (Hegel). Il bicchiere cioè è mezzo pieno, perché è proprio il monopolio della violenza legittima (e della decisione politica) che ha reso possibile un grado di coazione e quindi di realizzazione delle pretese (delle “obbligazioni-scambio” di Miglio) ragguardevole.  A parte i casi (tanti) di esercizio dispotico del potere, quello dello Stato moderno è assai più efficace di quanto lo fosse il sistema feudale o i diritti degli “Stati” arcaici dove le pretese – anche se statuite dal giudice – dovevano essere eseguite dagli aventi diritto.
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  • Il tutto si basa tuttavia sulla diseguaglianza più evidente e necessitata perché determinata dalla natura umana: che, il “politico”, è squisitamente disuguale, basandosi sulla differenza più sostanziale e decisiva, ossia quella tra chi comanda e chi obbedisce.   Per cui l’eguaglianza da realizzare si fonda in ogni caso, su una disuguaglianza necessaria e decisiva. Perché normalmente chi comanda può arrivare fino a condannare (o destinare) alla morte. Cosa che Fusillo nota: “La supremazia dei pubblici poteri è la negazione del principio di uguaglianza”.  Rothbard nei saggi raccolti offre sempre una lettura originale, ma soprattutto anti-conformista e, ricordando Bacone, anti-idola. Un’ottima ragione per leggerlo.

  • ilteatrodellaguerra

  • Guerra e pace ai tempi di Lorenzo il Magnifico
  • Un nuovo saggio di
  • Marco Barsacchi
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • È nelle librerie un nuovo saggio di Marco Barsacchi.  Questa volta, la versatilità intellettuale dell’autore, lo ha indotto a occuparsi di un periodo storico cruciale per le sorti italiane, caratterizzato dalla luminosa presenza di Lorenzo il Magnifico.  Ci riferiamo al volume, Il teatro della guerra e della pace ai tempi di Lorenzo il Magnifico, edito da Solfanelli (per ordini: 0871/561806, edizionisolfanelli@yahoo.it, pp. 214, euro 16,00).   Il saggio presenta il conflitto: «tutto italiano, che ebbe luogo dopo la ben nota congiura dei Pazzi, tentativo […] di eliminare i Medici e ridimensionare il dinamismo finanziario e politico di quella famiglia» (p. 5). La guerra durò due anni (1478-79) ma, prima di arrivare alla pace effettiva, ne trascorsero altri due. Il libro è impreziosito da un Appendice che raccoglie documenti storici: innanzitutto, i termini della capitolazione di Colle, che il 15 novembre 1479 pose fine al conflitto, nonché il Trattato di pace sottoscritto il 13 marzo 1480 a Napoli.  Questa parte conclusiva è arricchita da una serie di Tavole, tra cui segnaliamo gli alberi genealogici delle famiglie Aragona e Medici.
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  • Il libro riveste un duplice interesse.  Svolge, infatti, una significativa chiarificazione storica rispetto alle condizioni della penisola italiana nel corso del Quattrocento (compito espletato in forza dell’ampia discussione di documenti e cronache del periodo), ma presenta anche un indiscutibile valore letterario.  L’abilità scrittoria di Barsacchi immette il lettore nel quotidiano di quel frangente storico, nei complessi rapporti dinastico-politici e lascia intravedere sullo sfondo la vita delle Corti animata dalla presenza di insigni artisti ed intellettuali.  La guerra di cui si tratta fu combattuta prevalentemente in Toscana, ma a essa presero parte, oltre alla Repubblica Fiorentina, il Ducato di Milano, la Repubblica di Venezia, il Papato, il Regno di Napoli, oltre a realtà istituzionali più piccole e con un ruolo marginale nello scacchiere italiano.
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  • La narrazione degli eventi bellici è minuziosa, attenta alla ricostruzione degli eventi, ma altresì mirata a trascrivere le reazioni che essi produssero nella stratificata realtà sociale del Quattrocento.  Confronti cavallereschi e comportamenti nobili si accompagnarono a chiari atti di slealtà.  Le masse popolari, in particolare contadine, manifestarono, un legame profondo con la terra d’origine, ma non compresero le ragioni delle devastazioni che la guerra provocava e le ragioni del contendere.  L’incipit del volume muove dalla congiura dei Pazzi e Salvati e dalla successiva scomunica comminata dalla Santa Sede. L’autore mette in rilievo il ritardo con il quale presero avvio le operazioni militari da parte della Repubblica Fiorentina e si intrattiene sulla debolezza interna, politica, di alcuni dei contendenti, in particolare del Ducato di Milano.  Si sofferma, attraverso descrizioni realistiche, sul sacco di Casole e sull’incendio di Certaldo, che condussero al termine del conflitto. Nel presentare le trattative (complesse) di pace che riproposero, di fatto, lo condizione politica pregressa, Barsacchi apre lo sguardo sulla situazione internazionale e sulla presenza turca nel Mediterraneo.
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  • I capitoli di maggior interesse ci paiono il primo e quello conclusivo. Nel primo, Barsacchi si occupa delle condizioni politiche della penisola italiana e in particolare dell’organizzazione delle “forze armate”, in quel frangente di grandi cambiamenti: «La cultura umanistica e il mecenatismo dei Signori italiani è la splendida cornice di condizioni politiche sempre precarie […] in cui è difficile cogliere il segno di un’aspirazione a superare le diffidenze reciproche […] qualche reale tentativo di comporle in un solido scacchiere unitario» (p 7), come, al contrario, stava avvenendo in Europa. L’autore tratteggia i rapporti poco chiari tra i diversi Stati italiani. Firenze e Roma passarono da un’iniziale collaborazione all’aperta ostilità, che sarà una delle cause scatenanti la congiura dei Pazzi. A muovere dall’ultimo trentennio del Quattrocento, il Papato individuò nel Regno di Napoli il proprio naturale alleato: «Ferrante sosteneva Sisto IV e la sua famiglia […] ma era convinto che essi non sarebbero riusciti a dar vita a un ampio e solido dominio nell’Italia centro-settentrionale» (p. 19). Medesima incertezza vigeva all’interno dei singoli Stati, in particolare a Firenze, dove i Pazzi avrebbero voluto sbarazzarsi del potere politico-finanziario dei Medici (la congiura ordita da questi ultimi, è descritta nei suoi rocamboleschi particolari).
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  • Le “forze armate”, d’altro canto, alla metà del XV secolo, erano prevalentemente costituite da combattenti a cavallo. L’“uomo d’arme” era accompagnato dalla propria lancia, che in Italia era costituita, oltre che dal cavaliere, da paggio e garzone. Alla lancia italiana mancava il supporto dei balestrieri, attivi in altri eserciti. Le lance erano riunite in squadre, comandate da un conestabile. Ruolo rilevante (non positivo, ben lo sapeva Machiavelli) fu svolto da soldati cui veniva versata quale retribuzione la condotta. Solo nella seconda metà del XV secolo la fanteria cominciò a svolgere un ruolo militare più significativo, mentre le armi da fuoco: «non costituiscono ancora un elemento determinante del successo militare» (p. 29).
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  • Nell’ultimo capitolo, l’autore formula un giudizio critico nei confronti dell’inconcludenza politica degli Stati italiani. Le loro imprese guerresche: «non sono animate da alcuna idea più grande dell’orizzonte locale» (pp. 176-177). Machiavelli comprese il senso di tutto ciò. Si trattava della messa in scena di una rappresentazione teatrale. Del resto, a dire dell’autore, nell’Umanesimo:   «finisce per avere il sopravvento una ricerca della codificazione, della maniera, delle regole e dell’eleganza formale, nel campo delle lettere come in quello delle arti e dei costumi civili» (p. 178).  Insomma, la figura del Magnifico, rappresenta in uno, il culmine della storia millenaria italiana: «ma costituisce anche un punto di arrivo e di mancato superamento» (p. 178).  Agli uomini della Rinascenza mancò il senso vivo del presente.  L’equilibrio garantito dalla Pace di Lodi, non aveva più alcun senso storico. La grande spinta culturale al Nuovo Inizio, rimase compressa, pertanto, in un ambiguo e improduttivo localismo politico.
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  • Chi guardi con interesse al “pensiero italiano” quale topos di una possibile ripartenza deve oggi tener conto di tale lezione e di quella desumibile dagli esiti del successivo Risorgimento.  Merito maggiore di questo suo libro, l’aver riproposto all’intelligenza dei lettori tale esiziale conclusione.

  • D Anna

  • Cicli cosmici e ritmi del tempo in India
  • Un nuovo saggio di
  • Nuccio D’Anna
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
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  • Nuccio D’Anna ha da poco aggiunto, alla propria produzione libraria, un testo importante. Ne beneficeranno, in particolare, i lettori interessati agli studi storico-religiosi e a quelli tradizionali. Ci riferiamo al volume, I cicli cosmici. Le dottrine indiane sui ritmi del tempo, nelle librerie per Arỹa edizioni (per ordini: arya.victoriasrl@mail.com, pp. 240, euro 26,00).   In queste pagine, l’autore mostra una non comune padronanza dell’amplissima letteratura critica, accompagna, inoltre, con sagacia, il lettore nell’esegesi dei complessi testi sacri centrati sulla temporalità ciclica.  Tale compito è espletato con riferimento al metodo comparativo, attraverso il quale è possibile evincere il valore universale di miti e simboli.  I contenuti trattati sono così vasti, che risulta davvero arduo riassumerli nello spazio di una recensione. Pertanto, ci soffermeremo solo su alcuni plessi teorici.
  • ...
  • D’Anna muove dalla presentazione del senso e del significato del “Centro” nel mondo tradizionale. Lo fa intrattenendosi sul valore del Monte Meru: «considerato il riflesso del polo celeste che regge, governa ed orienta l’intero movimento del quadrante cosmico» (p. 3). La struttura assiale della montagna induce a guardarla quale: «veicolo delle benedizioni divine elargite incessantemente […] Il Meru appare come l’“albero del cosmo”» (p. 4). Secondo la tradizione vedica dai sui rami discesero i raggi di Sūrya che trasmisero all’umanità la “legge di Varuṇa, il Ṛta, l’Ordine che è Verità.   Il Ṛta: «ha una relazione diretta con la stabilità della costellazione delle sette stelle dell’Orsa» (p. 5). La Montagna sacra è strettamente imparentata, da un lato, ad Agni, dio del fuoco prototipico che al centro del mondo arde di fulgore e, dall’altro, con Brahma, divinità formatrice assimilabile alla “Roccia indistruttibile”, dalla quale si irradiano “qualità” divine.   Il Meru si erge al centro di un’isola circolare che è suddivisa in sette “regioni”, attorno alle quali vi sono sette Oceani in corrispondenza: «con l’ordinamento planetario strutturato abitualmente su sette livelli» (p. 10). L’ultima distesa di mare è detta “Oceano di Latte”.
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  • L’autore precisa: «Nel corso dello svolgimento ciclico in ognuna di queste “isole” la Tradizione […]dovrà necessariamente trovare un suo sviluppo integrale che avrà come inevitabile conseguenza l’esaurimento di tutte le possibilità spirituali veicolate nel mondo» (p. 13).  In tal modo è svelato il legame di tale simbologia con lo sviluppo ciclico. Ogni singolo punto-cardine, in tale cosmosofia, è custodito da una divinità: il cosmo stesso assume tratto maṇḍalico. L’attuale Eone, nell’elenco dei 30 kalpa, occupa il XXVI posto (Varaha-Kalpa) ed è preceduto dal Padama-kalpa. Alla luce dell’insegnamento tradizionale, la manifestazione si è involuta a causa del “peso degli uomini”, che hanno realizzato una manipolazione del Dharma. Durante il Kalpa precedente il nostro, Viṣṇu “Dormiente” ha operato: «il proprio intervento cosmogonico nelle sembianze di un fiore di loto emerso dal suo stesso ombelico» (p. 20) e ciò ha consentito la perfetta continuità dottrinale e rituale tra il sesto e il settimo Manvantara del nostro kalpa.
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  • Brahma fece emergere la “terra primordiale”: «l’archetipo o modello pre-formale di una realtà ancora immacolata» (p. 21).  Ogni qualvolta il Principio discende nel divenire, stando alla prospettiva tradizionale dell’India, dà luogo a un vero e proprio “sacrificio universale”. Si tratta di un atto capace di agire contro le “potenze dell’oscurità”. Un ruolo essenziale, in tal senso, D’Anna attribuisce a Prajapati, che si congiunse alla Terra immacolata emersa dalle Acque.  Egli: «simboleggia l’ineffabile Unità dalla quale sono fluiti tutti gli altri dèi e nella quale torneranno» (p. 28).  Tale potestas ha lo sguardo rivolto verso tutte le direzioni spaziali.  Le acque primordiali altro non sono che la trascrizione simbolica del “mormorio” dello scorrere del tempo, in quanto il Principio, alla luce degli studi di Marius Schneider, citato più volte dall’autore, non è che suono-luce. I cantori sacri: «Odono l’essenza sonora e presensibile […] che si riversa “naturalmente” nella vita cosmica» (p. 31).  Il canto solare dei sette Ṛṣi formò la testa di Prajapati che, armonizzando suono e ritmo: «rese possibile la formulazione dei fonemi e delle sillabe» (p. 33).
  • ...
  • L’autore ricorda che il settimo Manvatara prese inizio dopo il diluvio. L’attuale era viene divisa in 4 yuga, il cui sviluppo è ordinato attorno al simbolo della decade, che scandisce il progressivo impoverimento spirituale, indotto dalle potenze catagogiche di Koka e Vikoka (Gog e Magog). La prima età è l’“Età della Verità” e della pienezza spirituale. Il colore che la connota è il bianco, disvelante la sua essenza sapienziale e quella della casta Haṃsa: «Nel gioco indiano dei dadi […] questa prima età […] corrisponde al “tiro” ben riuscito» (p. 112). Nella seconda età agisce la “dinastia solare” che mira a conservare la tradizione “non umana”, svolgendo un’azione di tipo conservativo, simile a quella attribuita in Occidente a Saturno. Il valore rituale del gioco dei dadi, ben noto a Roma (lo si poteva praticare durante i Saturnalia, in occasione del Solstizio invernale), era legato a particolari congiunture astronomiche.   I “punti” incisi sulle facce dei dadi erano detti “occhi”, in quanto rinvianti ai “luminari” che brillavano: «nel cielo dei primordi vedici» (p. 115).
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  • Quando si evidenziava un disordinato rotolare dei dadi, lo si attribuiva all’appesantimento spirituale del ciclo, corrispondente al frenetico vorticare del mondo. Il lancio dei dadi in cui compariva il tre, indicava la seconda età, in cui il mondo si reggeva sulla “tre quarti” del dharma. Il suo colore era il rosso. Il due nel gioco dei dadi, rinviava alla terza età, in cui il mondo si sviluppa sul rapporto luce/tenebra che, sempre più, tende a cristallizzare in senso oppositivo queste due potenze. In essa il sattva si ritira, predominano rajas e tamas. Suo colore è il verde.
  • ...
  • Infine, il kali-yuga, il cui inizio: «è stato fissato in coincidenza della congiuntura aurorale iniziata alle 6 del mattino del 18 febbraio del 3102 a.C.» (p. 118).   Anche questo yuga è suddiviso in 4 sotto età: è l’età della risorgenza delle forze magmatiche e caotiche che travolgono la perfezione dell’Origine. Anche Śiva si ritira dalle apparenze fenomeniche. Per comprendere lo svolgimento ciclico è necessario far riferimento alla precessione degli equinozi, in cui l’obliquità dell’eclittica e dell’equatore va a disegnare una “trottola” cosmica. Tale precessione: «continua a svolgersi attorno ad un vero “sovrano” che ne indirizza il corso: è Dhruva» (p. 131), il polo fisso, garante del ritorno all’ordine al termine del kali-yuga.   D’Anna arricchisce la presentazione dei cicli indiani, attraverso numerosi riferimenti eruditi alla tradizione greca, mesopotamica, taoista, rintracciandone l’eco finanche nell’astronomia di Keplero.  Discute, inoltre, la complessa simbologia sottesa alla visione ciclica e chiarisce, tra le altre cose, la debolezza delle esegesi “naturalistiche” del tempo ciclico, perfino quella formulata da Eliade, fondata sul riferimento ai cicli lunari: «Solamente questa (la) dimensione cosmico-trionfale può fare contemplare la profondità, l’altezza e l’ampiezza del sostrato spirituale che alimenta l’intima relazione esistente tra fonemi, suoni, colori, linguaggi animali […] scansioni celesti […] momenti stagionali» (p. 209), la relazione tra macro e microcosmo. Il saggio di D’Anna è davvero esaustivo.

  

  • SIAMO ELLENI di GIORGIO GEMISTO PLETONE MORENO NERI Mimesis

  • "Siamo Elleni"
  • La prima edizione italiana degli scritti politici di
  • Giorgio Gemisto Pletone
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
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  • È in libreria un volume davvero importante. Si tratta di, Siamo Elleni. Scritti politici di Giorgio Gemisto Pletone. Per la prima volta, il lettore italiano ha a disposizione nella propria lingua (con testo greco a fronte) saggi cruciali del filosofo che ispirò a Cosimo dei Medici la fondazione dell’Accademia neoplatonica di Careggi.  Il libro è edito da Mimesis per la cura e traduzione di Moreno Neri che ha dato vita, in sequela con la pubblicazione dei quattro volumi del Corpus eremetico, a un’altra opera monumentale. Il suo saggio introduttivo è, infatti, una monografia organica che consente di entrare nelle vive cose della speculazione di Gemisto. Per non dire dell’apparato delle note, ricco e rilevantissimo, in cui viene discussa l’intera letteratura critica, antica e moderna, prodotta attorno al neoplatonico (per ordini: mimesis@mimesisedizioni.it, 02/24861657, pp. 623, euro 38,00).
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  • Il tomo è costituito da i Memoriali del Peloponneso (Raccomandazione a Teodoro, Memoriale a Manuele II): «Questi due testi, scritti durante il 1416-1418, sollecitano l’introduzione di riforme radicali nel Despotato» (p. 24). Il primo è indirizzato al Despota di Morea (Peloponneso), discorso consultivo in stile antico. Il secondo, diretto all’Imperatore, scende nei dettagli delle riforme politiche che Pletone avrebbe voluto realizzare. Nel volume è contenuta la lettera di Gemisto All’Imperatore, spesso citata con il titolo Sull’istmo. Fu scritta nel 1415, in vista della visita di Manuele II a Mistrà. Chiude il volume uno scritto del 1451, Indirizzo a Demetrio, Despota di Morea, che più tardi avrebbe contribuito alla distruzione dell’opera più significativa del pensatore, il Trattato delle Leggi.
  • ...
  • Per comprendere appieno la proposta politica del filosofo, è necessario tener presente che egli si colloca entro una linea di pensiero: «che comincia dal riformatore persiano Zoroastro, prosegue con Pitagora e Platone e le loro rispettive scuole fino al platonismo di Mistrà (città che sorgeva nei pressi dell’antica Sparta), da lui rappresentato» (p. 8).  Nato nella seconda metà del XIV secolo in una famiglia appartenente all’alta burocrazia ecclesiastica di Costantinopoli, fu educato alle sette arti liberali per poi trasferirsi, lo ricorda Giorgio Scolario, cristiano e nemico giurato di Pletone, in Turchia. Venne in contatto con Elisha, dotto giudeo, adepto: «della falsafa, la tradizione filosofica greco-musulmana in contatto con i […] discepoli della scuola sufi di Sohrawardi, che almeno tre secoli prima di Gemisto aveva effettuato la congiunzione di Zoroastro e Platone» (p. 12).   In questi ambienti apprese che un’idea vera non può essere nuova, in quanto la verità non è un prodotto dello spirito umano, esiste indipendentemente da noi.   Al riguardo, precisa Neri: «L’esoterismo […] è una Tradizione anteriore a tutte le forme esteriori, particolari e religiose, che si contrae in pochi principi» (p. 15).   Formatosi nel mileu di Elisha, il filosofo individuò i limiti della situazione politica-spirituale in cui versava lo Stato bizantino e iniziò a prendere le distanze dalla visione cristiana del mondo.
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  • Si convinse che il Cristianesimo aveva fatto sprofondare l’Impero bizantino in una crisi senza soluzione. La sua proposta politica si configura quale tentativo di ri-ellenizzare, di ri-paganizzare la Grecia.  Il suo è stato un esempio ante litteram di “nazionalismo” ellenico. La lettura dei suoi scritti, consente di sostenere che egli tentò di riconciliare religione e polis: «Per far diventare cives gli Elleni […] gli abitanti della Grecia bizantina avrebbero dovuto accettare delle leggi e riconoscersi in uno Stato legittimato […] da narrazioni storiche e figure esemplari, nonché da riti» (p. 17).  Scolario ritenne che Gemisto avrebbe dovuto, a causa di tali tesi, essere allontanato da Costantinopoli. L’amicizia di Manuele II salvò il Nostro, che fu inviato quale magistrato a Mistrà, dove fondò una fratria.   Tra i suoi allievi va annoverato Bessarione.  Al volgere del secolo, il Despotato viveva una situazione particolare, era: «simultaneamente sull’orlo della distruzione e sull’orlo di una completa vittoria sui suoi vecchi invasori» (p. 22).  Tale stato di crisi, indusse Pletone a pensare a uno Stato altro da quello in cui gli era toccato in sorte di vivere. Uno Stato fondato sul modello platonico-spartano, ma rivolto al futuro, a un possibile Nuovo Inizio.
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  • Nei due Memoriali Pletone propose una serie di riforme: individuò nella monarchia, la miglior forma di governo. Una monarchia temperata grazie al Consiglio dei Sapienti, preposto a supportare il sovrano.  I cittadini avrebbero dovuto esser divisi in classi: governanti, agricoltori-allevatori, mercanti e artigiani.  Dei governanti erano parte i combattenti, sollevati dallo svolgere altre attività, affinché ponessero massima attenzione alla preparazione della guerra. Il nuovo esercito doveva essere costituito da “concittadini e patrioti”, non da mercenari. Sarebbe stato necessario, inoltre, riformare il sistema fiscale: «L’imposta fondiaria, pagabile in natura, dovrà essere determinata in proporzione alle capacità di ciascun contribuente e sarà unica» (p. 47) e realizzare l’autarchia economica attraverso l’introduzione di una moneta locale e la limitazione della circolazione delle valute estere. Si dovevano stabilire leggi eque e non vessatorie. Solo una Costituzione giusta avrebbe garantito la ripresa del Peloponneso, propedeutica al rafforzamento della compagine bizantina.
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  • Pletone ebbe notevole interesse per l’economia, ambito nel quale ripropose il “comunismo” platonico. In realtà, tale riforma non mirava all’abolizione della proprietà terriera, ma a una sua ridistribuzione atta a colpire le rendite improduttive dei latifondisti e quelle degli ordini monastici parassitari.  Tale comunismo era, peraltro, giustificato, in termini sacrali, con riferimento alla Terra Magna Mater, da cui tutto trae origine e al cui possesso tutti dovrebbero, pertanto, partecipare.  Gemisto, ben lo chiarisce Neri in una puntuale decostruzione della critica popperiana a Platone, non fu né utopista in senso moderno, né sostenitore di uno Stato totalitario: «Il suo nazionalismo […] è chiaramente un mito politico progettato per neutralizzare sia l’ideologia cristiana […] sia il feudalesimo degli indisciplinati signori terrieri» (p. 99).  Il suo era uno Stato organico.  Il platonismo del pensatore è un tentativo di diagnosi-terapia del nosos, della “malattia” politico-spirituale del tempo.  Eric Voegelin chiamò tale tentativo esperienza classica della ragione.  Essa presuppone quale condizione dell’ordine politico, l’ordine dell’anima individuale sintonizzata sul nous cosmico.
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  • La proposta di Pletone è espressione della philosophia perennis, della Tradizione. Le sue spoglie riposano nel Tempio malatestiano di Rimini, simbolo della possibile Rinascenza di un’origine sempre presente.  Il Nuovo Inizio per il quale Gemisto si spese, è compito che anche l’età contemporanea dovrebbe tornare a porsi.  Le pagine di Siamo Elleni sono viatico indispensabile per lasciarsi alle spalle la tirannia del moderno.

  • Rebatet

  • Lucien Rebatet
  • Un rivoluzionario decadente
  • Claudio Siniscalchi
  • riporta l’attenzione sul collaborazionista francese
  • rec.  di
  • Giovanni Sessa
  • Negli ultimi anni, nel panorama editoriale italiano, sembra essere in atto un ritorno d’interesse per il fascismo francese. Claudio Siniscalchi è tra gli autori che hanno maggiormente contribuito a questa rinascita di studi tematici. Lo mostra la sua ultima fatica, Un rivoluzionario decadente. Vita maledetta di Lucien Rebatet, nelle librerie per i tipi di Oaks editrice (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 182, euro 20,00).   Rebatet, argomenta l’autore, è vero e proprio paradigma di quell’ampia pattuglia di intellettuali che lessero la storia della Francia moderna in termini di decadenza, ma che, in realtà, erano radicati in profondità in quel mondo.
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  • Rebatet nacque nel novembre del 1903 nell’antico Delfinato. Fu educato in un istituto scolastico retto da religiosi, verso i quali maturò un disgusto incontenibile. Il padre, notaio di fede repubblicana, la madre, cattolica di origini napoletane, non riuscirono ad attrarlo verso i rispettivi mondi ideali. Nel 1923, il giovane Rebatet giunse a Parigi. Nella capitale studiò letteratura alla Sorbona e frequentò assiduamente Montparnasse, quartiere eccentrico dove ferveva un’intensa vita notturna e nel quale si tenevano innovativi eventi culturali e artistici. In quegli anni ebbe inizio la sua collaborazione alle pagine dell’«L’Action française» di Maurras, dapprima come critico musicale e successivamente cinematografico. A differenza di Maurras, Rebatet «non è cattolico né antitedesco» (p. 19). Dotato di stile graffiante, i suoi pezzi hanno subito successo. La sua ascesa ai vertici dell’intelligencija della “destra” d’oltralpe, ebbe inizio nel 1932. In quell’anno suoi contributi apparvero sul settimanale «Je suis partout». Su queste colonne realizzò il passaggio dalla critica cinematografica alla polemica politica. I suoi scritti testimoniano il graduale superamento delle posizioni maurrassiane, in direzione del pieno appoggio alla causa “fascista”.
  • ...
  • Nel presentare l’iter intellettuale e politico di Rebatet, Siniscalchi disegna un quadro organico del variegato e vivace mondo intellettuale del “fascismo” francese, discutendo i rapporti che intercorsero tra i maggiori interpreti di quella fazione intellettuale e politica. Giunge, pertanto, a formulare giudizi equilibrati, in linea con i dettami della ricerca storica. In particolare, chiarisce come l’avvicinarsi di Rebatet alla Germania nazionalsocialista sia da ascriversi alla ferma convinzione che i nemici della Patria fossero “interni” e andavano individuati nei: «nord-africani, neri, gialli, russi vecchi e nuovi, minatori polacchi, italiani» (p. 23), giunti in Francia per le più disparate ragioni. Tali categorie, ben presto, saranno sostituite dal nemico per antonomasia, l’ebreo. I rivoluzionari e gli ebrei che avevano lasciato la Germania dopo il 1933 si erano incontrati con gli esuli antifascisti italiani ed avevano costituito l’internazionale antifascista. Ad essa bisognava opporre, a dire dello scrittore, l’internazionale fascista.
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  • Matura così, anche in Rebatet, oltre che in La Rochelle, l’idea di un fascismo europeo quale unica risposta possibile alla decadenza del nostro Continente.  La febbre antisemita si radicalizzò in Francia, con la conquista del potere da parte del Fronte popolare di Blum. Rebatet, ci dice Siniscalchi, resta comunque lettore attento del contemporaneo.  A seguito della pubblicazione dell’Histoire du cinéma di Brasillach e Bardèche, mostrò di non condividere l’esegesi estetica neoclassica di Maurras e vide nel cinema un’arte dalle straordinarie potenzialità. Non fu critico cinematografico animato da pregiudiziali antiamericane : «Nei film di Hollywood […] trova spesso opere sane e spontanee, vitali e virili […] Opere prive di superficialità e falsità» (p. 49). Nel 1937, giunge a definire La grande illusione, film stroncato in Italia da Luigi Chiarini, miglior prodotto dell’anno. Non sopportava, inoltre: «il pessimismo morale proprio dei film più significativi del “realismo poetico” francese» (p. 52). Rebatet diventò durante l’Occupazione il più importante critico cinematografico del paese. A suo dire, agli “ariani” e francesi Lumière e Méliès si doveva la nascita del cinema: «Gli “ebrei” hanno raccolto i copiosi frutti economici di questa invenzione» (pp. 73), tanto in Europa quanto negli Usa.
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  • Il collaborazionista non fa che applicare lo schema che Wagner elaborò per il suo scritto sul giudaismo musicale alla storia del cinema. Ne risulta, rileva Siniscalchi, una “falsificazione” della storia cinematografica francese. L’attività di scrittore di Rebatet ha il proprio momento apicale in due libri. Il primo, Les décombres, può essere considerato il vero e proprio manifesto ideologico della “tentazione fascista”.  Fu un successo imprevisto e immediato. In esso il Nostro: «attacca con rara violenza istituzioni, partiti, uomini politici, intellettuali, auspicando […] la “degiudaizzazione” del paese». (p. 100)   Il volume fu scritto tra il 1940 e il 1942. Rebatet era convinto dell’inanità del tentativo politico messo in atto a Vichy: solo un autentico fascismo francese avrebbe potuto risollevare la Francia, in forza del socialismo nazionale.  Con la Liberazione di Parigi, dopo una fuga rocambolesca, Rebatet venne arrestato, condannato a morte anche se la condanna fu presto commutata in carcere a vita.  In realtà, rimase nelle prigioni francesi per alcuni anni.
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  • Nel 1951 uscì un suo nuovo romanzo, I due stendardi.  Letterariamente si tratta di un ritorno a Proust, l’ispirazione profonda è invece nietzschiana e anticristiana.  Siniscalchi, facendo riferimento agli studi di Del Noce e Voegelin, inquadra le tesi espresse in questo volume nelle posizioni rivoluzionarie e neo-gnostiche moderne, nelle religioni politiche. Per quanto ci riguarda, la cosa sorprendente nel francese, è che l’adesione alla visione “pagana” della vita lo indusse ad abbracciare la causa nazional-socialista. Al contrario, per chi scrive, memore in tema della lezione di de Benoist, ma non solo, il nazismo fu tipica espressione di monoteismo politico, “Un Popolo, un Reich, un Capo”, niente di più lontano dalle concezioni che discendono da un approccio politeista al mondo.
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  • In ogni caso, Rebatet, durante il drammatico dopoguerra, visse in solitudine, emarginato, non abiurando, si badi, le idee che con tanta veemenza aveva difeso negli anni precedenti.  Merito di Siniscalchi avere riportato al centro del dibattito queste idee e le vicende in cui lo scrittore fu coinvolto.

  • MOSAICO FILOSOFI

  • Alessandro De Carolis Ginanneschi,
  • Il liberalismo, questo illustre sconosciuto,
  • (Ergo Sum Editore, Grosseto 2023, pp. 92, € 9,00)
  • rec. di 
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Quanto mai utile questo agile libretto in un’epoca in cui di sedicenti liberali ce ne sono tanti, per il motivo che, essendo crollato nel 1989-1991 il comunismo, gran parte della sinistra si è riconvertita (spesso a parole) ad un asserito e rivisitato liberalismo che, dell’originale, conserva solo alcuni (e limitati) profili, per lo più in stretta correlazione con le minoranze che “tutela”. Lo scrive l’autore nella “premessa” “La constatazione che da troppo tempo molti parlano a sproposito del Liberalismo, convinti tra l’altro si tratti di una ideologia quando invece è un metodo, mentre molti si dichiarano liberali pur senza esserlo – anzi esprimendo idee e promuovendo politiche o comportamenti che liberali non sono, mi ha indotto a scrivere questo riassunto di riflessioni altrui”.
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  • Peraltro già del liberalismo classico se ne hanno più “versioni” distinte, anche se vicine.  Ad esempio quella sintetizzata dall’alternativa “Parigi o Filadelfia?”, onde liberalismo anglosassone o continentale? La preferenza dell’autore va alla declinazione anglosassone, che articola in una serie di opposizioni. Antropologica: l’uomo è “legno storto” o “buon selvaggio”? Istituzionale: “rule of law” o “Stato di diritto”?. Common law (diritto consuetudinario) o legge (diritto statuito dal legislatore). Ognuna di queste alternative “parigine”, anche se in misura diversa, rischia di tradursi in un depotenziamento della libertà a favore di un potere statale pervasivo e opprimente. Nonostante le migliori intenzioni: forse non è un caso che la situazione odierna, malgrado quelle, somigli assai alla descrizione profetica che Tocqueville fa del “dispotismo mite”: un potere paternalistico che tratta i cittadini come bambini da rieducare. Anche l’Unione europea non è immune da tale menda. Come scrive De Carolis “Nell’attualità, sono sempre più convinto che un altro giacobinismo ci minaccia, ovvero quello del super-Stato europeo in mano ad una classe più burocratica che politica, e quindi svincolata dalle volontà dei propri cittadini/sudditi; mentre lo stiamo costruendo, lo Stato liberale e federale all’anglosassone sembra invece essere il modello che l’Europa, per essere davvero unita in armonia, dovrebbe seguire”: l’alternativa quindi non è tanto tra Stati nazionali e unioni superstatali, che andrebbero contemperati, ma tra bulimia del “pubblico” e garanzia del privato, presente sia a livello statale che sovrastatale, sia tra sovranisti che globalisti.
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  • Il libro è completato da una serie di documenti: dalla dichiarazione dei diritti del 26/08/1789 al Manifesto di Oxford del 1947 (ed altre) che testimoniano, anche se sinteticamente, del perdurare del nucleo fondamentale del liberalismo in oltre due secoli.
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  • Nel complesso un libro per chiarirsi le idee nella confusione imperante (e spesso artatamente intensificata). Particolarmente opportuno in una nazione, come l’Italia, che negli ultimi trent’anni ha visto una costante riduzione degli ambiti di libertà reale a favore del potere pubblico, presentati come un processo di “liberazione” e (addirittura) come “fine della storia”. Un farmaco contro la weberiana eterogenesi dei fini.

 

  • Giulio Cesare Vanini

  • Brevi note su
  • Giulio Cesare Vanini 
  • di 
  • Giovanni Damiano
  • Pur nella sua sommarietà, credo sia giusto dedicare un breve scritto a un filosofo non tra i più conosciuti, ma non per questo tra i meno importanti.  Nato a Taurisano nel 1585, Giulio Cesare Vanini verrà bruciato sul rogo a Tolosa il 9 febbraio del 1619 per “ateismo, bestemmia, empietà e altri eccessi”.   Prima di essere strangolato e poi consegnato alle fiamme, gli venne strappata la lingua.  Prima ancora, stando a una testimonianza, uscendo dal tribunale che lo aveva appena condannato a morte, avrebbe pronunciato in italiano queste parole: “andiamo, andiamo allegramente a morire da filosofo”.   Morirà con fermezza, senza abiure o tentennamenti.  Le uniche sue opere sopravvissute, ovvero l’Anfiteatro dell’eterna provvidenza e I meravigliosi segreti della natura, sono state pubblicate, in un unico volume, per i tipi della Bompiani nel 2010 col titolo di Tutte le opere.
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  • Per quanto concerne ciò che i posteri hanno detto su di lui, pochi esempi bastano per valutarne la grandezza: Hölderlin gli dedicherà una celebre lirica, intitolata appunto Vanini; Hegel lo includerà nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia (vol. III, tomo 1, La Nuova Italia, 1985, pp. 229-235), collegandolo a Bruno e sottolineandone il comune “naturalismo” e la stessa volontà di opporre “la cosiddetta rivelazione” alla “ragione”; Schopenhauer, infine, annovererà Vanini tra i suoi “predecessori” (e non meri precursori) nella Libertà del volere umano (Laterza, 2011, pp. 115-116), aggiungendo il feroce commento che “il vero e solido argomento dei teologi”, come nel caso di Vanini, era appunto quello di mandare al rogo i loro avversari, così come nei Parerga e paralipomena (vol. II, Adelphi, 1998, p. 483), affermerà che per i teologi “fu più facile bruciare Vanini che riuscire a confutarlo”, mentre nell’Arte d’invecchiare (Adelphi, 2006, p. 90), scriverà: “prima di mettere al rogo l’acuto e profondo Vanini gli hanno strappato la lingua perché con quella aveva bestemmiato Dio.  Confesso che quando leggo cose del genere mi viene quasi voglia di imprecare contro questo Dio”.
  • ...
  • Ora, sempre Schopenhauer, e sempre nella Libertà del volere umano, notava come Vanini, per poter divulgare le sue vere tesi, avesse fatto sistematicamente ricorso allo stratagemma della dissimulazione, consistente nel mascherare abilmente gli attacchi alla religione fingendo di confutare posizioni che in realtà condivideva, così da riuscire persino a ottenere l’imprimatur per la stampa dei suoi libri.  Si trattava di un tipico procedimento libertino, adottato ad esempio anche da La Mothe le Vayer, che aveva come scopo appunto quello di diffondere dottrine in contrasto con la religione, mascherandole accuratamente, anche se poi, come nel caso dello stesso Vanini, ciò non era servito per proteggere il loro autore; ed ecco perché, sia detto di sfuggita, proprio il Seicento sarà il secolo della nascita delle cosiddette filosofie clandestine, destinate a circolare anonime e in forma manoscritta a causa dei loro contenuti irreligiosi, su cui ha scritto anni fa un bel libro Gianni Paganini.
  • ...
  • Inoltre, alla luce di quanto detto sinora, non credo desterà sorpresa scoprire che anche a Vanini sia stata falsamente attribuita la paternità del De tribus impostoribus, cioè di quel trattato, massimamente empio, che accusava d’impostura i tre fondatori delle grandi religioni monoteiste, vale a dire Maometto, Mosè e Gesù. Purtroppo non è qui possibile dilungarsi sulla storia di questo testo affascinante (edito dalle Ar nel 2009, per la cura di Francesco Ingravalle), per la quale rimando alla ricostruzione, assai accurata, di Georges Minois, Il libro maledetto (Rizzoli, 2010), dove l’autore (pp. 135-137), parla anche di Vanini e della sua vicinanza alle tesi del De tribus impostoribus. A conferma, mi soffermerò almeno su alcuni passi dei Meravigliosi segreti della natura (cfr. G.C. Vanini, Tutte le opere, cit., p. 1363), dove vengono denunciate, sempre seguendo la tecnica della dissimulazione, appunto le imposture perpetrate dai “sacerdoti” e dai “principi” ai danni del “rozzo popolino”, sottomesso al timore divino per meglio essere indotto all’obbedienza. E puntualmente Vanini, al riguardo, riprende il notomotto latino “Primus in orbe deos fecit timor”, pur attribuendolo erroneamente a Lucrezio (in effetti la frase ricorre in Petronio e Stazio, mentre in Lucrezio è, per così dire, implicita), per leggerlo in chiave imposturale, così come avverrà per altri esponenti dell’ambiente libertino francese come La Mothe le Vayer e Naudé.
  • ...
  • Ma l’aspetto a mio parere davvero fondamentale dell’opera vaniniana sta nella sua filosofia della natura. Contestualizzando un minimo: alle spalle di Vanini c’è la filosofia della natura rinascimentale con i suoi grandi protagonisti (Telesio, Bruno, Campanella), mentre davanti a lui c’è la nuova visione galileiana della natura. Sarebbe quindi fin troppo facile individuare in Vanini una sorta di tappa intermedia, un momento di passaggio tra le due diverse immagini della natura, magari utilizzando, come criterio dirimente, la categoria di modernità. E in effetti non pochi interpreti si sono mossi proprio in questa direzione; vale ad esempio per Telesio, tant’è che Guido Giglioni, nel suo La filosofia naturale di Bernardino Telesio (in AA.VV., La filosofia del Rinascimento, Carocci, 2019, p. 257), scrive che il filosofo cosentino, pur avendo “dato inizio a una nuova forma di naturalismo” con la messa in discussione della vecchia concezione aristotelica, comunque non avrebbe anticipato “lo sperimentalismo della rivoluzione scientifica o l’empirismo moderno”; alla stessa stregua, se Mario Carparelli nel suo Giulio Cesare Vanini (Liberilibri, 2021, p. 26) sottolinea tutta la distanza che passa tra gli elementi magico-ermetici della filosofia bruniana e “la visione proto-meccanicistica e materialistica della realtà” rintracciabile in Vanini, Francesco Paolo Raimondi nel suo saggio introduttivo al volume di opere di Vanini già citato, afferma (p. 234) che la filosofia vaniniana sembra appunto “collocarsi in una fase di transizione tra una concezione magico-animistica dell’universo rinascimentale e quella quantitativo-meccanicistica della scienza secentesca”.
  • ...
  • Insomma, il vizio d’origine di tali letture sta nell’interpretare queste filosofie in chiave evoluzionista, nel senso di un progressivo avvicinamento alla scienza dei moderni; detto in breve, in tal modo si finisce per svalorizzare radicalmente i filosofi della natura cinque-seicenteschi, riducendoli al ruolo, quanto mai angusto e svilente, di semplici precursori, chi più chi meno, del pensiero compiutamente scientifico.
  • ...
  • Tutt’al contrario, bisogna pensare questa filosofia della natura davvero iuxta propria principia, per riprendere la notissima formula telesiana. Per cui, per rimanere a Vanini, l’aspetto decisivo della sua filosofia della natura non sta tanto nel misurarne ossessivamente la modernità, quanto piuttosto nel capire che ci si trova di fronte a un recupero della physis all’interno di un processo, indubbiamente moderno, di emancipazione dalla teologia.  Ecco perché in tal modo si dà un nuovo inizio dell’origine, ossia di quella physis che è stata al centro del più arcaico pensiero greco (e che, per inciso, è al centro anche del lavoro da tempo portato avanti da Giovanni Sessa).  Mi sembra, insomma, che si adatti bene anche a Vanini il giudizio su Telesio espresso da Andrea Suggi nel suo recentissimo La filosofia del Rinascimento (Carocci, 2023, p. 263), ovvero quello di essere stato “prezioso anello di congiunzione tra gli ‘antichi’ – i presocratici che hanno vissuto nelle poleis greche delle coste del Sud Italia – e i ‘moderni’ che anche grazie al suo lavoro hanno riportato a nuova luce il pensiero degli antichi sapienti restituendo impulso e originalità alla riflessione filosofica”.  Per una physis mediterranea e meridiana, sensoriale e vitalista, continuamente rinnovantesi nella sua immanenza, lontanissima dal freddo grigiore delle smorte, astruse astrattezze di qualsivoglia scolastica.

  • Fechner

  • Estratto della Prefazione di
  • Giovanni Sessa
  • al volume di
  • Gustav Theodor Fechner,
  • Zend Avesta. Pensieri sulle cose del cielo e dell’al di là,
  • Iduna editrice, pp. 262, euro 20,00.
  • Faccia attenzione il lettore! Il libro, Zend-Avesta. Pensieri sulle cose del cielo e dell’al di là di Gustav Theodor Fechner è un testo dal tratto decisamente inattuale: dalle sue pagine, infatti, si evince una visione del mondo, della natura e della vita umana, totalmente aliena dalle concezioni correnti, tanto religiose quanto laiche. In questo volume riemergono, sostenute da notevole impianto teorico, tesi panpsichiste e panteiste. La IDUNAeditrice ripropone questo libro nella versione italiana tradotta e introdotta da Remo Fedi, che vide la luce nel 1944.
  • ...
  • Date le idee oggi vigenti in tema di natura e, soprattutto, tenuto conto della rimozione dell’idea della morte dalla vita quotidiana delle società dominate dalla tecno-scienza, un libro quale Zend-Avesta può essere letto come vera e propria provocazione e determinare scandalo intellettuale. Ci auguriamo vivamente che ciò accada.  Abbiamo, infatti, estremo bisogno di mettere in discussione le false certezze su cui il nostro mondo è stato costruito.  Nella società liquida o iper-industriale, dominata dagli apparati della governance e dalla tecnica, l’idea del limite e della caducità della vita, così come il tener conto del memento mori, sono stati sostituiti da un salutismo sanitario che, a seguito della pandemia da Covid 19, ha assunto tratti liberticidi e parodistici.  Il prolungamento della vita, prima di tutto!  Questo l’imperativo vigente nelle società a capitalismo avanzato.
  • ...
  • È in atto una guerra dichiarata alla vecchiaia, realizzata attraverso il ricorso ai più diversi espedienti terapeutici, chirurgia plastica inclusa. Questo è il mantra prevalente nell’attualità  deprivata di profondità e spessore simbolico.  Per tali ragioni, il volume di Fechner può assurgere al ruolo di sasso gettato nelle acque stagnanti della cultura egemone dei nostri giorni.  L’autore, infatti, è latore della concezione dell’animazione universale del cosmo, afferma che tutto vive, tutto è animato, persino il mondo minerale è attraversato dall’interno da moto animico.  Inoltre, egli si confronta con la problematicità della morte, tentando (nientemeno!) di descrivere la vita nell’al di là, secondo canoni assai diversi da quelli propri alla religione che è divenuta dominante in Occidente […]. Sappia, inoltre, il lettore che questa versione dello Zend-Avesta è la traduzione della silloge, curata in Germania da Max Fischer, che questo studioso trasse dai tre volumi di Fechner.
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  • Nella prefazione allo Zend-Avesta, Fedi così si esprime sul libro: «Un inno alla vita […] scritto profondamente sincero e sentito, non traviato dalle correnti di pensiero che erano in voga quando esso venne alla luce […] ed esprimente il vivo anelito dall’autore di superare i grandi […] ostacoli che si pongono dinnanzi a coloro che si propongono di rompere […] il fitto velo tra l’al di qua e l’al di là» . Il lettore non sia tratto in inganno: la scelta di questo titolo non rimanda al libro sacro dello Zoroastrismo, ma al significato letterale di tale espressione, “parola vivente o di vita”. Da queste pagine emergono le qualità dell’uomo Fechner: l’amabilità, la sincerità, innanzitutto, ma anche la non celata ingenuità intellettuale.  Il volume è diviso in due parti. Nella prima il filosofo presenta e discute la dottrina panpsichista, nella seconda, dal tratto mistico, sia pur accompagnato da una razionalità non superficiale, si confronta con l’inusitato tema della vita nell’al di là, sulla base delle conclusioni cui egli giunge nella prima parte dell’opera.
  • ...
  • Concordiamo in toto con Fedi.  Quest’opera rappresenta un momento significativo del ripresentarsi nel pensiero moderno della philosophia perennis.   In essa, in funzione di medium tra afflato mistico e ricerca razionale, Fechner chiama in causa l’analogia, da sempre strumento di conoscenza nel pensiero di Tradizione.  Tutto è Uno: da tale constatazione-asserzione, il pensatore fa discendere la complementarietà di fisica e psicologia, l’esser uno di anima e corpo.  Del resto, a dire dello studioso: «La terra è un organismo vivente, animato come quello degli uomini, per quanto l’animazione del primo sia di un ordine superiore a quella del secondo».  Gli uomini in fondo, in tale concezione, altro non sono se non gli organi della sensibilità terrestre.  Ciò induce, di conseguenza, a guardare anche ai corpi celesti come enti animati: «Ciò equivale a dire che la coscienza umana è un gradino sulla scala della coscienza divina».  Ne consegue che il cosmo animato di Fechner risulti essere organismo gerarchizzato e animato, in cui il basso partecipa dell’alto.  Una visione questa, ne era ben cosciente l’ingenuo scienziato, che sarebbe stata duramente criticata e respinta dalle vestali del sapere egemone (positivista) in Europa alla metà del secolo XIX. Nonostante ciò, egli ha la certezza: «che la sua visione […] lascerà dietro di sé una scia di pensiero della quale dovranno tener conto anche gli avversari».   Nella seconda parte, Fechner cerca di presentare, alla luce della chiaroveggenza che riteneva di condividere con Swedenborg, il mondo dell’al di là.  Poiché in vita altro non siamo che sensazioni dello spirito della terra: «sopravvivremo in qualità di “ricordi” nello stesso spirito».
  • ...
  • Si tratta, pertanto, di un post mortem mnemonico. Non si dimentichi a riguardo che, per il Nostro, spirito e materia si danno in uno. Tutto è spirito ma, nel mondo dei fenomeni: «una parte dell’essere […] assolve una funzione strumentale rispetto all’altra» . Fedi, con pertinenza argomentativa, nota come in Fechner sia possibile cogliere un’anticipazione della concezione della materia quale funzione dell’energia […]. Il pensatore muove dal rilevare un fatto incontestabile: la scienza moderna, analitica e parcellizzante, ha perso di vista il tutto della natura e, per di più, ha espulso il Principio dalle indagini naturalistiche. Constata, inoltre, come tale atteggiamento appaia al senso comune del tutto legittimo senza, in realtà, esserlo.   A tale stato delle cose, chiosa Fechner, si può rispondere solo istillando dubbi, indicando altre possibili vie di indagine.  Rispetto all’anima, possiamo avere consapevolezza solo della porzione che ci appartiene individualmente.  Al contrario, per approssimarsi all’anima mundi, conditio sine qua non è tornare a guardare alla mediazione rappresentata dall’anima della Terra.  Il filosofo suggerisce al lettore di prendere atto che tutto sulla Terra è in moto e che i singoli movimenti degli enti sono il prodotto dell’energia del tutto.
  • ...
  • La motilità degli enti ci dice che tutto è vivo, metamorficamente orientato.  L’approccio analitico-moderno coglie una sola parte del vero della natura.  I primi uomini, come rilevò Vico, “sentivano” la natura e sapevano: «che il sangue scorreva sotto l’influsso dell’anima; che la loro respirazione dipendeva da un quid animato».  Il corpo della natura, sezionato nelle sue parti e indagato dalle scienze cui compete indagare quel dato settore del reale, è ridotto alla staticità del cadavere: «L’errore principale di questo modo di vedere consiste nel contrapporre […] il regno dell’organico a quello dell’inorganico».   Al contrario, bisognerebbe aver contezza che: «Uomini ed animali sono […] le membra della Terra, nelle quali ha sede la massima energia di commistione e di integrazione di tutte le materie terrestri e dei loro rapporti».   Se alla Terra si potessero togliere uomini, animali e piante, essa assumerebbe le fattezze di un tronco morto.   Terra ed esseri viventi sono in stretta relazione, si appartengono: tutto è in tutto.
  • ...
  • La Terra pensa, dunque! Pensa attraverso le anime che la abitano e noi, ad ogni percezione aggiungiamo, attraverso un quid più elevato dell’esperienza sensibile, proveniente dallo spirito universale, un’ulteriorità conoscitiva. L’uomo collabora, quindi, con l’anima mundi all’accrescimento della reciproca consapevolezza. Interesse e volontà dei singoli uomini collimano con la volontà della “coscienza terrestre”. Tutti gli enti sono legati alla terra da rapporti simpatetici.  Dell’anima abbiamo contezza attraverso il corpo e: «dello spirito divino […] mercé quanto avviene materialmente nel mondo».   Tutto ci viene trasmesso e comprendiamo tramite luce e suono: del Principio non c’è dato di dire: «altro ch’esso è caratterizzato dalla capacità d’apparire in un duplice modo, ossia come entità spirituale quando appare a se stesso e come entità corporea quando appare ad un altro».  Dio e mondo sono una medesima cosa.  L’universale vive solo nella particolarità degli enti: «È questa la visione panteistica del mondo. Anche la nostra visione è panteistica».  Pertanto: «La parte di entità divina che abbiamo in comune con Dio la cogliamo come spirito; tutto ciò che resta appare a noi corporalmente, materialmente come natura, come mondo». […] Si tratta di una filosofia rammemorante, in grado di ripresentare un patrimonio sapienziale antichissimo ma, al contempo, capace di parlarci in termini di filosofia futura.  Per questo, quanti siano interessati all’elaborazione di una cultura del “Nuovo Inizio” troveranno in Fechner stimoli e suggestioni di grande pregnanza.
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  • […] In queste pagine, il filosofo sostiene la morte essere un cammino, momento apicale di un percorso inconcluso. In essa, la vita si dilata in un’intensità superiore a quella sperimentata prima del trapasso. La coscienza coniugata alla sensibilità, intesa in termini neoplatonici ed eckhartiani da Fechner, consente al pensatore tedesco di superare l’idea moderna di soggettività e di corrispondere a un’esigenza particolarmente sentita in età romantica.  I romantici tentarono, infatti, di individuare i tratti salienti di una personalità sintonica nei confronti del cosmo: una personalità plurima, dinamica e pensarono di averla rintracciata nel genio […]   Nel panpsichismo cosmico fechneriano tutto è interconnesso e pertanto nulla, che sia effettivamente nostro, va perduto: «quel che noi pensiamo o sentiamo […] resta intrecciato nel tessuto dell’esistenza individuale e della Terra nel suo complesso dinamico, secondo modalità […] che comprenderemo invece nell’aldilà». Più nello specifico, nell’attimo della morte: «l’uomo raggiunge di colpo la consapevolezza di tutto quel che […] continua ad agire e a vivere», rilevando la forza che lega, in solidarietà comunitaria, i vivi ai trapassati, la potenza della Tradizione.   Questi possono, come antichi rituali testimoniano, in primis romani, “sentirsi” e “incontrarsi” attorno al mundus anche con gli ad-venienti, i futuri.
  • ...
  • […] La natura insegna che il permanente è sempre nel transeunte, l’uno nei molti, l’Atto puro indica un divino che vive nelle cose tutte: «Non un divino che avremmo il compito di cercare al di là della Natura».  Eraclito, più di ogni altro, ha mostrato la relazionalità degli opposti.   Il polemos e l’armonia, in lui e per i Greci: «alludono a una sola e medesima realtà», oltre ogni dualismo.   Per tale ragione, tornare a guardare l’animazione della natura con Fechner è, a giudizio di chi scrive, l’unico modo per superare l’impasse speculativa ed esistenziale che caratterizza i nostri giorni […].

  • Scubart

  • L’Europa e l’anima dell’Oriente
  • Un saggio del filosofo
  • Walter Schubart
  •  rec. di
  • Giovanni Sessa
  •  
  • È nelle librerie per i tipi di Oaks editrice un libro importante. Si tratta del saggio del filosofo tedesco Walter Schubart, L’Europa e l’anima dell’Oriente, che vide la luce nel 1938 (per ordini: info@oakseditrice.it   pp. 399, euro 28,00). Schubart è stato studioso di vaglia del “continente russo”, colse, nei suoi scritti, la profondità dell’anima della “Madre Russia”.   Con la presa del potere di Hitler, nel 1933 lasciò la propria patria e, con la moglie di origini ebraiche, riparò a Riga dove, nel 1942, trovò la morte in un gulag sovietico. Inutile sottolineare che il tema trattato nelle pagine del volume è di stringente attualità: i rapporti tra Occidente ed Oriente, tra Europa e Russia. Lo sviluppo argomentativo del saggio fa aggio, da un lato, sulla prosa affabulatoria dello scrittore, atta ad affascinare il lettore, oltre che sul tratto profetico delle sue pagine. Sul finire degli anni Trenta, la situazione spirituale e geopolitica del mondo, a dire di Schubart presentava questi caratteri: «Quanto […] si approssima è la lotta di due mondi, la finale composizione fra l’Occidente e l’Oriente e la nascita di una cultura occidentale-orientale attraverso l’uomo giovanneo, quale rappresentante di un’età nuova» (p. 5).
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  • Con il senno di poi, ci pare facile asserire che la premessa di tale asserzione era sicuramente vera, mentre la conclusione intravista dal pensatore non si è di fatto realizzata. Il riferimento all’uomo giovanneo e alla rigenerazione del mondo in un’età nuova, esplicitano con tutta evidenza che il quadro ermeneutico dell’autore è certamente apocalitto, come apocalittico è l’animus russo. In Italia, posizioni non dissimili si manifestarono nel cattolicesimo giovanneo e universalista di Silvano Panunzio. La lettura del volume impressionò non poco un lettore d’eccezione, Ernst Jünger. Questi, nello scritto a sua firma del Nodo di Gordio, attraverso la lezione di Schubart lesse Oriente e Occidente quali archetipi, mitologemi eterni. Detto questo, sappia il lettore che il filosofo dichiara esplicitamente di far propria la concezione eonico-ciclica della storia, articolata attorno a quattro età, ognuna delle quali centrata su un determinato tipo umano: uomo armonico, eroico, ascetico e messianico. Alla fine degli anni Trenta, il mondo si sarebbe trovato in una fase di transizione, quella tra il mondo ascetico e il mondo messianico. Un’età di incipienti cambiamenti e di attesa, in cui era possibile rilevare la crisi del mondo borghese-fabbrile, ma in cui risultava difficile cogliere i tratti salenti della nuova età: «Noi viviamo in un’epoca di transizione […] è piena di malinconia, ma anche di speranza» (p. 15).
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  • Nell’ultimo millennio l’Europa, ricorda l’autore, ha attraversato due ère: la gotica e la prometeica. La prima, sviluppatasi tra XI e XVI secolo, incarna il prototipo dell’uomo armonico, perfettamente conciliato con il sovrannaturale e la cui vita aveva per obiettivo la pace donata dalla Grazia. Tra il 1450 e il 1550 si realizzò, in particolare con la Riforma, il passaggio al mondo prometeico: «L’uomo nuovo rivolge lo sguardo alla terra, verso remote lontananze torno torno al globo terraqueo, non più verso altezze infinite» (p. 16). L’uomo nuovo vuole possedere il mondo, la sua natura è volontà di potenza, è un Titano che si è ribellato all’ordine divino delle cose. L’età prometeica nel secolo XX volgeva al termine: «si annuncia l’età giovannea, nella quale il prototipo messianico plasmerà l’uomo» (p. 16). Schubart è convinto che lo spirito del paesaggio sia una costante della storia, che il genius loci agisca sul sentire animico degli uomini. I Russi sono stati forgiati dalle pianure sconfinate, nelle quali l’eterno li guarda maestoso, distaccandoli dall’attaccamento al finito, alla terra intesa in termini di mera materialità. La potenza del paesaggio agisce nella storia, mentre le potenze del sangue, le forze meramente biologiche sono soggette all’invecchiamento. A differenza di quanto sostenuto dalla cultura nazionalsocialista: «Sangue e suolo designano elementi diversi, i quali concettualmente nulla hanno a che vedere tra loro» (p. 20). Nell’età giovannea tornerà ad affermarsi l’oltremondano, pertanto, ruolo di primo piano, a dire del pensatore, sarà svolto dai russi, popolo metafisico: «Il grande evento che si sta preparando è l’ascesa dello slavismo a potenza determinatrice della cultura» (p. 27). Il problema dei rapporti Oriente-Occidente non è un problema storico-politico, ma ha natura spirituale e filosofica.
  • ...
  • Ritorna in tale speranza messianica il messaggio goethiano-leibniziano, relativo al sorgere di una futura grande civiltà occident-orientale. L’Europa potrà ritrovare se stessa, la propria grandezza omerica e medievale, attraverso l’incontro-scontro con la Russia. L’uomo greco è per il tedesco la prima apparizione dell’ uomo armonico, al contrario Roma e la sua civiltà giuridica annunciarono l’età prometeica. L’Occidente: «ha donato all’umanità le forme più perfezionate della tecnica, della statalità […]ma le ha rubato l’anima. È compito della Russia di restituirla all’uomo. La Russia possiede precisamente quelle forze che l’Europa ha perduto e distrutto» (p. 41). Ciò in quanto i russi posseggono: «l’idea nazionale la più profonda e universale: la redenzione dell’umanità […] L’idea della redenzione del mondo è l’espressione del sentimento della fraternità, dell’umanitarismo universale sul piano della politica internazionale» (p. 248). Schubart, nel ricostruire le fasi storico-ideali della formazione dell’idea nazionale russa, confrontandosi con i maggiori rappresentanti della slavofilia e dell’euroasiatismo, si sofferma su Dostoevskij. I suoi personaggi testimoniano, con i loro conflitti interiori, la lotta tra i valori prometeici dell’Occidente che fecero irruzione nel paese orientale con Pietro I e l’afflato animico originario.
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  • In Delitto e castigo l’esito della narrazione è una messa in stato d’accusa dell’esaltazione della personalità libera e forte affermatasi in Occidente con la linea speculativa Machiavelli-Nietzsche, mentre nei Demoni è lo Stato-Moloch a mostre i suoi limiti. La salvezza viene dal riconoscimento dei limiti umani, essa matura grazie al pentimento intensamente vissuto. In tal modo, l’uomo si redime. La salvezza del popolo russo è centrata sul recupero della trascendenza e della tradizione. Lo stesso bolscevismo, ha paradossalmente contribuito, nonostante l’ateismo di Stato, a tutelare la “Madre Russia” dal dissolversi nei liquami della società post-moderna. La riscoperta staliniana dell’idea nazionale e del suo primato lo confermerebbe.
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  • Nella medesima congerie storica, la crisi della cultura prometeica e i segni di rinascita spirituale in Occidente, convinsero Schubart della prossimità dell’incontro, sotto il segno apocalittico di Giovanni, di Europa e Russia. Ci pare che le cose siano andate e stiano andando altrimenti. La teologia della storia giovannea, che sostiene le tesi di Schubart, non è via propriamente europea. Solo il ritorno alla physis greca potrà ricondurre gli Europei di fronte alla loro origine.

  

  

  • Litaliano

  • Evola   e   "L’Italiano" (1959-1973)
  • La collaborazione del filosofo alla rivista di Romualdi
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
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  • È da poco nelle librerie una raccolta di scritti evoliani davvero importante. Ci riferiamo a Julius Evola, L’Italiano (1959-1973) edita da Fondazione Evola-Edizioni Ritter (per ordini: info@ritteredizioni.com, 02/201310, pp. 292, euro 20,00), che raccoglie gli articoli del filosofo apparsi sulla rivista di Pino Romualdi. Va reso merito al curatore Alberto Lombardo per la sua ricerca certosina dei testi, rintracciati in diverse biblioteche italiane. Per comprendere la rilevanza del mensile di cui parliamo, è bene ricordare le parole che Evola stesso scrisse nell’articolo, Destra e MSI. Cultura e programmi nel 1969: «all’Italiano si deve riconoscere il merito d essere stata quasi l’unica rivista del MSI che […] ha dato un contributo valido nel senso di quella che si potrebbe chiamare una “cultura impegnata di Destra”» (p. 18). Il libro è impreziosito dalla postfazione di Giovanni Damiano, uno degli studiosi più qualificati del pensiero evoliano, che intrattiene il lettore sulle posizioni espresse dal tradizionalista in tema di politica internazionale e, in particolare, sul problema della “decolonizzazione”, in quel frangente presentato dalla grande stampa in termini di mera esaltazione retorica.
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  • L’Italiano iniziò le pubblicazioni nel 1959, sotto la direzione di Giorgio Torchia. In realtà, Lombardo ha chiarito che, l’anno precedente, erano usciti almeno sei numeri della rivista (custoditi presso la Biblioteca Alessandrina di Roma), vere e proprie prove generali prima dell’uscita ufficiale. Pino Romualdi è stato, da sempre, deus ex machina, coordinatore e ispiratore della pubblicazione. Il mensile può esser considerato filiazione del quotidiano, Il Popolo italiano che fece torcere i torchi delle tipografie tra il 1956 e il 1957, quale testata alternativa al Secolo d’Italia. Per questo, tra il quotidiano e la rivista, è riscontrabile non solo un’evidente continuità di firme, ma di contenuti e posizioni. L’Italiano, cessò definitivamente le pubblicazioni nel 1984 ma, nel corso della sua storia, le uscite subirono spesso ritardi e interruzioni. Nel 1963, la direzione fu assunta da Guidi Giannettini che, per i noti problemi giudiziari, dovette lasciarla a Carla De Paoli, nel 1970. Molti i collaboratori illustri: oltre a Evola, vanno ricordati Petronio, Pintore, Tricoli e Adriano Romualdi. Tra le giovani firme, molte troveranno definitiva affermazione negli anni a venire, da De Turris a Solinas, da Perfetti a Del Ponte, da Rallo a Malgieri.
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  • Gli articoli di Evola uscirono in gran parte nei primi sei anni, solo sette furono pubblicati negli anni successivi, fino al 1973. In uno degli ultimi scritti, il filosofo tracciò un ritratto commosso di Adriano Romualdi, scomparso a causa di un incidente stradale. Per interesse argomentativo, i contributi di Evola possono essere raggruppati attorno a quattro snodi tematici: 1) la ricostruzione degli ultimi anni del fascismo e della RSI, al fine di trarne un bilancio definitivo, mirato a distinguere il positivo dal negativo; 2) sviluppo di una critica ai costumi del tempo; 3) elaborazione di una proposta intellettuale e etico-politica alternativa; 4) costruzione di una storiografia di Destra tradizionale. Compaiono, inoltre, nella silloge, articoli inerenti al Congresso MSI di Genova del 1960, al fallito colpo di Stato di Algeri, al XXIII Congresso del PCUS, al processo Eichmann, ai fatti del maggio francese del 1968.
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  • Dalla lettura si evince una coincidenza di posizioni tra le tesi presentate dal tradizionalista e quelle della testata. Solo in alcuni casi, la Direzione, fece precedere alcuni scritti di Evola da una breve nota di dissenso. In tema di diritto di famiglia, Evola, a differenza della Direzione del MSI e di quella della rivista, ammetteva la liceità del divorzio, essendo il matrimonio moderno, un’unione in sé né aristocratica, né sacra. Altri distinguo ci furono in merito alle critiche evoliana del Risorgimento e della Prima guerra mondiale. In ogni caso, gli scritti giornalistici del filosofo apparsi su L’Italiano, sono ampi e articolati, veri e propri saggi. Tanto che, loro successive rielaborazioni, compariranno in volumi del pensatore, L’arco e la clava e Ricognizioni. In essi, Evola scrive della crisi cui era andata incontro l’arte moderna, affronta le problematiche sessuali e i rapporti uomo-donna, alla luce degli orientamenti ideali presentati in Metafisica del sesso, volume portato a termine sul finire degli anni Cinquanta. L’eros era esperito dal pensatore quale forza magnetica profonda, atta a realizzare l’integrazione del Sé, al di là di qualsivoglia “primitivismo naturalistico” e delle altrettanto sterili posizioni moraliste.
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  • In tale contesto, Evola articola una critica senza appello nei confronti della “liberazione sessuale” teorizzata da Reich e Marcuse, ritenendola funzionale all’ “assassinio del Padre” e della Tradizione, pienamente realizzati dalla Forma-Capitale con i rivolgimenti della contestazione giovanile. Nell’esegesi dei problemi socio-economici, il pensatore mostra di tenere un atteggiamento reazionario. La “rettificazione” del contesto storico postbellico doveva avvenire in nome di quei principi “superiori”, propri del mondo della Tradizione, cui aveva fatto appello anche per “correggere” il fascismo. Lo stato liberale doveva essere trasformato, attraverso una rivoluzione dall’alto, in Stato organico. In politica internazionale, poiché riteneva il comunismo sovietico il pericolo maggiore, sarebbe risultato vitale per l’Italia e l’Europa, tenere una posizione di chiusura nei confronti del Blocco sovietico. Allo stesso modo, come chiarisce puntualmente lo scritto di Damiano, sarebbe stato necessario diffidare dei processi di decolonizzazione allora in atto.
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  • Alla morte di Evola, sopravvenuta nel 1974, la rivista ospitò una “tribuna libera”, nella quale vennero discusse le posizioni del tradizionalista. In essa, tra l’altro, si legge: «L’uomo Evola, lo studioso Evola, il pensatore Evola ha lasciato dietro di sé una traccia che la Destra non potrà mai fingere di ignorare» (p. 17). Appello inascoltato. Del resto, dalla lettura de L’Italiano si evincono sia la polemica Evola-Almirante, quanto la contrarietà della Segreteria del MSI a una conferenza sul pensiero evoliano, già prevista e organizzata, di cui fu impedito lo svolgimento per timore delle consuete accuse di razzismo. Evola, in quell’ambiente, era isolato anche in vita. Figuriamoci in una fase storica come l’attuale, in cui Croce è diventato “Maestro della Nazione”.

  

  

  • Il tuffatore di paestum

  • Il tuffatore di Paestum 
  • I Greci e la vita “nuda”
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
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  • Il 3 giugno del 1968, gli archeologi coordinati da Mario Napoli, durante gli scavi condotti nella necropoli della città di Paestum, realizzarono una scoperta straordinaria.  Fu da loro individuato e aperto un sepolcro, da allora definito “Tomba del tuffatore”, che custodiva pitture parietali tra le più ammirate del mondo antico.  L’archeologo Tonio Hölscher, dell’Università di Heidelberg, ha riportato l’attenzione su quel ritrovamento nella pagine del volume, Il tuffatore di Paestum. Cultura del corpo, eros e mare nella Grecia antica, nelle librerie per Carocci (pp. 125, euro 16,00).
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  • Si tratta di un testo di grande interesse: in esso l’autore, attraverso l’esegesi delle pitture in questione, presenta la concezione della vita e della natura proprie dei Greci.  Il percorso ermeneutico di queste pagine presuppone, come aveva suggerito Bachofen, che gli interpreti dell’Antico si liberino dei luoghi comuni e dalla visione del mondo moderna, al fine di cogliere oggettivamente il senso della vita che si evince dalle testimonianze del mondo classico.
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  • Paestum in origine si chiamava Poseidonia, era città posta sotto la protezione del dio del mare.  Era stata fondata da coloni provenienti da Sibari poco prima del 600 a.C.   Sorta nei pressi della foce del fiume Sele, circondata da una pianura ubertosa, la città andò accrescendo la propria ricchezza, come attestato dagli splendidi templi ancora oggi visibili.  Divenne, infine, colonia romana nel 273 a.C., assumendo il nome con il quale ancora oggi è nota.   Sulle quattro pareti del sepolcro: «sono raffigurati uomini giovani e adulti, in maggioranza sdraiati a coppie su letti conviviali nell’atto di celebrare il simposio» (p. 13).  Nonostante la bellezza delle rappresentazioni in questione, il dipinto della tomba che, più di ogni altro, ha colpito gli osservatori è quello realizzato sulla copertura del sepolcro: vi è ritratto il “tuffatore” collocato in un paesaggio tratteggiato con estrema finezza ed essenzialità: «Vediamo uno specchio d’acqua dalla superficie lievemente increspata, mentre sulla riva si staglia un edificio simile a una torre […] È da lì che un giovane ha spiccato il salto […] il corpo nudo, teso in tutta la sua eleganza» (p. 15).   La scena è immersa in una natura vasta, libera, nella quale compaiono, stilizzati, due alberi.
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  • Il fascino dell’immagine e il fatto che si trattava di una pittura sepolcrale hanno indotto molti studiosi a proporre una sua esegesi simbolica. Il tuffo del giovane è stato, infatti, per lo più letto quale simbolo del passaggio dalla morte all’aldilà.  Si tratta di una lettura mistica, escatologica.  In essa, l’immagine della torre funge da confine tra mondo terreno e ultraterreno e il tuffo in acqua altro non starebbe a indicare se non un rito di purificazione necessario al transito verso la vita eterna.
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  • Al contrario, Hölscher si fa latore di un’interpretazione realista della scena del “tuffatore”.   Essa va letta alla luce delle consuetudini di vita delle colonie della Magna Grecia, in particolare di quelle delle giovani generazioni.  Un precedente delle raffigurazione della “Tomba del tuffatore” è rintracciato in Etruria, nella “Tomba della caccia e della pesca”: «Sulla parete di fondo […] è raffigurato un giovane in piedi sopra un’alta rupe a picco sul mare; con la fionda tesa dà la caccia a uno stormo di uccelli» (p. 27), mentre da una barca altri giovani gettano in mare delle esche.  La parete laterale sinistra presenta un giovane che si tuffa di testa nell’acqua marina.   La rappresentazione di Paestum e quella di Tarquinia rinviano, a dire dell’autore, a quella delicata fase della vita dei giovani, che riguardava tanto le ragazze quanto i ragazzi, propedeutica alla loro accettazione nella società degli adulti.   I ragazzi erano costretti a lasciare gli ambienti protetti dove, fino ad allora, avevano vissuto, la famiglia e la Città, e a recarsi in spazi selvaggi che potevano essere tanto le selve quanto le scogliere marine.
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  • Il nuoto e l’arte del tuffo, prove di coraggio, erano considerate parte integrante dell’educazione necessaria per diventare adulti virtuosi.  In tale percorso formativo, i giovinetti erano seguiti da “anziani” che provavano nei loro confronti un’attrazione omoerotica, attestata dalle scritte trovate sulla scogliera della punta meridionale dell’isola di Taso: «Si tratta […] di apprezzamenti che gli amanti adulti rivolgevano ai loro giovani favoriti» (p. 33), mentre come in altri luoghi appartati e selvaggi, questi mostravano la potenza del loro corpo nudo in pratiche atletiche o nei tuffi.  Quindi, in tale ottica: «Il tuffo di testa in mare rappresenta il culmine di una fase fondamentale dell’esistenza: condensa in sé […] il lento passaggio dall’infanzia alla condizione adulta» (p. 37).   Anche l’iniziazione femminile alle virtù muliebri, atte a facilitare una serena vita matrimoniale, dedita alle cure per la prole, prevedevano, come mostrano molti reperti vascolari, il contatto con l’elemento acqueo.   Le giovani di Atene nella fase di passaggio all’età da marito si recavano sulle coste dell’Attica dove, di fronte al mare o in boschi oscuri, si ergevano santuari della dea Artemide.   Qui esse, proprio come i giovinetti, dovevano dar prova delle loro qualità fisiche.  Siamo di fronte, suggerisce Hölscher, a una cultura marcatamente sociale-comunitaria, centrata sui valori della corporeità, della “nuda vita”.
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  • Le pitture parietali della “tomba del tuffatore” mostrano che per i morti di sesso maschile: «La raffigurazione includeva, da un lato gli ideali della virilità […] dall’altro la sfera della vita felice, il simposio e le gioie della gioventù» (p. 80).   Alla morte, alla sua ineluttabilità, i Greci rispondevano con immagini di pienezza vitale, di vita “in fioritura”. La certezza del limite vitale e quella del dolore non intaccavano minimante la gioia di vivere dei Greci, in quanto Dioniso, dio che presiedeva al simposio, e Afrodite, dea dell’Amore, garantivano la coesione sociale e il legame tra generazioni, garantivano la Tradizione.  Il corredo pittorico della “Tomba del tuffatore” riconduceva il defunto al mondo sociale di cui aveva fatto parte in vita, quale membro prima degli efebi e, dopo le prove legate al tuffo, a quella dei simposiasti.  I Greci di Paestum, pertanto, miravano oltre l’individuo a due sole realtà: innanzitutto alla physis, ma anche alla “Città degli dei”.   Il senso del limite della vita accompagnato dall’idea della bellezza è perfettamente testimoniato, rileva Hölscher, da questa iscrizione di una statua commemorativa di un giovane ateniese: «Guarda l’effigie sulla tomba di Kleoitas e piangi, com’era bello e pur dovette morire!» (p. 84).

  

  • giuseppe gorlani MARITARE IL MONDO

  • Estratto della prefazione di Giovanni Sessa,
  • L’Uno e le stelle. L’ “invincibile estate” di Giuseppe Gorlani,
  • al libro di
  • Giuseppe Gorlani,
  • "Maritare il Mondo"
  • (la Finestra Editrice, Lavis ,TN, 2023, pp. 186, euro 25,00)
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  • Le cinquanta prose poetiche che compongono la silloge Maritare il mondo di Giuseppe Gorlani, sono la testimonianza di un’intera vita di ricerca, di confronto con il Principio. L’iter spirituale e intellettuale dell’autore ha avuto, quale connotato di riferimento e stigma d’autenticità, l’ardore della quête, della “cerca” tradizionale. Il lettore si trova, quindi, di fronte a una scrittura e a una visione del mondo inattuali: le parole di Gorlani, in una fase storico-epocale come la presente, tesa alla negazione di ogni valore e di qualsivoglia identità, riaffermano con forza e persuasività d’accenti, il mondo ideale per il quale e nel quale Egli ha vissuto ed è cresciuto spiritualmente, il Sanātana-dharma. Sappia il lettore, prima di entrare nelle vive cose del narrato di questo testo, che nelle sue pagine rintraccerà un’altra qualità dell’animus di Gorlani, l’esemplare caparbietà nel proporsi e nell’essere paradigma vivente di tale Via, tanto per i sodali, gli amici di sempre, i “Cavalieri del Sole” che da decenni condividono con lui il Cammino, tanto per quanti abbiano avuto la ventura, come è capitato a chi scrive, di incontrarlo.
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  • Da queste prose-poetiche si evince, preliminarmente e innanzitutto, la “giovinezza spirituale” del nostro poietes, perché tale Gorlani è. Si resta giovani, al di là del dato meramente anagrafico, quando si continua a custodire in sé, quella che Albert Camus ha definito l’ “invincibile estate”, il caldo ardore che caratterizza, in genere, le esistenze dei giovani, di chi si affaccia, faticosamente, il più delle volte tra sconfitte, patimenti e ripartenze, alla vita adulta. Perché ciò accada, ci dice Gorlani, è necessario che il percorso intrapreso miri alla Verità in sé. In tal caso: «l’assurda pretesa d’avere una volontà propria si estingue» (p. 86). Il puer-senex persevera lungo la Via: «Si alzerà prima dell’alba, contemplando quello che i ciechi chiameranno “nulla”, in realtà oro zecchino» (p. 89). E’ tale pervicacia a animare, ancor oggi, la vita di Gorlani. Egli ha contezza che quanti si comportano in tal modo: «Avranno amato, creato, meditato e raccoglieranno quanto seminato a primavera: i frutti preziosi della conoscenza» (p. 89). Uomini siffatti sono indifferenti al frastuono del mondo moderno, estranei al mercimonio universale oggi trionfante e, guardando alla Natura, colgono: «mormorii sorgivi in pieghe trascurate del suolo […] nitriti di cavalli […] il pigolare quasi bisbigliato degli uccelli» (p. 91), in una parola quella Parola che dall’Uno discende alla molteplicità, per animarla e risvegliarla. Di tale Dire originario, in senso heideggeriano, sono sostanziate le prose-poetiche del Nostro, in quanto: «La poesia è […] irradiazione della Presenza» (p. 92).
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  • Del poetare e del Poeta
  • La poesia autentica ha tratto sacrificale: fa essere il “Silenzio di Shiva” e, pur dicendo-scrivendo, tace. Come le altre arti, in specie la musica, della quale è sorella, aiuta a penetrare nei reconditi del sacer, dimensione che consta di una duplice realtà, indicando “ciò che è puro”, ma anche “ciò che atterrisce”. Nell’Età ultima, la poesia conserva voce eterna, in quanto: «non vi è un solo minuzzolo d’esistenza che sia privo di coscienza» (p. 94). Noi, pur nell’inconsapevolezza dei più, siamo l’Ineffabile. Da qui il titolo della raccolta, rinviante a un’intuizione luminosa di Pico della Mirandola, “Maritare il mondo”: «Maritari mundum in senso nobile è un sacrum facere; esso richiede sapienza, discriminazione, equilibrio, sintesi» (p. 6). Scrivere poeticamente è, pertanto, attività contemplativa, un procedere che si colloca ancora nella conoscenza non-suprema, ma che alla non-dualità rinvia. Si tratta di Via alla liberazione, non di semplice attività intellettuale. Lungo tale percorso è indispensabile perfezionarsi, rialzarsi dopo le possibili cadute, non scoraggiarsi di fronte ai fallimenti, non cedere alle lusinghe del sogno. Quella di Gorlani è Parola d’Anima, orfica, rivivificante la realtà e la Natura. È filo d’Arianna che, se opportunamente ascoltato, permette di reincontrare il Fondamento.
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  • Queste prose-poetiche svelano la presenza della: «Realtà nella realtà della quale si è normalmente poco o punto consapevoli» (p. 7). Il loro dire, pertanto, non è semplicemente descrittivo, mira alla profondità del mondo, è sintonia con l’Om originario, il Pranava che unisce: «l’effabile all’Ineffabile». Gorlani ama le parole, perché in ascolto della Parola. Lavora quale artifex tradizionale con la lingua, antico “scalpellino” che tende a risvegliare nella parola “pietrificata” dalla dimensione concettuale, logocentrica e greve, la natura denotativa, ampia, risonante, eco lontana della vibrazione primigenia che vive nel Tutto. Il Sentiero in tal modo indicato, non è solo dell’India shivaita, alla quale l’autore ha donato la propria intelligenza e il proprio Cuore, ma era ben tracciato anche nell’Europa arcaica, e presente, Pico docet, nella Rinascenza ermetica, protesa nella ricerca della coincidentia oppositorum. Oltre ciò, e non è poco, Gorlani in queste pagine, si pone quale Maestro di liberalità. Ha contezza che la Sapienza tradizionale, d’Oriente e d’Occidente, può essere valido ausilio nella “cerca”, ma invita il lettore a: «rispettare le più disparate posizioni» (p. 95), nella consapevolezza, da un lato, che la reductio ad Unum post-moderna è parodia dell’Unità e, dall’altro, che “maritare il mondo” presuppone l’accettazione del reale, non il suo rifiuto utopistico. Insomma, è necessario: «lasciare che tutto sia com’è» (p. 97).
  • […] L’uomo, copula mundi, contiene il Tutto, e può comunicare, come nelle corde di un fin troppo bistrattato panteismo, con l’alto e con il basso. Ogni cosa è mossa dal Principio e si rivolge agli altri enti di natura, sotto la spinta di Eros, forza simpatetica. L’animazione universale attraversa, quale idea di fondo, l’afflato poetico di Gorlani, irrorato di autentica erudizione: anche il lettore più superficiale comprende che, in lui, le letture si sono metamorfizzate in vita, rendendolo atto, attraverso le parole a: «Maritare il limitato con l’illimitato […] il tempo con l’eternità […] il Kali-yuga con il Sakya-yuga, il Sé individuale con quello supremo» (p. 14).
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  • L’ “Unione sacra” la si consegue attraverso la perfetta concentrazione, in quanto: «Dall’attenzione sgorga la gioia» (p. 15), che non arretra neppure di fronte alla morte, in quanto la parola salvifica conduce all’estinzione dell’identificazione, sic et simpliciter, con il cadavere, rinviando al Principio che tutto anima: «Gli esseri innumerevoli sono l’Essere» (p. 19). Si lascino i concetti e l’intellettualismo al loro destino reificante, si torni a guardare il volo della farfalla, non i “fotogrammi” di tale lieve danza, che ci vengono offerti dall’idea e dai concetti: «Le tenebre della razionalità irrazionale celano l’ispirazione alla libertà e la voglia di narrare a perdifiato poemi eroici» (p. 21). Il protagonista della vicenda narrata in queste prose-poetiche, apparentemente una diversa dall’altra ma, in realtà, legate tra loro da un “filo aureo”, è un Heroe in senso tradizionale. Questi, non è semplicemente animato da Eros ma, nel tentativo di “maritare il mondo”, opera su se stesso e la realtà in termini magici, come ricordò nel Seicento ai suoi contemporanei, in un trattato ermetico, Cesare Della Riviera. Per dirla con Julius Evola, tale soggetto è conscio che: «Non esiste affatto una realtà “dietro” a un’altra realtà, ma esistono differenti modalità di sperimentare una sola cosa. Ciò che è materiale è il fenomeno, è la proiezione di un occhio materiale […] Se l’uomo cambia il proprio essere, allora percepirà la stessa realtà in altre forme […] Non esiste un mondo relativo e un mondo assoluto, ma uno sguardo relativo e uno sguardo assoluto». Gorlani e la sua esperienza esistenziale e spirituale insegnano a guardare la vita alla luce delle fulminazioni eroiche proprie dello sguardo assoluto: il nostro poeta mostra come azione e contemplazione siano in uno.

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  • checoselametapolitica

  • Estratto della prefazione di Giovanni Sessa,
  • Metapolitica. Escatologia religiosa e civile in Silvano Panunzio,
  • al volume di Silvano Panunzio,
  • Che cos’è Metapolitica,
  • a cura di Aldo la Fata,
  • (Solfanelli, Chieti 2023, pp. 208, euro 15,00)

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  • Sostanzialmente, la Metapolitica è una disciplina che precede e supera la Politica. Dalla Germania e dall’Europa centrale, un’eco di tali posizioni raggiunse De Maistre, il quale la lesse come “metafisica della politica”. Il senso del termine, ha circolato, a dire di Panunzio, nelle opere di molti autori nel corso dei secoli: da Agostino a Gioberti, da Berdiaev a Sturzo. Chi intese correttamente i contenuti della Metapolitica ebbe, però, contezza che essa non ha tratto, sic et simpliciter, religioso, ma possiede anche valenza civile.
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  • Lo comprese, quale vero e proprio iniziatore di tale disciplina, Platone. L’Ateniese, animato da vis metafisica, pensò la realtà umana articolata dal basso verso l’alto. Per la qual cosa, ritenne la stessa dimensione politica, dover essere anagogicamente trascesa. Come riconosciuto da Werner Jaeger, a Platone: «mancava solo il lievito profetico del Cristianesimo». La Città platonica in Agostino si fece specchio della Città di Dio, quindi: «Metafisica e Metapolitica sono […] gemelle». La Metapolitica mira all’archetipo della trascendenza riflesso nella storia, è metafisica in atto. Panunzio la definisce in modo lapalissiano: «è il disegno architettonico che, con l’ideazione e collaborazione dei Cieli, gli uomini si sforzano di compiere in Terra vincendo le resistenze inferiori». L’ideale agostiniano fu rinverdito dall’escatologia cristiana, che trovò ascolto in Campanella e, più tardi, in Bossuet e Solov’ev. Panunzio in Che cos’è Metapolitica, affronta il tema del bìos theoretikòs che, nel mondo antico, fu messo in discussione da Dicearco con la rivalutazione della frònesis. A tale posizione, nel mondo romano, tra gli altri, fu prossimo Cicerone, il quale intese il filosofare quale servizio: «per un’organizzazione attiva della vita», tentando di riavvicinare Platone a Licurgo, in nome del primato del bìos politikòs. Per Panunzio l’autentica Metapolitca, può invece essere colta solo nella dimensione profetica atta, a suo giudizio, a realizzare il: «bìos sìnthetos che non è […] un magro compromesso, ma una fusione originale […] della sophia e della frònesis[…] nel nuovo genio dell’Uomo universale». Tale affermazione, chiarisce come la visione del mondo di Panunzio sia eminentemente una teologia della storia.
  • […]
  • A questo punto è bene chiedersi qual sia per Panunzio la reale funzione della Metapolitica.Egli attribuisce due compiti essenziali alla Metapolitica. 1) Sviluppare in termini organici e analitici la critica della modernità; 2) Ricostruire il disegno divino in terra. Gli uomini dovrebbero preliminarmente riconoscere la necessità di compiere tabula rasa del presente, in vista di una rinascita. Anzi, Panunzio è fermamente convinto che saranno gli agenti “della mano sinistra di Dio”, le forze che hanno prodotto la lacerazione moderna, a farla implodere. […] La visione panunziana della storia mira a un fine, è centrata sull’: «ottimismo finale, ma trascendente».
  • ...
  • Nella sua prospettiva, Dio tollera i “demoni”, solo in vista della loro azione inconsapevole, in vista della catarsi finale. La strutturazione del percorso storico è centrata sull’intersezione di tre piani diversi: terrestre, celeste e infero. Gli spiriti agenti nel mondo sono tanto catagogici, quanto anagogici. I primi mirano a degradare la natura umana a quella ferina (in questo, evidenti “segni dei tempi” sembrano confermare le tesi di Panunzio), i secondi spingono verso l’alto l’uomo, verso il conseguimento della natura angelica. Tale duello tra forze celesti e infere è millenario. Il tempo attuale è pero l’Età Ultima, siamo al momento “decisivo e finale” della crisi. In tale contesto, l’unico obiettivo da prefiggersi è la salvezza delle anime, altro non si può fare. […] Pertanto, la Metapolitica è Escatologia acquisita, e quest’ultima è Metapolitica ispirata dai Profeti che l’hanno rivelata nel simbolo. […]La Metapolitica include in uno metafisica, escatologia e politica: è quadridimensionale. […] Per questo, i temi centrali della Metapolitica sono i due Soli, Impero e Chiesa. La romanitas, con il lascito imperiale, rappresenta la perfezione umana, la christianitas mira a realizzare la perfezione che discende da Dio. Cristo, essendo vero uomo e vero Dio, è autenticamente “romano”.
  • […]
  • Per comprendere appieno la lezione panunziana è bene tener in debito conto la distinzione tra Metapolitica e Criptopolitica. In questo senso, la Politica va interpretata come una prima linea alla quale si può pervenire dal basso o dall’alto, al servizio delle forze infere o di quelle sùpere. In antico, l’iniziazione regale introduceva al piano propriamente metapolitico. La secolarizzazione delle organizzazione che presiedevano all’iniziazione, ha dato luogo al sorgere di partiti e di sindacati. Si è giunti, lungo tale via, alla Criptopolitica. La vera Criptopolitica collima: «con le manovre della Guerra occulta e con le trame mondiali della Sovversione». Vi è poi la Criptopolitica elementare (appendice della politica militante), che è diretta dalla Criptopolitica ufficiale. L’unica risposta seria a tale condizione, è il riferimento alla Metapolitica, i cui tempi di realizzazione sono lunghi, anche se, l’intervento dai Cieli, data la situazione generale, prevedibilmente, non tarderà molto a manifestarsi. Chi guardi, calandosi nella politica, alle forze dei Cieli e sia da esse guidato, mostrerà inusuale consapevolezza, e sarà disposto, perfino, all’estremo sacrificio. Nella fase attuale tali uomini devono necessariamente operare nella dimensione intellettuale e radicarsi nella “Tradizione Universale”: «Un vero risorgimento iniziatico non può procedere dal basso, dall’umano, per quanto rettificato e reintegrato».
  • […] Mentre i Profeti vetero-testamentari puntavano sul Messia, il nuovo profetismo panunziano ha tratto micaelico. Michele Arcangelo è profeta del “Cristo venuto” e del “Cristo ritornante”. All’inizio dei tempi fu Melchisedech, alla fine Mikael. […] Per “rinnovarci” nella Tradizione, dobbiamo divenire Mikael, partecipare della sua natura angelica, trasfigurarci.
  • […]
  • In altra opera, Panunzio si è fatto latore della necessità di riformare il “tradizionalismo integrale”guénoniano. Condividiamo pienamente la sua intenzione. La sua idea di riforma in senso escatologico e cristiano del “tradizionalismo integrale”, non è però la nostra. […] Chi scrive, ritiene certamente che lo “spirito geometrico” e di sistema di Guénon debba essere vitalizzato dallo “spirito di finezza”. Tale qualità era viva e presente nella tradizione Misterica greca, in particolare nel dionisismo che mai, nell’atto aristotelicamente inteso, pensò di normare e tacitare la dynamis, la potenza-libertà del principio. Pertanto, qualora esistesse un esoterismo cristiano, centrato sull’idea di un dio che muore e rinasce, “potente” e “sofferente”, sarebbe debitore e succedaneo dei Misteri antichi, a cui è necessario tornare a guardare oltre le scolastiche tradizionaliste. Inoltre, pensare al Principio in termini di non, in termini di negazione, ci porta lontani dalle prospettive di filosofia della storia e di teologia della storia, come quella panunziana. Per chi abbia una visone tragico-dionisiaca, il mondo è appeso al Principio libertà-potenza. Nella storia e nel tempo l’origine è sempre possibile (la potenza è possibilità) a condizione che l’azione umana sia convenientemente sintonizzata su di essa. In caso contrario, a nostro parere, l’origine può andare incontro al suo definitivo oblio, senza che per questo la storia abbia fine. Non vi è, a parere di chi scrive, una fine predeterminata del percorso storico. Siamo prossimi alla concezione aperta e non necessitata del tempo. Concezione sferica, non ciclica: fu ri-affermata, negli anni Ottanta del secolo scorso, da Giorgio Locchi, stante le lezioni in tema di Nietzsche e Heidegger .
  • ...
  • La riforma del tradizionalismo di Panunzio ha esito escatologico, soteriologico, teologico-storico. La nostra proposta, al contrario, guarda al primo Evola (e all’ultimo, quello di Cavalcare la tigre), per suggerire la possibile fuoriuscita del pensiero di Tradizione dal necessitarismo storico-temporale.
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  • Nonostante ciò, consigliamo vivamente le pagine di Panunzio, eleganti nello stile e stimolanti nei contenuti. Dal confronto con uno studioso di tal fatta si esce sempre arricchiti, a prescindere dalla propria visione del mondo.
  • UN  CASO  INTERESSANTE
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Spesso si ripete che l’Italia è un grande laboratorio politico dato che è la prima a sperimentare novità: e, con altrettanta frequenza, questo è vero.
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  • Uno dei casi è proprio Forza Italia. Denominata partito personale, leggero anche per contrapporlo a quelli della I repubblica connotati da apparati assai più ideologizzati, professionalizzati e pervasivi.  Orsono venticinque anni mi capitò di scrivere su Berlusconi e Forza Italia, confrontandone l’allora breve esistenza politica con regole e parametri presi da Machiavelli e da un acuto giurista tedesco, Rudolf Smend. Questi è rimasto nella dottrina costituzionale come colui che ha valorizzato l’integrazione, cioè il rapporto tra vertice e base come “divenire dinamico dell’unità politica”, cioè (anche) come produzione di un idem sentire, che consolidasse e rendesse effettive unità e azione politica. Scrive Rudolf Smend “l’integrazione è un processo di vita fondamentale per ogni formazione sociale nel senso più lato. Questa, in prima analisi, consiste nella produzione o formazione di unità o totalità a partire dagli elementi singoli, cosicché l’unità ottenuta è qualcosa di più della somma delle parti unificate”.   E tra i gruppi sociali, quelli che più necessitano di integrazione sono quelli a carattere politico, a cominciare dai partiti fino allo Stato.  Notavo che Forza Italia, data la forte personalità del capo era cospicuamente dotata di integrazione personale (anche se difettava nei dirigenti intermedi).
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  • A distanza di oltre 5 lustri si può confermare che l’integrazione personale (tramite il leader) è stato il principale fattore d’integrazione e probabilmente quella che ha consolidato l’esistenza del partito. Lo dimostrano il numero enorme di preferenze (nelle elezioni che le consentivano) a Berlusconi, gli assai più modesti risultati nelle elezioni locali, e comunque quando il cavaliere non si candidava, l’evidente ascendente dello stesso sull’elettorato. E perfino il complotto anti-Berlusconi che ne ha portato, tramite legge Severino, alla di esso privatizzazione: la (voluta) privazione del ruolo pubblico del cavaliere dopo la condanna definitiva è stato probabilmente il fatto che ha maggiormente contribuito al sorpasso della Lega su Forza Italia alle elezioni politiche del 2018. Proprio per la preponderanza che aveva l’integrazione personale nella “tenuta” di Forza Italia la tattica preferita dal centrosinistra è stata quella di attaccare il leader avversario sul piano personale (e “privato”).
  • ...
  • Anche perché gli altri due mezzi (tipi) d’integrazione individuati da Smend, in Forza Italia, di converso erano assai deboli. Nella vita di ogni struttura le procedure di decisione e discussione sono – come scriveva Smend – “prevalentemente indirizzate alla formazione della volontà comune: così il gruppo realizza la propria unità come unità di volontà, indirizzata a scopi comuni”. Ma da quanto risulta tale mezzo è stato sempre poco praticato: i “congressi” di Forza Italia più che un modo per realizzare la volontà comune e selezionare la dirigenza (almeno in parte), sembravano convention aziendali per promuovere i prodotti offerti (in genere sono anche questo, ma era la proporzione prevalente a minare, alla lunga, la solidità dell’insieme).  Tra l’altro i sistemi elettorali per lo più adoperati hanno ridotto la possibilità che la selezione della dirigenza politica, in modo democratico, fosse “compensata” in sede elettorale. Questo perché la collocazione in collegi e listini consente ai vertici dei partiti un potere di designare gli eletti assai superiore alla vecchia legge elettorale proporzionale con preferenza, così che si è parlato – correttamente – per lo più di un parlamento di nominati.
  • ...
  • Quanto all’integrazione materiale, cioè attraverso la comune adesione a “tavole di valori” comuni, all’inizio si manifestava per lo più in negativo cioè contrapponendosi al centrosinistra. Presentava il limite di essere in parte nebulosa, in altra stemperata in più rivoli, ma soprattutto non ha retto il confronto con le realizzazioni dei governi Berlusconi.  I quali, malgrado maggioranze parlamentari cospicue, realizzavano poco di quanto promesso. Certo meglio di quanto avrebbe fatto il centrosinistra o i governi “tecnici” o “simil-tecnici”, ma comunque modesto rispetto alle promesse ma soprattutto alle aspettative dell’elettorato. Di guisa che circa due terzi del bacino elettorale di Forza Italia si è riversato sulla Lega e Fratelli d’Italia, partiti che quindici anni fa insieme avevano consensi pari a un terzo di quelli del partito di Berlusconi.
  • ...
  • E adesso? La risposta è tutt’altro che facile e Tajani avrà un bel da fare. Venuto meno il fattore Berlusconi, estremamente difficile a sostituirsi, non resta che puntare sugli altri fattori d’integrazione e su mezzi di selezione del personale politico meno “autocratico”.
  • ...
  • Scriveva Michels che la democrazia non è concepibile senza organizzazione. Nel caso di Forza Italia vale anche l’inverso e l’organizzazione non è concepibile senza democrazia. E così anche con la discussione a tutti i livelli dell’organizzazione. Questa serve a selezionare i capi, come ad acquisire e diffondere idee (anche) nuove. Serve sia all’integrazione funzionale che a quella materiale. Così come alla coesione dell’insieme.   Riuscirà l’impresa?   È nuova, sicuramente per l’Italia, ma non mi risulta che sia stata realizzata altrove, almeno in Europa.   Non resta che fare gli auguri, ricordando che il merito nel riuscirci è pari alle difficoltà da superare.


  • Cristina Campo Chiara Zamboni

  • Cristina Campo
  • Il mondo tra visibile e invisibile
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

 

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  • Cristina Campo, alias Vittoria Guerrini, è latrice di preziosa singolarità nel panorama intellettuale del Novecento, eccedente rispetto a tutti gli “ismi” che si sono succeduti nella recente storia culturale italiana. Per la sua “attuale inattualità” può essere considerata, per usare il titolo di un suo volume, un’imperdonabile.   Lo è stata, in quanto la “poetica” che ha prodotto contraddice in modo radicale i disvalori sui quali la modernità ha fondato se stessa, senza, con ciò, dar luogo a nostalgie regressive.   Tale tesi trova conferma in un volume che raccoglie le relazioni presentate al Convegno di studi sul suo pensiero, tenutosi all’Università di Verona, il 7 giugno 2022.   Si tratta di AA.VV., Cristina Campo. Il senso preciso delle cose tra visibile e invisibile, comparso nel catalogo Mimesis per la cura di Chiara Zamboni (per ordini: mimesis@mimesisedizioni.it, pp. 119, euro 12,00).   La curatrice individua il fil rouge che attraversa i testi della silloge nella: «fedeltà alla realtà precisa del visibile che permette lo spostamento […] dello sguardo per il quale […] l’invisibile diventa l’autentica trama significante della realtà» (p. 7).
  • ...
  • Campo, in ogni suo scritto, invita il lettore ad un radicale “cambio di cuore”, atto a sperimentare, come accade agli eroi delle fiabe, la possibilità dell’impossibile.  La fiaba, infatti, allude, lo ricorda Wanda Tommasi, alla liberazione dalla dimensione “cosale” della vita, dalla “necessità”, in quanto il viaggio fiabesco: «s’inizia senza speranza terrena» (p. 13).  Eroe (da eros) è colui che è disposto a perdere se stesso, affidandosi in via esclusiva all’insperabile.  L’impossibile non va cercato, conquistato per un atto di volontà.  Al contrario, esso viene da sé.  Ci invade come Grazia.  Per tale ragione Cristina, sulla scorta di Simone Weil, colloca il sapere fiabesco a fianco dei racconti evangelici.  I precetti che se ne possiamo trarre, sono legati alla vita, al suo continuo mutare.  Non casualmente, al centro del narrato spesso compaiono le fate, termine la cui etimologia rinvia al destino: la fiaba permette di riannodare i due estremi dell’esistenza, infanzia e vecchiaia.  Il viaggio dell’eroe si chiude ad anello nello stesso punto dal quale aveva preso inizio.  Si tratta di un “avanzare di ritorno”, simile a quello messo in atto dai marinai per ritrovare la giusta rotta.  La scrittrice applica all’esegesi della fiaba il tema della grazia sovrabbondante, presente in tanta letteratura mistica.  Il protagonista consegue, in un percorso irto di prove, l’illuminazione: il suo sguardo sul mondo si trasforma, giunge il “risveglio”: «il lieto fine della fiaba - è donato in sovrappiù, come un soprammercato che si sottrae agli scambi commerciali» (p. 15).
  • ...
  • La fiaba consente la metamorfosi della mera vista in percezione: capacità di riconoscere ciò che veramente esiste nelle cose, vale a dire l’invisibile.  Campo è convinta vi sia: «stretta relazione fra il corporeo e lo spirituale nell’esperienza religiosa» (p. 17).  Tale verità, era, per i primi cristiani, lapalissiana.  Successivamente fu sopraffatta dall’affermarsi della visione dualista, mirata al disprezzo della carne. Cristina torna ad affermarla accoratamente, quasi in termini bruniani, richiamando l’attenzione sulla “Forma formate”, che palpita negli enti di natura.  Nel molteplice si dà l’Uno: «il divino attraversa e coinvolge il sensibile […] corpo e spirito non sono separati, ma intimamente uniti e potenziati dalla relazione con il divino» (p. 18).  Del resto, nella poesia Diario bizantino, l’Imperdonabile aveva, con grande forza, affermato di appartenere all’altro mondo, al regno dell’assoluto e dell’invisibile.   n tema, Francesco Nasti ricorda che fiaba, poesia e preghiera, a dire della scrittrice, sono “ancelle del destino” intrecciate una nell’altra, forme di mediazione che manifestano la Realtà.  Si tratta, per usare il felice titolo di Florenskij, di Porte regali, spalancate sull’“oltre”, in quanto: «Tutte e tre attingono una medesima fonte, quella del rito e della liturgia, che le rende partecipi di uno stesso mistero» (p. 29).  Monica Farnetti si intrattiene sull’interesse della nostra autrice per la poetessa Gaspara Stampa, le cui liriche d’amore sono sostenute da vera e propria venerazione per la dimensione creaturale dell’uomo.  Da esse si evince lo stretto parallelismo tra amore carnale e unione spirituale con Dio, oltre alla necessità che l’anima “in cerca”: «continui ad amare a vuoto […] Allora viene il giorno in cui Dio le si mostra e le rivela la bellezza del mondo» (p. 47), come accade nelle fiabe.
  • ...
  • L’intera opera della Campo, nota Laura Boella, è segnata dall’incompiutezza.   Pensata nell’età dell’assenza, i suoi modi “dell’incognito”: «sono esempi di materiale infiammabile che può svilupparsi, stilizzarsi in direzioni che conservano delle origini solo vaghi cenni» (p. 56). A essi sono sensibili le figure del pellegrino e del folle, disdegnati dal mondo, e che, di contro, sono sostenuti dalla potenza invisibile delle cose, per loro palese (Antonietta Potente).  Si badi, diversamente da Bruno, i mondi, cui allude Campo, sono sorretti: «da un rapporto di analogia, eppure mai completamente identici né sovrapponibili […] mondo visibile e invisibile comunicano continuamente» (p. 76). Quello della poetessa è sapere simbolico, unitivo.   La sua poesia è unità di forma e idea che, anagogicamente, invia al vero (Vittoria Ferri).  Il poeta è in ascolto, non parla, è parlato da voci a lui sintoniche che, in tempi diversi, si sono poste sul suo stesso cammino (Andrea di Serego Alighieri).
  • ...
  • Cristina amava l’oralità, come l’amico filosofo Andrea Emo, la liturgia greco-bizantina, organizzata in canti solenni, la preghiera del cuore dell’esicasmo salmodiata a voce alta: «Il poeta, come il tessitore di tappeti, sa cogliere i legami tra le parti creando un insieme armonico a cui imprime un ritmo che è fedele alle cose […] e all’invisibile» (p. 101).  Chiara Zamboni chiarisce come, nell’universo della Campo, rivesta un ruolo di primo piano la mistica iraniana ed il mondo immaginale, di cui ha esemplarmente detto Corbin: «questo mondo intermedio è contemporaneamente sia mediatore che performativo» (p. 102).  Esso dà segno di sé in topoi del tutto particolari, conclusi, il tappeto di preghiera, il giardino, il chiostro monastico, la poesia.  Si tratta di: «uno spazio (spazi) abitando il quale (i quali) si può accedere alle radici della verità spirituale» (p. 103).   Obbedendo al segreto della nostra vita, ponendoci in cammino: «compiamo da soli il percorso eppure siamo in due» (p. 106).   È l’archetipo, a dire di Zolla che alla Campo fu sentimentalmente vicino, della diade dell’Uno: l’inizio è la fine e viceversa.  Tutto è in Dio, ma solo: «Nel momento in cui la trasformazione in avanti realizza il cammino degli inizi, allora la forma che ci guida ha realizzato la sua funzione» (p. 109).
  • ...
  • La possibilità dell’impossibile è inizio e meta, segno tangibile del miracolo della vita.  Campo ha dato voce all’eco del nulla-di-ente che anima la physis.

  • TOLLERANZA

  • Luigi Marco Bassani,
  • Tolleranza
  • (Liberilibri, Macerata 2023, pp. 93, € 14,00)
  • rec. di 
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Bassani spiega la tolleranza seguendo il “percorso tracciato dal realismo politico”.  In effetti l’esigenza di tolleranza può essere sorretta da diverse argomentazioni e punti di vista: il rispetto delle idee e del modo d’essere altrui, in primo luogo, il diritto alla libertà di pensiero, il progresso del sapere e della scienza (cui giova tanto il confronto di comunicazioni che il superamento di quelle già condivise).  È raro pensare che la tolleranza è necessaria alla formazione dello Stato moderno, perché funzionale alla neutralizzazione dei conflitti – riducendoli o rendendoli meno pericolosi.
  • ...
  • Come scrive l’autore «La tolleranza è certamente una conquista del pensiero europeo moderno, ma è anche un momento fondamentale per la legittimazione del potere, nel suo tentativo di superare la frattura della Riforma.  Vi è, infatti, una sorta di “regola aurea”, una vera e propria bussola nella storia del pensiero politico moderno: tutto ciò che va nella direzione del consolidamento della statualità ha successo, mentre tutto quel che vi si oppone, ogni pensiero che crei sacche di resistenza al potere, si sgretola.  In questo senso, il principio di tolleranza stravince alla fine le guerre di religione, perché è necessario al consolidamento del potere del Principe».
  • ...
  • Alla fine del XVI secolo Bodin e i politiques francesi collegarono sovranità e tolleranza «Sarà proprio il concetto di sovranità il miglior alleato di quello di tolleranza nel corso dell’età moderna. Molti cristiani avranno la loro vita risparmiata in virtù della bramosia del Principe di creare un unico soggetto del suo dominio».  Le guerre di religione in Francia si concludono con l’editto di Nantes che è «il capolavoro e la vera eredità permanente dei politiques».  Con la fine delle guerre di religione, la tolleranza diviene pratica osservata dai sovrani assoluti. Federico II di Prussia, “tipo ideale” del sovrano assoluto del 700 rivendica la propria neutralità “tra Roma e Ginevra”, nel di esso amico Voltaire c’è «la fusione dei temi cari ad Erasmo e del movimento dottrinario statuale che parte da Bodin… Voltaire reinterpreta tutto il precedente dibattito politico e teologico, e pone la riflessione sul concetto di tolleranza come fulcro di una concezione moderna della politica, intesa a dirimere tutti i rapporti fra lo Stato e la Chiesa dal punto di vista teorico».
  • ...
  • Con le costituzioni moderne la tolleranza è codificata nelle dichiarazioni tra i diritti fondamentali, a partire da quella francese e americana (col primo emendamento).  Nel secolo passato i totalitarismi sono stati tutt’altro che propizi alla tolleranza; anche se, nella seconda metà è stato riconosciuta in dichiarazioni internazionali dei diritti.  Ma adesso si vede un nuovo pericolo: è quello del politically correct, definito da Bassani un autodafé il quale «nasce e germoglia nel cuore di quello che è ormai l’Occidente tout court, ossia gli Stati Uniti, ma sta già minando la libertà di manifestazione del pensiero del Pacifico agli Urali.  Se la nascita della tolleranza investe un’unica cultura, anche la fine della tolleranza parte da noi, ma ha a questo punto risvolti planetari». Tale intolleranza «è la conseguenza di un lungo processo di addomesticamento degli intellettuali ed è il risvolto, nel campo delle idee, dell’inesorabile marcia dello Stato nelle vite dei cittadini… vi è bisogno di un gruppo di intellettuali di professione diuturnamente impegnati a diffondere il verbo di Stato e la scienza di Stato… E se il tutto avviene senza alcun tipo di coercizione palese è proprio grazie alla vittoria straripante del politicamente corretto, di una polizia di pensiero, che colpisce pochi, spaventa molti ed è, almeno in apparenza, avversaria di tutti».  E di fatto è un declino della cultura dell’occidente la quale da espansiva com’è stata per secoli (v. Toynbee) è divenuta inclusiva e soprattutto, autocolpevolizzata.
  • ...
  • Riconosce l’altro, distruggendo se stessa. Ma per il primo risultato non è necessario il secondo.  L’autore conclude «Solo quando il riconoscimento dell’altro smetterà di implicare necessariamente la distruzione di sé saremo finalmente sul punto di imboccare la strada che porta a una società libera e certamente assai disordinata nelle opinioni. E allora questa guerra alle fobie cadrà nel più assurdo dei ricordi».

 

  • Donà                            

  • Di fantasmi, incantesimi e destino
  • Massimo Donà
  • a confronto con Emanuele Severino
  • rec.  di
  • Giovanni Sessa
  •  
  • La filosofia di Massimo Donà nasce da un confronto serrato con il pensiero del suo grande maestro, Emanuele Severino.  L’incontro con il filosofo bresciano ha segnato, nel profondo, il suo iter speculativo e la sua vita.  Lo testimonia, in modalità esemplare, un suo recente volume, Di fantasmi, incantesimi e destino. Emanuele Severino, ultimo calligrafo della verità, nelle librerie per InSchibboleth (per ordini: info@inschibbolethedizioni.com, pp. 396, euro 28,00).   L’autore mette in atto un vero e proprio corpo a corpo con i plessi teoretici più rilevanti delle opere di Severino, mostrando di aver ereditato dal maestro, rigore logico, coerenza argomentativa, originalità teoretica.  Dall’esegesi donaiana, il “filosofo dell’essere” appare come pensatore cruciale, distante dalle scolastiche che hanno connotato di sé il Novecento filosofico e, al contempo, latore di una visione aperta alla possibile confutazione.
  • ...
  • Delle innumerevoli e articolate tesi di Donà, faremo menzione parziale, chiedendo anticipatamente venia all’autore e al lettore, limitandoci a presentare quelli che, a nostro giudizio, sono i plessi teorici più rilevanti del volume.  Fin dall’incipit, Donà rileva come Severino fosse convinto: «del fatto che l’errore non può che crescere conformemente alle leggi della verità» (p. 19).  Il sistema severiniano matura nel seguente quadro teorico: se non ci fosse l’errore, ma solo un errare conforme alle leggi della verità, la verità non confuterebbe mai l’errore: «Ma sempre e solamente il suo fantasma» (p. 20), di cui mostrerebbe l’autotogliersi.  Questa situazione lascia aperta in Severino la domanda: «se il nulla non è (stante che non può essere), da cosa mai verrà determinato l’essere?» (p. 21).  È noto, il pensatore bresciano pensa la storia dell’Occidente quale risultato dell’accettazione della fede nel divenire che, fin dalla Grecia arcaica, si è strutturata sulla “falsa” certezza che le cose provengono dal nulla e a esso facciano ritorno.  Concezione teoreticamente ribadita con i “generi sommi” da Platone nel Sofista e dal Liber de interpretatione di Aristotele.  Essi, nel tentativo post-parmenideo di risemantizzare il divenire hanno, in realtà, ridato corpo: «a quel divenir-altri-da sé che implica […] il non essere più di ciò che era» (p. 34).
  • ...
  • L’Occidente da allora, divenuto terra del nichilismo, tentò di far fronte all’angoscia del divenire, della vita sempre esposta alla morte, attraverso l’invenzione degli immutabili. Tale compito è oggi affidato alla Tecnica. La proposta di Severino mirata a oltrepassare tale condizione, non dipende dall’uomo: «quanto piuttosto da una originaria verità scolpita quale sfondo intramontabile dell’infinito dispiegarsi di un essente tutto costitutivamente necessario» (p. 35). La verità severiniana è, pertanto, perfettamente inscritta nell’orizzonte teorico dell’elenchos aristotelico: «Una verità che implica […] l’originario ed eterno essere identici a sé da parte di tutti gli enti» (p. 37). Ciò induce Donà a rifiutare le consuete definizioni del pensiero severiniano: la filosofia di quest’ultimo non è un’ontologia dell’immobilità neo-eleatica, in quanto in essa il divenire è reale, anzi, “necessario”: «solo non si deve intenderlo come un divenire annientante […] Il divenire […] altro non è […] che l’apparire e lo scomparire dell’eterno […] l’apparire e lo scomparire dell’eterno apparire dell’ente» (p. 39). La lampada accesa nella mia stanza, nel momento in cui si manifesta: «sarà […] l’eterna presenza di un’eterna assenza» (p. 41).  Nella totalità dell’apparire sono presenti sia il cerchio che non include la lampada accesa (il passato) sia quello che la include (il presente).
  • ...
  • Il differenziarsi dell’apparire assume in Severino tratto infinito e, pertanto, tutto ciò che comincia può essere oltrepassato in un dispiegarsi fichtiano senza fine.  L’uomo vive nella dimensione della Gloria, tensione assoluta all’unità degli essenti, non realizzabile, che testimonia, nel processo, la dimensione della Gioia. Tali argomentazioni inducono Donà a rilevare delle “ambiguità” nel sistema del grande pensatore.  La prima ha a che fare con l’etica.  Da un lato, il destino della necessità è incompatibile con qualsivoglia “libero arbitrio”, conditio sine qua non, delle scelta tra diverse opzioni etiche: «Il Destino è […] l’eterno superamento del male e del dolore […] sempre e necessariamente connessi» (p. 54). Nulla può essere diversamente da com’è. Eppure la Gioia è una determinazione soggettiva e rinvia a una delle categorie etiche per antonomasia, l’eudaimonia.  Ciò riconsegna la filosofia di Severino: «a quelle istanze di cui la medesima si pone appunto come la più radicale messa in questione» (p. 60).  Il dualismo è tratto che riemerge anche nella ermeneutica dell’infinito. Tale concetto è utilizzato in due sensi: come indicatore di una totalità compiuta e come testimonianza dello svolgimento che non può mai dirsi realizzato.  Per il filosofo, infatti, il cerchio infinito dell’apparire non è, sic et simpliciter, il cerchio del Destino in cui sopraggiunge la terra isolata, che è il finito.  Il cerchio infinito vive inconsciamente nel secondo, è il suo altrove.  La filosofia dell’unità mostra di essere pensiero dell’alterità.
  • ...
  • È il tema della “Contraddizione C”.  Nel cerchio finito dell’apparire, il Tutto: «che appare non sarà mail il tutto, ma solo l’apparire formale del medesimo» (p. 223).  Severino, per Donà, non riconosce il senso autentico della “negazione” che anche nel suo sistema, viene tradotta in un eteron, un positivo, in conseguenza del fatto che l’infinito è esperito alla luce della totalità, del compiuto.  Egli riduce il nulla a contenuto negativo, semplice altro dall’essere, distinto dalle determinatezze e dagli enti: «cui non potrà venir consegnato che il semplice fantasma della vera infinitudine» (p. 231).   Il tema dell’apparire dovrebbe esser letto in termini “temporali”: «Se, nel prima in quanto “prima”, il poi può esser già compreso solo in quanto essi si relazionano all’interno di un medesimo apparire […] allora i medesimi non possono che farsi figure di quel medesimo “presente” all’interno del quale [..] il prima può costituirsi come un “prima” e il poi come un “poi”» (p. 228).  Tempi diversi proprio in quanto il loro darsi sarà il medesimo: il presente agostiniano, “contenitore” di passato e futuro.
  • ...
  • Severino è consapevole che il linguaggio non può decifrare le tracce del Destino.  Egli nel componimento musicale giovanile Zirkus Suite, sotto l’influenza di Schopenhauer e dei Romantici, pare alludere alla musica, ricorda Donà, quale: «Unica lingua capace di esprimere l’assoluto e il divino» (253).  Nel suo sistema, nonostante la lettera, è possibile ascoltare l’eco di quel principio, nulla-di-ente, che “anima” ogni vita.  Nella seconda parte dell’articolato volume, Donà presenta l’esegesi severininana di Leopardi (il cui nulla è ontologizzato), di Gentile, ritenuto il pensatore che ha condotto a estrema coerenza la “follia” occidentale, di Heidegger e dei neopositivisti.   Le filosofie di Donà e Severino testimoniano la grandezza del “pensiero italiano” contemporaneo.

  

  • Apollo Pan Dioniso

  • Friedrich Georg Jünger e i miti greci 
  • Apollo, Pan e Dioniso
  • rec. di Giovanni Sessa
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  • È nelle librerie un testo che, non solo consente di cogliere la grandezza speculativa e letteraria di una delle figure “segrete”, apparentemente marginali, della cultura del Novecento, ma ci pone di fronte alla povertà del nostro tempo, al “dis-astro” della modernità, all’isolamento atomistico dell’uomo di fronte al cosmo. Ci riferiamo al volume di Friedrich Georg Jünger, fratello del più noto Ernst, Apollo, Pan, Dioniso pubblicato dall’editore Le Lettere per la cura di Mario Bosincu, germanista dell’Università di Sassari (pp. 283, euro 18,00). Con lo stesso titolo uscì nel 1943 un agile libretto, cui l’autore fece seguire, nel 1944, un saggio intitolato I Titani. Nel 1947 i due libri, con l’aggiunta di due capitoli dedicati agli Eroi e a Pindaro, furono raccolti nel volume Miti greci. L’edizione italiana che presentiamo è la traduzione di questo libro. A Bosincu va riconosciuto il merito di una curatela impeccabile.
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  • Queste pagine rappresentano: «uno dei tesori di quel continente sommerso noto come letteratura dell’emigrazione interna […] i cui esponenti rimasero nella Germania nazista, vivendo da “esuli” in patria» (pp.8-9). In realtà, durante la Repubblica di Weimar, Friedrich Georg, con l’opera Marcia del nazionalismo, si era posto l’obiettivo: «di fare dei lettori […] il soggetto altro che potesse tramutare la giovane repubblica in una communitas totalitaria» (p. 110). Egli, quindi, prese parte all’eterogeneo e vivace movimento culturale degli intellettuali rivoluzionario-conservatori, i cui ideali furono traditi dal nazionalsocialismo al potere. Nell’informato, ampio e organico saggio introduttivo, Bosincu presenta i momenti genealogici di tale cultura antimoderna, risposta alla crisi indotta dall’affermarsi del Gestell, dell’Impianto della tecno-scienza al servizio della Forma-Capitale. In particolare, si sofferma, tra le altre, sulle figure di Schiller, Carlyle, Chateaubriand. Quest’ultimo, nel Genio del Cristianesimo fece appello, contro il presente storico in cui gli era toccato in sorte di vivere, a: «gli interessi del cuore» (p. 41).
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  • Fece appello, in sintonia con la sensibilità della Romantik, a un sapere altro rispetto alla ratio calcolante. Nelle sue pagine, pregne di carica emotiva, emerge: «dopo il sermo propheticus, il sermo mysticus e la scrittura ascetica […] uno stile psichico alternativo a quello prevalente» (p. 41) nell’età contemporanea, tesa a realizzare l’utile attraverso la riduzione della natura a res extensa a disposizione del padrone dell’ente, l’uomo. Gli antimoderni, che tanto influenza ebbero su Friedrich Georg, non si proponevano, sic e simpliciter, di esplorare i tratti di una possibile “altra soggettività”, rispetto a quella moderna, ma puntavano a realizzarla servendosi del tratto demiurgico dei loro scritti. In fondo, chiosa Bosincu, richiamandosi all’esegesi della gnosi di Eric Voegelin, erano pervasi da vero e proprio orrore per l’esistente e si fecero latori di una conoscenza soteriologica. Lo gnostico: «conosce la matrice della (temporanea) miseria dell’uomo […] è in possesso di una soteriologia che “dà all’uomo coscienza della sua degradazione e la certezza della restaurazione del suo essere originario”» (p. 53). La fuga dal moderno è centrata sulla “soteriologia dell’interiorità”. Jünger, a dire del curatore, visse due fasi diverse di tale atteggiamento neognostico: in gioventù fu prossimo al prometeismo “wotanistico” del nazismo e alla “mobilitazione totale”.
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  • Tale riferimento voleva costruire una soggettività “attiva”, mossa dalla volontà di potenza, mirante al superamento dell’individuo borghese. Nella fase dell’“emigrazione interna”, testimoniata in modalità paradigmatica da Apollo, Pan, Dioniso, per l’influenza del mondo spirituale ellenico mediato dalla lettura di Walter Friedrich Otto, e anticipando la psicologia del profondo di Hillman, Jünger si fa latore dell’ “uomo totale” schilleriano, nella cui psiche la potenza titanica torna a conciliarsi con le potestates dei tre dèi in questione. Tale metamorfosi indusse il Nostro a maturare: «Il rispetto per la vita nella sua elementarità » in quanto prese contezza che: «il presupposto della modernizzazione tecnologica è […] la disanimazione della natura» (p. 99). La physis è esperita come trascendente l’orizzonte umano: vi è uno scarto evidente tra il flusso del divenire e della storia, accumulatrice di rovine, e i ritmi eterni e ciclici della natura. Quello jüngeriano è un “paganesimo dello spirito”, che si rivolge a una dimensione profonda includente: «i noumeni da cui scaturiscono la storia e l’esperienza empirica» (p. 111). L’autore mostra di aderire a una prospettiva mitica: ritiene che in ogni ente, nell’interiorità dell’uomo e nelle sue attività, agisca un dio. Il divino è palpitante, si fa esperienza. La stessa tecnica non è mera espressione della ragione strumentale, ma ha radici mitiche, titaniche, prometeiche.
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  • Per sottrarsi al suo dominio reificante, l’uomo deve recuperare la dimensione immaginale: solo in essa, non nei concetti che staticizzano il reale, è possibile rintracciare l’alito di Apollo, Pan e Dioniso, l’eterna metamorfosi animica della physis. Tali dèi sono in rapporto di: «fraterna antitesi» (p. 244). Per recuperarne il senso è necessario guardare alla coincidentia oppositorum, alle logiche del terzo incluso: «Apollo è esaltato come l’archetipo alla base di uno stile cognitivo ed esistenziale che privilegia la ragione contemplativa e il senso della misura» (p. 135), antitetico alla hybris prometeica, tanto del nazismo quanto del capitalismo cognitivo dei nostri giorni. Pan incarna il “principio di piacere” contrapposto al “principio di prestazione”, la leggerezza del vivere esperibile quando ci si ponga nella natura selvaggia, avvertita come estranea dall’uomo moderno. La natura basta a se stessa, di ciò ebbe contezza anche Karl Löwith. Dioniso, infine, è il dio che libera dalle fissità identitarie, dalla dimensione teleologica della vita. La sua potestas pone in scacco la: «pazzia paludatasi nelle vesti della ragione» (p. 139).
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  • Lo Jünger dell’ “emigrazione interna”, a nostro parere, è latore di un contro-movimento gnosico (Gian Franco Lami) non neognostico, atto a ricondurre l’uomo di fronte alla physis, alla vita eternamente sorgiva del cosmo. Il cosmo, nelle pagine di Apollo, Pan, Dioniso non è emendabile, come ritenevano gli gnostici e con essi i cristiani e i loro succedanei moderni (positivisti, marxisti ecc.) perché, come si evince da Eraclito (fr. 30): «Esso è identico per tutte le cose, non lo fece nessuno degli Dei né gli uomini, ma era sempre ed è e sarà fuoco eternamente vivo, che secondo misura si accende e secondo misura si spegne». Apollo, Pan, Dioniso mostra, come ha sostenuto Calasso, che gli antichi dèi hanno trovato ricovero nella letteratura. Questa la straordinaria modernità degli antimoderni, di cui ha detto Antoine Compagnon.

  • Daniel Halévy Appunti sulla lunga rivoluzione francese JPEG

  • Daniel Halévy
  • Appunti sulla lunga rivoluzione francese
  • introduzione di F. Ingravalle,
  • Oaks Editrice 2023, pp. 201, € 18,00.
  • rec. di  
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Scritto da Halévy nel 1939, questo saggio è dedicato alla “Storia” (nel senso della percezione) della rivoluzione, in particolare, ma non soltanto; nei pensatori francesi che si sono succeduto nel successivo secolo e mezzo (1789-1939).
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  • Ne esce, tra l’altro, una distinzione fondamentale, condivisa da molti storici e filosofi, non solo quelli citati da Halévy: che in quella francese vi siano due rivoluzioni: la liberale del 1789 e l’altra, giacobina, del 1792. La rapida successione degli eventi storici ha così fuso insieme due catene di eventi assai differenti, il cui “nocciolo duro” era per la prima la costruzione dello Stato borghese, con i suoi principi di tutela dei diritti fondamentali e di distinzione dei poteri; per la seconda il carattere democratico dello Stato con relativa uguaglianza di partecipazione, cioè (anche) di voto degli individui, ossia dei cittadini. Determinando così l’ingresso delle masse nell’età contemporanea. Tale secondo aspetto avrebbe influenzato la modernità in senso divergente dal primo: il totalitarismo del XX secolo, con le rivoluzioni bolscevica e nazi-fasciste sarebbe (anche) la conseguenza del giacobinismo. Come scrive Ingravalle nell’attenta introduzione: “Halévy resta, comunque, attaccato alla fase liberale della Rivoluzione (1789-1791), nettamente distinta dalla fase giacobina”; e così nel rifiuto del comunismo o del fascismo. La rivoluzione francese, sostiene Halévy “...è una passione da vincere, non una questione intellettuale da affrontare con l’analisi razionale. Si tratta di mostrare con quali deviazioni, passionali, psicologiche, nel XIX secolo, sia stata interpretata la crisi rivoluzionaria nel suo complesso costruendo un dogma e una leggenda che sono andati a sostituirsi alla realtà storica”. Leggenda divenuta “superstizione” nazionale.  E anche conformismo “...l’Illuminismo rivoluzionario adottato e acclimatatosi grazie a una burocrazia di docenti è divenuto conformismo… l’Università, figlia ella Rivoluzione, insegna la Rivoluzione.  A tutti i livelli, questo insegnamento esiste” confermando il giudizio di Max Weber sul carisma, la leggenda è diventata “pratica quotidiana”.   Halévy nota che la rivoluzione ha avuto (anche) effetti tutt’altro che positivi sulla Francia.  A tacer d’altro ciò ricorda quanto scriveva De Gaulle nelle Memoires: che quando ri-prese il potere (nel 1958) erano 169 anni che la Francia non era governata (cioè dal 1789).  Che poi siamo ancora nell’influenza della rivoluzione e del di esso culto (e dei modi per celebrarlo), Halévy lo sostiene e ne descrive dogmi e liturgie a lui contemporanee, che somigliano tanto alle attuali: per i sostenitori del culto rivoluzionario “...per meritare di vivere, una società deve mettere fine al duplice scandalo delle patrie separate nell’insieme dell’umanità e delle condizioni differenti all’interno di ogni patria Quanto ai disastri causati da una avventura rivoluzionaria, un millenarista non ne è turbato: sicuro di aver fatto il proprio dovere, accusa la malvagità degli uomini e delle cose”. Che ci ricorda questo mix di umanità e uguaglianza?  E Halévy prosegue citando un altro predicatore della rivoluzione  “...Se gli avvenimenti infirmano troppo brutalmente le nostre predizioni e puniscono la nostra orgogliosa avventura, ci consoleremo eventualmente, pensando che gli avvenimenti hanno avuto torto”.   Cioè le intenzioni (buone) contano più dei risultati.
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  • In conclusione e consigliando di leggere un saggio che merita, per concisione ed efficacia, una recensione più lunga, una breve considerazione del recensore. È un fatto che le due rivoluzioni, al di là delle conseguenze negative - allorquando l’una soffoca l’altra, fin quando si tengono in equilibrio, hanno costituito il modello di forma politica del periodo successivo. Lo Stato democratico liberale nasce dalla compresenza e dall’equilibrio di un principio di forma politica, la democrazia con i principi dello stato borghese. Anche uno tra i più decisi sostenitori della libertà borghese e avversario del giacobinismo, come Constant, aveva capito benissimo che per difendere questi era necessaria la forma politica della democrazia rappresentativa. Così per avere la democrazia reale è necessario un congruo tasso di Stato di diritto. È un mélange di principi diversi, ma una fusione di successo. L’importante è tenerli in equilibrio.

  • Rossi

  • La vita finché resta
  • Una silloge poetica di
  • Giovanni Rossi
  •  rec. di Giovanni Sessa
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  • Le parole poetiche sono un tentativo di trascrizione della Parola, del “Dire originario”, per dirla con Heidegger.  La poesia strappa il linguaggio alla dimensione meramente strumentale, al mericimonio con il mondo, al rapporto con la mera “cosalità” della vita, alla sua pesantezza connotativa e  denotativa e lo espone all’evocatività.   D’altro lato, poeta è colui che creando immagini fonetiche ha contezza del tratto escludente e determinante del mero concetto, dell’idea logocentricamente intesa e per questo, appende il dire alla metamorficità della vita, all’ ex-sistere, al nostro essere fuori dall’origine.  Un esser-fuori connotato da nostalgia, parola che nel proprio etimo include tanto la volontà epistrofica del ritorno, quanto il riferimento al dolore.  Aspetti presenti nella raccolta di componimenti di Giovanni Rossi, La vita finché resta nelle librerie per i tipi di Ensemble Edizioni (per ordini: direzione@edizioniensemble.it, pp. 57, euro 13,00).
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  • Rossi è poco più che ventenne, ma ha già dato alle stampe un’altra silloge, Fantasie naturali (Escamotage, 2019). Condividiamo quanto rilevato in prefazione da Antonio Veneziani: «Voce lirica: cristallina; un po’ di Scuola Romana, di seconda generazione, e un po’ di classicismo, ben frequentato e tanta “vita quotidiana”» (p. 5). Fin dall’incipit de, La vita finché resta, la descrittività del “qui e ora” è punto d’avvio di Rossi, non d’approdo. Sua funzione è di propiziare il contatto con l’altro che si dà solo nella “nuda vita”, nei corpi e nella molteplicità del mondo.  Il “prima” e il “dopo” esperiti da ogni ente, non solo da noi umani, ma da tutto ciò che è animato, è connotato dalla: «stessa vena che sanguina», di contro a tale tragico esperire, si staglia: «uno scroscio di parole» che risuonano «sull’argine del fiume in piena» (p. 13).   L’autore rende il dire poetico lenitivo del “mal di vivere” indotto dall’apparente fuga in avanti di tutto ciò che è.   E se: «È vittima del vento/ogni singola foglia d’estate» in quanto «Aggrappata a un ramo non fa altro/ che preoccuparsi di cadere» (p. 14), di contro: «L’Eterno ci lascia impronte invisibili/ e l’acqua del mare le lava poi via» (p. 15).  Impronte lievi, non rinvenibili dallo sguardo appesantito, ma che in quanto destinate al nulla-di ente, all’origine del tutto, solo la parola poetica riesce a rammemorare.
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  • Lo aveva ben compreso Leopardi, nel suo pensiero-poetante, che le cose non sono mai quello che dicono di essere, che tutto è animato da un Senso caotico e perverso: «della morte che si sotterra/per fiorire germogli di vita» (p. 17).   Il ricordare, in Rossi, ha tratto anamnestico: solo nella rimembranza cadono le distinzioni logiche di vita-morte, essere-nulla, essenza-esistenza.   La vita che si mostra con il volto positivo degli enti e della natura servendosi di: «ogni misurato dolore ha rinnovato la sua presenza» (p. 19). Ecco: «Continua a essere, la vita/ questo peccato di fuga;/ ma il tempo è così poco. Non avanza neanche/ per innamorarsi di chi è nomade,/ amica cara» (p. 23).   Il tempo fugge solo per chi non abbia contezza che tra tempo ed eternità non vi è alcuna distinzione, l’eterno si dà solo nel tempo, l’essenza solo negli esistenti. Il giovane autore in questi versi testimonia una quête, una cerca che, come tutti i cammini realmente partecipati, dà luogo a momenti di stanca, a incertezze e cedimenti.   Repentino, l’autore si riprende, rialzandosi rinvigorito, nella certezza che, il lucore lunare che sembra perdersi nell’oscurità notturna, è comunque adorato dai nostri occhi (eppure gli occhi l’adorano, p. 30), che ne trattengono l’immagine vaga.
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  • Le ali della Malinconia consentono il volo paradossale che si innalza dai ghirigori della memoria: «Non invento più i paesaggi/ che ripesco selvaggi/ dalla memoria mia» (p. 32). La poesia concede di rintracciare: «imperterrita/ al calare dei giorni/ sfiorito negli inverni/ un accenno di vita» (p. 33).  Il dolore altro non è, se non: «isola sperduta da cui guardare lontano» (p. 37). Pertanto: «Verrà la gioia/ tornerà a rinfocolare/ la nostra brace fredda» (p. 36).  La poesia de, La vita finché resta, centrata su un’attenta ricerca lessicale, è confronto serrato con la parola, affinché essa si ri-sintonizzi sui ritmi cosmici, perché trascriva nel proprio incedere sulla carta, nel suo rivelarsi sinestetico a vista e udito, la possibilità dell’impossibile.   La poesia riporta a “casa”, ci accompagna al cospetto dell’origine, è via alla Persuasione: «Non ci rimane che del tempo. Pare/ assottigliarsi lungo la strada l’ultimo ciglio e poi il nulla; scomparirai/ per insegnarmi ancora la via di casa?» (p. 45).   Un esperimento poetico, quello di Rossi, euforizzante.  Il dubbio aporetico evocato nell’ultimo verso, rinvia all’aporia della vita, tematizzato in modalità magistrale dal filosofo Massimo Donà: eu-pherō, etimologicamente allude al “ben sopportare”, tratto eminente della visione del mondo classica, che gli stoici riproposero agli uomini del loro tempo.  Solo al poietes è dato vivere il tempo con pazienza, nell’accettazione del peras, del limite, che, assieme all’illimitato, all’abisso, ci costituisce.  La poesia coglie la paradossalità della condizione di tutto ciò che vive. Trascrive il nostro essere appesi alla dynamis, al principio-infondato della libertà-potenza.  Pertanto, ha ragione Veneziani nel ricordare l’affermazione di Gianfranco Contini: «La poesia non tollera ipotesi, ma solo l’evidenza dei miracoli» (p. 7).  Il miracolo è sostanza delle nostre vite.

  • Grande Ospizio Occidentale Cartaceo

  • Grande ospizio occidentale
  • Il “tramonto dell’Occidente” secondo
  • Eduard Limonov
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • Il panorama letterario nazionale, da decenni, registra il successo di autori e testi sintonici all’“intellettualmente corretto”.  Rari sono stati i casi di scrittori e pensatori che sono riusciti ad affermarsi con opere chiaramente dissidenti nei confronti della cultura mainstream.  Questa volta, crediamo riuscirà nell’intento Eduard Limonov con un libro pubblicato da Bietti, Grande ospizio occidentale, per la cura di Andrea Lombardi (pp. 233, euro 21,00).  Si tratta di pagine che, tanto sotto il profilo letterario, quanto dal punto di vista dei contenuti, trasudano potenza.   La prosa di Limonov è caustica, sferzante nei confronti degli idola del presente post-moderno, ma accattivante, atta a coinvolgere il lettore.  Il volume si legge d’un fiato.  Ma chi era Limonov, deceduto per cancro, nel 2020, nel bel mezzo delle restrizioni causate dalla pandemia da Covid-19?  Lo chiarisce, nell’introduzione, il filosofo Alain de Benoist: «Poeta e teppista, vagabondo e maggiordomo, miliziano filo-serbo durante la guerra in Bosnia […] oppositore nel cuore, pazzo della letteratura, amante delle donne e delle risse, oppositore e poi sostenitore di Putin» (p. 11).
  • ...
  • Limonov, al crollo dell’URSS, fondò con Dugin (i destini dei due avrebbero in seguito preso strade diverse) il Partito Nazional-Bolscevico. Nato in Russia, ma vissuto a lungo in Ucraina, lo scrittore conosceva profondamente la realtà del mondo occidentale, avendo a lungo abitato a New York e, a partire dall’inizio degli anni Ottanta, a Parigi.  La biografia romanzata a lui dedicata da Emmanuel Carrère, pubblicata in Italia da Adelphi, lo ha, qualche anno fa, portato alla ribalta della cronaca.   L’edizione italiana di Grande ospizio occidentale è la traduzione dell’edizione francese del 2016. In realtà, il volume fu scritto da Limonov, tra il 1988 e il 1989.   La tesi centrale è esemplificata dal titolo. Vivere nelle società occidentali (si badi, per Limonov al loro novero appartengono anche la Russia e la Cina), è come soggiornare in una RSA.   L’Occidente è un ricovero per anziani “malati”, ridotti in stato pre-comatoso dal capitalismo cognitivo (per lo scrittore, la Francia della fine degli anni Ottanta, ne è stata paradigma esemplare), che hanno perso da tempo lo slancio faustiano, l’energia vitale che permise loro di proporsi al mondo quali creatori di civiltà: «Un ospizio gestito dalle autorità pubbliche (qui chiamate “amministratori”) e popolato da pazienti che vivono sotto sedativi» (p. 13). Tutto è senescente, deprivato di vera vita.
  • ...
  • Limonov muove dalle pagine di 1984 di Orwell, opera letta non quale profezia politica, ma in termini di semplice registrazione e descrizione della violenza esplicita di cui si servirono i totalitarismi del Novecento per opprimere o eliminare le minoranze dissidenti.  Al contrario, il potere che viene esercitato dagli “amministratori” nell’ Ospizio ha tratto soft: muove dal controllo psicologico-immaginale delle masse, ed è ancor più pervasivo e pericoloso del potere totalitario del passato.  Infatti: «oggi […] la tv controlla la popolazione. Ma lo fa attraverso ciò che mostra, non osservandola» (p. 23).   La violenza morbida si basa sullo sfruttamento delle debolezze degli asserviti che vengono spinti a considerare, quale unico orizzonte esistenziale possibile, il conseguimento del benessere materiale fine a se stesso.   Le masse contemporanee sono indotte a pensare alla povertà come qualcosa di disdicevole, hanno il terrore della crisi economica, prospettata come incombente e della conseguente disoccupazione.   L’abitante dell’Ospizio: «Sbigottito dai giocolieri dei tassi, al rullo di tamburi della statistica, […] immerso nel brusio di una musica pop sempre più volgare […] l’abitante […] delle prospere città industrializzate compie una corsa accelerata dalla nascita alla pensione» (p. 28).   Questa umanità dimidiata ha terrore della libertà, delle scelte individuali e divergenti, del pensiero critico.    Del resto, il precetto principe vigente nell’Ospizio, individua nell’“Agitato”, un soggetto estremamente pericoloso, da marginalizzare e isolare.
  • ...
  • Per sedare le masse e costringerle all’abbraccio inestricabile alla mera realtà materiale del mondo, si ricorda loro, sovente, l’esito che ebbe è potrà avere, il pensiero degli “Agitati”. In questo senso le immagini di Auschwitz o del Gulag svolgono un ruolo “educativo” e sedativo, oppure si utilizzano allo scopo quelle che provengono dagli “esterni” all’Ospizio, dal Terzo Mondo in cui si muore di fame.  Il malato modello è colui che aderisce pienamente alla “vita assicurata” che l’Ospizio dispensa con generosità.   Tra gli “Agitati”, i più pericolosi sono da individuarsi in coloro che, in un mondo che ha di fatto obliato il senso della virilità e del rischio, del dispendio, tornano a guardare all’Eroe quale figura di riferimento per un futuro possibile.   Le loro ambizioni sono stroncate sul nascere: a ciò provvede il revisionismo storico, che mette in atto, nei confronti di “Agitati” emergenti, la consueta reductio ad Hitlerum.   Nuovo modello antropologico è, al contrario, da individuarsi nella Vittima.   Nell’Ospizio vive a proprio agio l’“ultimo uomo” nietzschiano, la cui vita si sostanzia di “mezze passioni del giorno e di mezze passioni della notte”.   Un uomo che ha obliato il senso del destino.
  • ...
  • Sue uniche preoccupazioni sono la ricerca del piacere, sempre più degradato, e della prosperità, per conseguire le quali si è dato luogo alla devastazione della natura.   Egli vive un’eterna adolescenza ludica: «Indossando colori puerili e sgargianti, come fosse un pagliaccio, l’homo hospitius trasforma la propria esistenza in un fotoromanzo» (p. 153).   Un fotoromanzo posto sotto tutela dalle percentuali, dalla società digitalizzata, da coloro che creano l’informazione propinata al Popolo, sorta di divinità solo a parole intoccabile, ma di fatto violata ogni giorno nella sua dignità.   Un dogma vige su tutti: «Mai e poi mai disturbare la pace del mondo televisivo, specchio dell’immacolata armonia dell’Ospizio» (p. 171).   La musica pop divenuta must concorre a distrarre i giovani: «dal loro compito ancestrale, un istinto puramente biologico che li spinge a strappare il potere ai vecchi» (p. 179), così come il sesso “libero” che: «toglie energia a una pulsione […] intrinsecamente più forte, l’istinto alla dominazione» (p. 188).
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  • Limonov ritiene che, per uscire dalla stagnazione in cui versa l’Ospizio, sia necessario riaprire le porte alla vita, alle passioni, al dolore, alla natura.  Recuperare senso e significato dello spendersi per se stessi e per la comunità.  Felice, dunque, è solo il mondo capace di onorare gli Eroi!

  • scrittoriitalianiefascismo

  • Intellettuali, potere e società liquida
  • Una raccolta di saggi di
  • Franco Ferrarotti
  • rec.  di
  • Giovanni Sessa

  • È da poco nelle librerie, per i tipi di Solfanelli, una raccolta di saggi del sociologo Franco Ferrarotti. Ci riferiamo a, Scrittori italiani e fascismo e altre pagine sparse (per ordini: 335/6499393, edizionisolfanelli@yahoo.it, pp.59, euro8,00).  Il titolo non tragga in inganno: il tema del rapporto tra scrittori e fascismo é solo uno tra i tanti di cui l’autore si occupa nella silloge. Il testo è breve, accattivante sotto il profilo stilistico e introduce il lettore ai problemi fondamentali e irrisolti della storia italiana contemporanea.  Gli scritti risalgono a qualche decennio fa, usciti su pubblicazioni periodiche o su quotidiani, ma sono, come ci apprestiamo a mostrare, di stringente attualità.  Alcuni passaggi del testo presentano gli aspetti salienti e problematici della società liquida.
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  • Presentando il volume di Francesca Petrocchi, Scrittori italiani e fascismo, uscito nel 1997, Ferrarotti rileva il servilismo che i nostri chierici mostrarono nei confronti dell’uomo forte del tempo, Mussolini. Al Duce, deferenti, si rivolsero chiedendo prebende, favori, facilitazioni di carriera, intellettuali del calibro di Corrado Alvaro, Giacomo Debenedetti, Alberto Moravia, Cesare Zavattini, Norberto Bobbio, Giuseppe Ungaretti. Il poeta dell’ermetismo perorò la nascita del “sindacalismo artistico”, individuando in Soffici il leader di tale possibile organizzazione. Tali “produttori di cultura”, chiosa il noto sociologo, erano spinti nelle braccia del regime dalla: «voglia di potere e (dal)la conferma del proprio privilegio sociale» (p. 10). Nella storia italiana i chierici hanno, da sempre, mostrato un atteggiamento servile nei confronti del ceto politico al potere. A tale atteggiamento di subalternità si è nei secoli accompagnato, lo notava già Leopardi, un: «irridente, irresponsabile cinismo delle classi dirigenti […], un’assenza di spirito civico» (p. 11). La “doppia verità”, con Pomponazzi, è divenuta costume nazionale, non solo degli intellettuali: ci lamentiamo in privato e ci “acconciamo” con il potere in pubblico: «Il feroce anticlericale Gioacchino Belli si guadagna il pane lavorando negli uffici della censura vaticana» (p. 12).
  • ...
  • L’italiano medio è “umile” in senso etimologico, vive radicato nell’humus della propria condizione esistenziale, risultato di una storia millenaria e, proprio per questo, è comunque capace di molte vite. L’Italia è, non casualmente, paese dei Nuovi Inizi, terra di eccezionali “singolarità” (quelle del Rinascimento, ad esempio), ma anche luogo in cui trionfa il narcisismo. Venuto meno l’Impero romano, abbiamo creato la Chiesa cattolica. Ferrarotti ricorda Niceforo e la sua definizione dell’Italia quale “arcipelago di culture”, cosa che ha determinato la nostra ricchezza, ha stimolato la nostra creatività.  Essa, si badi, sta alla radice della tendenza italiana al “voler piacere”, al “venire incontro al prossimo”, al “bel mentire”.   Propensione destabilizzante che, creando insicurezza sociale, ha indotto: «il proliferare delle circolari, memorandum, “leggine” […] ordini e contrordini» (p. 19).  Da noi, sulla “carta” tutto è risolto, niente lo è mai realmente.  Perfino la diffusione del cellulare in Italia, ha un’evidente spiegazione: «il collante che tiene insieme la vita italiana è la parola viva, la “viva voce”» (p. 20), un tempo accompagnata dal contatto fisico, dal “faccia a faccia”.
  • ...
  • L’Italia, quindi, potrà sopravvivere alla società liquida, in cui la fisicità, la corporeità è negata, si chiede lo studioso? L’autore è ottimista, a condizione che, finalmente, sia attuata una “riforma” radicale, innanzitutto delle istituzioni politiche. La democrazia italiana, dopo la caduta del Muro di Berlino, è rimasta zoppa. Il cittadino si sente solo, isolato: manca un’effettiva proposta di alternativa politica, in quanto le nostre classi dirigenti, di destra, centro e sinistra, al progetto, hanno sempre preferito il mero “durare”, “sopravvivere a se stesse”, dimenticando di dirigere, di condurre la cosa pubblica.  L’idolatria del mercato, ha obliato i rischi che esso implica e, così, nessuno ha pensato alla necessità di guidarlo. Insomma, da noi continuano a farla da padroni i “Gattopardi”: nella sostanza il potere, supportato da un pretenzioso ceto intellettuale che ne tesse le lodi, non cambia. Tale contesto è, peraltro, aggravato dalla sempre più diffusa subalternità economica di ampi strati popolari e borghesi. Questi, più che vivere, e il problema non riguarda solo l’Italia, sembrano semplicemente voler “sopravvivere”.  
  • ...
  • La democrazia è stata svuotata di senso e consenso, è ridotta a mera procedura, e ampi strati popolari sono sempre meno partecipi, distanti anni luce dalla politica.  L’innovazione tecnologica, informatica e telematica, ha fatto il resto.  Viviamo in un mondo smaterializzato: «e nello stesso tempo smemorato» (p. 41).  Eppure, noi siamo: «ciò che ricordiamo di essere stati» (p. 41).   Il riferimento alla tradizione, non intesa in modo statico, tradizionalistico, può essere lo strumento, rileva Ferrarotti, per riannodare il tessuto comunitario, non solo in Italia. La tradizione: «può essere rivoluzionaria perché contiene semi, valori […] non ancora inventati sul piano pratico politico» (p. 41). Benjamin pensava, al pari del nostro sociologo, che il “passato” contenesse in sé un fondo inespresso da attivare sul piano storico. La cosa è tanto più vera nella società liquida, in cui la tecnica permette la comunicazione planetaria in tempo reale ma: «Non solo non c’è più comunione fra coloro che comunicano. Si comunica “a”, non più “con”, cioè a tutti e a nessuno» (p. 42).  Quale la soluzione per Ferrarotti?  Creare un contesto politico che, come aveva suggerito Adriano Olivetti, sia in grado di produrre uno sviluppo: «a misura d’uomo» (p. 44).   A ciò sarà possibile giungere attraverso l’integrazione della cultura “alta” con quella popolare.
  • ...
  • La cultura, per chi scrive, coincide con la tradizione: «come insieme di esperienze e di valori condivisi e convissuti […] come la base, esistenziale e nello stesso tempo concettuale, della democrazia» (p. 53).  Il rivoluzionario-conservatore Moeller van den Bruck non aveva forse definito la democrazia nei termini della: «partecipazione di un popolo al proprio destino»?   Un’indicazione essenziale, da perseguire nel tempo presente, per uscire dall’impasse nella quale viviamo.

  • INTERVISTA A MONTESQUIEU
  • SU NORDIO 
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Da tempo le esternazioni del Ministro della Giustizia Carlo Nordio sono oggetto di critiche, in particolare di essere permissive, anti-legalitarie, garantiste, ecc. ecc. Per saperne di più siamo andati a intervistare il barone di Montesquieu, noto intenditore di libertà politica e di Stato di diritto il quale, ci ha benevolmente concesso l’incontro.
  • ...
  • Caro barone, che ne pensa della dichiarazione del Ministro Nordio che “La nostra legislazione tributaria è piena di ossimori. Se un imprenditore onesto decidesse di assoldare un esercito di commercialisti per pagare fino all’ultimo centesimo le imposte non riuscirebbe perché comunque qualche violazione verrebbe trovata, le norme si contraddicono”.
  • Penso che il legislatore, come ho scritto, deve essere chiaro e conciso, la moltitudine delle leggi impedisce il secondo carattere e rende problematico il primo.   L’ideale della legge è quella delle XII tavole: così piana e succinta che i bambini romani la conoscevano a memoria. Provate a fare la stessa cosa con le leggi italiane, anche soltanto con quelle tributarie: non ci riuscirebbe neanche Pico della Mirandola. Ma quei caratteri sono essenziali per la certezza del diritto; cioè per un connotato fondamentale dello stesso.  Senza quelle, il diritto non è altro che l’arbitrio (facile) dell’interprete.
  • ...
  • Cosa ne pensa del fatto che Nordio ha detto che non vuole interferenze dell’ANM nella formazione delle leggi?
  • Che ha capito lo “spirito” del mio pensiero, anche oltre la lettera; ho scritto che “Quando nella stessa persona o nello stesso corpo di magistratura il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non vi è libertà, perché si può temere che lo stesso monarca o lo stesso senato facciano leggi tiranniche per attuarle tirannicamente.  Non vi è libertà se il potere giudiziario non è separato dal potere legislativo e da quello esecutivo. Se esso fosse unito al potere legislativo, il potere sulla vita e la libertà dei cittadini sarebbe arbitrario, poiché il giudice sarebbe al tempo stesso legislatore”. Certo qui non si tratta di un’interferenza formale, prescritta dalle leggi (il che sarebbe ancora peggio).  Ma certo un’interferenza di un soggetto rappresentativo di una categoria di funzionari pubblici che esercitano uno dei poteri dello Stato è, a mio avviso, comunque da evitare per scongiurare quanto da me sostenuto.  Che può essere declinato in più maniere, la prima delle quali è che, per conseguire la libertà politica, è necessario che colui che pone la norma non sia quello che la applica.  Invece coloro che criticano il Ministro sembra che tengano non alla libertà o alla legge, ma al potere della burocrazia di applicarla, nel modo meno determinato e controllato possibile.  Un caso di buromania e di burodipendenza.
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  • Passando ad altro, che ne pensa della concezione, anche dell’Unione Europea, di misurare lo “Stato di diritto” (soprattutto) sulla protezione dei diritti “LGBT"?
  • Ho sostenuto, a proposito della libertà che “Non vi è parola che abbia ricevuto maggior numero di significati diversi…. Gli uni l’hanno presa nell’accezione di facilità di deporre colui al quale avevano conferito un potere tirannico; gli altri come la facoltà di eleggere colui al quale dovevano obbedire; altri ancora come il diritto di essere armati e di potere esercitare la violenza; altri infine come il privilegio di non essere governati che da un uomo della propria nazione o delle proprie leggi. Un popolo ha preso la libertà per l’uso di portare una lunga barba”.  Ecco a me pare che chi condivide la concezione suddetta è assai simile a quelli che la pensano come facoltà di farsi crescere la barba.  Quando tanti diritti sociali ed economici sono poco garantiti, pensare e tutelare pretese marginali (e in qualche caso non fondate sulla realtà) mi sembra un tentativo, come dite, di distrazione di massa.   Si pensa al diritto di affittare gli uteri (et similia) per costruirsi un’immagine gradevole e “liberale”, senza pagare prezzo.
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  • Allora la ringrazio sig. barone, posso tornare ad intervistarla?
  • Sinceramente penso che ce ne sarà bisogno.  Come ho scritto non è che il regime delle repubbliche italiane dei miei tempi fosse del tutto corrispondente alla forma di governo dispotica.  Ma avverto, nel vostro modo di governare, una tendenza storica a raggiungerla.   E, per quanto mi riguarda, darò mano per invertirla.

  • Nietzsche ei grecijpg

  • Nietzsche e i Greci 
  • Tra mito e disincanto
  • Una silloge dello
  • Istituto Italiano per gli Studi Filosofici
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • L’esperienza speculativa ed esistenziale di Friedrich Nietzsche rappresenta uno spartiacque nella storia del pensiero europeo, che distingue due epoche diverse della filosofia: prima di Nietzsche e dopo di lui. Questa affermazione trova conferma nel volume, Nietzsche e i Greci. Tra mito e disincanto, nelle librerie per l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici press-Scuola di Pitagora (pp. 175, euro 18,00), a cura di Ludovica Boi.   Il volume raccoglie una serie di contributi sul tema “Nietzsche e i Greci”, elaborati durante due giornate di studio, tenutesi il 21 e il 22 ottobre 2019 presso la sede dell’Istituto di Palazzo Serra di Cassano in Napoli. Si trattò di incontri seminariali organizzati all’interno del progetto, I greci nello specchio dei moderni. Il libro è costituito di due parti, ognuna delle quali contiene tre saggi. La prefazione è firmata da Francesco Fronterotta, mentre l’introduzione è opera della curatrice.
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  • L’idea centrale, che attraversa tutti i saggi, è l’esistenza di una sostanziale continuità filologica-filosofica nell’iter del pensatore di Röcken. Boi rileva che: «Se è innegabile che Nietzsche non ha mai concesso lodi al metodo storicista […] è altrettanto vero che l’habitus filologico si radica in lui sin dagli anni giovanili e mai lo abbandona» (p. 13). La filologia è stata, di fatto, lo strumento con il quale il pensatore dell’eterno ritorno ha dato ordine alla propria natura intuitiva e geniale. Nietzsche l’ha trasformata in: «perizia da orafi che contrasta l’accelerazione della tarda modernità […] con le sue letture superficiali e affrettate» (p. 13). Da un punto di vista generale, la civiltà greca si è rivelata, per il filosofo, segnavia irrinunciabile della propria ricerca, coinvolgimento intellettuale vissuto intensamente. Delle due cose, dunque, deve tener debito conto chiunque si cimenti nell’esegesi del percorso teoretico del tedesco, che non può essere distinto in “fasi” rigidamente contrapposte, in quanto evidenzia tratto unitario. Nietzsche, pur volendo riproporre il modus vivendi ellenico, resta un moderno, nel quale l’istanza epistrofica si coniuga con la volontà di demitizzazione. Attorno a tale ambiguità, gli autori hanno sviluppato il loro lavoro ermeneutico.
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  • Gherardo Ugolini legge La nascita della tragedia in chiave anti-aristotelica, soffermandosi, in particolare, sulla decodificazione della “catarsi tragica”. In tema, all’epoca, avevano rilevante considerazione le letture di Lessing, Goethe e Bernays. Il primo è stato latore di un’esegesi “morale” della catarsi, il secondo la interpretò alla luce dell’autonomia dell’estetico, il terzo in chiave “medico-patologica”. Nietzsche non è convinto dell’esistenza nelle rappresentazioni tragiche di una liberazione “morale” e, pur mutuando il linguaggio di Bernays: «non crede affatto al potenziale terapeutico insito nella tragedia» (p. 38). Egli nega che possa esservi una risoluzione “positiva” della condizione tragica, in quanto la tragedia riproduceva l’estasi dionisiaca. Nella tragedia attica si palesava lo scaricarsi del dionisiaco, testimoniato dal Coro, nel mondo delle immagini apollinee. L’unica catarsi possibile si dava, pertanto, nel dionisiaco: «inteso come dissoluzione delle categorie identitarie e spazio-temporali» (p. 43). A tale concezione egli si mantenne fedele fino alle opere della maturità.
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  • Dioniso, come colto da Boi, è il fil rouge sempre presente in Nietzsche. Negli scritti giovanili, egli allude all’“unità essenziale” (Ur-eine), esperibile attraverso il superamento del principuum individiationis nell’esperienza estatica. Lo pensa, in forza dell’influenza schopenhaueriana, in termini trascendenti. Successivamente, grazie alla lezione tratta dai Preplatonici e in particolare da Eraclito, si avvicina alla coincidentia oppositorum. Negli scritti più tardi, sarà proprio la riflessione sulla potenza di Dioniso a determinare nella sua visione la: «dissoluzione dell’opposizione di divenire ed essere, attimo ed eternità, “mondo vero” e “ mondo apparente”» (p. 50). In questa fase, l’“unità essenziale” sarà esperita in termini di pura immanenza, oltre qualsivoglia dualismo ontologico e metafisico. Conclusivamente: «Nietzsche radicalizza gli assunti già operanti nella Geburt, affermando, […] una divinizzazione del divenire» (p. 51). Più in particolare, Dioniso simbolizza la totalità dell’essente, egli insegna all’umanità che la morte è legata alla vita. Per chi scrive, tale superamento del dualismo rappresenta il lascito più significativo del filosofo, che riemergerà nel Novecento in Deleuze, Klossowski e nell’idealismo magico di Evola.
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  • Max Bergamo si occupa del “carattere misto” di Platone. Per l’esegesi, utilizza fonti inedite quali gli appunti del brillante allievo di Nietzsche, Jakob Wackernagel. Con “carattere misto”, Nietzsche intende riferirsi a Platone, leggendolo quale filosofo in cui si fa sentire ancora l’eco della Sapienza arcaica ellenica pitagorico-eraclitea-socratica, presente finanche nella scelta dialogica, rispetto alla quale, al medesimo tempo, la speculazione dell’Ateniese segna una netta cesura introducendo il dualismo onto-gnoseologico. Il tratto “non-originale” di Platone sarebbe stato desunto da Nietzsche dalla lettura di un brano di Diogene Laerzio.
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  • Valeria Castagnini si intrattiene sulla vita dello studioso nel periodo giovanile: «esponendo la connessione tra la scelta della professione accademica […] e il temperamento proprio del giovane Nietzsche» (p.16). Si comprende come, in tal modo, la studiosa abbia fatto proprio un elemento qualificante dell’insegnamento nietzschiano, vale a dire l’imprescindibile relazione di vita e pensiero, di esistenza e scienza.
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  • Edmondo Lisena si occupa del rapporto del filosofo con i Greci attorno all’ “anno mirabile” 1875. In quel frangente storico, il pensatore era fermamente convinto che solo un pensiero dal tratto “impuro”, fosse atto a reagire di fronte all’illogicità del reale, alla dimensione caotica della vita.
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  • Infine, Andrea Orsucci esercita la propria analisi sulle pagine di Umano, troppo umano, tenendo conto della crisi dei fondamenti del sapere che si manifestava alla fine del secolo XIX. La genealogia dello spirito libero sarebbe sorta all’interno di un confronto serrato con gli sviluppi della scienza.  Un volume collettaneo di estremo interesse, che immette nel cuore vitale della filosofia di Nietzsche: la potestas dionisiaca.


  • Nostalgia rurale

  • "Nostalgia rurale"
  • di
  • Pietro Meloni
  • Campagna globale e mercificazione del passato
  •  rec.  di
  • Giovanni Sessa
  • La pandemia da Covid-19 ha amplificato una tendenza sociale già in atto prima del 2020: il desiderio di cercare nell’isolamento rurale, nell’idillio di una natura più o meno “selvaggia”, un ricovero dall’accelerazione produttiva della globalizzazione. Dei tratti contraddittori di tale tendenza si occupa, in un volume di Meltemi, Nostalgia rurale. Antropologia visiva di un immaginario contemporaneo, Pietro Meloni, antropologo dell’Università di Perugia (per ordini: redazione@meltemieditore.it, pp. 245, euro 22,00).
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  • La nostalgia rurale ha determinato il ritorno di una minoranza di cittadini ai “borghi”e alla campagna. Il fenomeno è una: «“macchina del tempo”, dove il passato diventa una merce […] da rivendere» (p. 8). La ruralità, in tale modalità mercificata, è ben esemplificata dalle campagne del Chianti o della Val d’Orcia. In tali aree, il passato è stato letto in modalità monocorde, luogo storico di una “comunità” armonica, includente perfino i non-umani. Una lettura edulcorata della vita rurale, che non tiene conto delle lezioni di Walter Benjamin o di Carl Schmitt, indicanti il tratto frammentario e polemologico della modernità, dopo la quale il ritorno all’ordnung rappresenta un’impossibilità.   Il libro è il resoconto di un’indagine etnografica condotta, tra il 2012 e il 2022, dall’autore e da Valentina Lusini a Iesa, frazione del comune di Monticiano in Val di Merse, ubicato tra le provincie di Siena e Grosseto.   Iesa è costituita da sei borghi: l’area ha subito, dopo il secondo conflitto mondiale, un forte spopolamento.   Monticiano oggi conta la presenza di ben 18 nazionalità.
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  • La sua realtà culturale è stata ridefinita dai processi di globalizzazione, che hanno creato: «costanti polarizzazioni tra interno ed esterno, tra locali e stranieri, tra urbano e rurale» (p. 13).   Lo studio di Meloni è un’analisi dalla quale si comprendono le modalità di costruzione di tali spazi rurali: «che producono nuove relazioni e nuove ibridazioni» (p. 15).   Il sogno neo-ruralista è segnato dalla polarizzazione sociale. L’autore muove dalla presentazione e dall’esegesi del quotidiano e degli aspetti marginali dell’esistenza delle popolazioni locali: la caccia, le abitazioni, l’amore per la natura.  Avendo condotto la ricerca a “casa”, nei confronti degli interrogati (in numerose interviste) ha mantenuto un atteggiamento di “oggettivazione partecipante”.   Il suo sforzo è stato quello: «di trovare una posizione che consenta (all’antropologo) di non essere né troppo distante né troppo vicino» (p. 25) al “mondo” dell’altro.  Oltre al resoconto scritto, strumento principe è stata la fotografia.
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  • Bourdieu, a riguardo, ha rilevato che: «la fotografia consente di equilibrare una relazione tra lo sguardo soggettivo del ricercatore e lo strumento oggettivo» (p. 28). Da foto e video emerge l’imponderabile della vita reale, l’inconscio fotografico, che sfugge al discorso verbale e si mostra, nei particolari delle immagini.  La fotografia stimola, a posteriori, la riflessività critica del ricercatore.  I due antropologi, durante il primo soggiorno, notarono che, nelle strade, erano affisse foto che ritraevano scene di vita quotidiana.  Si trattava del repertorio fotografico di Piero Rosi, recuperato e selezionato per una mostra locale da Daniela, giornalista tedesca trasferitasi da qualche tempo in paese.  A un primo approccio, queste foto, in forza dell’evocatività, sembravano presentare la “comunità” iesattola nel suo “farsi”.  Le foto suscitavano due tipologie diverse di nostalgia: «quella provata dalle persone che hanno vissuto il passato di cui si parla e quella provata dalle persone che questo passato non lo hanno vissuto» (p. 65).  L’ultima tipologia era proprio degli alloctoni, trasferitisi per sfuggire alla modernità.  Le loro azioni miravano a tutelare il paese dal possibile sviluppo turistico.  Essi incarnavano la tuscanopia, mirata alla tutela di una “toscanità” mitizzata e non reale. Nostalgia strutturale, in cui il passato, inalterato ma irrecuperabile: «definisce i comportamenti odierni […] incorniciandoli nella “rappresentazione collettiva di un ordine paradisiaco”» (p. 72).
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  • Etimologicamente il temine “nostalgia”, oltre al “ritorno”, ha in sé il riferimento al dolore.  È la nostalgia degli autoctoni, ben rappresentata dalla testimonianza di Giordano Bruno, orgoglioso della propria eredità “etrusca”.  Essa è costruita su un ambiguo sentimento di odio-amore e di rivalsa nei confronti del paese natale.  Giordano Bruno definisce “tragici” i boschi che circondano Iesa.  Ha contezza del duro lavoro, delle sofferenze che la vita contadina impone, sa della dicotomia tra racconto pubblico e privato nelle famiglie, riconosce l’asprezza e la sottomissione, anche violenta, della donna e dei bimbi in quel mondo.  Dall’intervista a Enrico, invece, emerge una nostalgia nella quale il dolore è legato a qualcosa di irrimediabilmente perduto, una nostalgia riflessiva, consapevole della dialettica storica.  Nonostante ciò, essa fa aggio sulla speranza che l’identità futura possa essere scritta in termini d’incontro tra autoctoni e alloctoni.
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  • Meloni partecipò, nella ricerca sul campo, alle attività più rilevanti della vita sociale a Iesa: alle battute di caccia e alle occasioni conviviali. Descrive le abitazioni locali, le loro ristrutturazioni, gli oggetti e gli utensili esposti in esse.  Giunge alla conclusione che: «la nostalgia locale, per quanto faccia leva sul desiderio di rievocare una continuità tra passato e presente, mostra nette cesure e ancor più evidenti risemantizzazioni» (p. 110).  I trofei di caccia esposti nelle case della Val di Merse, richiamano la distanza tra spazio domestico e naturale: il selvatico ha accesso ai luoghi dell’umano, solo se “trasformato”, negato.   Anche i trofei di caccia possono produrre polarizzazioni.  L’intera valle, si configura quale territorio che: «rifugge il facile dell’ideale paesaggio turistico toscano» (p. 143).   Il bosco di quest’area lo si può guardare: «come […] spazio di conoscenze e di relazioni, dove umani e non umani si incontrano riconoscendosi e contrapponendosi» (p. 154).  Lo si evince dall’esercizio venatorio e dalle attività boschive dei carbonai, dei cavatori di ciocco, dei taglialegna: latori di vita sofferta, espressioni del “verde tragico”.  Questi boschi vantavano la presenza massiva di castagni e querce, oggi sono infestati dal pino marittimo, segno tangibile dei nuovi tempi.  Come i paesi sono ripopolati dai nuovi residenti, allo stesso modo si trasformano i boschi per la presenza del Pinus pinaster.
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  • I due antropologi hanno preso atto che la “comunità”, pur agognata, in termini diversi, dai residenti, risultava di fatto inesistente e produttrice di divisioni.  Essa è sempre in fieri, appesa al precario equilibrio della mediazione dialogica e relazionale: «di differenti immaginari oggettivati che si costruiscono vicendevolmente» (p. 212).  Gli immaginari sono il prodotto delle modalità di relazione che instauriamo con gli altri e la natura.  L’uomo e la comunità sono “accidenti culturali”.



  • Cop. SESSA ICONE

  • Icone del possibile
  • Giovanni Sessa e il ritorno alla physis
  •  rec. di
  • Giacomo Rossi
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  • L’iter intellettuale di Giovanni Sessa, prende le mosse dalle filosofie di Evola (è Segretario della Fondazione che porta il nome del tradizionalista), di Emo e di Michelstaedter, per giungere, in particolare nell’opera, L’eco della Germania segreta (Oaks, 2021) a teorizzare il lógos physikós, pensiero fondato sul ritorno alla physis, alla natura intesa in senso greco, luogo della scaturigine della vita a cui ogni ente fa ritorno, oltre le prospettive proprie degli ecologismi su piazza, siano esse bio-centriche o antropocentriche. Su tale tematica, Sessa è tornato a interrogarsi nel suo ultimo libro, Icone del possibile. Giardino, bosco, montagna, nelle librerie per Oaks editrice (per ordini: info@oaksedizioni.it, pp. 339, euro 25,00). Il volume è impreziosito dalla prefazione di Massimo Donà e dall’introduzione di Romano Gasparotti,filosofi contemporanei con i quali l’autore, già in passato, ha mostrato una profonda sintonia teorica.
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  • Donà, nella prefazione scrive di un: «[…] bellissimo e raffinato volume di Giovanni Sessa. Una cavalcata coraggiosa, ma soprattutto rigorosa; che disegna un itinerario insieme complesso – in quanto ricchissimo di digressioni e riferimenti –, e oltremodo raffinato; dove l’antico e il moderno vengono attraversati da un unico sguardo, peraltro animato da una ben precisa intenzione, che l’autore dichiara fin dalle prime pagine: quella di evincere, dal complesso labirinto delle più diverse tradizioni culturali, un’unica falda sotterranea» (p. 11). Una presenza carsica quella del lógos physikós in Europa, che Sessa ha l’ambizione di riportare alla luce. Il pensiero centrato sul primato gnoseologico del concetto e degli universali ha, infatti, messo in atto il fisiocidio, oblio e dimenticanza della potenza della natura. I primi filosofi avevano colto la realtà animata e vivente della physis ma, a muovere dalla filosofia classica, platonico-aristotelica, per giungere al pensiero cristiano, centrato sul radicale dualismo mondo-sovramondo e per finire con il pensiero moderno che ha degradato il naturale a mera res extensa, tale visione è andata perduta. Il primo capitolo di Icone del possibile muove, lo ricorda Gasparotti, dall’esegesi di tale situazione: «Attraverso un’indagine - il cui metodo, storico-teoretico-ermeneutico ad amplissimo raggio, attraverso un’incredibilmente sterminata ricchezza di riferimenti, inclina sovente verso quella nobile erudizione cara agli umanisti rinascimentali – Sessa decostruisce pazientemente e sistematicamente i pregiudizi e i luoghi comuni più radicati, che gravano su tali orizzonti in quanto dettati dalla metafisica fisiocida» (p. 31).
  • ...
  • Un libro importante, dunque, quello di Sessa, che, per diversi tratti, si discosta dalle letture del tema proposte dalle analisi, il più delle volte scolastiche, di autori vicini al “pensiero di tradizione”. Libro che si interroga sull’origine, sul principio, individuandolo nella dynamis, potenza-possibilità-libertà, fondamento-infondato sempre all’opera nella physis e mai normabile definitivamente in alcun atto. L’autore sostiene, alla luce della lezione teoretica del primo Evola e di quella di Emo, il primato della potenza nei confronti dell’atto, ribaltando le consuete interpretazioni dicotomiche dell’endiadi aristotelica atto-potenza. Mostra, in particolare, come il progetto di ritorno alla natura, pensato da uno dei più grandi nomi della filosofia del Novecento, Martin Heidegger non si sia concretizzato per il permanere, nel pensiero del filosofo di Friburgo, di un radicale dualismo (autentico-inautentico, essere-ente) discendente dal “debito inconfessato” che questi contrasse con la teologia ebraica (Marlène Zarader). Sessa ripropone l’idea di physis presente, tra gli altri, in Goethe, Bruno, Spinoza e Fechner: una natura-mixis, sempre in fieri e in cui tutto è in relazione con tutto e, nella quale, i molti non sono che espressioni momentanee, “presenze attuali” del nulla di ente, del ni-ente, della dynamis.
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  • Tale principio, per definizione metamorfico, non può essere colto attraverso l’ossificante concetto che lo immobilizza in una determinazione, in un dato, in un positum, ma solo per immagine. Da qui il titolo del libro, Icone del possibile. L’autore si sofferma, attraverso una serie sterminata di riferimenti eruditi, che dalla filosofia spaziano in direzione della storia dell’arte, della simbolica e della letteratura, su tre topoi naturali-artificiali: Giardino, Bosco, Montagna. Il Giardino viene considerato quale luogo utopico (giammai utopistico, in senso moderno) e eutopico, luogo della perfetta conciliazione di Orfeo e Prometeo. Di tale ambiente, l’autore ricostruisce l’idea e si sofferma sulle sue diverse realizzazioni storiche, a muovere dai giardini mesopotamici e greci, i kepoi, per giungere ai giorni nostri. Al di là delle false contrapposizioni tra giardini all’italiana e all’inglese, riconosce nel giardino in movimento teorizzato dal filosofo francese contemporaneo Gilles Clément, la riemersione dell’antico giardino mediterraneo il cui genius loci è da individuarsi nella Signora della vegetazione.
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  • Il Bosco, altra icona del possibile, manifesta la dinamica produttività-distruttività della dynamis naturale. Sessa lo attraversa servendosi di riferimenti mitici (rex nemorensis, Merlino, fate e gnomi), letterari (Ariosto, Buzzati, Zanzotto, Thoreau, tra gli altri) al fine di chiarire come le creature che lo abitano, mettano costantemente in atto processi di ibridazione reciproca. Luogo dei “diversi”, ricovero per banditi e streghe, il bosco è topos in cui la natura mostra la magica possibilità dell’impossibile. Lungo i suoi “sentieri interrotti”, Orlando “perdendosi”, in realtà, come chiarisce Sessa attraverso l’esegesi del Furioso di Donà, ritrova Sé stesso.
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  • La Montagna, infine, è letta quale simbolo, axis mundi, della congiunzione di Terra e Cielo, via della possibile divinizzazione dell’umano, luogo della pratica alpinistica “metafisica”(l’autore pensando il principio in termini esclusivamente infranaturali, non apprezza questa definizione) di Daumal ed Evola, spazio analogico e non euclideo, in cui perfino i tratti geologici mostrano l’azione pervicace e mai doma della dynamis. Su tale possibilità-potenza, chiosa Sessa, il più grande alpinista contemporaneo, Messner, ha sintonizzato il proprio “pensiero montano” e la propria azione di scalatore, sempre appeso, nelle scelte cruciali, alla dynamis che la montagna testimonia.
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  • Le pagine di Icone del possibile, non conducono di fronte a una natura idilliaca ed edulcorata: al contrario, in esse il lettore incontra la dimensione dionisiaca e tragica della vita. Le tre icone sono luoghi il cui senso può risultare liberante per l’immaginario contemporaneo, colonizzato dalla mercificazione del mondo indotta dalla Forma-Capitale. Il volume è, infatti, un itinerarium mentis in natura che ha tratto politico, centrato com’è su una critica radicale dello stato presente delle cose.

  • oicofobia

  • Oicofobia
  • e ripudio della nazione
  • Un saggio di
  • Spartaco Pupo
  • rec.  di
  • Giovanni Sessa

  • Spartaco Pupo, docente di Storia della dottrine politiche presso l’Università della Calabria, è uno dei più rappresentativi intellettuali conservatori italiani. Eminente studioso di Hume, del quale ha sviluppato un’organica, puntuale e non “censurante” esegesi del pensiero politico. Negli anni Settanta, infatti, nelle curatele italiane dell’opera dell’empirista fu sottaciuto o sminuito il suo apporto al pensiero conservatore. Pupo non è, sic et simpliciter, un erudito chiuso nella turris eburnea, ma è aduso confrontarsi, con coraggio, con le problematiche del nostro tempo.  Lo mostra, in modalità esemplare, una sua recente pubblicazione, Oicofobia. Il ripudio della nazione,  nelle librerie per i tipi di Eclettica (per ordini: info@ecletticaedizioni.com, pp. 183, euro 16,00).  Si tratta di un testo snello, coinvolgente, ricco di riferimenti teorici.  L’oggetto di indagine è una tendenza assai diffusa nella post-modernità, non solo in Italia, l’oicofobia: espressione indicante il rifiuto dell’appartenenza culturale, il disancoraggio dalle consuetudini e tradizioni nazionali, l’abbandono frettoloso della “casa” in cui si è nati, il dileggio della storia nazionale.
  • ...
  • Punto limite di tale tendenza, propagandata dai ceti urbani borghesi ed “intellettualmente corretti” è rappresentato dalla Cancel culture che: «travolge personaggi famosi e fatti storici con la richiesta della loro “rimozione dai luoghi pubblici […] e perfino dai libri scolastici» (p. 7). Si tratta di un vero ostracismo di ritorno, che rende coloro che nel presente o nel passato siano ritenuti dai “chierici” di potere “non conformi” al pensiero Unico, dei “sottouomini” da marginalizzare.  Che lo spirito del tempo sia connotato in tal senso lo mostra, rileva Pupo, il documento: «Union of Equality, varato nel 2021 dalla Commissione Europea al fine di promuovere un linguaggio epurato da ogni riferimento“di genere, etnia, razza, religione”[…] a iniziare dai nomi di persona tipici della tradizione cristiana ritenuti offensivi di altre religioni» (p. 8).  L’oicofobia ha colonizzato l’inconscio e l’immaginario dell’uomo europeo.  La partigianeria è tratto distintivo di tale cultura: si accusa, sostiene l’autore, di razzismo Hume, a causa di una affermazione contenuta in una nota di un suo volume, senza tener conto del contesto culturale, che Schmitt definì “centro di riferimento” di un’epoca, atto a spiegare le ragioni di tale posizione.
  • ...
  • Si dimentica volutamente, d’altro canto, che il razzismo fu merce assai diffusa nelle pagine degli Illuministi: Voltaire, presentato quale padre della tolleranza, era decisamente antisemita e riteneva i neri assolutamente inferiori ai bianchi.  Kant sostenne, nientemeno, l’“immutabilità” delle razze e si interrogò sui caratteri morali spettanti a ognuna di esse.  Inutile sottolineare che definì la razza bianca “basilare”.  Pupo conduce, con persuasività argomentativa, il lettore nelle tappe fondamentali della storia dell’oicofobia.  Ricorda come esimi psichiatri, fin dalla fine del secolo XIX, l’avessero individuata quale stato d’animo patologico.  Essa: «è ingiustificata dal punto di vista razionale» (p. 23), in quanto ingenera il terrore nei confronti della propria identità.   Lo mostrò, con organicità argomentativa, tra gli altri, George Orwell. Nell’età contemporanea, il critico più radicale di tale atteggiamento esistenziale, va individuato nel pensatore conservatore Roger Scruton. Per il filosofo, l’oicofobia rappresenta l’altra faccia della medaglia del multiculturalismo che: «incarna il tentativo oicofobico di “pluralizzare” a tutti i costi ciò che è essenzialmente singolare, ossia la nostra identità di esseri sociali» (p. 29).   L’oicofobia induce la tendenza al vilipendio della storia e delle tradizioni patrie.   Lo evidenziano gli atti vandalici messi in atto contro monumenti che ricordano personaggi illustri, da Cristoforo Colombo a Montanelli.
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  • É solo il Noi che sorge dalla Tradizione che, come chiarito da Gentile, parla al fondo di ogni Io.   Il Noi può consentire il recupero della “luce interiore” dei popoli, di cui disse José Antonio Primo de Rivera.   Conoscere il proprio da-dove diventa seganvia per rintracciare, nella continuità storica, il per-dove cui siamo destinati.  In questo senso, chiosa giustamente Pupo, è necessario affidarsi alla facoltà della memoria che non costringe il passato ad assumere forma astorica, irrecuperabile, come accade nelle visioni centrate sulla nostalgia, ma realizza la simpatia, la condivisione sociale, sulla quale Hume fondò il proprio conservatorismo.   Un conservatorismo, ci sia concesso, nient’affatto reazionario, ma rivoluzionario, in quanto fondato, anche grazie alla lezione di Burke, su un’idea di storia fatta di possibili “Nuovi inizi”, che sempre in forme nuove, simili, ripropongono nel consesso civile ciò che Heidegger ha definito l’ “abitare poetico”, il sentirsi a casa, il recupero del “focolare”.   “Rivoluzionario”, in tale contesto non implica una prassi politica soteriologica, nel senso indicato da Dugin, mirata a contrapporre al Grande Reset il Grande Risveglio.   Scruton, e con lui Pupo, suggeriscono di recuperare l’idea di nazione nella sua valenza positiva, sottratta alle appartenenze tribali o religiose.   Fare della tradizione nazionale punto di riferimento politico, è “uscita di sicurezza” dallo scacco “epidemico” che sta trasformando la democrazia in un Nuovo regime, la governance.   Solo uomini consapevoli della propria storia, possono partecipare, con cognizione di causa, alla vita pubblica democratica e comprendere perfino le ragioni dell’altro-da-sé, solo a partire dalla propria coscienza identitaria.
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  • Nazione e Stato nazionale, pensati non in termini giacobini, possono determinare un confronto proficuo con gli universalismi sovranazionali, burocratici, astratti, privi di vera vita.   Le scuole di pensiero che oggi hanno maggior ascolto, lo mostra con chiarezza Pupo in un ampio excursus storico-teorico, dal neo-marxismo alle filosofie analitiche e continentali, sono pervase dall’atteggiamento oicofobico.   La cosa è particolarmente evidente in Italia, dove a causa della particolarità della nostra storia, la relazione tra statualità e nazionalità, cruciale per il riconoscimento dell’identità italiana, è irrisolta.   Con la caduta del fascismo, la “morte della Patria” è divenuta fatto compiuto.  Tale situazione negativa è stata accelerata dal boom economico e dal contemporaneo diffondersi dell’internazionalismo marxista.   Immigrazione, globalizzazione hanno fatto il resto.  In simile contesto, il libro di Pupo è davvero di stringente attualità.   Dalle sue pagine si evince la via da seguire per uscire dallo stato presente delle cose.   Conditio sine qua non, superare l’odio per noi stessi e la nostra storia e rammemorarla con orgoglio.   Un cammino ancora in fieri, appena iniziato.

  • SEMPRE PIÚ FITTA...
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Qualche lettore ricorderà che nei primi tempi della guerra in Ucraina notavo che la clausewitziana “nebbia della guerra” era particolarmente densa e fuorviante perché alimentata a piene mani da una comunicazione tutt’altro che imparziale, informata ed esperta: con risultati spesso sconcertanti, a cominciare dal piano logico.
  • ...
  • In occasione della controffensiva ucraina si è raggiunto un apice della (cattiva) informazione. Vediamo perché:
  1. a) in primo luogo della controffensiva sappiamo tutto leggendo il giornale o guardando la televisione: luogo (Dombass); entità delle forze ucraine (8 brigate in addestramento); tempo (imminente – ma rimandato già più volte nella sua imminenza perdurante); esiti politici (la caduta di Putin) e così via, vagamente precisando.
  • Ora la nebbia clausewitziana è frutto sia della natura della guerra che delle misure dei comandanti, tutte volte a non far capire al nemico i propri piani e obiettivi. Perché, a conoscerli, è facile prendere le contromisure. Non occorre aver fatto la scuola di guerra: basta ricordare l’Aida, quando Amonasro cerca di carpire, tramite la figlia, i piani di Radames. Nella storia militare vi sono poi dei casi clamorosi di “depistaggio” fornendo false (ma credibili) informazioni. Uno dei quali - così noto che ci è stato realizzato un film – consistente nel confondere i tedeschi sul luogo dove sarebbe avvenuto lo sbarco degli alleati nel 1944. I servizi inglesi lo prepararono così accuratamente da trarre in inganno – anche a sbarco avvenuto in Normandia – Hitler, convinto che ce ne sarebbe stato un secondo a Calais.
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  • La conseguenza logica non è solo che se uno dei contendenti ti dice che attaccherà a Charkiv invece che a Kiev, sicuramente non attaccherà Charkiv, probabilmente neppure Kiev, ma da un’altra parte, dove meno è atteso; ma anche che le informazioni più credibili sono quelle che non sono diffuse. I (falsi) piani dello sbarco in Francia furono messi dagli 007 inglesi sul cadavere di un ufficiale britannico fatto ritrovare agli spagnoli (e quindi dai tedeschi), e non pubblicati sul Times; se li avesse letti sul giornale, Hitler avrebbe creduto ad un espediente dell’Intelligence Service.
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  • C’è da chiedersi per quale ragione la comunicazione mainstream è così lontana da una rappresentazione credibile (e coerente) della situazione. Perché se le notizie fuorvianti sono fornite - come in gran parte sono – dagli uffici dei belligeranti (e dei loro alleati) sarebbe il caso di citarne la fonte (almeno) e, in certi casi di scrivere due righe di commento. Cosa che qualche rara volta avviene, ma quasi sempre no. Escluso che tali mezzi possano trarre in inganno il nemico, per la loro disarmante ingenuità, occorre individuare altri obiettivi.
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  • Un analista attento come Pietro Baroni definisce la “guerra psicologica” come “L’insieme delle operazioni, delle azioni, delle iniziative tendenti a conseguire l’obiettivo di assumere e mantenere il controllo di grandi strati di masse e di pilotarne le opinioni, i giudizi e le conseguenti manifestazioni, agendo sulla ricettività istintiva, sull’emotività e sul processo formativo delle valutazioni”. Nel caso gli obiettivi non sono Putin o Zelensky, ma l’opinione pubblica, occidentale soprattutto. Dalla quale occorre far approvare le misure a favore dell’Ucraina, in modo da attenuare l’onere dei sacrifici e dei rischi che comportano. A tal fine è necessario rappresentare la situazione bellica in modo conforme agli scopi da raggiungere.
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  • E il divario tra ciò che è e ciò che si rappresenta è l’inganno e la simulazione occorrente.

 

  • Donà R. stones

  • Massimo Donà
  • e la filosofia dei Rolling Stones
  • Tertium datur
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
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  • La produzione libraria del filosofo Massimo Donà, già notevolissima sia in termini qualitativi che quantitativi, è stata di recente incrementata dalla pubblicazione di un  nuovo volume, La filosofia dei Rolling Stones, nelle librerie per Mimesis (per ordini: 02/24861667, mimesis@mimesisedizioni.it, pp. 141, euro 12,00). Il libro segue di qualche anno altri due testi, La filosofia di Miles Davis (Mimesis, 2015) e La filosofia dei Beatles (Mimesis, 2018). Una trilogia attraverso la quale il pensatore e jazzista conduce il lettore a cogliere i tratti filosofici della musica contemporanea. Per quanto attiene al libro di cui discutiamo, l’autore non solo ricostruisce con dovizia di particolari le vicende che portarono alla formazione del mitico gruppo delle “Pietre rotolanti” (nome scelto casualmente durante una telefonata tra Brian Jones e un giornalista: lo sguardo del chitarrista cadde sulla copertina di un disco di Muddy Waters, la cui prima traccia era intitolata Rollin’Stone), le vite sregolate dei cinque musicisti “dionisiaci”, sospese tra trasgressioni, tradimenti, uso di allucinogeni ed alcool che portò alla tragica morte di Brian Jones, ma trae dall’analisi delle loro musiche significative considerazioni teoretiche.
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  • Prima riflessione da farsi, ricorda Donà, è la seguente: la musica dei Rolling Stones è un’esperienza che si sottrae, e sottrae l’ascoltatore, alle distinzioni dualiste che hanno connotato di sé il pensiero europeo (essere/divenire, eternità/tempo, universale/particolare), mostrando, in tutta evidenza: «che un altro pensiero è ancora possibile» (p. 135), e che, al contrario di quanto insegnato dal logocentrismo, tertium datur.  La loro musica mostra che l’universale si dà solo nel particolare, espressione: « della pura datità […] di un “immediato” che non si costituirà mai […] come “altro” dalla mediazione» (p. 139).  I Rolling Stones, come gruppo, hanno costituito, dai primi anni Sessanta a oggi, pur nel differenziarsi dei componenti della band: «una vera e propria universalità vivente. Che, in quanto vivente, sarà sempre rigorosamente individuale» (p. 139).  Pertanto, come nel mondo l’universale vive nelle determinazioni individuali, nelle loro musiche, ogni “assolo” si risolve nell’onda ritmica, suscitata da tutti gli strumentisti.
  •  ...
  • All’inizio del loro percorso, guardarono con estremo interesse ai musicisti neri del rhythm and blues.  Ciò spinse Keith Richards e Mick Jagger a valorizzare un sentire dal tratto indeterminato, sintonico al darsi della “nuda vita”, all’“immediatezza”: la stessa che il pensiero occidentale ha tentato di tacitare sussumendola nell’orizzonte “relazionale” inaugurato dal concetto e facendo, in tal modo, della predicazione centrata sul principio di non-contraddizione l’unico luogo del darsi della “verità”.  Nell’idealismo e nel neo-idealismo iniziarono a mostrarsi le faglie di tale apodittica certezza.  Gentile, rileva Donà, comprese che il sentimento cui guardarono gli Stones è, per antonomasia, materia d’arte.  Tale sentimento, che scuote dal basso, dall’interno i nostri corpi, è indistinto, è uno.  E’ qualcosa che non esclude i “diversi”, afferente a ciò che Deleuze ha definito “piano d’immanenza”.  Un sentire a-finalistico, che indusse i Nostri, tanto nella musica quanto nella vita, alla pratica della dépense, del dispendio dionisiaco-poietico di cui ha detto Bataille.  L’arte si sottrae al principio di utilità, ha tratto non progettuale. «Sorge da un sentire sordo e indecifrabile, privo di ragioni e di scopi, che pur tuttavia muove ogni cosa» (p. 25).  Ecco, la musica dei Rolling Stones, di cui Donà analizza con persuasività argomentativa tutte le fasi, ci pone di fronte al senso delle cose, ben oltre la loro mera dimensione significante e rappresentativa.
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  • Il notissimo brano Satisfaction pare tradurre in riff, quanto teorizzato da Deleuze a proposito di differenza e ripetizione. In esso il riff, ripetuto sempre uguale all’infinito: «viene suonato con una ritmica sempre leggermente spostata […] La differenza è apparentemente minima ma decisa» (p. 44).  Tali differenze generano l’onda musicale che: «caratterizza un po’ tutti i capolavori degli Stones» (p. 45).  Essa disegna una circolarità imperfetta, in cui a mostrarsi è il senso, la dimensione ambigua, “barocca” della vita.  Il differente sorge dalla ripetizione dell’identico: un identico, si badi, non concettualmente inteso, ma dal tratto liberante in forza di quelle quasi impercettibili distinzioni che donano al procedere ritmico effetti incantatori e allucinatori.   Il musicista e il fruitore di tali produzioni musicali si trovano proiettati nel “mondo alla rovescia”, in cui le cose non sono mai quel che dicono di essere, e dove vige la magica possibilità dell’impossibile.  L’approccio “fantastico” consente, sotto il profilo gnoseologico, di superare il limite della nostra intelligenza, che per Bergson conduce ad un’incomprensione della vita, staticizzandola attraverso le idee, i concetti.
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  • I Rolling Stones sono rimasti aperti all’incipit vita nova.  Riuscirono a mettere in atto processi di contaminazione con molte espressioni musicali, il loro rock si lasciò alle spalle l’influenza del blues per poi recuperarla in forma nuova. Con la struggente ballad You Better Move On, si avvicinarono al pop, rivaleggiando con gli “apollinei” Beatles.  2000 Ligth Years From Home, il cui testo fu scritto da Jagger, parla della solitudine di un uomo nello spazio.  Anche in essa si rileva la necessità di pensare a un mondo diverso, altro, di destabilizzare i confini entro i quali la realtà è stata descritta dall’ontologia.  La fantasia musicale degli Stones, invita a pensare “al contrario”, a unire gli assolutamente opposti.   Si tratta della riproposizione delle “logiche” che furono alla base della visione ermetica.   La loro creatività, chiosa Donà, fu sostenuta: «da quella spietata “indifferenza” che nulla c’entra con il disinteresse, ma funge da condizione imprescindibile per mantenere viva la lucidità dello sguardo o dell’ascolto» (p. 67).
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  • Tale indifferenza, a partire dagli anni Settanta, li guidò verso un obiettivo paradossale: divenire soggetti capaci di sperimentare in uno, dolore e gioia della vita, in forza di un sguardo gettato sul reale centrato sul “sogno ad occhi aperti”, senza bisogno di ricorrere alla “acque corrosive”, comportanti rischi e pericoli.  Almeno alcuni tra loro compresero di certo che, l’indifferenza, implica la libertà dalle cose e da qualsivoglia dipendenza.  Il libro di Donà mostra quanto i Rolling Stones siano una cartina al tornasole sulla quale il nostro tempo ha disegnato le contraddizioni in cui si dibatte, ma anche la possibilità di re-incontrare il senso profondo della realtà e delle nostre vite.  

  • Il 
  • PIZZO  DI  STATO
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Qualche giorno orsono, accendendo la televisione, mi è capitato di sentire un’omelia scandalizzata di un noto giornalista contro la Meloni che avrebbe qualificato “pizzo di Stato” le sanzioni, interessi e così via, applicate in caso di ritardo nel pagamento delle imposte (ovvero il pagarne troppe – non ho avuto occasione di ascoltare il discorso della Presidente).  Subito si è destato il solito coro (per lo più) dei burosauri di regime i quali, con toni e argomenti spazianti da quelli dell’agit-prop (post-moderno, cioè dell’epoca della globalizzazione) a quelli di un prefetto o generale ultraottantenne in pensione hanno stigmatizzato la carenza di senso dello Stato e di sensibilità sociale (???) della Meloni.
  • ...
  • Vediamo un po’ se tanto sdegno trova fondamento nel pensiero politico e nella dottrina dello Stato moderno, quello che i parrucconi dicono di voler difendere chiamandolo “Stato di diritto” (e distorcendone il concetto).
  • ...
  • Pizzo di Stato presuppone che: a) chi te lo chiede sia assimilabile a un criminale o brigante; b) che la richiesta sia ingiusta. A tale riguardo il primo (ma non è statisticamente “il primo”) a chiamarlo è stato Sant’Agostino – il quale si chiede (domanda che è già una risposta) “cosa sono gli Stati se non grandi associazioni a delinquere?” (magna latrocinia). Qualche decina d’anni dopo un altro scrittore ecclesiastico, Salviano di Marsiglia, attribuiva alle malefatte del governo imperiale e all’avidità della burocrazia e del fisco decadenza e (prossima) caduta dell’Impero romano d’occidente (scusate se è poco…)[1].
  • ...
  • Nel secolo successivo lo (pseudo) Procopio di Cesarea con la “Historia arcana” offre un quadro dettagliato delle ruberie e malefatte del governo di Giustiniano (dall’imperatore in giù). Non parliamo dei secoli successivi per non annoiare il lettore: facciamo presente che per l’alto medioevo la difficile reperibilità dei contributi sul “pizzo” è dovuta più che alla condivisione della concezione contraria (quella dei parrucconi) alla decadenza letteraria dell’occidente latino (anche se quanto a governanti delinquenti gli esempi non mancano). Arrivando all’età moderna e alle rivoluzioni borghesi il “pizzo di Stato” è il leitmotiv dei grandi rivolgimenti politici: ship money, no taxation without representation, deficit, sono le sintesi delle rivoluzioni.
  • ...
  • Come i rivoluzionari consideravano la burocrazia, tra i tanti ricordiamo Saint-Just il quale nel rapporto presentato alla Convenzione a nome del Comitato di salute pubblica il 19 vendemmiaio dell’anno II scrive: «Tutti coloro che il governo impiega sono parassiti; … e la Repubblica diventa preda di ventimila persone che la corrompono, la osteggiano, la dissanguano».  Tutt’altro che dato per scontato, il fatto che l’amministrazione agisca realmente per l’interesse generale è problematico; e conseguentemente le somme prelevate possono (almeno) diventare retribuzione per parassiti di Stato (pubblici e privati). La scienza della finanza italiana, a partire da Maffeo Pantaleoni per arrivare a Cesare Cosciani, distingueva diversi assetti della finanza pubblica (tra governanti e governati) come mutualistico, parassitario e predatorio a seconda della quantità, utilizzazione (e risultati) del prelievo fiscale.  Non mi risulta che quando Giustino Fortunato scriveva che la legge fondamentale del funzionamento della burocrazia italiana era l’inverso di quella di Carnot; ovvero che tutta l’energia prelevata doveva essere consumata per il sostegno e il frazionamento della macchina amministrativa (cioè in stipendi, gettoni, contributi, pensioni, missioni ecc. ecc.) e il minimo reso in servizi al contribuente, fosse mai stata oggetto di tanto sdegno.   Né lo sia stato don Sturzo, il quale giudicava così la “costituzione più bella del mondo” «Purtroppo di statalismo, l’attuale schema di costituzione puzza cento miglia lontano» e molte norme «invocano l’intervento dello Stato ad ogni piè sospinto, e risolvono tutti i più assillanti problemi con il rinvio all’autorità, all’ingerenza e alle casse dello Stato».  A fronte di Fortunato, Sturzo e di tutti gli altri che condividevano il loro giudizio realistico, la Meloni, con il suo “pizzo” e la volontà di riscrivere la Costituzione, appare una moderata.
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  • E lo stesso risulta a considerare quanto scrivevano i teorici dello Stato di diritto moderno.  A citare per tutti, questo ne pensavano gli autori del Federalista: ossia che se gli uomini fossero degli angeli, di governi non ce ne sarebbe la necessità; e se fossero angeli i governanti, neanche servirebbero i controlli sui governi.  Ma dato che di angeli in giro non se ne vedono, sono necessari sia i governi che i controlli sugli stessi. Invece per i parrucconi tecno-burocrati, chi insinua che imposte ed accessori siano la mangiatoia di interessi e clientele tutt’altro che sollecite del bene comune (ossia che il governante non è come la moglie di Cesare: al di sopra di ogni rispetto) bestemmia e merita l’anatema da cotanti sant’uomini. 
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  • Come scriveva Gogol nell’ “Ispettore generale” il giudizio dei parrucconi su chi lo pensa come (anche) la Meloni è quanto uno dei personaggi dice parlando dell’autore della commedia «Ma che razza di uomo è? un… un..,. un… non c’è nulla di sacro, per lui! Oggi sparla d’un consigliere, mettiamo, e domani verrà fuori a dire che Dio non esiste. Il passo è breve».   Giudizio che avrebbe condiviso, tra i letterati, il nostro Giusti col suo Gingillino ed il suo credo nella Zecca onnipotente.  Sacralizzare il prelievo fiscale e l’uso che se ne fa, è materia per facile ironia. Ben vengano una, cento, mille Meloni a demistificarlo, laicizzarlo e (speriamo) a ridurlo.

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  • [1] Giova riportare qualche breve passo di Salviano: «Ci sono forse non dico città, ma anche municipi o villaggi, dove tutti quanti i decurioni non siano altrettanto tiranni?... Nessuno, pertanto, è al sicuro… si salva dalla razzia di quei ladri che ti spolpano, a meno che uno sia un pirata loro pari. Si è arrivati a questa situazione, o meglio a questo livello di criminalità, che uno non ce la fa a cavarsela se non è un brigante pure lui». I governanti « con la scusa dell’esazione delle imposte, hanno dirottato queste imposte a profitto personale e hanno fatto delle tasse straordinarie un bottino privato… li hanno spolpati; si sono pasciuti non solo dei loro beni come normalmente fanno i ladri, ma anche del loro sangue dopo averli ammazzati».

  • Corradini

  • L'unità e la potenza  delle Nazioni
  • Torna un saggio del nazionalista Corradini
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
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  • Circa cento anni fa, nell’aprile del fatidico 1922, Enrico Corradini, teorico indiscusso del nazionalismo italiano, terminò la stesura della sua opera più importante, L’unità e la potenza delle nazioni, da poco nelle librerie in una nuova edizione per i tipi di Altaforte (pp. 268, euro 20,00). Il volume è arricchito da un saggio introduttivo di Corrado Soldato mirato, a contestualizzare storicamente Corradini, misconosciuto dalle giovani generazioni, ed è chiuso dalla postfazione di Valerio Benedetti, che ne attualizza i contenuti oltre che da alcune Appendici, tra le quali segnaliamo il discorso commemorativo che Mussolini tenne in Senato l’11 dicembre 1931, in occasione della morte del leader nazionalista.
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  • Il libro muove da una corretta e organica definizione del “nazionalismo”.  A tale obiettivo, del resto, l’autore aveva lavorato anche negli scritti pubblicati dapprima sul Regno e, più tardi, sulle pagine dell’Idea nazionale.  Corradini avrebbe voluto avere il medesimo peso teorico che in Francia avevano acquisito Barrès e Maurras: fornire punti di riferimento ideali ben definiti e spendibili politicamente, che concedessero al nazionalismo di uscire dall’ambito meramente letterario e estetico, entro il quale, fino ad allora, si era sviluppato. Lo scrittore toscano distingue in queste pagine, ante omnia, nazionalismo da patriottismo.  Lo fa attraverso l’evidente influenza esercitata su di lui dalla filosofia di Nietzsche. Un Nietzsche, come dirà Croce, dapprima “adottato” e poi “adattato” alle bisogna del nazionalismo.  La storia, per Corradini, è il luogo dell’incontro-scontro di “specie” diverse.  Queste manifestano una tendenza innata all’autoaffermazione, all’espansione della propria “energia vitale”, espressione che corrisponde, di fatto, alla volontà di potenza del teorico dell’eterno ritorno.
  • ...
  • Una nazione risulta propositiva a condizione di esprimere tale potenza.  Insomma, ricorda Soldato, il nazionalista ha una concezione agonale, polemologica della storia fondata sul vitalismo tragico: «In essa […] oltre all’idea della nazione che deve farsi impero, un ruolo centrale era riservato alla guerra» (p. 15), impostazione condivisa da gran parte dell’intellettualità italiana del periodo e sintonica a quanto sostenuto in tema da De Maistre e da Hegel.  A tutta prima, il nostro autore sembrerebbe riproporre una concezione “naturalistica” degli eventi umani, una visione addirittura segnata da riferimenti positivistici.  Da tale scacco lo salva il riferimento alla “persona spirituale” della nazione.  Egli rileva che la nazione è, prima di ogni altra cosa, la: «comunità spirituale di tutte le generazioni che si raccolgono sotto il suo nome» (p. 85), sottraendosi, in tal modo, a ogni “presentismo” materialistico e ricollegandosi al tradere, alla tradizione, quale filo aureo che tiene insieme i presenti ai passati e ai venturi di un popolo.  Nazione, pertanto, è “anima”, modalità di far esperienza della vita e del mondo che si distende, quale ponte, tra passato e futuro e che ha un “corpo” situato in uno spazio dato.
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  • In forza di tali premesse, non stupisce trovare nel volume una radicale critica del liberalismo, latore dei diritti di un uomo pensato atomisticamente e: «antagonista dello Stato» (p. 19), atto a metterne in discussione l’unità costitutiva.  Molti nazionalisti della prima ora, legati alla tradizione risorgimentale e al liberalismo dei “notabili”, ben presto lasciarono, per questo, le fila dell’Ani.  Nonostante ciò, Corradini guardò sempre allo Statuto albertino, interpretato in senso sonniniano, e alla monarchia sabauda, quali valori di riferimento della prassi politica nazionalista.  Egli si fece, inoltre, latore della “democrazia nazionale”, antitetica al parlamentarismo allora vigente, vera e propria “etnarchia” centrata sulla sovranità di una stirpe e: «della nazione come unità storica ed organica» (p. 22), che avrebbe dovuto organizzarsi quale “democrazia dei produttori” nello Stato corporativo.  Nel pagine del libro è possibile ravvisare le basi teoriche del “socialismo nazionale”.  Il nazionalismo non fu interprete degli interessi della borghesia, né condivise l’internazionalismo marxista ma ebbe, al contrario, l’ambizione di trasformare la lotta di classe in lotta tra nazioni.  L’Ani, è noto, confluì nel “grande fiume del fascismo” e a esso apportò un notevole contributo.  Corradini non ricoprì, durante il regime, alcun ruolo significativo, anzi espresse riserve sulla tendenza che il fascismo presto manifestò a trasformarsi in “bonapartismo”, in regime personalistico.
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  • Leggere oggi, L’unità e la potenza delle nazioni significa proiettarsi in una realtà storico-politica totalmente altra rispetto all’attuale.  Come ricorda Benedetti, la visione aperta e conflittuale della storia intuita da Corradini, trovò la propria versione magistrale e paradigmatica in Carl Schmitt.  Viviamo in una congerie politica di “acque basse”: pensare alla nazione in termini di potenza comporta il rischio della derisione e della emarginazione intellettuale.  Nonostante i conflitti in atto, è ancora ridondante l’eco diffusa dalla teoria della “fine della storia” e, del resto, l’esito dello scontro tra la visione unipolare del mondo e quella multipolare non è, al momento, chiara.  Le pagine di Corradini possono essere uno “squillo di tromba” atto a svegliare a un “Nuovo mattino”?  Il pessimismo della ragione induce chi scrive a essere scettico.  L’Italia resta, oggi più di ieri, nazione “da fare”, il Risorgimento, visto l’esito esiziale del Secondo conflitto mondiale, non è stato “riformato” neppure dal fascismo e la memoria storica condivisa è stata obliata dal trionfante post-moderno.
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  • Prima di esercitare una politica di potenza, gran cosa sarebbe rivitalizzare il minimo comun denominatore della nostra storia nazionale.

  • TEOLOGIA POLITICA E DIRITTO

  • Geminello Preterossi
  • Teologia politica e diritto
  • (Editori Laterza Bari 2012, pp. 295, € 25,00).
  • rec. di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • L’espressione “teologia politica” è polisensa. Di solito denota l’influenza della religione nell’ordinamento delle comunità umane; in altri casi la corrispondenza tra rappresentazione dell’ordine metafisico-teologico e quello politico; in altri quello della somiglianza tra concetti della teologia con quelli del diritto pubblico. Il tutto in un’epoca in cui la secolarizzazione appare compiuta, il cielo si è eclissato ed ha lasciato la terra, onde parlare di teologia politica sembra un’attività di archeologia culturale.
  • ...
  • L’autore ritiene invece che: “La tesi fondamentale di questo libro è che la teologia politica sia inestinguibile. Anche al tempo della sua negazione, qual è quello presente. L’obiettivo che ci proponiamo è di scavare dentro questa insuperabilità. Sia facendone la genealogia, in modo da illuminare il nucleo teologico-politico della modernità e la costante riemersione di domande di senso in ambito secolare. Sia evidenziando le forme rovesciate che la teologia politica assume nel contesto ideologico neoliberale, cioè come teologia economica e teologia giuridica”. Al posto della teologia politica appaiono quindi quelle economica e giuridica “Ma interpretare quella crisi come tramonto o scomparsa sarebbe ingenuo. Piuttosto, con la teologia economica e quella giuridica si assiste alla riproposizione in forme rovesciate, spesso ostili al primato del “politico”, dei problemi di legittimazione e delle esigenze ordinative che sono alla base del nucleo teologico-politico moderno e del suo lascito paradossale”.
  • ...
  • Per teologia economica (il termine è anch’esso polisenso) Preterossi intende in primo luogo “una proposta ermeneutica sul neoliberalismo che non si limiti a sottolinearne gli aspetti ideologici e le conseguenze sociali, ma individui in esso un paradigma di razionalità e di governo basato su altre logiche (e altri “assoluti”) rispetto alla costellazione di senso propria della trascendenza politica sovrana”: il tutto senza alcuna trascendenza (almeno apparentemente). Mentre con la formula “teologia giuridica” si intende sottolineare la tendenza alla moralizzazione della normativa giuridica”. Come la teologica economica è rivolta contro la sovranità degli Stati, ma, non è riuscita ad eliminare quello che Miglio chiamava “regolarità della politica” e, in un diverso discorso, Freund “i presupposti del politico”, e ancor meno le situazioni eccezionali. Che anzi si sono ripresentate in modi (la pandemia) e in teatri (la guerra in Europa) dove sembravano estinte. Segno che i quattro cavalieri dell’apocalisse non sono stati pensionati dalla “fine della storia”. L’inconveniente fondamentale del neo-liberalismo è di andare “in direzione di un modello di società che escluda qualsiasi dimensione di trascendimento simbolico del piano di immanenza… non solo non riesce più a fare ordine, ma per arginare illusoriamente tale ingovernabilità si finisce per revocare… tutti gli elementi costitutivi del “politico”, senza tuttavia la possibilità di istituzionalizzarli, renderli produttivi, travolgendo così anche la funzione della mediazione giuridica e sociale”. Guerra e stati d’eccezione (da anni nell’occidente globalista viviamo per lo più tra l’uno e l’altra) mostrano come “tutti i tentativi di aggirare o rimuovere la teologia politica ne subiscono la nemesi, pagando il prezzo della mancata assunzione delle sfide alle quali essa corrispondeva. Così che, in un quadro disarmante di inefficienza ordinativa, si finisce per replicarla surrettiziamente in forme compensative e politicamente inefficaci”. In effetti caratteristica della modernità “grazie a una serie di passaggi che siamo abituati a denominare “secolarizzazione”, (e che) la politica e la mediazione giuridica si sostituiscono alla religione come forza coesiva mondana. Ma non si tratta di una liberazione del religioso, cioè delle aspettative che in esso erano riposte. Quella sostituzione carica la politica della funzione simbolica istitutiva che era stata propria della religione”, e produttiva di coesione sociale perché esercita la funzione di mediare e decidere i conflitti. Per cui il riemergere del “politico” (e del teologico-politico) ai tempi dell’anti politica, ne prova l’insostituibilità.
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  • La stessa “teologia economica” neoliberale “ è una teologia politica “anti-politica” perché fa dell’immanenza un assoluto, Cioè una forma di trascendenza sacrale che nega se stessa. Infatti il neoliberalismo non è, se si guarda alla sua logica profonda, solo una teoria “economica”, ma una filosofia della spoliticizzazione dell’agire umano”. Analogamente la sua opposizione dialettica, ossia il “populismo”, non rinuncia al “fondo” teologico. Scrive l’autore che “”Ne deriva che o c’è dio o c’è il popolo: nelle società secolarizzate, è inevitabile che la fonte sia quest’ultimo. Il popolo prende il posto di dio come soggetto costituente. Il populismo, evocando il popolo, si ricollegata a questo passaggio decisivo della tradizione democratica moderna, che è un passaggio teologico-politico in senso schmittiano, quindi come sostituzione di una “trascendenza politica” moderna, emergente sul piano dell’immanenza a una trascendenza sacrale, in sé “trascendente””.
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  • Preterossi conclude sostenendo (cosa ormai evidente) che la “teologia economica” alla lunga, non ha funzionato: al deficit di eccedenza politica non ha sostituito alcun surplus ordinante “Ciò ha causato una profonda crisi di legittimazione”, né ha suscitato legami comunitari. La “teologia giuridica” neppure: la tesi dell’autore è che “la saldatura di un diritto sempre meno preoccupato dell’effettività e della certezza con la morale neoliberale sia non solo il segno di una generale crisi del “giuridico”, ma allo stesso tempo il tentativo, disperato e fallimentare, di individuare una sfera legale eticamente immunizzata, che compensi la perdita di auctoritas delle istituzioni e l’inaridimento della sfera pubblica”. La teologia politica è così inestinguibile “in quanto esprime la struttura di fondo della metafisica politica moderna… L’unico modo per tenerla sotto controllo è riconoscerla, non contrapporvisi direttamente, o negarla. Se, come credo, la modernità può essere concepita come una forma di “auto-trascendenza dell’immanenza”, ciò significa che la teologia politica è un movimento interno alla modernità secolare”. Non è necessario che il fondamento sia di natura religiosa “Può essere anche di natura etico-politica, ideale (nella modernità matura è stato prevalentemente tale). Ma il punto è che il “contenuto etico” non può risolversi in compensazione soggettivistica, moralistica del vuoto d’identità collettiva”. Così “La teologia politica si ripropone oggi nella forma del simulacro. Non produce risposte politiche, ma surrogati di verticalità e di sicurezza”.
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  • Resta il dubbio se vi siano forme di soggettività politica collocabili “oltre” la teologia politica, che l’autore ritiene auspicabili... “di visioni politiche ambiziose, che non temano di confrontarsi con le “cose ultime”, abbiamo bisogno. La politica come amministrazione va bene, forse, per tempi tranquilli. Non quando lo spirito torna a calzare gli stivali delle sette leghe”
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  • Un saggio assai interessante ed esauriente, nel solco pensiero di Hobbes, Hegel e Schmitt.  Una notazione del recensore ad un libro così articolato e del quale ho cercato di rendere l’essenziale.  È noto che a partire da de Bonald, continuando per Donoso Cortes e arrivando a Maurice Hauriou la correlazione tra concezioni teologiche e forme politiche (non solo statali) è stato variamente affermato. Così per de Bonald il deismo era la concezione teologica sottesa al costituzionalismo liberale (il re che regna ma non governa), il teismo cattolico allo Stato assoluto; per Donoso Cortes il nocciolo del liberalismo era sempre deista, quello del socialismo ateo. Per Maurice Hauriou lo stato borghese era uno dei possibili esiti della dottrina teologica del diritto divino provvidenziale, mentre lo Stato assoluto lo era del diritto divino soprannaturale; il decano di Tolosa riteneva anche come questo fosse un intervento (intervention) della metafisica sul diritto. Il quale ricopre come un guscio (couche) il fondo (fond) teologico, ma non può sfuggire a questa costante (o regolarità). La quale si manifesta chiaramente quando il diritto viene a mancare, come nel caso dei governi di fatto, fondati sulla “giustificazione teologica” e non sulla legalità delle procedure. Il fond teologico è così creatore di forme giuridiche. Resta da vedere quali forme possa creare il “pilota automatico” (versione tecnocratica della “mano invisibile”) tecno-globalista. Probabilmente nessuna (se coerente); ove apocrifo (e ipocrita) la consegna del destino delle comunità a poteri indiretti ed opachi. Colla prospettiva di avere un governo né visibile né responsabile.

  • SEMPRE PIÚ FITTA...
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Qualche lettore ricorderà che nei primi tempi della guerra in Ucraina notavo che la clausewitziana “nebbia della guerra” era particolarmente densa e fuorviante perché alimentata a piene mani da una comunicazione tutt’altro che imparziale, informata ed esperta: con risultati spesso sconcertanti, a cominciare dal piano logico.
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  • In occasione della controffensiva ucraina si è raggiunto un apice della (cattiva) informazione. Vediamo perché:
  1. a) in primo luogo della controffensiva sappiamo tutto leggendo il giornale o guardando la televisione: luogo (Dombass); entità delle forze ucraine (8 brigate in addestramento); tempo (imminente – ma rimandato già più volte nella sua imminenza perdurante); esiti politici (la caduta di Putin) e così via, vagamente precisando.
  • Ora la nebbia clausewitziana è frutto sia della natura della guerra che delle misure dei comandanti, tutte volte a non far capire al nemico i propri piani e obiettivi. Perché, a conoscerli, è facile prendere le contromisure. Non occorre aver fatto la scuola di guerra: basta ricordare l’Aida, quando Amonasro cerca di carpire, tramite la figlia, i piani di Radames. Nella storia militare vi sono poi dei casi clamorosi di “depistaggio” fornendo false (ma credibili) informazioni. Uno dei quali - così noto che ci è stato realizzato un film – consistente nel confondere i tedeschi sul luogo dove sarebbe avvenuto lo sbarco degli alleati nel 1944. I servizi inglesi lo prepararono così accuratamente da trarre in inganno – anche a sbarco avvenuto in Normandia – Hitler, convinto che ce ne sarebbe stato un secondo a Calais.
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  • La conseguenza logica non è solo che se uno dei contendenti ti dice che attaccherà a Charkiv invece che a Kiev, sicuramente non attaccherà Charkiv, probabilmente neppure Kiev, ma da un’altra parte, dove meno è atteso; ma anche che le informazioni più credibili sono quelle che non sono diffuse. I (falsi) piani dello sbarco in Francia furono messi dagli 007 inglesi sul cadavere di un ufficiale britannico fatto ritrovare agli spagnoli (e quindi dai tedeschi), e non pubblicati sul Times; se li avesse letti sul giornale, Hitler avrebbe creduto ad un espediente dell’Intelligence Service.
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  • C’è da chiedersi per quale ragione la comunicazione mainstream è così lontana da una rappresentazione credibile (e coerente) della situazione. Perché se le notizie fuorvianti sono fornite - come in gran parte sono – dagli uffici dei belligeranti (e dei loro alleati) sarebbe il caso di citarne la fonte (almeno) e, in certi casi di scrivere due righe di commento. Cosa che qualche rara volta avviene, ma quasi sempre no. Escluso che tali mezzi possano trarre in inganno il nemico, per la loro disarmante ingenuità, occorre individuare altri obiettivi.
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  • Un analista attento come Pietro Baroni definisce la “guerra psicologica” come “L’insieme delle operazioni, delle azioni, delle iniziative tendenti a conseguire l’obiettivo di assumere e mantenere il controllo di grandi strati di masse e di pilotarne le opinioni, i giudizi e le conseguenti manifestazioni, agendo sulla ricettività istintiva, sull’emotività e sul processo formativo delle valutazioni”. Nel caso gli obiettivi non sono Putin o Zelensky, ma l’opinione pubblica, occidentale soprattutto. Dalla quale occorre far approvare le misure a favore dell’Ucraina, in modo da attenuare l’onere dei sacrifici e dei rischi che comportano. A tal fine è necessario rappresentare la situazione bellica in modo conforme agli scopi da raggiungere.
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  • E il divario tra ciò che è e ciò che si rappresenta è l’inganno e la simulazione occorrente.

  • Crimini monetari
  • Galloni

  • Crimini monetari ed economia circolare
  • Due studi di
  • Alexander Del Mar e di Antonino Galloni
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
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  • Due pubblicazioni, apparse di recente in libreria, riportano l’attenzione su tematiche economiche di stringente attualità, il “denaro equo” e la necessità di superare il capitalismo in un’economia di tipo circolare.  Il primo tema è ampiamente discusso nel volume di Alexander Del Mar, Storia dei crimini monetari, edito da Mimesis per la cura di Luca Gallesi (per ordini: 02/21100089, mimesis@mimesisedizioni.it, pp.134, euro 12,00).  Il secondo è pietra angolare delle riflessioni che Antonino Galloni, economista allievo di Federico Caffè, sviluppa in, I nuovi Spartani. Superamento del capitalismo, moneta non a debito, economia circolare, pubblicato da Oaks (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 223, euro 18,00), con introduzione di Giacomo Maria Prati.   Partiamo dal primo volume.
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  • Come ricorda il curatore nell’ampia ed esaustiva introduzione, Alexander Del Mar, ingegnere minerario nato a New York nel 1836, si formò accademicamente in Gran Bretagna e successivamente a Madrid.  Seppe tessere una serie di relazioni con il mondo editoriale statunitense che, al suo ritorno in patria, gli permisero di fondare un prestigioso periodico di studi economici, The New York Social Science Review.  Ricoprì importanti incarichi governativi: rappresentò il proprio paese al Congresso internazionale di Torino del 1866 e, successivamente, al Congresso internazionale di Statistica tenutosi a San Pietroburgo.  Fu un economista “eretico” e pertanto, le sue tesi furono accettate tardivamente dall’accademia “economicamente corretta”, in particolare per quanto attiene alle politiche monetarie.  La sua produzione libraria, davvero sterminata, ha nutrito comunque il mondo ideale di esponenti di primo piano della cultura, tra essi, il poeta, altrettanto “eretico” in ambito economico-politico, Ezra Pound.
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  • Del Mar non condivise l’idea, tipicamente liberista, del denaro: «il cui valore, determinato dalla quantità di metallo prezioso di cui era costituito, doveva […] essere messo in relazione con il meccanismo di domanda-offerta», ricorda Gallesi (p. 8).  Tesi errata, perché non tiene in debito conto che il denaro ha, certo, valore in sé, ma determina il valore delle altre merci.  Inoltre, dopo l’introduzione della moneta cartacea, per non dire di quella elettronica: «non si sarebbe più potuto attribuire al denaro un valore intrinseco» (p. 9).  Del Mar è fermamente convinto che solo all’autorità politica spetti il compito di stabilire il valore della moneta e di garantirne la circolazione.  Tale posizione emerge, con tutta evidenza, nel libro di cui discutiamo.  Le argomentazioni dello studioso prendono avvio dalla presentazione della figura di Barbara Villiers, amante di Carlo II, re chiamato a restaurare la monarchia inglese dopo la repubblica di Cromwell.  Alla donna, il sovrano concesse di usufruire delle rendite del signoraggio: da lei i nuovi potenti, orafi e banchieri, ottennero il privilegio dell’emissione di denaro che, fino ad allora, era stata prerogativa della corona.
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  • L’economista presenta la lunga e terribile storia dei “crimini monetari” dovuti alla privatizzazione della facoltà di coniare moneta.  Pound riteneva che momento dirimente lungo tale strada fosse da individuarsi nella fondazione della Banca d’Inghilterra (1694), Del Mar, lo si è visto, lo rintraccia negli anni a cavallo tra Cromwell e la restaurazione monarchica.  Con Storia dei crimini monetari, Del Mar contribuì a fornire una base teorica al movimento politico populista statunitense.  Del resto, alle origini della rivolta anti inglese dei cittadini delle colonie americane al termine del Settecento, vi fu la protesta contro l’imposizione alla Pennsylvania di non stampare la propria carta moneta.  La lotta politica per una “moneta equa” ebbe un momento di impasse con il “Crimine del 1873”, vale a dire con l’introduzione della: «legge che sospende (sospese) ufficialmente la coniazione del dollaro d’argento» (p. 14).  In seguito, durante la crisi che investì gli USA nel 1893, si capì quale fosse ormai la situazione in quel paese: «Da un lato stanno gli interessi […] del denaro, della ricchezza concentrata e del capitale arrogante e spietato […] dall’altro le moltitudini», parole del candidato alla Presidenza Bryan.  Tale contesto da allora non è cambiato, al contrario è divenuto il paradigma sul quale è stato costruito il mondo occidentale!  Il libro di Del Mar fornisce strumenti per comprendere il presente e pensare a un futuro alternativo, in cui l’elemento Lavoro dovrà finalmente prevalere sul dominio indiscusso dell’Oro.
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  • Prospettiva non dissimile anima le pagine de, I nuovi Spartani di Galloni, studioso che, dell’economia “eretica”, è oggi uno dei massimi interpreti.  L’autore traccia, nella prima parte del volume, una mappatura delle cause che, a partire dagli anni Venti del secolo scorso, hanno messo in atto una progressiva trasformazione del capitalismo. Si sofferma, in particolare, su quanto accaduto in ambito economico-produttivo, a muovere dagli anni Quaranta ai Settanta.  Rintraccia nei processi metamorfici che hanno portato all’affermazione del capitalismo cognitivo, un dato inequivocabile: «i contorni di una prospettiva non più eludibile che riguarda il superamento del capitalismo» (p. 15).  Si intrattiene, in questa prospettiva, sul ruolo svolto dagli ecologismi “sistemici” nel reset mondiale in atto, per passare ad occuparsi, nella seconda parte del libro, di temi quali l’inflazione, il debito pubblico e privato e lo squilibrio economico indotto da tali fattori. Infine, nella terza parte del saggio, si interroga attorno a un possibile modello economico alternativo, essenzialmente centrato sulla circolarità.
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  • Come riconosce Prati nell’introduzione: «La prima “sostenibilità”, ci insegna il nostro autore, è data da un’economia che non sia solo fondata sul valore del guadagno facile […] e sull’idea di una finanza/denaro fine a sé stesso, artificiale, alienato, alienante» (p. 13).  Ciò spiega il riferimento a Sparta.  Nella città greca la moneta era costituita da semplici pezzi di ferro: «perché il denaro non divenisse troppo importante […] perché si riducesse il rischio di una sua accumulazione patologica» (p. 11).  La moneta doveva avere esclusiva circolarità sociale, comunitaria, irrorare la città come il sangue il corpo e, per questo, la coniazione era prerogativa dello Stato, politica.  Sparta fu uno Stato-Comunità centrato sull’educazione, in cui anche le donne avevano un ruolo significativo.  Gli Spartani sapevano che l’economia è espressione di una Cultura, di una visione del mondo e, proprio per questo, avevano contezza che: «L’economia non può fondarsi sull’economia» (p. 13).   Pagine di grande attualità, da meditare.

  • Steiner

  • Steiner e la Massoneria
  • La Mystica Aeterna
  • in un saggio di
  • Fabrizio Fiorini
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • Rudolf Steiner è personaggio di rilievo dell’esoterismo primo novecentesco, ma la rilevanza della sua opera va ben oltre i confini dell’occultismo. Il padre dell’antroposofia è teorico della filosofia della libertà, i cui assunti meriterebbero una seria valutazione anche in ambito filosofico. Un recente volume di Fabrizio Fiorini, comparso nel catalogo di Mimesis con presentazione di Claudio Bonvecchio, riporta l’attenzione sull’austriaco (anche se nato in una cittadina che oggi si trova in Croazia). Ci riferiamo a, Rudolf Steiner e la Massoneria. La Mystica Aeterna (per ordini: mimesis@mimesisedizioni.it, pp. 326, euro 26,00). Il libro nel primo capitolo presenta una ricostruzione, organica, documentata e appassionata della personalità spirituale e intellettuale del “Maestro dei Nuovi Tempi”, come ebbe a definirlo Scaligero. Egli, precisa Fiorini: «ha vissuto da uomo […] si è laureato, ha divorziato, si è risposato. Fiutava e masticava tabacco e all’occorrenza non disdegnava la buona tavola» (p. 25). Lontano da eccessi di qualsivoglia natura, non avrebbe di certo apprezzato atteggiamenti idolatrici nei suoi confronti, propri di sedicenti discepoli, né, tantomeno, la sua “divinizzazione”.
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  • Dalla lettura del testo si evince che Steiner, pur provenendo dalla Società Teosofica, della quale aveva apprezzato la funzione di mediazione spirituale tra Oriente ed Occidente, era raffinato e profondo conoscitore della Philosophia perennis, acuto interprete della mistica sveva, dell’alchimia e, soprattutto, del rosicrucianesimo. Una volta compresi i limiti, teorici e realizzativi, del teosofismo, diede vita all’Antroposofia. La sua filosofia della libertà, memore degli insegnamenti di Fichte e di Goethe, suggerisce una via atta a svincolare il pensiero dai condizionamenti sensibili, al fine di realizzare una Scienza che, proprio come la filosofia della natura di Goethe, della quale l’austriaco realizzò una significativa esegesi, fosse in grado di cogliere la coincidentia oppositorum. Lungo tale itinerario egli comprese che la dimensione noumenica e quella fenomenica si danno in uno, nella natura intesa quale “scrittura divina”. Ricorda Bonvecchio che l’experimentum crucis, per chi si ponga sulla Via, deve essere individuato nel superamento della “soglia” conoscitiva centrata, in primis, sulla distinzione di soggetto e oggetto e, in seconda battuta, di uomo e divino. Attraverso la pubblicazione di una serie di conferenze di Steiner, tradotte da Mark Willan e tratte dal volume n. 93 dell’Opera Omnia, alcune inedite in italiano, Fiorini chiarisce, una volta per tutte, l’appartenenza del pensatore austriaco alla Massoneria.
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  • Tale appartenenza fu ammessa dallo stesso esoterista nell’autobiografia e nell’Opera omnia n. 265. Steiner, di fatto, guardava con estremo interesse alla Massoneria “operativa”, non a quella divenuta in età moderna meramente “speculativa”. Per questa ragione, fu sempre diffidente nei confronti della Libera Muratoria anglosassone, creando il “Servizio di Misraim”, detto Mystica Aeterna, all’interno della Massoneria Egizia, Ordine di Memphis e Misraim, di cui era a capo John Yarker, Ordine in Germania retto da Theodore Reuss. La Mystica Aeterna si rese totalmente indipendente da tali organizzazioni a partire dal 1914. Essa sopravvisse a Steiner, grazie alla sagace azione del suo fedele discepolo Alexander von Bernus, noto medico “spagirico”, animato da spirito filantropico. La Mystica restò sempre separata dalla Società Antroposofica, della quale lo stesso von Bernus, per suggerimento di Steiner, non entrò a far parte. A dire dell’antroposofo, l’Ordine di Misraim aveva preservato rilevanti segreti iniziatici, in quanto la Massoneria Egizia era stata fondata dal principe di Sansevero, Raimondo di Sangro. Questi fu, a sua volta, iniziato dal conte di Saint-Germain, connesso con entità indicate con l’appellativo Hiram Abiff. Tale entità, nel 1910, a dire di Steiner, era incarnata in un corpo fisico! Per questo, egli: «desiderava immettere nell’Istituzione Massonica dei germi rivitalizzanti che ne promuovessero uno sviluppo essenzialmente in senso spirituale e trascendente» (p. 24), cosa già tentata, a suo tempo, da Cagliostro. Steiner invitava a studiare la spiritualità egizia, in quanto: «l’attuale periodo di civiltà […] sarebbe una sorta di ripetizione del III periodo post-atlantico (egizio-caldaico-babilonese)» (p. 26).
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  • Massoneria e Antroposofia, per Fiorini sono Sistemi sinergici e: «convergenti verso un unico punto: l’elevazione intellettuale, morale e spirituale dell’essere umano e l’Una può potenziare l’Altra» (p. 27). Alla Mystrica Aeterna furono ammesse anche le donne e ciò in forza del fatto che la Libera Muratoria cui guardava Steiner era Rosicruciana, atta a realizzare la: «la riunificazione tra impulso abelita-sacerdotale-femminile e impulso cainita-scientifico-maschile […] armonica fusione dei tre pilastri della Saggezza […] Bellezza […] e Forza» (p. 82). Per tali motivazioni, un esoterista e scrittore di vaglia quale Gustav Meyrink si avvicinò alla Mystica aeterna. Al contrario, essa non ebbe nulla a che fare con la magia sexualis di Aleister Crowley. Tale sodalizio iniziatico è articolato: «in nove gradi consecutivi dove la conoscenza superiore viene progressivamente trasmessa» (p. 92). I primi tre gradi fanno realizzare all’adepto la conoscenza immaginativa. I gradi 4,5,6 mettono in atto il conoscere “ispirativo”, mentre gli ultimi tre consentono il pieno sviluppo della coscienza intuitiva. L’autore, inoltre, fa rilevare i nessi che legherebbero in uno la Massoneria, il Martinismo e l’Antroposofia, mentre si sofferma su alcuni dei momenti più rilevanti del proprio iter spirituale, tra gli altri il rapporto diretto con Massimo Scaligero. Da Scaligero, nato a Veroli come l’autore del volume, questi ha appreso l’importanza della pratica e della Concentrazione.
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  • In una prima fase, racconta, è necessario prendere coscienza del respiro: ciò induce un generale rilassamento. Successivamente, ci si concentra su oggetti, non sensibilmente rappresentati, ma evocati immaginalmente, così da allontanare qualsiasi altro pensiero. In terza battuta, si evoca la Forza-Pensiero, il pensiero nell’atto che precede la sua definizione, accompagnato da fermezza interiore. Solo con la quarta fase si giunge al silenzio mentale, simbolo del silenzio dell’origine. In queste pagine, Fiorini chiarisce la missione di Steiner.
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  • A chi scrive non è possibile condividere in toto ciò che l’antroposofo ha sostenuto: diversi sono i nostri riferimenti culturali e spirituali.  Per noi è la misteriosofia ellenica a rappresentare il paradigma cui rivolgersi. Pensiamo che la libertà-potenza sia principio-infondato della physis, come sapeva l’Evola idealista magico. Nonostante ciò, Rudolf Steiner e la Massoneria, è libro da leggere, lo consigliamo vivamente.

  • Susanetti

  • L’altrove della tragedia greca
  • Un saggio del grecista
  • Davide Susanetti
  • rec.di
  • Giovanni Sessa
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  • È nelle librerie un nuovo saggio di Davide Susanetti, grecista dell’Università di Padova, nel quale lo studioso si interroga sulla “inattuale attualità” della tragedia attica. Ci riferiamo al volume, L’altrove della tragedia greca. Scene, parole e immagini, edito da Carocci (pp. 187, euro 20). Non si tratta della consueta ricostruzione storico-erudita del teatro tragico: «quanto […] dell’incontro meditante con una serie di immagini e di parole che dalle scene tragiche risuonano» (p. 10) e la cui eco dissonante giunge fino a noi.
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  • Susanetti introduce il lettore agli snodi più rilevanti che il teatro, per antonomasia “gioco di Dioniso”, ha prodotto in Grecia. Si sofferma, tra gli altri, sui temi dell’identità, del dolore, della polis, del corpo, del maschile e femminile, della tradizione. La lettura del testo è coinvolgente e godibile per la fluidità della prosa, che ben corrisponde al metamorfismo dionisiaco messo in scena dal tragico. L’incipit del volume ci conduce sul proscenio delle Baccanti di Euripide, da cui emerge prepotente la figura di Penteo, re di Tebe. In città è giunto Dioniso: le donne lo hanno seguito sul monte, inebriate da tale conturbante presenza.
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  • Il re ordina la cattura del dio, che viene così condotto a palazzo. Alle parole di Dioniso che destabilizzano il falso sapere e le certezze apodittiche di Penteo, questi non sa rispondere se non ribadendo, con orgoglio, la propria identità e i propri nobili natali. Dioniso sorprende: improvvisamente scuote la reggia con un movimento sismico. Il re perde il controllo, diviene, in qualche modo, servo del dio che conduce il gioco, mirato a mostrare l’inanità di qualsivoglia identità. Egli spinge Penteo su: «un cammino in cui, passo dopo passo, ogni attributo di quella così convinta identità […] va(nno) in frantumi, trasformandosi nel loro esatto opposto» (p. 13). Da uomo d’ordine, egli si trasforma in baccante sfrenata e viene, infine, sbranato da sue consimili, tra cui la madre. Il suo corpo é fatto a pezzi. Solo in quel momento, Penteo prende coscienza del senso profondo del proprio nome, la cui etimologia rinvia al “dolore”. La frase sferzante del dio indica la condizione in cui giace il suo deuteragonista: «Non sai quel che stai vivendo, non sai che cosa vedi, non sai nemmeno chi sei» (p. 15). La potestas divina mette in discussione le distinzioni fallaci prodotte dall’approccio meramente concettuale al reale, le indicazioni epistemiche del lógos e tutte le opinioni e le scelte che da tale identità discendono: indica, nella tragedia - lo aveva intuito Nietzsche - un “oltre” del quale i più non hanno contezza, un’“unità essenziale” (Ur-eine) della physis, che si dice nel molteplice.
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  • Dalla rappresentazione tragica si evince che Dioniso scioglie i legami, le identità falsamente ossificate, rinnovando lo sguardo sul mondo. La catarsi tragica è: «purificazione dalla pervicace ostinazione del sé che è propria di ciascuno» (p. 18). Nella tragedia, nota Susanetti, la discesa agli Inferi, a differenza di quanto avviene nei Misteri, non trasmuta in vita nova. Il dire tragico è attraversamento del dolore, che suggerisce allo spettatore, anche contemporaneo, l’:«eccedenza di un altrove che resta da completare e da percorrere» (p. 19). L’eccedenza indicata nel Coro degli Anziani di Argo dell’Agamennone di Eschilo, che fanno appello alla Sapienza che, stante la lezione di Eraclito: «accetta e insieme ricusa di avvolgersi in un singolo nome. Unità di tutti gli opposti […] è tó sophón: principio di tutte le determinazioni, ognuna delle quali rinvia a esso e lo nomina, senza coincidervi» (p. 27). La tragedia è trascrizione scenica della prima locuzione di Anassimandro e del tratto polemologico del reale, letto quale somma di “determinati”: «ciascuna cosa si afferma esercitando il proprio diritto di essere contro il diritto di un’altra […] da cui deriva nel contrasto reciproca “ingiustizia” di cui devono pagare il fio» (p. 30). È necessario, di contro, non pensarsi indipendenti dal tutto, non chiudersi nell’eracliteo “pensiero privato”, ma propiziare in sé l’intuizione dell’Uno-Tutto, di cui gli enti sono “espressione” (per usare un vocabolo di conio colliano).
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  • Le Supplici di Eschilo ci pongono, ricorda l’autore, di fronte al tema della “possibile” salvezza. Il dubbio che coglie il re Pelasgo, relativamente alla richiesta delle cinquanta figlie di Danao di essere salvate dai loro persecutori, è risolto facendo ricorso a peithó (persuasione) e túche (sorte): «le uniche due risorse cui affidarsi, non per trovare salvezza, ma per essere uniti e concordi in ciò che si deve fare» (p. 40). È la dimensione comunitaria, politica a emergere, grazie alla scoperta della: «Memoria comune che tange un tempo assoluto al di là delle differenze che si colgono nel presente» (p. 35). Ci si riferisce, in questo caso, alle vicende del mito fondante di Io, che accomuna le Danaidi agli Argivi. In conclusione: «È la giustizia di Zeus che veglia sui supplici, è la giustizia della città che si schiera per essi e per il dio» (p. 41). Medesima situazione è da leggersi nel legame che stringe in uno le Coefore e le Eumenidi di Eschilo. Attraverso la narrazione delle tragiche vicende di Oreste, le due opere eschilee chiariscono come la pólis, al fine di tutelare la “misura” olimpico-apollinea, debba reintegrare tó deinón, il terribile, l’ombra del mito, simbolizzato dalla potenza delle Erinni. La tragedia mette in atto una: «riconfigurazione in cui il passato viene accolto e conservato al fondo del presente […] il che corrisponde […] all’idea stessa di tradizione» (p. 51).
  •  ...
  • Nelle Troiane di Euripide, a rivestire un ruolo di primo piano, è il corpo di Ecuba. Un corpo umiliato, offeso, catatonico, simbolo dell’umiliazione della città di Priamo. Il dolore silenzia il corpo: «La tragedia consiste […] in questo movimento opposto che sospende l’elisione mortale della parola, che coglie l’umano appena prima che precipiti nella condizione di […] “cosa muta”» (p. 92). Il corpo diviene pura phoné, voce del dolore puro che assurge alla dimensione del canto. Un corpo-voce privo di lógos, che accompagna ritmicamente il dimenarsi delle membra sferzate dal dolore. Non c’è misura, né speranza di gloria futura come nell’épos omerico, ma testimonianza di “vita nuda”: «Poesia dei corpi devastati dalla sventura. Poesia che trasfigura la pena e insieme ricorda quella soglia dell’“invisibile” cui il mortale è destinato» (p. 99).
  • ...
  • Di fronte a ciò, Susanetti nota che l’Ellade lesse psuché non solo come “vita”, ma anche come “anima”(orfici e pitagorici): «che trasmigra da un’esistenza all’altra […] la fine è solo un passaggio» (p. 165). Ciò dovrebbe indurre un certo distacco dalla dimensione “pesante”, meramente “cosale” dell’ex-sistere, del nostro “stare-fuori”: dovremmo sentire quell’éleos, quella pietas, di cui si fa esperienza durante le rappresentazioni del teatro tragico, posti al cospetto degli eventi in cui gli eroi sono coinvolti. La stessa condizione interiore che, a dire di Platone (mito di Er), provò Odisseo al momento della scelta della vita “giusta”.
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  • Queste alcune delle questioni che Susanetti “ri-corda” in merito al tragico. Gliene siamo grati.

  • Locch

  • “L’essenza del fascismo”
  • Un saggio di
  • Giorgio Locchi
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • Nell’area culturale non-conforme italiana si sta risvegliando un certo interesse per Giorgio Locchi. La cosa, per chi scrive, è positiva. Locchi è pensatore di tutto rispetto, originale, nel senso che egli, in ogni sua opera, presenta la possibilità di recuperare l’origine, in quanto su di essa siamo, in ogni tempo, esposti. Non è poco, soprattutto per un ambiente abituato, dal secondo dopoguerra, a vivere di rimpianti e/o a definire il proprio immaginario su alcune figure di riferimento, il più delle volte, lette in termini idolatrici e scolastico-ripetitivi. Segnaliamo, all’interno di questa renaissance locchiana, la recente pubblicazione di, L’essenza del fascismo per i tipi di Altaforte edizioni (pp. 125, euro 15,00). Il volume, curato da Adriano Scianca, è testo composito: comprende lo scritto, Riflessione storica sul fascismo, uscito in prima edizione nel 1981, un’intervista rilasciata poco dopo a Marco Tarchi per meglio definire i concetti espressi nel saggio, la prefazione di Locchi a, I fascismi sconosciuti di Maurice Bardèche, uno scritto di Philippe Baillet, oltre alla postfazione del curatore.
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  • Una delle ragioni dell’interesse del volume va rintracciata nel fatto che, fin dall’incipit di queste pagine, Locchi individua, quale principale obiettivo polemico, la nuova storiografia del fascismo che, sotto la guida di Renzo De Felice, si affermava nei primi anni Settanta del secolo scorso. L’autore ritiene che l’approccio critico-accademico defeliciano, attento ai dettagli della storia dei movimenti fascisti, accolta come “liberatoria” a destra, in realtà perdeva di vista il tratto essenziale connotante, sia sotto il profilo spirituale che politico, tali movimenti. Scianca ricorda, inoltre, che Locchi imputava a De Felice di non aver individuato il tratto europeo del fascismo, finendo con il depotenziare e relegare definitivamente al passato, tale esperimento politico. In una parola, De Felice avrebbe realizzato la “spoliticizzazione” del fascismo, presentandolo quale fenomeno di un’epoca storica irripetibile. Al contrario, storici ideologicamente avversi a tale ideale politico, quali Lukács e Viereck: «hanno […] il grande merito di aver messo in risalto l’origine prima, la “matrice” del fenomeno fascista» (p. 9), pur criticandola apertamente e derubricandola, sic et simpliciter, all’irrazionalismo filosofico. Anche la storiografia tradizionalista, del resto, esempio tipico è offerto per Locchi dalle opere di Evola in tema, discriminando tra aspetti positivi e negativi del fascismo, avrebbe concluso con il: «restringere a se stessa la definizione del fascismo “valido”» (p. 10).
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  • Tra le poche eccezioni, va annoverato Adriano Romualdi. Questi, sia pur in modo frammentario, a causa della sua prematura scomparsa, mise: «in luce la “conclusione indoeuropea” di quel che […] è il tipico “ripiego-sulle-origini-progetto-d’avvenire” di tutti i movimenti fascisti» (p. 11). Pertanto, il movimento storico in questione è la prima manifestazione, probabilmente “prematura”, di un fenomeno culturale e spirituale, manifestatosi in termini di “risorgenza anti egualitaria”, sinteticamente definibile “sovrumanismo”, apparso in Europa nella seconda metà del XIX secolo, che ebbe, quali tedofori, Nietzsche e Wagner. Più in particolare, il “sovrumanismo” si mostrò quale rigetto radicale dell’opposto principio egualitaristico, pienamente incarnato, dapprima dal cristianesimo e, successivamente, da ogni forma di democratismo, liberalismo, socialismo ecc. Le differenze presenti nei fascismi europei, indicano, a dire di Locchi, i diversi “gradi di coscienza” che essi ebbero dell’ideale sovrumanista. Per Wagner, il cristianesimo delle origini, avrebbe rappresentato una metamorfosi dell’originario “paganesimo”, ma tale messaggio sarebbe stato deviato dalle influenze esercitate sul cristianesimo dal giudaismo. I fascismi furono, pertanto, “rivoluzionari” nel senso etimologico del termine, proposero un mito: «Mito si ha quando un “principio” storicamente nuovo sorge in seno ad un ambiente sociale […] tutto informato e conformato da un principio opposto» (p. 16). Stessa situazione visse il cristianesimo delle origini nei confronti del mondo classico. La sostanza dei movimenti epocali è sempre “sentita”, da chi è formato da valori opposti, in termini di irrazionalità.
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  • Il fascismo ha attecchito come richiamo in chi era connotato da una coscienza egualitarista “debole”. Il crollo dei regimi fascisti, che non ebbero l’opportunità storica, in quanto “prematuri”, di esplicare tutte le loro potenzialità, ha indotto la parte egualitarista a tentare di realizzare un’ultima sintesi, la fine della storia.
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  • Locchi, sostenitore di una visione aperta e tragica del tempo, ritiene improbabile questa definitiva chiusura, in quanto essa implicherebbe, oltre ogni concezione deterministica, una sua “condivisione” valoriale da parte di tutti gli uomini. L’egualitarismo, pertanto, nel secondo dopoguerra, vide nel fascista il “nemico” per antonomasia e concesse al fascismo una vita in negativo, catacombale e marginale. Tale posizione indusse Locchi a criticare ogni forma di entrismo sistemico, compresa la via delle nuove sintesi indicata dalla “Nuova Destra”, con la quale, per un certo periodo, collaborò. Non è casuale che Tarchi ricordi, nell’introduzione che accompagna la sua intervista al pensatore italiano, che le sue domande furono “modificate” da Locchi: «ebbi la sorpresa di vedere che pressoché ogni domanda era stata riformulata dal destinatario, qualcuna era stata eliminata, altre aggiunte […] le divergenze su più aspetti dell’interpretazione del fascismo tra Locchi e me sono rimaste intatte […] e forse si sono accentuate» (pp.30-31).
  • ...
  • Stimiamo molto Locchi, probabilmente in questo libro non ha tenuto conto della lezione schmittiana che dice la storia, ogni evento storico, essere caratterizzato dal tratto dell’unicità. In particolare, non condividiamo la sua lettura del nazionalsocialismo, quale movimento che tradusse in pratica le idealità rivoluzionario-conservatrici. Al contrario, il nazismo, a nostro giudizio, in quanto regime monocratico, le tradì, contribuendo a realizzare il Gestell, l’impianto della tecno-scienza. A differenza di Baillet, pensiamo che Klages visse realmente ai margini, isolato dal regime. Certo, oggi è impossibile non tener conto del domino della Tecnica al fine della formulazione di qualsivoglia progetto politico ma, altresì, crediamo che l’approccio esclusivamente prometeico debba essere integrato da quello orfico. Solo a queste condizioni sarà possibile re-incontrare la physis, luogo della scaturigine e dell’origine, unica reale trascendenza che ci sovrasta, come sapevano i Greci, ben oltre le tragedie della storia.
  • ...
  • Questo libro nonostante ciò, è testo rilevante, da leggere e da discutere.

  • SENTIMENTO E INDIFFERENZA POLITICA
  • di 
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Malgrado il bombardamento anti-russo della comunicazione mainstream, non sembra, dai sondaggi ripetuti, che sia stata scalfita la maggioranza neutralista nell’opinione pubblica soprattutto, si legge, in Italia e in Romania; altrove, in Europa, tranne in quella orientale (e si capisce il perché) favorevoli e contrari si distribuiscono in blocchi pressoché uguali sull’aiuto all’Ucraina.
  • ...
  • Dopo un simile spiegamento di mezzi, i risultati paiono modesti. Soprattutto in relazione all’argomento forte e più ripetuto, che si adagia sulle comprensibili aspirazioni degli europei, i quali dopo i due macelli collettivi del XX secolo, di aggressioni, guerre, ed aggressori non vogliono sentir neanche parlare.  Per cui appare facile demonizzare l’aggressore come turbatore della pace, e la resistenza allo stesso come justa causa.   Quale può essere il perché della tepidezza di buona parte dell’opinione pubblica? Le cause possono essere tante, ma ritengo che le principali siano:
  1. a) il timore di un’estensione (fino al coinvolgimento diretto) nella guerra;
  2. b) il non comprendere (perché non spiegato) quale possa essere l’interesse nazionale ad un esteso aiuto ad uno dei belligeranti;
  3. c) che la Russia, anche se aggressore, non ha tutti i torti (scontri nel Donbass, accordi di Minsk).
  • Quanto al timore dell’escalation, è bene tenerne conto, perché come sosteneva Clausewitz, è nella natura della guerra l’ascensione agli estremi. Tuttavia a rendere tale ipotesi poco verosimile è proprio il secondo elemento: la mancanza di un interesse nazionale, sia della Russia che dei popoli europei ad aggredirsi. Anzi tutto l’interesse è quello di convivere e commerciare pacificamente, per la complementarietà economica delle due aree. Relativamente al terzo aspetto è chiaro che la dissoluzione dell’Unione sovietica in Stati nazionali, le cui frontiere non coincidevano con l’omogeneità etnica, di guerre ne ha generate tante, sia nella superpotenza che nella Jugoslavia.
  • ...
  • Basti ricordare per la prima: Georgia, Ossezia, Cecenia, Abkhazia, Nagorni-Karabach (salvo altri). Per cui la sussistenza, anche da parte dell’aggressore russo di una justa causa belli non è esclusa. Con la conseguenza che, contrariamente all’evoluzione del diritto internazionale nel XX secolo, la guerra, nel sistema westfaliano, è “giusta” da entrambe le parti.   Per cui che il sentimento ostile nei confronti dell’aggressore sia così tiepido a dispetto di tutti gli sforzi per suscitarlo e ravvivarlo non meraviglia.
  • ...
  • Si aggiunge per l’Italia la storia degli ultimi secoli; di guerre l’Italia (prima il Regno di Sardegna) alla Russia ne ha mosse tre. La guerra di Crimea, l’intervento nella guerra civile del 1918-1921, il fiancheggiamento della Germania nell’operazione Barbarossa. Di converso l’unica volta che un esercito russo si è visto in Italia è nel 1799. Ma i russi, peraltro alleati di Stati italiani occupati dalla Francia, se ne andarono senza pretendere di tornare.   Gli è che né i russi hanno alcun interesse ad occupare l’Italia, né gli italiani la Russia. Si è cercato di compensare questa evidenza storica e politica col dipingere Putin come il diavolo guerrafondaio, affetto da aggressività compulsiva, emulo nel XXI secolo di Hitler. Ipotesi ancora più inverosimile dell’altra: vediamo perché.
  • ...
  • É costante della Russia estendere la propria influenza a sud, in particolare intorno al Mar Nero.   Malgrado tutti gli sforzi dei professionisti dell’informazione per additare Putin come pazzo e/o malato, il Presidente russo non ha fatto altro che ripetere la politica dei suoi predecessori, da Ivan il Terribile a Pietro il Grande, da Caterina la Grande a Nicola I.  Il che rendeva assai prevedibili sia le intenzioni che il comportamento dello stesso. Ciò nonostante non è stato previsto il probabile, e neppure adottati comportamenti idonei ad evitare che una situazione, da anni esplosiva, degenerasse in guerra.   Quando poi questa è scoppiata, non c’è stato altro da fare che cercare di coprire il tutto con la demonizzazione dell’aggressore, come mezzo per incrementare il sentimento popolare, improntato ad una paurosa indifferenza.
  • ...
  • Scrive Clausewitz nel Von Kriege a proposito del sentimento politico, cioè l’odio e l’inimicizia verso il nemico che questo è “da considerarsi come un cieco istinto” e corrisponde al popolo; e che “Le passioni che nella guerra saranno messe in gioco debbono già esistere nelle nazioni”. Sicuramente in Polonia e in Ungheria, tenuto conto della storia le suddette passioni non mancano. Ma in Europa occidentale? Solo la Germania ha condotto nella storia e per geopolitica diverse guerre con la Russia, alternate a periodi di amicizia (spesso a scapito dei popoli che stavano “in mezzo”).
  • ...
  • Ma Francia, Spagna, Italia (e non solo) non hanno né ragioni politiche e geo-politiche né una storia che identificasse nei russi il nemico principale e reale.    Per cui non restava che affidarsi alla propaganda, confermando, con lo scarso risultato, l’affermazione di Clausewitz.

 

  • LO SPETTRO DELLA STAGFLAZIONE GLOBALE SU DI NOI
  • di
  • Vittorio de Pedys,
  • (dicembre 2022)
  • Nel terzo trimestre 2022 le economie mondiali hanno mostrato evidenti segnali di rallentamento. Stanno venendo al pettine parecchi nodi insoluti degli anni passati e nuove difficoltà impediscono lo sviluppo delle economie a ritmi accettabili. Stiamo per cadere, collettivamente, in una fase di stagflazione. Con questo vecchio neologismo si descrive una congiuntura economica di recessione abbinata ad una crescita dei prezzi ben al di sopra delle possibilità di gestione da parte del pubblico. Di questa doppia disgrazia non se ne sentiva parlare dai lontani anni ’70 quando il mondo vi fu gettato all’improvviso dal brutale rialzo dei prezzi del petrolio da parte delle nazioni arabe come ritorsione per la guerra del Kippur. Da allora i tassi di interesse hanno avuto una tendenza secolare di riduzione durato molti decenni e venuto a terminare proprio in tempi recentissimi. Basti pensare che nel 2021 oltre 20.000 miliardi di titoli di stato dei paesi occidentali mostravano rendimenti reali negativi. In altre parole, il povero risparmiatore o fondo o banca che ha acquistato questi titoli per la loro sicurezza aveva come garanzia matematica quella di perdere soldi dall’investimento. Pensate quale effetto negativo una cosa del genere può avere sulle disponibilità finanziarie dei risparmiatori e, come corollario, sulla attrattività del capitale per scopi produttivi. Oltre al rallentamento dell’inflazione e dei tassi di interesse, abbiamo assistito anche ad una parallela riduzione dei tassi di crescita economica. L’Italia in questo detiene ogni record, visto che l’economia nazionale è sostanzialmente ferma dagli anni ’90 con conseguenze devastanti sull’occupazione giovanile, sulla produttività, sulla crescita del reddito disponibile. Tutte le altre economie occidentali sono cresciute poco, ma comunque un po' di più. Ora purtroppo stiamo entrando in una fase in cui l’inflazione è passata bruscamente dal 1% a circa il 10% in Europa (circa 8% in USA) e tutti gli organismi economici internazionali, privati e pubblici, prevedono una recessione ad iniziare dal 2023. Negli Usa la recessione è stata già registrata con i primi due semestri del 2022 cresciuti a tassi negativi. Le previsioni per gli Usa sono di un 2022 che chiuderà circa a zero e divergono per il 2023, dove alcuni prevedono una ripresa intorno al 2%, ed altri invece ritengono inevitabile una crescita negativa. Per l’Europa quasi tutti gli Istituti sono concordi nel prevedere una congiuntura recessiva nel 2023, dal momento che le economie sono colpite contemporaneamente dallo straordinario rialzo del prezzo del gas naturale, dalle conseguenze economiche dei lockdown decisi dai governi e da politiche monetarie fortemente restrittive. Inoltre, nel 2022 sono venuti generalmente meno gli effetti di sostegno artificiale varati dai governi per tentare di compensare gli effetti profondamente recessivi delle decisioni relative al Covid nel 2020. Ad es. in Italia abbiamo avuto nel 2020 un crollo del PIL del 10%, un rimbalzo “drogato” del 8% ed ora un 2022 che finirà probabilmente con un saggio di crescita limitata, nonostante l’ammontare straordinario di fondi europei del PNRR che stanno raggiungendo il nostro paese. Tutte le recessioni dell’ultimo mezzo secolo sono state precedute, causate o accompagnate da rialzi dei prezzi dell’energia (si veda grafico sottostante, dove le recessioni sono le aree celesti), in particolare del petrolio, per cui anche attualmente sembra questa una delle cause della congiuntura recessiva che i mercati finanziari stanno ampiamente prevedendo e scontando nelle quotazioni.

Prezzi del petrolio in forte rialzo sono prodromici di recessione economica

  • Ci sono naturalmente anche altri aspetti che giustificano una congiuntura negativa: l’erosione del potere d’acquisto della moneta, salari che rimangono indietro rispetto alla crescita dei prezzi, la debolezza dell’euro, le difficoltà nella catena degli approvvigionamenti esteri. Su questo si innesta l’incredibile impennata del prezzo del gas naturale derivante dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, che ha sostanzialmente chiuso i rubinetti. Poiché alcuni paesi europei come Italia e Germania importano quote consistenti del loro fabbisogno energetico dalla Russia questa situazione non può non generare importanti effetti recessivi sulle nostre economie. Soprattutto considerando che i prezzi dell’energia penetrano in tutti i settori economici, elevandone i costi, dall’ alimentazione, ai fertilizzanti, alle costruzioni, all’immobiliare, la chimica, l’ industria, eccetera. Una ragione ulteriore di questa dinamica è da individuarsi nella velleitaria e ideologica crociata contro l’utilizzo dei combustibili fossili contro i quali i governi per essere “green” hanno scatenato una guerra economica senza quartiere in nome della transizione ecologica. Tutti desideriamo passare ad un’economia a minor impatto ambientale, ma occorre realismo e non furore messianico, e tener conto che questa transizione non è cosa che realizza in un anno. Passare a fonti come eolico, idrogeno, solare, nucleare, richiederà molto tempo per sostituire un mondo costruito in maniera diversa: la narrativa che si possa fare spingendo un bottone è fuorviante. Di conseguenza le grandi aziende petrolifere hanno drasticamente ridotto le ricerche e trivellazioni, per non incorrere nelle ire dei governi e degli azionisti più ecologisti ed attivisti. Chi scrive è facile profeta nel predire che il risultato di una domanda crescente di energia, accoppiata a minori investimenti nelle fonti abituali, manterrà i prezzi del gas e del petrolio a livelli molto elevati per lungo tempo, guerra o non guerra. Il che sarà un problema per tutti i cittadini.
  • Il rialzo dell’inflazione menzionato, mentre era assolutamente prevedibile, è straordinario in termini di velocità e dimensione. il grafico sottostante, che riporta a 100 il livello del 1982, fornisce una visione chiara della drammaticità del fenomeno che stiamo vivendo.

Il balzo della crescita dell’inflazione non ha paragoni fino agli anni ‘80

Median Consumer Price Index

10

9

8

7

6

5

4

3

2

1

0

-1

1985

1990

1995

2000

2005

2010

2015

2020

Source: Federal Reserve Bank of Cleveland

fred.stlouisfed.org

  • E’ importante sottolineare come l’inflazione sia una tassa occulta particolarmente odiosa perché colpisce in maniera più forte le fasce di popolazione più deboli ed esposte, riducendo in maniera subdola il potere d’acquisto delle famiglie e di alcune categorie di imprese (quelle che non dispongono della capacità traslativa degli aumenti dei prezzi dalla produzione sui consumatori).
  • Le radici di questa stagflazione, di cui come detto non si vedevano le tracce dagli anni ’80, vanno ricercate nelle irresponsabili politiche fiscali e monetarie dei governi a partire dalla crisi finanziaria del 2008. I governi hanno aumentato in maniera notevole le spesa statale, e con essa la dimensione della presenza dello stato nell’economia, finanziando spesa corrente e progetti a ritorni negativi per importi del tutto superiori alla capacità di copertura da parte dei risparmiatori, risultando in esplosioni senza precedenza dei debiti pubblici. Il rapporto debito/Pil, ed il suo alimentatore, il rapporto deficit/PIL di quasi tutti i paesi occidentali è salito ben oltre i livelli di sostenibilità e queste spese sono state possibili soltanto attraverso maggior debito e la conseguente sottoscrizione dei titoli di stato emessi dai governi da parte delle banche centrali, le quali hanno gonfiato a dismisura i loro bilanci. Ad esempio, la Federal Reserve americana è passata da un bilancio 4000 miliardi di attivo nel 2019 a 9000 miliardi di attivo nel 2021. Accoppiata a questa espansione del debito mai vista nella storia dell’umanità, le banche centrali hanno tenuto i tassi a livelli artificialmente bassi per oltre un decennio, svilendo la remunerazione del risparmio e generando bolle speculative che stiamo ancora pagando. Questo mix di politiche, favorito dalle élite che controllano i governi ed il sistema finanziario, ha generato da un lato enormi guadagni ai possessori di attività finanziaria (azioni, obbligazioni, immobili, valute) e dall’altro ha generato bolle speculative senza alcun senso economico (criptovalute, NFT, venture capital, spacs, ipos, quotazioni insostenibili di aziende che generano solo perdite, aziende zombi non in grado di pagare neppure gli interessi e che però non falliscono). Il contraltare di questa scelta di “quantitative easing” è naturalmente l’insostenibilità dei debiti pubblici accumulati, il trasferimento di enormi quantità di debito alle generazioni future, la distruzione del risparmio delle famiglie, la crescita distrofica di amministrazioni e burocrazie pubbliche che si auto-alimentano, e quindi il rallentamento economico. Il tasso dell’interesse è un prezzo come tutti gli altri, che si forma su un mercato: è il prezzo del denaro. Quando esso viene artificialmente manipolato dai governi e dalle banche centrali che per così tanto tempo lo hanno represso a zero, distorcendone il valore , è inevitabile che le forze economiche riemergano in altro modo, ed ecco che oggi paghiamo allo stesso tempo con alta inflazione e recessione economica il prezzo di queste scelte da cicala degli ultimi decenni. Le bolle prima o poi scoppiano e la deflazione che ne segue, di nuovo, penalizza principalmente le classi medie e produttrici.
  • La recessione economica è prevista anche dagli indicatori di mercato stessi, come ad esempio l’inclinazione della curva dei rendimenti dei titoli di stato. Al momento la curva è disposta in maniera invertita, con i titoli a lungo termini che offrono rendimenti minori di quelli a breve termine, cosa che è innaturale ed è statisticamente prodromica e predittiva di una recessione economica a seguire (vedi grafico sottostante per gli USA).

Una curva dei rendimenti invertita è sempre stato un segnale di sfiducia

10-Year Treasury Constant Maturity Minus 2-Year Treasury Constant Maturity

2.0

1.5

1.0

0.5

0.0

-0.5

-1.0

2018-01

2018-07

2019-01

2019-07

2020-01

2020-07

2021-01

2021-07

2022-01

2022-07

Source: Federal Reserve Bank of St. Louis

fred.stlouisfed.org

  • Casella di testo: Percent
  • La verità è che viviamo oggi in una congiuntura radicalmente diversa di quella deli ultimi 15 anni: ci siamo abituati, come un drogato in dipendenza, ad ottenere dosi sempre maggiori di iniezione monetaria per risolvere qualsiasi difficoltà. Con i tassi tenuti a zero, la quantità di indebitamento possibile è teoricamente infinita. La realtà è ben diversa ed è che la recessione morde anche e soprattutto per i problemi di supply chain derivanti dal blocco economico del lockdown, ed ora i governi non hanno più la possibilità di emettere nuovo debito a tassi ridicoli. Il mercato (non gli accademici) ha girato le spalle all’insostenibilità della “modern monetary theory” (la più grande stupidaggine che la teoria economica poteva produrre, ovviamente frutto di economisti d’elite schierati a sinistra e ben difesi dai loro phD e dai loro stipendi sicuri).

The “Modern Monetary Theory”

La velocità di incremento dei tassi da parte della Federal Reserve non ha precedenti

  • Pertanto, oggi su una economia non in salute stanno cumulandosi le addizionali difficoltà dei forti rialzi dei tassi da parte delle banche centrali di tutto il mondo. La Federal Reserve ha già alzato i tassi da 0 % al 3.75% e con certezza continuerà ad incrementare il costo del denaro almeno fino al 4.5% o 5%. Allo stesso tempo sta riducendo il proprio bilancio lasciando scadere 95 miliardi di titoli di stato detenuti al mese, nel tentativo di scendere dimensionalmente dai livelli insostenibili menzionati sopra. Questa politica è esattamente l’opposto di quella perseguita fino ad ora ed è infatti definita un “quantitative tightening”, ossia restrizione monetaria. Tutte le altre banche centrali del mondo sono avviate sullo stesso identico cammino. La Bank of England sta rialzando i tassi velocemente anche perché incalzata dal crollo della sterlina e l’economia inglese è già in recessione. La Banca centrale Europea, pur molto cauta finora, non ha scelta che effettuare rialzi molto consistenti dei tassi di riferimento, incalzata dagli esponenti della Bundesbank che la reclamano vista che l’inflazione in Germania è superiore al 10% e non accenna a scendere. La BCE è tra l’altro anche molto indietro nel processo di rialzo dei tassi, “behind the curve” come si dice, in quanto la distanza fra i tassi attuali e ‘inflazione è maggiore che in altre aree economiche e quindi l’inasprimento necessario è maggiore. Altre banche centrali stanno restringendo le politiche monetarie allo stesso modo: Svizzera, Norvegia, Svezia, perfino il Giappone sta intervenendo sul mercato dei cambi a difesa dello yen. La velocità e dimensione di questi rialzi dei tassi non ha precedenti nella storia ed avrà necessariamente profondi effetti recessivi.
  • Con queste ricette comuni la domanda di credito verrà razionata, i tassi sui mutui stanno volando in alto rendendo più difficile gli acquisti di case, la domanda viene compressa, la spesa aggregata limitata, la disoccupazione non può che salire.
  • Come scritto più volte, la creazione artificiale di moneta da parte delle banche centrali non ha generato alcuna crescita del potere d’acquisto delle famiglie; al contrario lo ha sensibilmente ridotto, come dimostra incontrovertibilmente il seguente grafico della Federal Reserve di Saint Louis, che evidenzia la correlazione negativa fra crescita dell’aggregato M2 ed il potere d’acquisto dei consumatori.

Senza ancoraggio all’oro, l’aumento della base monetaria per “favorire” l’economia genera invece erosione del potere d’acquisto delle famiglie

  • Un altro effetto molto grave, mai menzionato dalle élite che controllano i media e le università, è che tutta questa massa monetaria scollegata dalla crescita reale, ha aumentato a dismisura tutti gli indicatori di diseguaglianza reddituale della società. Dal 2008 a oggi mentre i salari e gli stipendi sono rimasti sostanzialmente stagnanti la ricchezza finanziaria è aumentata di svariate migliaia di miliardi di dollari. Queste politiche ufficialmente varate per sostenere le classi lavoratrici hanno, come è ovvio, avuto invece un non casuale effetto opposto, di esplosione dei prezzi delle attività finanziarie (azioni, obbligazioni, fondi, ecc.) che ovviamente sono detenute solo dalla fascia più alta della popolazione. È stato calcolato che se l’1% della popolazione più ricca negli USA perdesse il 99% della propria ricchezza finanziaria, sarebbe cionondimeno più ricca di almeno 3.5 miliardi di persone.
  • Tutti questi “esperti” banchieri centrali sono, a parere di chi scrive, colpevoli di non aver capito la natura inflazionistica delle misure di quantitative easing che hanno perseguito ciecamente negli ultimi anni e si sono trovati spiazzati dalle dinamiche negative congiunte della economia in recessione e dell’inflazione fuori controllo. Il potere d’acquisto dei nostri risparmi si erode oggi al ritmo del 10% l’anno, l’euro è quasi ai minimi storici contro dollaro e le prospettive per il 2023 sono negative da parte di tuti i centri di ricerca. L’apprezzamento del dollaro contro ogni altra valuta ha raggiunti livelli mai visti in una generazione ed è un modo per esportare ulteriore inflazione dagli USA agli altri paesi.

Dollaro mai così forte contro tutte le altre valute del mondo negli ultimi 20 anni

  • Le banche centrali, dopo aver fatto “too little too late”, ora sono sono passate ad una situazione di “too much too long” nel loro disperato tentativo di recuperare la loro perduta credibilità nei confronti dei mercati finanziari e degli operatori economici. Con i rialzi dei tassi menzionati sopra, esse non faranno altro che affossare ulteriormente le economie, restringendo il credito e la liquidità al momento sbagliato. Tanto va detto sui super-esperti, burocrati con PhD che non hanno mai fatto un giorno di lavoro nell’economia reale, ma che ritengono di poter indirizzare le variabili economiche *. Una restrizione monetaria così sincronizzata in tutto il mondo occidentale è un evento nuovo e che non potrà non portare effetti recessivi. Persino l’economia cinese è in frenata brusca, come conseguenza delle autoritarie politiche sui lockdown del governo comunista e dell’iniziato riposizionamento delle manifatture internazionali verso altri paesi. Per il nostro paese, il nuovo governo uscito dalle urne deve fronteggiare una situazione di estrema gravità congiunturale, descritta sopra, accoppiata alle ataviche debolezze del nostro sistema economico: un debito pubblico al 150% del PIL, una crescita media dello zero virgola, un’amministrazione pubblica che distrugge valore, bassi livelli di produttività multi-fattoriale, fuga di cervelli, livelli bassissimi di investimenti in attività capaci di generare valore futuro. La stessa Nota di Aggiornamento emessa dal governo Draghi ad inizio di ottobre pronosticava per il 2023 almeno due trimestri di PIL in contrazione.
  • Andando controcorrente, chi scrive ritiene che le economie moderne siano intrecci talmente complessi ed inter-correlati, che non sia possibile governarle efficacemente solo dal centro: la storia, per chi vuole veramente leggerla senza pregiudizi, mostra che l’intervento pubblico e dirigista nell’economia ha di frequente effetti collaterali pesanti su larghe fasce di cittadini ed alla fine rende tutti più collettivamente poveri. In particolare, sono più poveri i cittadini e le categorie produttrici, in nome dei quali gli interventi vengono posti in essere da parte di una casta di burocrati che si autogiustifica e sottrae risorse vive alla crescita economica collettiva. Questo non significa che la mano pubblica non debba avere un ruolo nella regolazione dell’economia. Al contrario (non ci si dia del neoliberista). È una questione di dimensione, di efficacia, di convenienza, di libertà, di buon senso e infine di Hubris.
  • *
  • Si confronti l’arroganza concettuale degli economisti , banchieri ed accademici attuali, che ritengono di “governare” l’economia con la seguente affermazione di un vero premio Nobel :
  • “In the present state of our knowledge [of monetary policy and the economy] we cannot hope to use monetary policy as a precision instrument...The attempt to do so is likely merely to introduce additional instability into the economy, to make the economy less rather than more stable." Milton Friedman, 1959.
  • Rossi

  • La grande finanza nella storia occidentale
  • Un saggio di
  • Marco Rossi
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  •  
  • La società post-moderna é l’esito del primato dell’economia sulla politica. In una recente pubblicazione, Marco Rossi, noto per lavori storiografici sulla storia contemporanea italiana, entra nel merito delle relazioni che legano lo sviluppo della finanza e gli eventi più rilevanti della storia occidentale. Ci riferiamo a, La grande finanza e l’Occidente. I retroscena di una guerra sconosciuta, nelle librerie per Arya edizioni( per ordini: arya.victoriasrl@gmail.com, pp. 224, euro 25,00).   L’esegesi di Rossi rigetta i dogmi della storiografia “politicamente corretta” e quelli del riduzionismo “complottista”.   L’autore fornisce una sorta di mappatura, che consente di rilevare i momenti salienti attraverso i quali la finanza è divenuta, progressivamente, padrona del mondo.
  • ...
  • Le cose cominciarono a cambiare con la seconda rivoluzione inglese, prima affermazione del liberalismo. In quel frangente nacque, il 27 luglio del 1694, la prima banca di emissione privata, la Banca d’Inghilterra. Da quel giorno, la Gran Bretagna, pur divenendo grande potenza commerciale, rese la moneta e la finanza, non più prerogative dello Stato, ma appannaggio della borghesia. Le colonie americane, resesi indipendenti, si rifiutarono di costituire una Banca Centrale privata sull’esempio inglese. La loro Costituzione stabiliva che solo il Congresso: «avrebbe avuto la piena sovranità per coniare e regolare la moneta» (p. 16). Durante la rivoluzione francese, per risolvere il problema del debito pubblico, si ricorse agli assegnati che si trasformarono in carta moneta. Essi facevano aggio sui beni sequestrati alla Chiesa. In seguito, furono stampati con continuità. Ciò mostra come: «per lo Stato francese […] prevalessero (ancora) le decisioni politiche sugli interessi specifici dei banchieri» (p. 17). Tale primato fu ribadito nell’età napoleonica. Solo dopo Waterloo, ebbe inizio la marcia trionfale del capitalismo. Studiosi di vaglia, hanno riconosciuto il ruolo di primo piano, in funzione anti-napoleonica, delle banche Rothschild.
  • ...
  • Questi ottennero dall’Austria imperiale, ritenuta dal tradizionalismo baluardo della civiltà, il titolo di Baroni. Alla metà del secolo XIX, l’Inghilterra e le sue banche si prodigarono per mantenere in vigore l’equilibrio tra i piccoli Stati nati dal Congresso di Vienna. Da qui il ruolo di rilievo della Gran Bretagna, espressione degli interessi finanziari, nel nostro Risorgimento. La spedizione dei Mille, fu pianificata dagli inglesi con Cavour, al fine di evitare che l’Italia divenisse appendice francese. I medesimi interessi, animarono, a dire di Rossi, la guerra civile americana, in cui a prevalere furono gli Stati del Nord industrializzati. Questi miravano a realizzare scelte protezioniste, contestate dagli Stati del Sud, esportatori di prodotti agricoli. Fu montata, ad hoc, una campagna propagandistica che presentava come “schiavisti” i Sudisti e, al contrario, come difensori dei diritti dei neri, i Nordisti. In realtà, Lincoln non pensò mai di concedere il diritto di voto alle popolazioni nere, né pensò ad alcuna eguaglianza con i bianchi. Da quell’evento storico, l’eterodirezione delle masse divenne strumento privilegiato per indirizzarne le scelte. Quando Lincoln, per far fronte alle spese di guerra, fece appello al primo articolo della Costituzione e fece stampare cambiali-prestito coperte dalla forza-lavoro del popolo americano, venne eliminato.
  • ...
  • Gli USA rinunciarono alla loro sovranità monetaria nel 1913 con il Federal Reserve Act di Wilson. Lo Stato delegava: «ad un consorzio di banche private la gestione della moneta nazionale, compresi tutti gli oneri relativi al signoraggio» (p. 36). Da allora, i destini del mondo furono condizionati dai Rockefeller, dai Warburg, dai Rothschild. Un momento di impasse lo si ebbe con i fascismi. In Germania, per far fronte al debito pubblico prodottosi nel 1929, il presidente della Banca Centrale, l’ebreo Schacht, creò le obbligazioni Mefo. Tali obbligazioni circolavano come moneta, garantita dallo Stato, senza gravare sul debito. Tale divisa era valida all’interno del territorio tedesco, mentre negli scambi internazionali: «i fornitori erano pagati in moneta che poteva essere spesa soltanto per comprare merci fatte in Germania» (p. 47). Medesima situazione si verificò in Italia con la creazione, ad opera di Alberto Beneduce nel 1931, dell’IMI, Istituto che nazionalizzò le tre banche private operanti da noi e, successivamente, dell’IRI. Nei due paesi vennero colpiti gli interessi dell’“intermediazione finanziaria”, pertanto, andavano fermati e, a tanto, si provvide con la Seconda guerra mondiale. Nel 1944, gli accordi di Bretton Woods portarono alla creazione di organismi sovranazionali al diretto servizio della finanza. La Banca dei Regolamenti Internazionali svolse la funzione di vertice della piramide bancaria mondiale e anticipò il costituirsi della Banca Mondiale e del Fondo Monetario. Il dollaro divenne l’unica divisa ammessa negli scambi.
  • ...
  • L’Urss restava l’ultimo impedimento per la realizzazione della governance mondialista. Si lasciò una certa autonomia politica ai paesi occidentali e, sotto il profilo economico, venne mantenuto in essi il Welfare State. Si favorì la decolonizzazione: il colonialismo tradizionale, fu sostituito dalla dipendenza economica dell’ex-colonie. Ovunque, si registrava l’avanzata militare degli Usa. Tale contesto sembrò scosso, nel 1963, da Kennedy. Il presidente reintrodusse la possibilità di stampare moneta negli USA al di fuori della Federal Reserve e, guarda caso, venne assassinato. Con Nixon, la finanza riprese pieno controllo della situazione. Nixon impose: «di accettare il dollaro come base dei commerci internazionali senza che la moneta americana fosse più agganciata ad alcun valore dell’oro» (p. 108). Nel 1981, in Italia, Ciampi propose la completa indipendenza della Banca Centrale, sollevandola dall’obbligo di acquistare i titoli di Stato. Con l’implosione dell’URSS, la globalizzazione estese il proprio potere. In Italia, dopo “mani pulite”, lo Stato sociale fu smantellato e la Banca d’Italia tornò ad essere una SPA. Ovunque si tentò la “normalizzazione” globalista attraverso le guerre balistiche e la colonizzazione dell’immaginario dei popoli non occidentali.
  • ...
  • La crisi economica del 2008 mostrò, di contro, che la produzione di denaro ex nihlo non può essere “coperta” dalla produzione di beni reali. Infine, la pandemia da Covid 19 ha portato allo scoperto il tratto liberticida della governance. La partita è ancora in corso, ci dice Rossi, la guerra russo-ucraina potrebbe avere esiti imprevedibili. Essa mostra che la storia non è affatto finita, come pretenderebbero le élites globaliste.


  • VIVA   la  MORIA   2.0   
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Quando, quasi tre anni orsono, si iniziò a parlare del PNRR scrissi un articolo, dal titolo uguale, nel quale ricordavo quanto scriveva Manzoni «che nella Milano appestata i monatti – addetti al trasporto dei malati al lazzaretto e dei cadaveri al cimitero - brindavano allegramente ripetendo “Viva la moria!”, dato che l’epidemia garantiva agli stessi un lavoro continuo e remunerativo, e la connessa possibilità di rubare e di estorcere denaro a malati e parenti». E che quel gran parlare di novità, di ricostruzione, di generosità europea poteva diventare l’ouverture di una prossima grande abbuffata. Già Conte, allora Presidente del Consiglio diceva che le spese relative dovevano essere decise e distribuite. Che un tale programma fosse il miele per attrarre un nugolo di tax-consommers era chiaro; come lo era che gli stessi si sarebbero fatti in quattro per «come dicono in Spagna buscar un lugar en el presupuesto, ossia a trovare una nicchia nel bilancio ed essendo questo all’uopo abbondantemente fornito, hanno una ricerca facile». Cattiva prospettiva per il contribuente italiano, cui sarebbe comunque toccata la parte di Brighella “che fa le spese”.
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  • Ad alleviare i dubbi del suddetto Brighella fu anche detto che l’inquinamento (la riduzione del quale era il principale obiettivo del PNRR) aveva aiutato la diffusione del virus. Tesi poco ripetuta, forse perché spericolata.  Da notizie di stampa emerge che tra le spese finanziate dal PNRR ci sarebbero piste ciclabili, campi di padel, strutture per l’assistenza anche ai migranti, ecc. ecc. Tutte cose magari (si spera), non tanto incidenti sulla spesa complessiva, ma le quali più che ad una (necessaria, anzi indispensabile) ripresa economica, sembrano rivolte a finanziare opere ed interventi del tutto marginali, e poco o nulla suscettibili di aumentare reddito, produttività, competitività degli italiani e dell’Italia. Cioè di tutte le belle parole con cui hanno condito anche le finalità del PNRR.
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  • Per cui non appare errato procedere alla revisione enunciata dal governo. Sperando che, essendo fatta da un governo diverso, non ripeta le “gesta” dei precedenti.

 

  • Falange

  • La Rivoluzione proibita della Falange
  • Un saggio di
  • Bernd Nellessen
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
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  • Il fascismo è stato fenomeno politico europeo. In Spagna ha avuto la sua autentica espressione nella Falange di José Antonio Primo de Rivera. A riportare l’interesse su tale movimento, è la recente pubblicazione di un volume di Bernd Nellessen intitolato, La rivoluzione proibita, nelle librerie per Oaks editrice, con prefazione di Massimo Maraviglia (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 212, euro 18,00).
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  • Il libro, tesi di dottorato dell’autore, fu pubblicato in Germania nel 1960.  Della sua rilevanza storica si accorse l’editore Giovanni Volpe che lo fece uscire, nel 1965, nel suo catalogo.  Si tratta, certamente, di un lavoro scientifico, costruito su una vasta gamma di documenti, dal quale si evince la padronanza di Nellessen dell’argomento trattato. Saggio, pertanto, come precisa Maraviglia, avalutativo, le cui pagine sono costruite da intenzione esegetica sine ira et studio.  Nonostante ciò, come mostra il titolo del libro, l’obiettivo ermeneutico dell’autore è del tutto esplicito: chiarire come le grandi idealità della “prima” Falange siano venute meno nel partito unico voluto da Franco, che ne conservò solo il nome.  Quella della Falange risultò essere, pertanto, una “rivoluzione proibita” o impossibile.
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  • Il testo muove dall’analisi dei presupposti storici che hanno reso, in Spagna, la prima metà del secolo XX, una lotta senza quartiere tra due diverse idee di mondo: la liberale e la socialista da una parte, e quella “tradizionale” e cattolica dall’altra.  L’autore prosegue, inoltre, con il presentare i personaggi più significativi e le idealità politico-sociali che animarono, fin dalla fondazione, il falangismo.  Nellessen si sofferma su José Antonio e Ledesma Ramos, ma non trascura la personalità di Onésimo Redondo, del cenacolo di Valladolid, né sottovaluta la dialettica interna del movimento, che produsse, in alcune circostanze, divisioni insanabili.  Viene, inoltre, colto il legame sussistente tra alcune tesi storiche del falangismo e le posizioni espresse in tema dal filosofo Ortega y Gasset.   Lo studioso presenta i momenti drammatici della guerra civile, fino a giungere al Decreto di unificazione del 19 aprile del 1937.  Con tale atto, Franco, a suo dire, avrebbe smorzato, nel regime personalistico che andava costruendo, l’afflato rivoluzionario-conservatore e nazionale della Falange, al punto che risulta possibile parlare di una prima e una seconda Falange.  Queste due diverse esperienze politiche non avrebbero nulla in comune, se non aspetti formali. Nellessen mette in luce il tratto minoritario, élitista e intellettuale, della prima Falange che, per questo, non  avrebbe potuta percorrere altra strada, in quanto il “velleitarismo” di José Antonio e dei suoi, in sé, non era latore di effettivi sbocchi politici.
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  • In realtà, come colto dal prefatore, il sorgere delle idealità falangiste, rappresentò una sorta di reazione alla cattiva modernità, all’atomismo sociale che andava dissolvendo, perfino in Spagna, in nome dell’utile e dell’economico, l’intero corpo sociale . Due furono i punti centrali attorno ai quali  tale contromovimento, mirato a costruire un’altra modernità, atta a recuperare i valori dell’ hispanidad, si coagulò: la difesa della comunità e della trascendenza religiosa. Ciò comportò, secondo Maraviglia: «da un lato lotta serrata contro la risorgente tentazione del particolarismo, dall’altro affermazione incontrastata della Weltanschauung cattolica» (p. II). Riconquista dell’unità statale legata, naturalmente, al dinamismo proprio alla vocazione imperiale dell’hispanidad: «L’unità dello Stato apre a una trascendenza religiosa e questo […] la salva dal divenire il programma di un imperialismo orizzontale» (p. III).  Tale atteggiamento è esemplarmente mostrato dal simbolo della Falange, laddove giogo e  frecce: «esprimono proprio il vincolo che serra in un identico destino tutti gli spagnoli e il dinamismo di una realtà che mai si ferma alle mete raggiunte» (p. III).
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  • La buona modernità, segnata dal cattolicesimo, nella prospettiva della Falange, si contrappone alla modernità escatologica e utopistica. Si tratta, in qualche modo, del riproporsi del secolare conflitto di Spagna e Inghilterra, da cui, nel 1713, con la pace di Utrecht, uscì sconfitta la prima.  All’incipit del ventesimo secolo, tali rapporti avrebbero dovuto essere ribaltati, attraverso la contro-politicizzazione della società spagnola, che cominciava a esser permeata dal giacobinismo illuminista. In tale progetto, la Falange, pur risultando alla fine sconfitta e risucchiata nel fronte anticomunista creato dal Franchismo, non per questo sparì dall’agone politico.  Quella resa da José Antonio e da altri appartenenti al movimento, al momento della loro esecuzione, è testimonianza vitale, dal tratto mistico-religioso. I loro corpi offesi, ancor oggi, mettono a tacere i falsi valori della clase discutidora, le cui parole sono vuoto orpello retorico, in quanto: «il testimone produce un taglio nella catena inarrestabile delle argomentazioni, opponendo […] il peso ineguagliabile del proprio corpo ferito» (p. X).   Il sacrificio della vita erige un saldo confine tra l’autentica testimonianza e la prudenza vile dei più: «Ovunque tale muro viene costruito, si genera lo spazio per una nuova dignità della politica» (p. XI), chiosa il prefatore.
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  • Non casualmente, José Antonio ebbe a scrivere che i primi fermenti rivoluzionari non possono esser compresi dalle masse, in quanto queste, vivendo un periodo di decadenza, tendono a perdere il mirabile dono della “luce interiore”. Ecco, l’azione, le idee e la vita del fondatore della Falange, tesero a restituire alle masse contezza di sé, al fine di renderle  effettivo soggetto della storia e non mero strumento oggetto di eterodirezione. 

 

 

 

 

  • Ermete trismegisto

  • La Rivelazione di Ermete Trismegisto
  • Il dio ignoto
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • È nelle librerie, per la casa editrice Mimesis, il quarto volume de, La Rivelazione di Ermete Trismegisto. Il dio ignoto e la Gnosi, parte conclusiva della monumentale opera che André-Jean Festugière ha dedicato al Corpous Hermeticum (per ordini: mimesis@mimesisedizioni.it, pp. 526, euro 32,00). Un primo dato di rilievo, riguarda il lavoro del curatore, Moreno Neri, che si è prodigato, da par suo, in un lavoro complesso e certosino, producendo un’analisi puntuale e organica tanto dell’ermetismo, quanto dell’opera di Festugière. In tal senso, risulta particolarmente importante la sua postfazione, che fa il punto sui risultati esegetici conseguiti anche nei precedenti tre volumi. L’opera dello studioso francese, fino agli anni Ottanta del secolo scorso, è stata punto di riferimento degli studi sulla tradizione ermetica. Essa venne composta nel decennio 1944-1954, e, ancor oggi, riveste un ruolo di rilievo per chiunque voglia accedere a questo universo realizzativo.
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  • In questo quarto volume, non casualmente intitolato, Il dio ignoto, Festugière affronta il problema della gnosi, vale a dire della conoscenza necessaria per avere accesso al dio Trascendente. Si tratta della vexata quaestio che fu al centro del dibattito filosofico-religioso durante il periodo imperiale. A giudizio dell’autore, il tema del dio “inconoscibile”, “ignoto”, non sarebbe originario dell’Oriente, dell’Egitto in particolare, come rilevato da altri studiosi, ma si sarebbe palesato all’interno della tradizione greca pitagorico-platonica.  Nell’analizzare la gnosi, al fine di addivenire alla comprensione del suo reale ubi consistam, Festugière si avvale di testi platonici prodotti nel II sec. d.C., di quelli di Albino, Apuleio, Celso, Massimo di Tiro, Numenio.  La prima parte del volume, ha, pertanto, tratto eminentemente filosofico, mentre la seconda, nota Neri: «si basava maggiormente sull’esame di testi ermetici più o meno confusi e oscuri» (p. 2115). Dall’analisi emergono due atteggiamenti realizzativi contrapposti e diversi, l’uno centrato sull’estroversione, l’altro sull’introversione.
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  • Nel primo caso, l’adepto esce da sé per incontrare Dio, nel secondo caso viene, al contrario, “invaso” dal Principio.  In tale contesto, Festugière si sofferma ad analizzare la nozione di aión.  Tale termine, che in origine indicava il “principio vitale”, la “vita”, evolse, nel corso del tempo, nel concetto di “eternità”. Per il francese, aión può essere tradotto con “Divinità”: «non solo nell’ermetismo, ma nei papiri magici e in alcuni testi filosofici» (p. 2115). Al di là di questa breve sintesi del quarto volume, la lettura dei precedenti testi editati anch’essi da Mimesis e, soprattutto, la postfazione di Neri, ci inducono a discutere alcuni temi dell’ermeneutica ermetica di Festugière. La sua lettura, non solo tende a ricondurre alla Grecia l’intero patrimonio del Corpus, ma è attraversata da dualismi di ogni tipo. Innanzitutto, egli tende a distinguere l’ eremetismo “popolare” e magico, da un ermetismo “colto” e filosofico, quando invece le due espressioni della sapienza ermetica si intrecciano e interagiscono l’una sull’altra.   Zosimo, che tra ermetisti fu colui che: «assunse la posizione più contraria alla magia» (p. 2121), integrò, gradualmente, alcuni suoi aspetti, presentando una sintesi teorico-pratica di tale movimento di pensiero. Ciò vuol dire, come rileva il curatore, che la visione dualista pecca di una costitutiva ambiguità, in quanto, come comprese nell’ambito storico-religioso, Ugo Bianchi, in essa è, di fatto, implicito il monismo, ed è proprio: «questa vocazione monista che starebbe alla base dell’ermetismo come di recente sostenuto nel saggio di Z. Pleše» (p. 2125).
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  • Le contrapposizioni dualiste, corpo-anima, natura-Dio ecc., servono da “supporto”, lungo la “via”, all’Uno. In questo senso, la tradizione ermetica nel Novecento è tornata a mostrarsi in filosofia, negli autori che hanno teso a porsi oltre il dominio del concetto, del logocentrismo distinguente, tra essi Deleuze.   Il culmine della gnosi ermetica consiste, infatti, nel superamento dei “confini” posti dal pensiero, in funzione del suo costituirsi sulla distinzione di soggetto-oggetto: si tratta di una conoscenza non-duale, presente in molte tradizioni.   Per giungere a tanto bisognava vivere una fase preparatoria nella quale i contenuti dei trattati ermetici illustravano le virtù atte a facilitare la “rigenerazione”, la “rinascita” dell’adepto.   Al dio “inconoscibile”, si giunge per via negationis.   In Ermete si legge, Dio è: «quello che non consiste in nessuna di queste cose» (p. 2173).   Bisogna seguire la via del “non-essere”, è necessario, al fine di realizzare la gnosi, de-identificarsi.   A ciò muove il “desiderio”, la “nostalgia” di Dio: essa consente all’uomo di “riconoscersi” nella “rinascita”.  Si tratta: «di una tecnica di deprivazione sensoriale che innesca un’esperienza extracorporea» (p. 2175), suggerisce Neri.   Ecco, allora, palesarsi l’unità di tutte le cose.
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  • Chi realmente abbia compreso, sa che, a ragion veduta, non è neppure possibile parlare di “via”, in quanto il cammino avviene nell’interiorità e conduce alla coscienza cosmica e unitiva, nella quale la vita ordinaria è ridotta a mero miraggio, sogno a occhi aperti: «il corpo e i pensieri scompaiono e sono visti come una aggiunta estranea» (p. 2176).     Tale visione è del nous, coscienza sovra individuale. Al fine di disidentificarsi, i trattati parlano della rilevanza del silenzio, quale pratica meditativa. Il lógos viene tacitato ed emerge l’intelletto, che instaura uno stato di concentrazione mentale. L’ultimo grande ostacolo per il “risveglio” è dato dalla caligine, dalla difficoltà di vedere oltre la nebbia del non-sapere.  Oltre essa, sta l’indiarsi.   L’attimo che lo precede è esemplificato dal serpente che si morde la coda, al cui interno si trova l’iniziato accompagnato da una laconica iscrizione: «Questo è il cadavere» (p. 2182). Qui avviene l’incontro di morte e resurrezione, la coicidentia oppositorum: «L’uomo vecchio […] è ora un uomo nuovo […] una riattualizzazione o ierofania dell’ Uomo archetipico» (p. 2184).
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  • Il curatore, nella postfazione, ricostruisce con dovizia di particolari e in modo critico, la storia dell’esegesi dei trattati ermetici, soffermandosi in particolare sugli studiosi del Novecento: ricorda, tra le altre cose, che Zielinski, ricollocò, contro l’interpretazione egitto-centrica, gli Hermetica nella cultura greca, suddividendoli in tre serie: «peripatetica, platonica e panteista» (p. 2143).
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  • Essenziale ci pare, in termini bruniani, il riferimento al panteismo.   Solo in tale prospettiva la visione dualista viene meno ab initio e consente di esperie l’origine “mediterranea” dell’ermetismo.  I quattro volumi di Festugière, le note critiche di Neri, rendono davvero unica e dirimente questa pubblicazione.

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  • PD e LEGITTIMITÁ in SALITA
  • di 
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • C’è un “nocciolo duro” che collega il processo di decadenza della classe dirigente della “Seconda repubblica” e in particolare il PD, confermato dalle ultimi elezioni regionali, tutte perse dall’opposizione e l’ultima rovinosamente (Fedriga ha riportato più del doppio dei voti del candidato PD-M5S ed altri): è la perdita di legittimità delle élite in disfacimento.
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  • L’ironia della Storia ha fatto sì che, con le ultime elezioni politiche il primo partito e la Presidente del Consiglio della “Repubblica nata dalla resistenza” siano gli eredi di coloro che la resistenza l’avevano combattuta e dall’ “arco costituzionale” erano esclusi. Così che attualmente, contrariamente alle litanie ripetute da decenni, la volontà popolare ha rifiutato l’armamentario propagandato – fino a qualche anno fa confortato dal consenso – dal 1945. In un certo senso ha disconosciuto la paternità.
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  • Questo, indipendentemente dal fatto che la “tavola dei valori” che ispira la nostra costituzione, da non identificare con quella propagandata per decenni dalla sinistra (e non solo) che ne costituisce una versione parziale e ad “usum delphini”, non abbia ancora una sua legittimità, nel senso di una diffusa condivisione.
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  • Gli è che, come scriveva Thomas Hobbes, l’essenza del rapporto politico e quindi del comando-obbedienza, è che chi pretende il comando deve dare protezione (effettiva). Con la conseguenza che se quella protezione non viene data cessa anche l’obbligo di obbedire. Questo è asserito dal filosofo di Malmesbury proprio nell’ultima pagina del Leviathan: di aver scritto il trattato “...senza altro scopo che di porre davanti agli occhi degli uomini la mutua relazione tra protezione ed obbedienza; alle quali la condizione della natura umana e le leggi divine – tanto naturali che positive – richiedono un’osservanza inviolabile”.
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  • E nelle pagine precedenti del Leviathan ci dà un saggio di ciò che non dà protezione e quindi non serve a pretendere obbedienza. “Casistica” che ha più che qualche carattere di somiglianza con quanto praticato (anche) dalle élite decadenti, e ancor più con i cattivi risultati della loro azione di governo. Ad esempio quando Hobbes paragona la Chiesa cattolica al regno delle fate (e gli ecclesiastici alle fate) anche perché “Quale specie di moneta abbia corso nel regno delle fate non è detto nella storia; ma gli ecclesiastici invece accettano nelle loro riscossioni la moneta, che noi coniamo, benché, quando debbano fare qualche pagamento, li facciano consistere in canonizzazioni, indulgenze e messe” e così i chierici non lavorano, ma come le fate, vivono approfittando del lavoro degli altri, banchettando con la crema del latte munto dai fedeli (o – per il potere temporale - dai sudditi).
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  • C’è più di un’analogia con i trasferimenti di ricchezza, da tax-payers a tax-consommers operati dai governi delle élite, o ancor più con la predazione diretta (e indiretta) connessa; senza trascurare che ad ogni salasso si accompagna una enunciazione di buone intenzioni, e ancor più lo “scambio” di beni con chiacchiere.   Oppure quando Hobbes mette in guardia dall’insistere nel giustificare l’esercizio del potere col richiamo al titolo giuridico (successione, conquista, consuetudine), invece che all’effettività e risultati ottenuti.   O, in senso contrario, col giustificare il proprio potere condannando le malefatte del regime precedente (invece dei risultati propri).
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  • Il potere pubblico, assai più che ai tempi di Hobbes, ha giustificato dallo scorcio del XIX secolo il proprio intervento e così la pubblicizzazione di attività private (soprattutto nell’economia) con gli effetti in termini di sicurezza del futuro. Ma i risultati italiani nell’ultimo trentennio, quando l’influenza del PD (e predecessori) è stata determinante, sono i peggiori dell’area UE (ed euro).   Onde i risultati di un’azione di governo esteso all’economia sono pessimi, e pertanto non c’è legittimità “di scambio” (protezione/obbedienza) che possa confortarla. Non resta che rivolgersi ad una legittimità fondata sulle intenzioni conformi a certi valori. Ciò ha un doppio limite: che quei valori debbano essere condivisi dalla maggioranza e, di conseguenza – e a lato – debbano essere ragionevoli.    Tuttavia condivisione ce n’è poca (v. risultati elettorali) e ragionevolezza (nel senso di obiettivi effettivamente alla portata di un’azione di governo) non di più.  Non si capisce infatti come insistere nel primario obiettivo di tutela dei c.d. “diritti umani” di esigue minoranze posponendo loro i “diritti sociali” conseguiti nel XX secolo sia produttivo di consenso, soprattutto maggioritario. Significa scambiare (con gioia?) parte dello stipendio e della pensione per promuovere le unioni tra omosessuali, l’utero in affitto, ecc. ecc. Che ci guadagna la stragrande maggioranza?
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  • Quanto alla ragionevolezza va tenuto conto che il marxismo ha provato il carattere totalmente immaginario del proprio esito ultimo: la società comunista, cioè il paese dei balocchi. Ma il vizio non è stato perso.  Alla natura umana e all’ordine politico sono connaturali due caratteri: la paura della morte e la preoccupazione per il futuro.    Ambedue strumenti di governo (e di accettazione – consenso) del potere politico. Quanto al primo c’è stato il tentativo di sfruttare come instrumentum regni il Covid, e poi la guerra russo-ucraina. Quest’ultima, contraddittoriamente (per la sinistra) quale lesione alla libertà e sovranità di popolo.  Ma quale beneficio ne abbia tratto il PD (e soci) non si vede.
  • Quanto all’ansia per il futuro: ossia (anche) della sicurezza economica (propria e di tutti):  non si capisce quanta tranquillità agli italiani impoveriti possa venire (sia dai risultati che) dalle intenzioni dichiarate di un partito preoccupato di tutt’altro (LGTB et similia).
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  • Hobbes scriveva che concepire il futuro presuppone l’esperienza del passato “Un concetto del futuro è solo una supposizione circa il medesimo derivante dal ricordo di ciò che è passato; e noi, in tanto concepiamo che qualcosa avverrà di qui in avanti, in quanto sappiamo che c’è qualcosa al presente che ha il potere di produrla. E che qualche cosa abbia al presente il potere di produrre in avvenire un’altra cosa, non possiamo concepirlo, se non grazie al ricordo che esso abbia prodotto la stessa cosa già altra volta”.   Ricordo che non è dei migliori.

 

  • Hjalmar Schacht,
  • Magia del denaro,
  • Oaks Editrice 2023, pp. 310, € 24,00
  • rec. di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Il nome di Hjalmar Schacht dice poco al lettore italiano contemporaneo (a meno che non sia uno storico dell’economia): banchiere, finanziere, commissario per la moneta (1923), Presidente della Reichsbank, Ministro delle Finanze e dell’Economia nazionale di Hitler. Dimessosi da Ministro, nel 1944 fu incarcerato perché sospetto di aver avuto contatti con i congiurati del 20 luglio e, poco tempo dopo – giudicato per crimini di guerra (e assolto) dal Tribunale di Norimberga.
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  • Il suo prestigio era tale che continuava, nel secondo dopo guerra ad ispirare le riforme economiche e finanziarie nella Germania occidentale, e fare il consulente di altri Stati. Quale “tecnico” dell’economia, operò e collaborò con governi di quattro “formule politiche” (scriverebbe Gaetano Mosca): l’Impero guglielmino, la repubblica di Weimar, il regime nazista e la repubblica federale. Il fatto che abbia goduto di fiducia e considerazione pluripartizan è la conferma delle sue capacità fuori dal comune; e dei risultati conseguiti. Pertanto, in un periodo storico come l’attuale, turbato da crisi la cui soluzioni e – almeno in Italia – e secondo la comunicazione mainstream – dovrebb’essere “tutto il potere ai tecnici”, è quanto mai opportuna la ri-pubblicazione di questo libro. Non foss’altro per rendersi conto della differenza tra Schacht e qualche insegnante promosso a governare in Italia “per fare i compiti a casa”.
  • ...
  • In effetti Schacht appare come risolutore di crisi economiche. Tante ne dovette affrontare nella sua carriera di banchiere pubblico, e fu decisivo per superarle.  Dall’inflazione del marco all’inizio degli anni ’20 al pagamento delle riparazioni imposte a Versailles, dal pagamento del debito estero alla grande crisi del ’29.  Scrive Schacht “problemi, come quelli che il periodo 1920-1940 ha sollevato, non sono apparizione sporadica ma che, invece, di tempo in tempo, tornano a presentarsi nella medesima forma o in un ‘altra simile”. In effetti problemi non troppo dissimili si sono presentati in questo secolo, anche in forma diversa e spesso attenuata dallo sviluppo del Welfare State dopo la crisi del ’29.  Quello che il grande banchiere non ha mai dimenticato è che la moneta e la banca si reggono sulla fiducia e quindi sulla responsabilità del banchiere nell’erogare il credito “Alle false strade della politica monetaria appartiene l’assunzione di crediti quando sulla possibilità della loro restituzione non ci si dà, con eccessiva leggerezza e irresponsabilità, alcun pensiero”.
  • ...
  • Emerge così dal libro quella che si può definire l’etica di ruolo del banchiere, soprattutto del banchiere centrale. Non bisogna dimenticare come Schacht, il quale con la sua genialità aveva contribuito a finanziarie la ripresa degli anni ’30 e il riarmo della Germania, si dimise nel 1937 da Ministro quando si accorse che la politica hitleriana avrebbe portato la Germania alla distruzione (e quindi all’insolvenza). Nelle ultime righe Schacht scrive “È sempre la magia del denaro a porre problemi. Problemi che cambiano sempre e per i quali, dobbiamo rendercene conto, non esiste un sistema risolutivo valido genericamente. Ogni nuova situazione richiede nuovi metodi, nuove intuizioni, nuove idee. Alla base di tutto, comunque, deve esserci sempre e soltanto questa considerazione: mantenere in buona salute la moneta tedesca”.   Un libro da non perdere anche per capire e valutare l’oggi.

 

  • storia come arte5

  • Marcelino Menéndez Pelayo
  • La storia come arte
  • Iduna Editrice
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • Chi scrive è fermamente convinto che sia ineludibile il confronto con le filosofie della storia. Stante le lezioni di Löwith, Voegelin e Strauss, esse sono il prodotto dell’immanentizzazione del fine della storia cristiano (la Redenzione) e hanno prodotto le tragedie del secolo XX.   Negli esiti sono risultate anticristiane, nelle premesse condividono pienamente lo schematismo del provvidenzialismo storico.   Abbiamo letto con interesse il volume dello studioso spagnolo Marcelino Menéndez Pelayo, La storia come arte, nelle librerie per Iduna Editrice, a cura di Massimo Maraviglia (per ordini: associazione.iduna@gmail.com, pp. 87, euro 12,00).
  • ...
  • L’autore (1856-1912) animò la vita culturale spagnola della seconda metà del secolo XIX e dell’inizio del XX secolo.  Introdotto nei circoli intellettuali e in quelli dell’aristocrazia, genio eclettico, precoce e versatile, produsse un numero considerevole di opere, connotate, in uno, da ampia erudizione (i suoi scritti sono supportati da una bibliografia davvero sterminata), ma anche da empatia per le tematiche trattate. Spaziò dalla filosofia alla teologia, dall’estetica alla letteratura: il suo approccio fu, per ampiezza di interessi, rinascimentale.   Amò la Spagna, la sua cultura, le sue tradizioni e, convintamente, in un’epoca nella quale il laicismo era prepotentemente comparso perfino sulla scena politico-culturale del paese iberico, si disse cattolico.   Va rilevato, come opportunamente chiarisce il curatore, che le diverse discipline cui si dedicò, trovarono un punto di convergenza negli studi storici o meglio negli studi mirati a individuare il senso della storia.
  • ...
  • Il testo che brevemente andremo a discutere, La storia come arte, in realtà è la prolusione che lo studioso pronunciò il 2 marzo 1883 quando, giovanissimo, fu ammesso all’Accademia Spagnola della Storia. Testo breve che, nella sua sinteticità, rappresenta una sorta di manifesto della visione del mondo dell’autore. Si tratta di un volume centrato sulla polemica anti-positivista. L’Europa stava entrando, in quel frangente, nel clima culturale storicista, in cui il positivismo, soprattutto di matrice tedesca, svolgeva un ruolo di primo pano.   Di contro alle posizioni “scientifiche” dei positivisti, alla ricerca dell’oggettività storica, lo spagnolo in queste pagine mette in luce il legame che lega la storia all’arte.   Faccia attenzione il lettore! I critici del positivismo si rifacevano all’arte: «non tanto per la possibilità di sganciarsi dal rigore di un storia attentamente documentale, quanto per l’angustia di un sapere che, idolatrando il fatto, metteva in ombra le sue risonanze di senso» (p. XVIII), nota Maraviglia.
  • ...
  • Menéndez Pelayo riteneva indispensabile il rinvenimento del senso degli eventi storici e riteneva che lo studioso serio dovesse andare, inoltre, alla ricerca delle regolarità che si manifestano nel percorso umano.  Per questo, nelle sue tesi, antropologia e teologia sono pensate in uno.   Negli eventi i fattori dirimenti, a suo dire, sono il libero arbitrio, la Provvidenza e l’identificabilità in essi della legge morale: «Lo storico […] doveva cercare il senso dei fatti, mai perdendo di vista […] le lampade che illuminavano il corso degli eventi: libertà, Provvidenza, morale» (p. XIX), anche se la razionalità della storia non doveva essere interpretata in termini rigidamente deterministici. Nella storia vigono, a dire del pensatore iberico, tre leggi: 1) legge della continuità solidale, tendente a leggere il procedere umano in termini di continuità e non in modalità rivoluzionaria; 2) legge dell’ evoluzione storica, conseguenza della precedente ed esprimente, in particolare, che: «i fattori della storia esprimono una sorta di conatus in direzione di un dipanarsi ragionevole del filo degli accadimenti» (p. XX); 3) la legge dell’influsso dei grandi uomini. Questi ultimi vengono liberati, nell’esegesi dello studioso spagnolo, dalla soggezione all’hegeliana “astuzia della ragione”, in quanto: «la Provvidenza regna, ma alla fine è l’uomo che decide» (p. XX).
  • ...
  • Avverte, profeticamente, il nostro autore, che i popoli europei, oltre al rischio dell’esaltazione del ruolo politico della classe presente in Marx, sarebbero andati incontro all’universalismo cosmopolita, irrispettoso delle differenze e delle identità.  Menéndez Pelayo riteneva la storia prossima all’estetica, non semplicemente per la sua narrazione, che doveva avere tratto affabulante, ma: «relativamente a tutto il suo contenuto che, […] deve restituire la forma ideale dell’essere uomini […] un nucleo fondativo che ci dice cosa è necessario perché vi sia un uomo e che cosa debba risplendere ovunque vi sia un uomo» (p. XXI). La sua analisi è intrisa dall’idea del divenire, dell’evolversi di tutte le cose. Esse, di contro, sono lette nel loro collegamento con l’universale, con l’idea platonica che il Nostro apprezzò, assieme allo spirito classico, nel suo intenso percorso formativo.
  • ...
  • La sua proposta, prendendo le mosse dalla critica al positivismo, allo storicismo, in realtà ci pare una falsa via di uscita dal loro scacco. Egli, di fatto, propone un ritorno alla teologia della storia, sia pur tentando di mitigarne l’aspetto deterministico. Se si pone all’inizio di tutto Dio, o qualsivoglia principio d’ordine, lo stigma necessitarista risulta insuperabile.  Forse i “krausiani”, i panteisti e alcuni tra gli “eterodossi” che tanto criticò, nella loro ri-scoperta della physis greca, quale luogo esclusivo del darsi del principio infondato della libertà-dynamis, potrebbero rappresentare il riferimento ideale per superare tanto le teologie quanto le filosofie della storia.  La visione “aperta” del tempo, nietzschiana-heideggeriana-locchiana, mira infatti al sempre possibile Nuovo Inizio dell’origine.   Paradossalmente, proprio per questo, La storia come arte è libro importante, da leggersi con attenzione.    Svolge la stessa funzione, nella definizione teorica dell’idea di storia “aperta”, che gli “eterodossi” ebbero nella costruzione del sistema di Menéndez Pelayo.

  • ALLA  C.P.I.  MANCA L’ISPETTORE GINKO
  • di
  • Teodoro Klitsche de  la Grange
  • La notizia che la Corte Penale Internazionale ha spiccato un mandato d’arresto nei confronti di Putin non è inaspettata: è un altro tassello della tendenza, tutta moderna (ma non solo) a confondere la politica con il diritto, e segue l’altra simile, di confonderla con la morale.
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  • Altri exploits del genere, come quando anni orsono, alla Corte erano intenzionati a procedere nei confronti dei funzionari USA per gli abusi sui detenuti a Guantanamo, furono respinti dall’allora amministrazione USA come pericolosi e irresponsabili. Ci sarebbe tanto da scrivere su quella confusione, sulla funzione della politica e sul carattere del “trasgressore”, il quale in politica è il nemico, nel diritto penale il reo. Mi limito ad alcune breve considerazioni.
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  • La C.P.I. nacque, per così dire, zoppa: ad onta delle grandi manifestazioni di giubilo che ebbe in Italia quando fu istituita, si capiva che non avrebbe avuto vita e azione facile dal fatto che tutti gli Stati che avevano maggiori possibilità di trasgredire la normativa applicanda, si erano ben guardati dal ratificarne il trattato istitutivo: Russia, USA, Cina, Turchia, India, molti paesi arabi ed Israele. Oltretutto il fatto che la C.P.I. fosse competente a giudicare del “crimine di aggressione” giovava a tenerne lontani tutti gli Stati che avevano intenzione non solo di farla, ma anche di essere coinvolti in una guerra (v. sopra), anche se (talvolta) non aggressori.
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  • In secondo luogo: la C.P.I. non ha una forza pubblica che ne esegua le decisioni, attività rimessa alla cooperazione degli Stati. Ovviamente poco intenzionati a farlo ove a subirle fossero politici e funzionari degli stessi. Da qualche secolo il carattere distintivo (e intrinseco) del diritto è di essere applicato con la coazione. Come scriveva Kant “al diritto è immediatamente connesso, secondo il principio di contraddizione, la facoltà di costringere colui che lo pregiudica” per cui “Diritto e facoltà di costringere, significa dunque, una cosa sola”. Lo Stato moderno, che ha rivendicato a se il monopolio della violenza legittima (e della decisione politica) è l’istituzione che ha assunto la funzione di applicare il diritto esercitando il monopolio della coazione. Ma se, come nel caso delle decisioni della C.P.I., per essere eseguite sono rimesse al bon plaisir degli Stati, il problema reale è quello di convincerli o costringerli a farlo. Col che il tema della forza, apparentemente uscito dalla porta, rientra dalla finestra. E in effetti i casi di applicazione di indagini e decisioni della C.P.I. concernono ex governanti di Stati falliti o convinti, magari con qualche previo bombardamento di persuasione, a farlo.
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  • Così come avvenuto per il processo di Slobodan Milosevic (e altri) dell’analogo (alla C.P.I.) Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia. Ma, data l’altissima improbabilità che la decisione venga eseguita, quali effetti può avere? Quelli più facilmente prevedibili e di contribuire col timbro della C.P.I. alla criminalizzazione di Putin, cioè del nemico, e, quindi forse, a rinfocolare il sentimento d’ostilità – per la verità non imponente – dei popoli della “coalizione anti-russa” nei confronti dell’arcidiavolo del Cremlino.   L’altro, connesso, è che criminalizzare il nemico, se può soddisfare la vittima ha in genere l’effetto di intensificare e prolungare la guerra. E qua passiamo ai caratteri distintivi tra “politico” e “diritto” e alle regole che derivano dalle differenze.
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  • La prima delle quali è che, come scriveva Hegel, “non c’è il Pretore tra gli Stati”; non essendoci un’istituzione terza (il “Pretore”) in grado di costringere i belligeranti, l’unica possibilità è che un terzo/i volenteroso/i e soprattutto equidistante/i, si offra di arbitrare il conflitto, anche prospettando sanzioni in caso negativo o benefici in quello positivo. Ma questo terzo/i è in genere un altro Stato: e nel caso che tutti gli Stati che finora hanno manifestato (o realizzato) di voler mediare (la Cina) o raffreddare le ostilità (come la Turchia per le esportazioni di cereali) sono Stati che, avuto riguardo (soprattutto) al loro interesse sono, intervenuti in tal senso. Cioè a mediare: non Tribunali istituiti per condannare
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  • La seconda è che il nemico in politica non è un criminale: e tale distinzione (già nel Digesto) non è dovuta tanto ad un disprezzo per regole, leggi, norme, quanto alla considerazione realistica che, essendo l’ostilità e i conflitti coessenziali alla politica, il nemico non è solo colui con cui si fa la guerra, ma anche quello con cui si tratta la pace. A meno di non volerne la distruzione totale, come entità politica se non fisica; come nel caso di resa incondizionata e successivo processo quale criminale di guerra. Ma una tale prospettiva è tutt’altro che incentivante la pace. Un bel processo e un’esemplare condanna, sono poca cosa rispetto ai tanti danni che proseguire un conflitto provoca. Un morto in più, prima della guerra, come detto da millenni da Plotino (il “visir” di Tolomeo perorante l’uccisione di Pompeo) fino ad un ex Presidente del Consiglio italiano qualche giorno fa, può evitarne anche decine di migliaia, se eseguito prima o durante la guerra. Ma nessuno, a guerra conclusa.

  • I cani del tempo

  • I cani del tempo
  • Icone della pazienza
  • di 
  • Andrea Tagliapietra
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
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  • La società post-moderna è centrata sul primato dell’impazienza. Tale modo di essere permea le nostre vite. Per dirla con le parole di Andrea Tagliapietra, filosofo teoretico impegnato nella definizione di un modo di esperire l’esistenza che si ponga oltre i dualismi metafisici, essa: «può essere ritenuta la cifra contemporanea dell’esperienza soggettiva» (p. 7). La citazione è tratta dalla sua ultima opera, I cani del tempo. Filosofia e icone della pazienza, nelle librerie per Donzelli editore (pp. 191, euro 34,00).   Libro davvero importante, nelle cui pagine la ricerca filosofica è strettamente intrecciata con l’esegesi della produzione pittorica che, nel corso del tempo, ha fatto oggetto di rappresentazione l’animale domestico per eccellenza, il cane, simbolo della virtù della pazienza. Il volume è cruciale soprattutto per chi, come lo scrivente, sia convinto che l’orizzonte dischiuso dalla physis, possa rappresentare l’unica trascendenza cui guardare e in cui tutto è incluso.
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  • Un testo, quello di Tagliapietra, non di mera erudizione accademica ma aperto, con decisione, alla critica del presente. Il pensiero critico: «non può rinunciare a essere anche una critica radicale della forma assunta oggi dall’esperienza soggettiva […] dal momento che essa viene intesa come una figura storica epocale» (p. 7).  Siamo tutti perpetuamente proiettati, sia pur ormai in forma secolare e “spettacolare” sul futuro. Solo la virtù opposta al tratto costituivo del presente, la pazienza, può richiamarci: «a una dimensione essenziale del nostro essere […] del nostro corpo come dell’ambiente naturale che ci circonda» (p. 8).   Tale dimensione altro non è se non il tempo della vita, del corpo e dell’attenzione nei confronti di ciò che è. Ben lo sapevano i Greci, soprattutto Eraclito, che il corpo presenta una trasparenza silenziosa, che si vela nel momento in cui si cerchi di illuminarla, di porla sotto i riflettori della conoscenza logistica. Il lògos aurorale ellenico non conosceva distinzione di anima e corpo né, tantomeno, quella uomo-animali-enti di natura. Solo nella rappresentazione animale, oltre l’antropocentrismo, torna a mostrarsi la vita nuda.   Tagliapietra presenta, pertanto, un percorso ideografico nel quale la teoresi abbraccia la storia delle idee, ponendoci al cospetto delle icone del pensiero: «che esplorano la metafora animale in prossimità con l’essere umano» (p. 9).
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  • L’ideografia mette in scena la prossimità delle diverse forme viventi, alla luce del “limite” che le connota, nella consapevolezza della loro vulnerabilità, che gli permette di assumere il volto della pazienza.  Nella pittura europea il cane, generalmente, appare quale “dettaglio”, ai margini del soggetto principale della rappresentazione.  Tagliapietra dimostra come le figurazioni pittoriche dell’“amico dell’uomo”, altro non siano che simboli del tempo.  Mentre, stante la lezione di Agostino, il concetto e l’idea non riescono a “definire” la temporalità, essa prende corpo e consistenza nell’icona.   In ogni caso, anche per il filosofo d’Ippona, il luogo della “misurabilità” del tempo, è l’anima: «L’anima c’è in tutto ciò che vive, eppure il suo essere è impossibile da dire» (p. 11). Di essa, ne ebbe contezza Klages: «può darsi un’immagine» (p. 11). Questa è atta a ospitare l’erranza della verità, la sua “catastrofe” logica.   Tali icone presentano esemplarmente la coincidentia oppositorum: «le immagini pensano senza parole, attirano coloro che le guardano in un’attesa silenziosa carica di pensieri, ci invitano alla pazienza di vederle più da vicino» (p. 13). Simmel aveva intuito che il ritratto era atto a ripristinare l’unità antropologica di interiorità e esteriorità, di anima e corpo, in quanto: «l’artista […] mostra l’anima come qualcosa di visibile» (p. 15). Nonostante ciò, egli rimase prigioniero della visione antropocentrica e metafisica, non riconoscendo l’anima: «in quella visibilità metamorfica della vita […] ma nell’espressione dell’individualità umana» (p. 15).
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  • Lo scarto ontologico tra uomini e altri esseri viventi, di fatto, non è mai venuto meno nel pensiero europeo (in tal senso eccezioni possono essere rappresentate da Fechner, Bruno e Derrida, i quali leggono gli enti quali manifestazioni sempre all’opera della dynamis).   Il paradigma iconico da cui prendono avvio le pagine di Tagliapietra è dato dal dipinto, Due cani da caccia legati a un ceppo (1548-50) di Jacopo da Bassano.   In questa pittura ciò che si coglie del soggetto: «è la sua passività […] la sua temporalizzazione» (p. 17).   In siffatto contesto, l’anima indica il patire, che indica, in uno, soffrire, certo, ma anche vivere di passione, situazioni esistenziali proprie di tutto ciò che è soggetto al tempo. Nel dipinto è in gioco la singolarità, ciò che Andrea Emo, con linguaggio attualistico, definì la presenza, ciò che rende unico e insostituibile ogni essere vivente: «il tempo si concentra senza passare, si deposita nella splendida icona del corpo animale, nella sua durata, senza tradursi nell’intenzionalità e dispersiva cinetica dello spazio» (p. 25).   È un tempo che si addensa quello cui i cani della pittura alludono. Nell’assecondare tale intuizione, l’autore compie l’analisi di alcune opere di Dürer, attraverso le quali si sofferma sulla focalizzazione di tre “figure”, nelle quali la durata può darsi: la noia intesa come accidia, la pazienza e l’attenzione. Tagliapietra prosegue con la presentazione del fondamento della pazienza, soffermandosi sulle modalità, attraverso le quali, esso si manifesta nelle opere di Goya, Carpaccio e Turner.
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  • Al centro del terzo capitolo sta la figura paradigmatica di Argo, cane di Ulisse, simbolo della scuola cinica. In essa, il cane era assunto: «come modello di vita anarchica» (p. 26). L’ermeneutica dei dipinti di Jean-Léon Gérôme permette, di contro, l’approfondimento della nozione di pazienza anestetica, cui mirarono i saggi dell’antichità. Tagliapietra discute, inoltre, le figure bibliche di Tobia e Lazzaro e della loro presenza nei dipinti di Leonardo, Tiziano, Rembrandt e del Verrocchio. La pazienza, rappresentata in tali pitture, ha il tratto dell’inquietudo: essa sorge di fronte al dolore e alla sofferenza altrui: «É una pazienza che […] mantiene intatta, nella vigilanza dell’attenzione e nella quotidianità della cura, la sua originaria carica messianica» (p. 27).   Infine, vengono presentati esempi di pitture dell’800 e del ‘900. Si tratta di opere di Bacon, Marc, Lautrec, in cui i cani, icone del tempo, ci conducono alle soglie della pazienza antitetica al lavorismo della mobilitazione totale contemporanea: «Si tratta della pazienza come stato di attenzione senza finalità né oggetto, ovvero la disposizione di chi si abbandona all’immanenza e alla pura durata» (p. 27).
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  • Questa pazienza è extrasoggettiva. A essa pervenne Heidegger sulla scorta di Eckhart, riproponendo la dimensione della Gelassenheit, di “abbandono”. Uno stato di attenzione senza finalità né oggetto, presente nel dipinto di Franz Marc, Cane di fronte al mondo del 1912. Per Marc: «i dipinti di animali non erano paesaggi naturalistici, né ritratti, ma piuttosto icone cromatiche dell’armonia silenziosa della natura e della sua serena durata» (p. 171). All’eterna metamorfosi della physis bisogna tornare a guardare, oltre i drammi della storia, al fine di liberarci dell’impazienza contemporanea.

  • IL FANTASMA DELLA NAZIONE Campi

  • IL FANTASMA DELLA NAZIONE
  • Per una critica del sovranismo
  • di
  • Alessandro Campi
  • (Marsilio Editore, Venezia 2023, pp. 205, € 15,00)
  • rec. di
  • Teodoro Klitsche de la Grange


  • Diversamente da quanto più frequentemente si legge, questo saggio formula una critica al sovranismo, che è scientifica e lungimirante. Al contrario, per l’appunto di quanto raccontato nei media maenstream, dove a parlare di Nazione è regola pronunciare formule (e termini) esorcizzanti, e ancor più fare una gran confusione: tra Cavour e Mazzini da una parte e Alfredo Rocco e Enrico Corradini dall’altra (per non parlare di Mussolini). Ovvero tra il sentimento patriottico del risorgimento e quello dei nazionalisti e del fascismo.
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  • Il primo – tra i non pochi pregi del libro – è così rimettere a posto significati, definizioni (e appartenenze). Tanto per fare un esempio il sentimento (nazionale) risorgimentale era quello di una Nazione che voleva costituirsi in Stato, di guisa da non dipendere dagli altri Stati, di gran lunga superiori agli Stati pre-unitari per popolazione, territorio, risorse, per cui era una rivendicazione di indipendenza ed autonomia. Mentre il nazionalismo dei Rocco e Corradini era una rivendicazione di potenza nei confronti di altri popoli – coloniali soprattutto. Il primo era difensivo, il secondo d’aggressione: distinzione essenziale che ancora gli ideologi del pensiero unico non riescono (o non vogliono) afferrare.
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  • Particolarmente interessante è il pensiero di Campi sul rapporto tra destre e nazione, visto (anche) i diversi – e talvolta opposti - modi di declinarlo. In Italia, scrive Campi “quello tra destre (al plurale) e nazione è stato un rapporto per certi versi ambiguo e controverso, discontinuo e accidentato, fortemente rivendicato sul piano ideale quanto scarsamente produttivo su quello politico, che ha finito per generare un nazionalismo-patriottismo più che altro sentimentalistico e retorico, letterario, estetizzante e occasionalistico, come tale incapace di definire una chiara visione degli interessi nazionali dell’Italia… Potremmo dire che la nazione-mito, facile da invocare sul piano della propaganda e in chiave di mobilitazione politica, ha prevalso a destra sulla nazione-progetto, intesa come realizzazione nel concreto della storia di un disegno politico collettivo o comunitario”. Onde la destra italiana, non sembra “sia mai riuscita a elaborare una dottrina nazionalistica coerente e organica in grado di saldare il richiamo all’idea di nazione con un forte senso dello Stato e di tradurre quel richiamo sul terreno della progettualità politica”. A intenzioni “buone” hanno corrisposto spesso risultati modesti o addirittura pessimi. Tralasciando, per ragioni di spazio, tutte le interessanti analisi di Campi sul rapporto con la Nazione delle varie destre (risorgimentale, nazionalista, fascista, della prima repubblica, della seconda), veniamo all’attualità.
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  • Nel presente la concezione di destra della Nazione, o meglio dello Stato nazionale “è la forma politica che assume l’identità collettiva di una comunità interessata a mantenere la propria integrità contro chi la insidia”. In effetti, scrive l’autore “la prima cosa che colpisce nel sovranismo populista, nelle diverse declinazioni che ne sono state offerte dalla politica italiana recente, è il suo carattere meramente difensivo e reattivo”. Se questo costituisce un pregio rispetto alle declinazioni “aggressive” del nazionalismo, ha il difetto di suggerire “un ripiegamento a difesa di ciò che si ha e di ciò che si è, soprattutto di ciò che si teme di perdere. Il sovranismo, in altre parole, è una dottrina della decadenza, è il nazionalismo dei popoli stanchi”. Oltre che l’altro difetto di commettere imprudenze in politica estera. Per cui “Più che una dottrina politica o un progetto ideologico, il sovranismo, come spesso viene declinato soprattutto dalla nuova destra di Salvini e Meloni, può dunque essere considerato un espediente politico-psicologico, grazie al quale si offre un antidoto momentaneo e provvisorio alla paura e all’incertezza in cui oggi si trovano molti individui e interi strati sociali”. Infatti manca il progetto che costituisca una realistica visione del domani. Malgrado la Nazione, sostiene Campi nelle ultime pagine, sia tutt’altro che “obsoleta” e superata. Lo dimostra come possa coniugarsi con la democrazia e il pluralismo “L’unità della nazione, assunta come presupposto del pluralismo, è dunque ciò che consente agli attori di una democrazia di dividersi senza il timore che la comunità si disgreghi o scivoli sul terreno di un conflitto aperto e letale. Questa connessione tra democrazia e nazione viene spesso sottovalutata dai critici di quest’ultima. Mentre invece rappresenta una interessante scommessa per il futuro”.
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  • Due note a conclusione. È inutile ricordare come il saggio, come in genere, l’opera di Campi sia ispirata al pensiero politico realista, molto spesso rigettato (o demonizzato) dal “pensiero amico”.
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  • Secondariamente se è vero che la Nazione nelle “vecchie” concezioni delle varie destre italiane si è per lo più manifestata in declamazioni roboanti e risultati modesti, onde non è confortante per il futuro, è anche vero da un lato che i sovranisti-populisti praticamente non sono mai andati al governo se non con il Conte 1 nel 2018 e poi da qualche mese con la Meloni, onde si può sperare che col tempo possano realizzare, almeno in parte, quanto promesso,
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  • Anche perché, purtroppo, la situazione italiana ha raggiunto il fondo del barile nel decennio trascorso (il peggiore della pur cattiva “seconda Repubblica”). Il che dà ai sovranisti un compito assai difficile, simile a quello descritto da Machiavelli nell’ultimo capitolo del Principe: di risollevare un popolo impoverito (e così anche indebolito) da élite politiche (e istituzioni) decadenti. E che soprattutto per questo da quasi dieci anni da un consenso maggioritario (intorno al 55-60% dei voti espressi nelle elezioni succedutesi) agli avversari di quelle élite.
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  • Operare meglio delle quali non è impossibile, fare un miracolo sì.

  • Gordio

  • La discorde concordia Jünger-Schmitt
  • La nuova versione Adelphi de
  • Il nodo di Gordio
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
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  • Torna per i tipi di Adelphi, a cura di Giovanni Gurisatti, un libro cruciale e attualissimo, Il nodo di Gordio di Ernst Jünger e Carl Schmitt (pp. 238, euro 14,00). Il libro raccoglie lo scritto jüngeriano, uscito in prima edizione nel 1953 e la risposta del filosofo e giurista tedesco che apparve due anni dopo, nel 1955. Il volume è, quindi, momento centrale del’intenso e lungo colloquio intrattenuto tra i due pensatori. Il dibattito ebbe, inoltre, un altro deuteragonista, almeno per quanto attiene al problema della tecnica: Martin Heidegger. Ricorda, a riguardo, il curatore che, fin dalla pubblicazione negli anni Trenta, de Il Lavoratore di Jünger, Schmitt elaborò la propria esegesi della trasformazioni dello Stato liberale in Stato “potenzialmente totale”, confrontandosi, in “discorde concordia”, con le intuizioni di Jünger. Questi aveva chiarito che i cambiamenti introdotti dalla mobilitazione totale, spingevano verso il costituirsi di uno spazio globale planetario.
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  • Sullo sfondo, nell’universo concettuale jüngeriano, iniziò a farsi strada l’idea dell’inevitabilità del Weltstaat, uno Stato mondiale, in quanto, chiosa Gurisatti: «Solo in esso si trova l’unità di misura di una superiore sicurezza che investe tutte le fasi del lavoro in guerra e in pace» (p. 217). Il problema sollevato da Jünger era, in quel frangente storico, al centro delle riflessioni di Schmitt. Questi leggeva lo Stato planetario quale organismo irrispettoso, è sempre il curatore a rilevarlo: «della concretezza spaziale […] il principale nemico del politico tout court» (p. 218). Vero e proprio distruttore delle differenze, del pluralismo e della dimensione polemologica connotante di sé il politico pensato come categoria. Sostanzialmente, il filosofo del diritto giudicava la posizione dello scrittore: «ingenuamente spoliticizzante» (p. 219). All’inizio degli anni Quaranta, Schmitt, opponendosi in uno agli universalismi politici del capitalismo occidentale e del bolscevismo orientale, si fece latore della necessità di difendere la sostanzialità politica dell’Europa, affinché questa divenisse propagatrice di un nuovo nomos della terra, nella contingenza storica che si annunciava con la fine del Secondo conflitto mondiale.
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  • Egli, all’unità globale, iniziò a opporre l’idea di un mondo multipolare, articolato in una pluralità di spazi concreti, pregni di senso, costruiti sulla tradizione. Il nodo di Gordio, per Schmitt, ha al proprio centro il binomio Europa-Germania (e continuò ad averlo anche dopo il crollo del Terzo Reich). In tale congerie, anche Jünger si interrogò sull’Europa. Il Vecchio continente avrebbe dovuto rifondarsi in termini di unità geopolitica di molteplici madre-patria. Solo a tale condizione, gli europei avrebbero potuto assurgere al ruolo di garanti degli equilibri Est-Ovest. In ogni caso, a suo dire, lo Stato mondale rimaneva il telos cui tendevano le sorti della storia. Tesi ribadita in Oltre la linea, che suscitò la reazione del giurista. Jünger interpretava, inoltre, in modalità impolitica il rapporto Oriente-Occidente, derubricandolo a polarità archetipica, elementare, contrassegnante ab initio la storia e la coscienza dei singoli. Pertanto, per lo scrittore, a valere non sono tanto la storia e il politico, quanto la dimensione destinale.
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  • In ciò è da cogliersi la divergenza più profonda tra i due: Schmitt, a differenza dell’amico, legge il nodo Oriente-Occidente in termini concreti, storico-dialettici, quale contrapposizione di terra e mare. Tale dicotomia nulla ha a che fare con il “naturalismo” jüngeriano. Per Jünger, infatti, al polo Oriente corrisponde il mythos. L’Oriente è quindi latore dell’idea della Madre Terra, del destino e, in ambito politico, del principe-dio. Al contrario, l’Occidente è eminentemente ethos, libertà, storia, principe-rappresentante. Quella di Hitler, in tale prospettiva, è stata figura segnata in senso “orientale”. Per Schimitt dalla parte della terra sta il mondo continentale, Russia e Asia.   Dalla parte del mare, al contrario, egli collocava l’Occidente mercantile e liberale. Al centro, tra i due, L’Europa. Nei secoli dal XVI al XIX la storia europea ha oscillato tra due diverse configurazioni geo-politiche: la prima annoverava in sé le “telluriche” Francia, Spagna e Germania, la seconda era rappresentata dall’Inghilterra che aveva espresso, in tutta evidenza, lo spirito marittimo. La prima Guerra mondiale mise in scacco lo jus publicum europaeum. L’opzione tra i due poli costituisce, pertanto, il vero e proprio nodo di Gordio della modernità. La terra è nomos, radicamento, confini e tradizioni, il mare è techne, lo sradicamento errante.    L’Europa è, quindi: «sottesa tra “casa” e “nave”» (p. 228).    Tagliare il nodo implica, ancor oggi, tentare di sottomettere la techne, al fine di riaffermare il nomos: «La sottomissione della tecnica scatenata: questa sarebbe […] l’azione di un nuovo Ercole! […] la sfida del presente» (p. 229).
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  • Per Jünger, solo l’etica occidentale della libertà avrebbe potuto riuscire in tale titanica impresa. Il nodo, nella sua prospettiva, non andrebbe tagliato, ma sciolto attraverso il “patto” tra contendenti. Al contrario, a dire di Schmitt la soluzione è da individuarsi nell’affermazione storica di diversi “grandi spazi”, capaci di realizzare tra loro equilibrio geo-politico. In tale contesto, assegna all’Europa ruolo dirimente, facendo affidamento sulla nascita di un patriottismo continentale, centrato sulla sostanza spirituale degli uomini che la abitano. Le posizione tra i due sono discordi nella concordia, in quanto, nonostante il riferimento al Weltstaat, lo scrittore tedesco non escludeva il costituirsi dell’Europa quale patria sostanziata dall’ethos: «In Europa abbiamo la capacità di rispettare qualcosa che si trova al di fuori dell’uomo, e che ne determina la dignità» (p. 86).    Una sorta di equivalente della sostanza spirituale a cui si riferiva Schmitt.   Se ciò è vero, l’approccio “archetipale” jüngeriano al problema, mostra la propria insufficienza nell’aver depoliticizzato il nodo, la relazione Oriente-Occidente.
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  • Dalla situazione attuale lo si evince con chiarezza: la posta in gioco per noi europei, non è solo politica, ma storica. L’assunzione della funzione di “grande spazio” è l’unica a poter garantire la sopravvivenza del Vecchio continente. Solo a tale condizione, come rileva Gurisatti, si potrà ancora parlare di un’Europa possibile.   Possibilità è potenza, recupero dell’originaria vocazione politica e civile della nostra cultura.

  • Cop. COOGAN OK

  • L’I.R.A. e l’indipendentismo irlandese
  • Un saggio di T. P. Coogan
  • di
  • Giovanni Sessa
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  • La storia dell’indipendentismo irlandese è stata segnata da gesti eroici, da sacrifici estremi e dal ricorso, in alcune circostanze, all’uso della violenza. Al centro di tale congerie storica sta l’I.R.A., l’esercito indipendentista repubblicano, la cui origine e le cui vicissitudini interne sono chiarite dalla pagine di un interessante volume di Tim Pat Coogan, Storia delle origini dell’I.R.A. (1919-1970), nelle librerie per Oaks editrice, con prefazione di Fiorenzo Fantaccini (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 317, euro 24,00).
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  • L’autore nacque in una famiglia segnata dal nazionalismo. Il padre contribuì, lo ricorda il prefatore, alla creazione del sistema giudiziario irlandese, sorto in sostituzione di quello inglese. Negli anni Quaranta fu segretario del Fine Gael, gruppo politico moderato sorto dalla scissione del Sinn Féin. La madre, attrice e giornalista, pubblicò un romanzo storico di grande successo, The Big Wind. Poco più che adolescente, Coogan iniziò a scrivere per l’Evening Press, divenendo più tardi direttore dell’Irish Press per circa vent’anni.
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  • Nel 1966 uscì un suo libro dedicato alla storia d’Irlanda dopo la rivolta del 1916. Fino ad allora, l’indipendentismo aveva avuto, quali riferimenti culturali, l’antica storia dell’isola di Smeraldo, la mitologia celtica e le suggestioni letterarie a essa legate. Era necessario, a dire del nostro autore, portare l’attenzione sugli eventi contemporanei. Il volume conteneva, allo scopo, un capitolo dedicato all’ I.R.A. Alla luce del successo di questo primo testo, a Coogan venne proposto di scrivere un libro pioneristico dedicato alla sola storia dell’I.R.A. Egli accettò e iniziò a lavorare alla nuova opera nel 1967. In quegli anni, l’esercito repubblicano sembrava essere “in sonno”, una sorta di “vulcano estinto”: «ma poco prima che il volume venisse pubblicato, nel 1970, in Ulster si erano verificate le rivolte settarie che segnarono l’inizio dei […] Troubles e che fecero riemergere con forza il conflitto tra la comunità cattolica e quella protestante» (p. III). Nel 1969 era, peraltro, sorta, a causa di divisioni interne, l’I.R.A. Provisional. Alcuni Ministri irlandesi furono accusati, ma in seguito assolti, di aver fornito armi a tale frazione rivoluzionaria.
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  • La Storia delle origini dell’I.R.A. ha un merito fondamentale. Non si avvale solo di una cospicua documentazione relativa al tema indagato, ma fa riferimento alle esperienze dirette di molti militanti, intervistati dall’autore. I quadri dell’esercito repubblicano, all’inizio, mostrarono diffidenza nei confronti di Coogan. Il capo di stato maggiore dell’I.R.A., Cathal Goulding, diede istruzioni ai suoi sottoposti di non rilasciare dichiarazioni di alcun tipo. Coogan, durante il primo approccio con loro, tese a rassicurali sulle sue intenzioni e, alla seconda intervista, ottenne informazioni di rilievo. Grazie a tale metodo, raccolse oltre cinquecento testimonianze, che rappresentano il cuore del volume che stiamo presentando. L’edizione italiana, ripropone la prima versione del libro, che in Irlanda fu un best seller. Successivamente, fino al 2002, il testo è stato editato più volte e aggiornato. La ricostruzione-narrazione storica prende le mosse dagli anni Venti e giunge fino agli inizi degli anni Settanta. L’esegesi della “questione irlandese” si spinge molto indietro nel tempo. Essa muove: «dalla colonizzazione delle sei contee dell’Ulster nel 1609 da parte di Giacomo I, alla creazione degli United Irishmen da parte di Wolfe Tone […] (e attraversa) la Grande carestia e alle (le) conseguenze dell’Atto di Unione d’Inghilterra e Irlanda del 1800» (p. VI).
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  • Il libro ricostruisce puntualmente la storia dell’I.R.A., sorta per difendere l’Home Rule e per realizzare l’unità irlandese, che avrebbe dovuto comprendere anche le contee del Nord. Lo statuto dell’esercito repubblicano venne redatto nel 1923. Da allora, l’organizzazione ha conosciuto fasi alterne di sviluppo. Sono particolarmente rilevanti i capitoli che l’autore dedica ai rapporti dell’I.R.A. con gli Usa, data la presenza in quel paese di un numero consistente di patrioti irlandesi, con la Russia e con la Germania nazista. Durante la Seconda guerra mondiale, infatti, i tedeschi avevamo interesse ad indebolire l’Inghilterra servendosi di atti di sabotaggio realizzati da appartenenti all’esercito repubblicano. La posizione di neutralità, assunta dal governo irlandese di de Valera, impedì che ciò accadesse. Importanti, ai fini storici, risultano i capitoli che indagano la campagna terroristica, messa in atto in Inghilterra, tra il 1939 e il 1940, il racconto degli internamenti dei repubblicani durante la Seconda guerra mondiale e le “Campagne del Confine” degli anni Cinquanta, che stanno a monte del conflitto etnico-religioso dei decenni successivi.
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  • Dalle interviste, ben raccordate con la documentazione fornita dall’autore, si evince l’eterogeneità ideologica dell’I.R.A. Coogan, a volte, si attarda nella descrizione di eventi drammatici che hanno avuto per protagonisti militanti dell’esercito repubblicano. Da un lato, condanna fermamente l’uso della violenza e precisa che il libro non ha, quale obiettivo, il proselitismo a favore della lotta armata, d’altro lato, dalle sue pagine si evincono il coraggio e l’idealismo dei membri dell’I.R.A. Quale paradigma delle intenzioni di Coogan potrebbe essere scelta la figura di Dan Breen che, nel 1919, assieme a un drappello di compagni, uccise due poliziotti inglesi. Questi, in seguito, si convertì alla prassi politica del Costituzionalismo, i cui obiettivi sono simbolizzati dalla bandiera d’Irlanda: «Sono profondamente convinto che l’unità irlandese sarà raggiunta […] non con la forza, ma con un accordo simile a quello della bandiera irlandese: verde per il Sud cattolico, arancione per il Nord protestante, e bianco per la pace tra le due parti» (p. 13).
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  • Nonostante ciò, Coogan riconosce di aver tratto dagli incontri con gli uomini dell’I.R.A. un insegnamento essenziale: la storia è il prodotto dell’azione umana.  Pertanto, nelle pagine in cui racconta la dura reclusione cui essi furono sottoposti o ne ricorda le esecuzioni sommarie, ne onora il coraggio, lo spirito di sacrificio, la memoria.

  • EUTANASIA  DI  UNA  RIVOLUZIONE?
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Sono fioccati abbondantemente i commenti all’elezione di Elly Schlein a segretaria del PD. Molti lieti, altri perplessi, altri ancora (meno) per lo più profetizzanti un compito in salita per l’esordiente leader.
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  • Qualche mese fa scrivevo, sull’insuccesso di Letta, che questo, più che alle proposte (ed alla “immagine”) del medesimo, era causato dal “ciclo” storico-politico. Per cui tra Repubblica “nata dalla resistenza” (ma con l’utero in affitto a Yalta) e comunismo (imploso nel 1989-1991) cioè padre e madre del PCI e, in genere, parenti stretti della sinistra italiana,  il PD si trovava con il secondo morto, ma anche la prima stava tutt’altro che bene. Per cui, nuotando controcorrente, era molto difficile trovare un capo con le qualità personali volte a invertire un andamento (generale) consolidato.
  • ...
  • E il tutto va confermato per la Schlein; anzi, l’ “immagine” della stessa può accelerare il destino del PD. Vediamo perché.
  • Ne Il suicidio della Rivoluzione, Del Noce scriveva che “l’esito dell’eurocomunismo non può essere che quello di trasformare il comunismo in una componente della società borghese ormai completamente sconsacrata”. Profezia avverata perché oggi il postmarxismo è quel “partito radicale di massa” che riceve il sostegno della grande finanza internazionale; la conseguenza è che il vecchio PCI sarebbe finito “nel suo contrario: voleva affossare la borghesia e ne è divenuto una delle componenti più salde ed essenziali”.
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  • A distanza di quasi cinquant’anni occorre riconoscere che la profezia di Del Noce si è realizzata, e la scelta della segretaria ne è l’ennesima conferma. Anzi l’incarnazione perché riassume in sé tutti i connotati dell’“ideologia” del PD: si dice sia LGBT, è sicuramente di buona famiglia borghese, ha tre passaporti, ha compiuto parte degli studi all’estero. Partecipa quale primo atto alla manifestazione antifascista. È inutile ricordare quanto scriveva Del Noce sull’antifascismo, citando Bordiga: che Gramsci “sostituendo” all’opposizione capitale/proletariato quella fascismo/antifascismo aveva dato “vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici”. E questa borghesia che Gramsci credeva di arruolare (e invece ha arruolato il PD) non è quella di Marx e neppure di altri pensatori, ma è quella in cui lo spirito borghese si manifesta finalmente allo stato puro; “in cui realizza pienamente quel che già aveva fatto per la natura, abolendo il mistero e la qualità, e sostituendoli con dati misurabili, quantitativi. L’ideologia spontanea della borghesia è il materialismo puro, il positivismo attento unicamente ai nudi fatti”; e il cui dominio si esercita in una forma totalitaria che agisce più col condizionamento/indottrinamento culturale (l’egemonia) che con la coazione (anche se dissimulata, ma non del tutto assente).
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  • In secondo luogo la Schlein, come ogni segretaria che il PD avesse scelto, dovrebbe far dimenticare il fallimento di tanti anni di potere (e di governo) della Seconda Repubblica, così deludenti in particolare per i ceti medi e popolari. Ma nulla dell’immagine della Schlein induce a suggerire un’identificazione dei suddetti ceti con la leader. È così difficile perché – e questo è il terzo aspetto - negli ultimi 8 anni si è concretizzato in Italia un blocco sociale tra ceti medi e popolari che è largamente maggioritario e anche coeso. La coesione dipende prevalentemente dal fatto di percepire come avversari coloro che costituiscono il blocco “globalista”.
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  • L’unica speranza è, come normale in politica, dissolvere il blocco avverso, applicare il divide et impera (cioè la riduzione del numero e della potenza dell’avversario).   Ma questa è la manovra più difficile, perché la sostituzione dell’opposizione amico/nemico è cosa che attiene più al zeitgeist che alle manovre di palazzo.   In queste il PD e il sui personale politico era (ed è) maestro: in quella non c’è un Principe che la possa fare.

 Piero Visani Contro il Leviatano


  • Piero Visani,
  • Contro il leviatano. Ripensare la politica, la storia, lo spettacolo,
  • Oaks editrice,
  • pp. 166, euro 20,00.
  • recensione  di  
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • È veramente spiacevole recensire un libro come questo, postumo, sapendo che non se ne leggeranno altri. Perché Piero Visani, da me recensito negli ultimi anni, nei suoi lavori aveva testimoniato di un pensiero libero ed anticonformista, e al contempo, nel solco della migliore tradizione del pensiero politico (e giuridico) moderno.   Nell’introduzione il figlio Umberto riporta uno scritto indirizzatogli dal padre, che gli aveva “sempre cantato le lodi di una concezione antimercantilistica, antieconomicistica, antiutilitaristica, antispeculativa dell’esistenza”, e che è la migliore sintesi dei diversi scritti raccolti
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  • E in effetti il libro consta di cinque parti: la prima sulla visione del mondo; la seconda sulla politica; la terza sulla guerra; la quarta sullo spettacolo; la conclusione, sugli scenari futuri.    
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  • Data la vastità dei temi, la sintesi sopra riportata, dovuta all’autore è quanto mai utile; tuttavia qualche altro passo può dare il senso di questo denso volume. Ad esempio sulla propaganda delle élites dirigenti che ci ha abituati a dissociare potere politico e militare da quello economico; e ancor più a dimenticare la “realtà effettuale” di guerra, nemico ed uso della forza (e così le condizioni di esistenza e azione politica). Ma a parte altro, la stessa propaganda criminalizza e indica al pubblico ludibrio chi non paga le imposte (di cui la classe dirigente vive), onde la considera l’autore così «si può essere contrari al sogno di una grande Italia, in piena legittimità, ma essere favorevoli alla pratica di una “grande Equitalia” è davvero incredibile, è un obiettivo da minorati mentali. A meno che i “morti di fisco”, come i morti fatti dagli americani e dagli occidentali in genere, siano “meno morti”…».  Visani peraltro, in tanti passi fa notare come le classi dirigenti inette e in decadenza, predicano il bene, ma praticano alacremente lo sfruttamento della maggioranza governata.   È inutile ricordare come, in Italia soprattutto, il servilismo e le prediche edificanti, hanno raggiunto il proprio apice proprio in coincidenza con il massimo prelievo fiscale, condizione per la (comodissima) vita delle stesse élite.   Le quali vendono parole per rapinare beni.
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  • Il buonismo imperante, il politicamente corretto si coniugano ad una incapacità di comprensione (e comunicazione) della realtà, ad una continua affabulazione, onde a seguire certi capi (?), il mondo di Bengodi della globalizzazione sarebbe già in atto e in via di completamento.   Tutt’al più, basta eliminare qualche disturbatore (già criminalizzato) per terminare l’opera (dell’uscita dalla storia). In un quadro del genere un discorso come quello di Churchill che prometteva agli inglesi sangue, sudore e lacrime prima di arrivare alla vittoria costituisce un esempio di cosa non dire.   Ma a chi scrive l’illusione del mondo globalizzato (attenti alle votazioni all’Assemblea ONU – di segno opposto) ricorda quanto proclamato nella costituzione sovietica brezneviana, che il socialismo si era realizzato. Così bene che crollò una dozzina d’anni dopo; e di certe nuove illusioni non si può che augurarsi lo stesso.
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  • Visani tratta di molte cose (film compresi): di idee, di autori, di mentalità, e sempre con un taglio originale e politicamente scorretto (ça va sans dire).   È difficile trarre da una tale massa di giudizi un unicum prevalente.   Tra i diversi possibili (e data l’abbondanza) ne ricordiamo tre:   Il primo è il disprezzo per le classi dirigenti attuali, in particolare per quella italiana (tuttavia il disprezzo è indirizzato anche a quella che l’aveva preceduta). Il secondo, correlato al precedente, è che le attuali élites (che secondo Max Weber vivono sia di politica che per la politica), vivono esclusivamente di, avendo cancellato dalla propria prospettiva di vivere per; così come di realizzare risultati invece di propagandare (buone) intenzioni.
  • Il terzo che la Weltanschaung globalista appare come una scissione del rapporto – necessario in politica, come attività umana – tra ragione e passione.
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  • Quello di cui è un esempio insuperato l’ultimo capitolo del Principe, dove l’unità politica d’Italia - in un mondo di Stati nazionali nascenti - era la condizione insostituibile per un’esistenza indipendente ed autonoma.   Onde repubbliche e signorie, le quali avevano senso e funzione in un medioevo feudale, lo avevano perso con l’incipiente formarsi del mondo moderno.
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  • La consapevolezza della diversità del contesto storico e politico era il presupposto di poter vivere liberi nella mutata situazione. Ragione (di Stato) e passione politica che la classe dirigente non riesce a coniugare. E che questo libro così interessante, che non dimentica mai tale rapporto, ci aiuta e sprona a fare.

 

  • Orlando

  • Una voce nel deserto
  • La poesia antimoderna di
  • Vittorio Orlando
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  •  Nell’ultimo periodo, in più di una circostanza, ci è capitato di rilevare come, nell’epoca attuale, la creatività poetica sia divenuta sempre più rara, dono di pochi.   È, pertanto, con particolare curiosità che ci siamo rivolti alle pagine di una recente raccolta di componimenti di Vittorio Orlando, Una voce nel deserto edita da Amazon (per ordini: vittorio.v2020@gmail.com, pp. 102, euro 12,00). Il volume è prefato da Davide Morelli e da Gaia Ortino Moreschini e chiuso dalle “Note finali” di alcuni tra i compagni d’avventura poetica del Nostro. L’autore, in versi denotanti un’intensa e sofferta ricerca formale, presenta, con lucidità estrema, disincantata, la realtà lacerata della vita contemporanea.
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  • La vocazione poetica in Orlando sorge di fronte al senso di perdita e di smarrimento che si prova a cospetto del pauperismo spirituale dell’Età Ultima, di fronte alla dismisura delle potenze del giorno, tese a trasformare il cosmos in caos ritornate. Il caos e l’informe connotano le nostre vite, tanto esistenzialmente quanto in termini comunitari e politici.   L’ubi consistam della poetica di Orlando, pertanto, va colta nel suo tratto antimoderno.   Ciò rende questa poesia del tutto originale, non nel senso di creazione lirica fortemente “personalizzata”, ma nel senso della trascrizione della ricerca dell’origine, intensamente vissuta dall’autore.  Orlando non appartiene, date tali premesse, ad alcuna scuola o corrente, è estraneo agli ismi del Novecento.   Il suo colloquio con l’Antico, rende sofica, sapienziale la sua testimonianza. Una testimonianza tesa a trasmettere al lettore-uditore il senso di una vita piena, persuasa, appagata.  In essa cadono, vengono meno le distinzioni dualiste imposte dal logocentrismo, dal concettualismo imperante.   Egli scrive: «Per opposti mi fu negato/Il lato oscuro dell’assoluto/troppo immenso da abbracciare […]/ chiuso da un grande sipario» (p. 10).
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  • Lungo la Via, il poeta acquisisce coscienza di sé stesso: «Sono essenza/distillata di pietra/lanciata nello stagno/senza concentrici cerchi/senza tonfo/ senza rumore/nell’immenso oblio del tempo» (p. 27). La voce del poeta è oscurata, tacitata dal chiacchiericcio contemporaneo: «Funestata è la via del Poeta e alla gogna/ e alla solitudine di volute ragionate scientificità. L’incancrenito popolo sta alla finestra/ come l’impotente sulla venerea fessura di incallite spettrose puttane» (p. 29).   Quella del creare poetico è lotta per il Nulla.   In tale contesto: «l’araba fenice/ si ricompone nel fecondo/ e nascosto deserto» (p. 28).   La solitudine pare inevitabile, destino inscritto nella poesia che rischia di trasformarsi in vox clamantis in deserto: «Nel visibile, nascosto/ il nunzio è tra la folla/ ad annunciare la novella,/ la novella del nulla/dove l’essere e il non-essere/ si confondono» (p. 34).  Nell’apparente sconfitta, nel destino di solitudine, nella ri-conquistata “isola dell’Io”, la versificazione antimoderna vede, intuisce l’origine, la coincidentia oppositorum.
  • ...
  • Così, la creatività farà rifiorire: «i gigli calpestati da orde barbariche/ […] tra sassi e macerie» (p. 43).  Questa è l’ “arcana speranza” che muove la versificazione in un mondo che: «va sempre più giù» (p. 50).  Nella modernità, al poeta non resta che esclamare: «Temo il dormiente demo,/odo l’eco democratica/ nella fetida aria di acido etilico/ che combacia con il cicaleccio nei fiordi» (p. 60)   La denuncia sociale è presente in modalità prioritaria nei versi di Orlando. Egli lancia strali contro l’omologazione generalizzata, contro il fragore dirompente della globalizzazione e dei suoi falsi aedi, in nome della Libertà calpestata nei fatti e nelle parole. Essa oggi è: «vigilata/controllata/obilterata» (p. 60)   Orlando ha contezza del tratto epidemico, in senso etimologico, della democrazia liberale.   Di essa ha detto esemplarmente il filosofo Andrea Emo.  Sa, inoltre, con Carlo Michelstaedter, cui è dedicata una lirica, filosofo della persuasione che produsse all’inizio del secolo scorso un esempio luminoso di pensiero-poetante, che il desiderio-rettorico chiude l’Io in un destino di morte: «Ogni alba radiosa/annuncia il senso provvisorio della vita» (p. 65).
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  • Non sia tratto in inganno il lettore, la pars destruens in Orlando è seguita da una pars construens.   Essa è data dall’immersione nella dimensione originante della physis, della natura: «Lo spirito indomito/mi riporta a ricredere nel possibile della natura,/ la luce è il risveglio dall’appannamento notturno» (p. 67).   Il poeta si immerge e ci immerge, almeno in alcuni versi, nel lucore mediterraneo, laddove vita e civiltà sorsero all’unisono.   L’orizzonte della physis, il suo reale trascendere la “nostra” vita, è simbolo di risveglio, di riscatto dall’infamia insolente del presente.   Essa indica la Via da seguire: «agogno un deserto sabbioso/con dune che si lasciano sfiorare,/sfiorare/ dalla carezza di un dolce vento/che rimodella il sacro divenire,/divenire/ di attesa che porta sulla giusta via./»

Hocart 


  • Le caste nel mondo e nella storia 
  • di  A. M. Hocart 
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • L’esegesi corretta del mondo antico e delle civiltà tradizionali deve essere accompagnata, nello studioso serio, da un profondo lavoro che questi deve compiere su se stesso, mirato a liberare le sue intenzioni critiche dai pregiudizi imposti, da oltre due secoli all’immaginario collettivo, dall’ideologia occidentalista centrata sull’idea del progresso unilineare, che ha individuato nella civilizzazione contemporanea, liberale e utilitarista, il “migliore dei mondi possibili”.   Lo si evince dalla lettura di un volume importante di Arthur Maurice Hocart, da poco apparso nel catalogo Arkeios, intitolato, Le caste nel mondo e nella storia, introdotto da Giovanni Monastra (per ordini: 06/3235433, ordinipv@edizionimediterranee.net, pp. 169, euro 22,00).
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  • L’autore è poco noto in Italia, perfino tra gli studiosi del pensiero di Tradizione. Ci pensa Monastra a informare compiutamente il lettore sulla vita e le opere di Hocart. Questi fu antropologo, apripista nei lavori di sociologia scientifica. Poliglotta, riuscì a padroneggiare addirittura gli idiomi delle Isole Figi e Salomone, dove lavorò sul campo per alcuni anni in un’importante spedizione etno-antropologica, sotto la guida di W. H. Rivers. Laureato a Oxford in discipline umanistiche, il suo approccio alla realtà “primitiva” era fondato sul rifiuto della riduzione dei “selvaggi” a esseri “quasi umani” (veri umani sarebbero stai, per i positivisti, solo i “civilizzati”, i moderni), inoltre, non si servì dell’esegesi psicanalista freudiana per interpretare i sogni delle popolazioni “primitive”, cui prestò, al contrario, attento ascolto.   Egli, lo si sappia, si era formato al metodo critico-accumulatico, accademico-scientifico.   Nonostante ciò, le conclusioni cui giunse sono, su alcuni temi, sintoniche a quelle dei grandi autori del tradizionalismo.   Il mondo delle Università non gli dette il riconoscimento che avrebbe meritato. Al Cairo, dove si trasferì nel 1934, di ritorno dallo Sri Lanka, paese nel quale aveva ricoperto l’incarico di commissario archeologico, ottenne una cattedra di Sociologia.   Morì, per un’infezione contratta in Egitto, nel 1939.
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  • Le sue ricerche hanno, comunque, influenzato insigni studiosi: tra gli altri, Louis Dumont, Claude Lévi-Strauss e Marcel Mauss.  Dumont ha scritto che: «tutto lo sforzo di Hocart mira a restare fedele al punto di vista indigeno e a restituirne la logica interna» (p. 13). Monastra ricorda che lo studioso: «identificava nel rito, nella sua accezione di atto sacro, l’origine della cultura» (p. 14).   Riteneva, inoltre, che i riti fossero tra loro interconnessi in un’unità profonda e mirati a promuovere la vita individuale e comunitaria.   Il rito primigenio, a suo dire, era quello dell’incoronazione, dell’intronizzazione del capo della comunità. Il re è figura divina. Questi aveva il compito di difendere, materialmente e in modalità “sottile”, la comunità che gli era affidata. Il re dell’origine era pertanto pontefice, come ben sapeva Evola.   I sovrani erano sottoposti alla morte “simbolica”, alla morte iniziatica, atta a indurre una metamorfosi ontologica di chi la viva, come si evince dall’assunzione di un nome nuovo, a indicare la nuova “personalità” del sovrano.  A differenza dei tradizionalisti, Hocart ritiene che la regalità costituisse: «un mondo a sé stante […] al quale possono (avrebbero) potuto accedere persone appartenenti a caste diverse» (p. 16). A proposito dei rapporti tra regalità e sacerdotalità, lo studioso è sostenitore di tesi prossime a quelle evoliane e di Benveniste: sottolineò il ruolo sacrale, oltre le caste, dell’arcaico rex indoeuropeo.   Tale figura riassumeva in sé le tre funzioni sociali.   Il re era, dunque, anche sacerdote.  A tale conclusione, si badi, Hocart non giunse per scelta aprioristica, ma per via empirica, attraverso le ricerche condotte sul campo, sottoposte a giudizio comparativista.   Hocart afferma, inoltre, che in India furono i sacerdoti a usurpare la funzione regale, non il contrario. Precisa Monastra: «la figura regale, proprio per i suoi caratteri di totalità, doveva […] racchiudere un significato androgino, di coincidentia oppositorum» (p. 19).
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  • A proposito delle caste, vero e proprio tabù della cultura moderna, Hocart sostiene il tratto universale di tale istituzione.  Tale sistema: «può essere definito come […] strutturato in base a esigenze rituali che vedono concorrere […] tutti i corpi sociali che lo compongono» (p. 19). È un organismo sociale totalizzante, in origine dotato di una certa flessibilità e dinamica interna.  I fuori casta, coloro che non avevano adempiuto ai doveri castali, venivano esclusi dal sistema verso il “basso”, mentre gli asceti che, al contrario dei primi, erano sulla via della “realizzazione”, venivano considerati oltre le caste, in senso superiore.  Si apparteneva ad una data casta, non semplicemente per nascita naturale, ma in forza dell’essere stati iniziati, di aver vissuto la “seconda nascita”, determinante realmente il tratto spirituale di un dato uomo, l’:«eredità biologica […] riveste un’importanza molto relativa nell’Induismo» (p. 23).  Solo dopo le invasioni islamiche dell’India e, soprattutto, a causa del colonialismo inglese, il sistema castale si irrigidì, e tale decadimento trasformò la casta, a tutti gli effetti, in classe sociale.
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  • Le caste chiuse, endogamiche, sono sorte solo recentemente in India. Ciò vuol dire che: «le caste indù sono del tutto prive di una base genetica omogenea […] Tutte le caste comprendono […] uomini e donne derivanti dal lungo periodo precedente caratterizzato da accoppiamenti liberi» (p. 26), tra popolazioni dravidiche e indoeuropee.   In ogni caso: «La casta va interpretata come legge spirituale, il dharma, che regola e stabilisce la condotta degli esseri umani in ogni aspetto» (p. 23).    In tal senso, ciò che distingue davvero, a dire di Hocart, i “civilizzati”, dai popoli tradizionali, è il primato concesso da questi ultimi allo spirito.

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