• La decrescita prima della decrescita,
  • di
  • Eduardo Zarelli
  • Eduardo Zarellli
  • Dulcis in fundo è un'espressione pseudo-latina interpretata in italiano come "il dolce viene in fondo", ovvero "il meglio giunge alla fine". Questa espressione sembra opporsi diametralmente alla locuzione latina in cauda venenum, indicante invece un colpo improprio e inaspettato al termine di un processo giunto a compimento. Ci muoveremo quindi con questo presupposto antifrastico, nell'affrontare l'ultima significativa opera di Serge Latouche La decrescita prima della decrescita. Precursori e compagni di strada (Bollati Boringhieri), ovviamente non per annunciare la fine di un lungo e – gli auguriamo – ancora prolifico percorso di pubblicazioni, ma perché in questo volume c'è sicuramente un punto d'arrivo del contenuto teorico della decrescita, che si confronta con le sue origini filosofiche.

 

  • In quest’opera si sviluppa – a nostra opinione – il meglio di questo autore, ma anche un limite di orientamento intellettuale, su cui si basa l’ossimoro di partenza. Si tratta di un libro fondante, tuttavia con un difetto che ne disattende la compiutezza: nel farsi portatori di un nuovo “paradigma”, bisogna porsi al centro di una sfera concettuale, “centro”, che nello spazio teorico è il punto equidistante da tutti i punti della sua espressione; altrimenti si limita la coerenza e la congruenza di un’idea forza che ambisce a interpretare una transizione epocale.  Vediamo di inquadrare il tema nei limiti dello spazio di una recensione. Il termine “decrescita” nasce come slogan provocatorio una quindicina di anni fa, per denunciare l’impostura del cosiddetto “sviluppo sostenibile”. La decrescita, cioè, non rimanda a un concetto definito, perciò simmetrico e contrario alla “crescita”; bisognerebbe quindi, per correttezza filologica, formularla con l’alfa privativo, come “a-crescita”, quasi fosse un ateismo di un Dio ideologico, un’obiezione quindi alla fede del progresso e della “crescita per la crescita”, che in natura non è data perché non esiste lo sviluppo illimitato di condizioni fisiche date. Quello della decrescita, pertanto, è un pensiero che si pone in termini critici di fronte alla modernità e al paradigma dello sviluppo ad ogni costo, laddove non se ne riconoscono i limiti e le conseguenze negative che ne derivano.  All’attuale ritmo di consumo, che non smette di crescere – perché lo stile di vita “sviluppato” continua a estendersi ed è un modello imposto o imitato senza remore – sarebbe già necessario un mezzo pianeta supplementare per provvedere durevolmente al bisogno dell’umanità e occorrerebbero non meno di cinque pianeti se tutti consumassero come gli statunitensi o gli abitanti degli Emirati del Golfo (due e mezzo per gli europei). Se dovessimo attenerci alla nuda analisi dei dati delle scienze naturali, gli ecosistemi sottoposti a tale pressione collasserebbero nel corso di questo secolo, con un crollo paragonabile alle grandi estinzioni del passato, ma con la differenza che quelle si svolsero su una scala temporale di milioni di anni, all’oggi ci muoviamo in una accelerazione parossistica di circa due secoli, una inezia. La decrescita non è una “crescita negativa”, un irrealistico ritorno al passato, un luddistico pauperismo di massa, come i denigratori in buona (una minoranza) e cattiva fede (la maggioranza) la stigmatizzano. Siamo in realtà di fronte a una questione metapolitica, filosofica, che Serge Latouche spiega bene quando indica che il suo fine è quello di «decolonizzare l’immaginario occidentale», di uscire dal dogma ideologico totalizzante dell’economicismo e quindi dello sviluppo. La questione, di conseguenza, non è riduttivamente di tipo materiale, ma fondatamente antropologica, psicologica, culturale e – aggiungiamo noi – nella sua risoluzione, spirituale.
  • Tre sono i motivi, che spingono Latouche a ricostruire i precursori della decrescita: dare credibilità all’idea di società proposta dagli “obiettori” della crescita, rendere merito agli ispiratori di questo ideale, formare gli adepti al movimento che lo supporta. Se in questa ricostruzione storico-ideale emergerà una visione plurale e diversificata, ovvero non dogmatica e settaria, le tesi della decrescita non saranno marginalizzate: «Crescita e decrescita sono entrambe utopie, ma la più utopica delle due non è certo la seconda». In pagine importanti di un altro suo libro – L’invenzione dell’economia (Arianna editrice) – l’autore ha dimostrato il carattere artificiale e innaturale dell’economia, data invece come “naturale”, nella funzionalità del mercato, dai padri fondatori del liberismo: François Quesnay, Thomas Robert Malthus, Adam Smith, David Ricardo. L’economia viene “inventata” da un certo punto in poi della storia e si impone attraverso l’immaginario economico, l’utilitarismo e la “razionalità calcolante”; l’utopia della crescita illimitata, cioè, è un prodotto della modernità, che si è costruita programmaticamente sulla negazione dei limiti - si veda, in merito, un altro breve, ma intenso volume del transalpino: Limite (Bollati Boringhieri) - e sul rifiuto della tradizione. Il modo di produzione capitalistico è un costrutto moderno e la globalizzazione – in realtà, una “onnimercantilizzazione del mondo” – rende il desiderio edonistico, e quindi la trasgressione, l’etica dei diritti individuali dominanti il contemporaneo. Il marxismo si iscrive a pieno titolo nell’incedere liberale del negare ed eradicare ogni retaggio e radice: «Del passato facciamo tabula rasa», si canta coerentemente con l’assunto nell’Internazionale. Confrontarsi con il passato è invece coessenziale al progetto della decrescita, pietra angolare per cui l’autore arriva a utilizzare dei termini, che sentiamo intimamente nostri: «Ritrovare un senso, che si opponga al disincantamento del mondo». Questo valore comparativo con il passato non solo è importante nell’Occidente moderno che si fa mondialismo, ma è altrettanto necessario alle residue – per la verità – realtà locali che si pongano nella condizione di resistere alla “megamacchina” del produttivismo globalizzato; vedi, in merito, sempre di Latouche, La megamacchina. Ragione tecno-scientifica, ragione economica e mito del progresso (Bollati Boringhieri) e L’occidentalizzazione del mondo (Bollati Boringhieri), il titolo universalmente più noto dell’Autore.
  • Per la maggioranza - interna, esterna e avversa alla “decrescita” - il significato letterale del decrescere è quello calzante. In realtà, con questo termine si intende indicare l’urgenza di ritornare a un livello di produzione sostenibile, ovvero compatibile con la riproduzione degli ecosistemi. Lo sostiene con estrema chiarezza Maurizio Pallante, esponente significativo di questo movimento di idee in Italia, già a partire dal titolo di una delle sue varie opere dedicate a questo concetto – La decrescita felice. La qualità della vita non dipende dal PIL (Ediz. Per la Decrescita Felice) – cioè la necessità di relegare in secondo piano l’indice feticcio del Prodotto Interno Lordo. È indispensabile ridurre la produzione di beni e servizi commerciali che entrano, in quanto merci, nell’aggregato del PIL, aumentando, in un rapporto direttamente proporzionale, quella di beni e servizi vernacolari (per dirla con Ivan Illich): autoproduzione, economia del dono e reciprocità. In tal senso, la riduzione quantitativa incrementa la qualità esistenziale. Per l’ecologismo ortodosso lo scopo è simile, ma attraverso una via diversa, che deve puntare all’impronta ecologica, ovverossia il peso sostenuto dal nostro stile di vita dissipativo sugli ecosistemi. Ora, tutti gli organismi crescono; bisogna quindi distinguere lo sviluppo virtuoso in natura, che si realizza nell’omeostasi, dall’organismo economico nel suo artificio, che irrealisticamente pretende di sottrarsi al declino e alla morte, ovvero alla seconda legge della termodinamica, l’entropia. Ecco perché la decrescita non è l’opposto simmetrico orizzontale della crescita: «Decrescere per decrescere sarebbe altrettanto assurdo che crescere per crescere», scrive Latouche. La crisi economica strutturale dell’oggi impone un impoverimento generalizzato nella crescita della disuguaglianza sociale e la perversione del debito, una volta limitato nel “Sud” e oggi insediatosi in profondità nel “Nord” del sistema mondo capitalista. La decrescita volontaria, in controtendenza, ne è il superamento qualitativo, che si realizza nella sobrietà come «abbondanza frugale in una società solidale». La rottura di paradigma implica quindi una letterale liberazione dall’Homo oeconomicus dall’unidimensionalità dell’uomo contemporaneo, per rideclinare nelle culture il dettato della biodiversità – leggi “differenzialismo” – in un adattamento al contesto, all’identità e al valore della tradizione di ogni singolo luogo. Avere di più è l’esatto opposto dell’essere qualcosa di più: si sta parlando, insomma, della dirimente opposizione tra essere e avere. Oggi siamo abituati a credere che lo stato normale della società sia quello di rincorrere uno sviluppo economico sempre maggiore. La storia però ci insegna, in modo assai puntuale, che tale modello ha una sua collocazione geografica e cronologica molto precisa; vi è anzi – a nostro parere – l’evidenza di come in realtà sia utopico (privo di luogo) il nichilismo del modo di produzione industriale e invece ucronico (senza tempo) il limite culturale di una tecnica appropriata, con un’economia comunitaria iscritta nell’evolversi dei cicli naturali.
  • Per le società non occidentali, in un certo qual modo, la possibilità di sottrarsi all’ideologia del progresso, alla prova di una globalizzazione tanto montante quanto fallimentare, è paradossalmente più semplice. Il post-sviluppo e la critica della crescita (che fondamentalmente corrisponde, in quelle realtà, alla messa in discussione dell’occidentalizzazione), non hanno un’implicazione sottrattiva, in quanto si tratta di Paesi che non hanno conosciuto i veleni della società dei consumi. Il valore politico del multilateralismo, qui, ben si coglie nel consentire a ogni Popolo e a ogni cultura una sua via nel moderno, che in questi casi potrebbe felicemente inverarsi in un superamento di esso, con modelli di autosufficienza in diretta aderenza alle matrici olistiche e antiutilitaristiche delle tradizioni locali.
  • Più complesso è invece porre un paradigma di superamento della mentalità dominante nel “cuore di tenebra” della modernità: l’Occidente stesso. Nonostante l’attuale miseria spirituale – da cui derivano il diffondersi delle sindromi depressive e l’uso di droghe – la crisi di produzione, la crisi di socialità, la crisi della rappresentatività della politica, la crisi occupazionale e i disastri ambientali, pare quasi impossibile fare comprendere alla gente che si può sostituire l’attuale modello di civiltà basato sul “sempre di più”. In tale avversità dello spirito dei tempi, vi è la scelta “antologica” di Latouche di differenziare diacronicamente i pensatori di riferimento tra “antenati” (prima o al di fuori della modernità), “precursori” (critici verso l’istituirsi del capitalismo come sistema termo-industriale) e “guide” (coloro che hanno aperto la strada alla critica della società dei consumi nella seconda rivoluzione industriale, fino ai cosiddetti “pionieri”, che dagli anni Trenta agli anni Sessanta del Novecento hanno posto i fondamenti dell’ecologia politica). Oltre a questa scelta per “meridiani” cronologici dei pensatori in oggetto, Latouche ha disposto in ideali “paralleli” i romanzieri, i poeti, i giornalisti e i politici che in forma collaterale hanno posto i frammenti di un immaginario della decrescita, così come un’ultima categoria di «parenti infrequentabili, figlioli prodighi e non pentiti, precursori inconfessabili, troppo compromessi politicamente o ideologicamente con correnti o esperienze condannabili». Da questo punto in poi si palesano – a nostra opinione – i limiti, non tanto di questo testo e della tassonomia scelta dal suo autore, quanto dell’ambizione concettuale di porre nella “decrescita” così declinata un paradigma ulteriore al moderno e alle categorie di destra e sinistra che ne inverano l’autoreferenzialità.
  • Prima della modernità, troviamo quelli che Latouche chiama «i grandi antenati». Va da sé che l’intera classicità è totalmente estranea alla civiltà della “crescita per la crescita”. I Greci – scriveva Hegel in Lezioni della storia della filosofia – onorarono il Finito. La “grecità” si configura come un accostamento intimo alla grazia, una “apologia della finitezza” nella misura in cui il Finito è il concettualmente perfetto. Tale formulazione è comune a tutti i pensatori greci. Il cuore della “grecità” sta in questo: nella metafisica della giusta misura, ovvero nel senso del giusto limite. Metron ariston, la misura è la cosa migliore. Meden agam, nulla di troppo: così è inciso sul tempio di Delfi. Latouche però fa una scelta galileiana, guarda l’antico in funzione della dialettica che gli si oppone. Eradica secoli di pensiero e la natura coerentemente comunitaria della polis platonica e aristotelica per focalizzare con presbiopia funzionale solo il contesto dell’ellenismo, in cui celebra il radicalismo del cinico Diogene e l’edonismo atarassico di Epicuro, e nulla più; anzi, cita lo stoicismo di Epitteto, di Marco Aurelio e di Marco Tullio Cicerone, cantori dell’apatia come la virtù per eccellenza, ma squalificati dal fatto che questa filosofia è «della classe dirigente e ha indubbiamente elaborato una forma di morale radical chic (letterale; N.d.C.) a uso dell’élite dell’Impero romano». Parole che si commentano da sole. Il transalpino sarebbe da invitare a un corso accelerato di ripasso liceale o magari alla lettura del compianto suo connazionale Pierre Hadot, autore del capolavoro Che cos'è la filosofia antica (Einaudi): potrebbe intendere che lo stoicismo è una corrente filosofica e spirituale panteista fondata ad Atene da Zenone di Cizio intorno al 300 a.C., che nella Roma già repubblicana ebbe aderenza in merito alla gravitas del civis romanus. Quale dovrebbe quindi essere – a nostro parere – la cifra dell’ellenismo, anche in un utilizzo critico comparato alla contemporaneità? Il fatto che viene meno la polis, come comunità limitata nello spazio di cittadini che si relazionano e che decidono sovranamente delle loro sorti. Ellenismo significa anzitutto fine della polis, e appunto la dispersione del pensiero greco e della vita greca su scala cosmopolitica; tradendo cioè quella classicità, che nel suo senso profondo è assente nella selezione proposta da Latouche. Uno strabismo cognitivo, che si ripete quando vengono riportate le culture preletterarie e le tradizioni sapienziali. Sono diversi, i contesti evocati – africano, amerindiano, asiatico – ma basti dire che dove si parla del Taoismo, per apprezzare l’evidente richiamo alla sobrietà dello stile di vita, si avverte il lettore che bisogna saper mettere da parte «le deviazioni esoteriche, alchimistiche e magiche (come mito della ricetta dell’immortalità)», censurando quindi la parte determinante di quell’insegnamento tradizionale che si sintetizza nel wei wu wei (azione senza azione, agire senza imposizione), ove il mantenimento di un perfetto equilibrio micro/macro cosmico – armonia con il Tao (via), e quindi con la Natura – è espressione di una manifestazione metafisica (“irradiazione”, in Plotino). Qual è – d’altronde – il soggetto dell’aforisma di Eraclito «La natura ama nascondersi»? All’incirca nell’anno 500 a.C, uno dei più profondi pensatori greci depose il libro in cui aveva raccolto tutto il suo sapere a Efeso, nel tempio di Artemide, la dea dei boschi e della selvaggina, personificazione della "Luna crescente", successivamente identificata con Iside, che con il suo “velo” tutela il segreto della Natura e il mistero dell’Essere. Chi è il soggetto, di cui viene detto che «abitualmente si nasconde»? È la physis, parola che al tempo di Eraclito è polisemica, ma non indica sicuramente la Natura come insieme descrittivo o principio empirico dei fenomeni. Il significato della parola è duplice e complementare allo stesso tempo: indica, da un lato, la natura propria di ogni ente e, dall’altro, il processo di apparizione, manifestazione, genesi, realizzazione e crescita di ogni essere. Così come nell’oracolo di Delfi, che «non dice né nasconde, ma indica», il senso dell’apoftegma può essere che la Natura – intesa come forza propria, costituzione dell’ente, vita dell’essere – ama nascondersi, ossia non si palesa superficialmente. Dirà infatti Empedocle: «Non vi è nascita (physis) di alcuna delle cose mortali, né fine alcuna di morte causata, ma solo c’è mescolanza e separazione di cose mescolate; è questo che gli uomini chiamano physis». Nel sentimento sacrale ancestrale vi è un’idea di fondo, espressa dalla parola Natura, per cui esiste un’insorgenza spontanea delle cose, un’apparizione frutto di questa spontaneità, pronta a dileguarsi appena si cerca di ridurla alla sua concretezza materiale.
  • Passiamo ora alla modernità e all’avvento dell’organizzazione industriale del modo di produzione capitalistico, che si annuncia con il ribaltamento etico inaugurato da Bernard de Mandeville con il suo apologo dell’alveare delle api: i vizi privati fanno la ricchezza pubblica. Qui – come sopra indicato – siamo al cospetto delle “guide”, nel senso letterale, di chi ha aperto la via alla “decrescita”. Serge Latouche, correttamente, evoca i romantici, gli aristocratici, ma in particolare i cosiddetti “socialisti utopisti”, sottraendosi alla declinazione marxista del socialismo, da lui inteso come un ampio complesso di ideologie, orientamenti politici, movimenti e dottrine che, a partire dal XIX secolo, tendono a una trasformazione della società tramite i mezzi di produzione e di scambio, rispecchiando il significato di "sociale", cioè che pensa a tutta la popolazione. Tra i pensatori meno ovvi evocati, ci convince la scelta di inserire a pieno titolo William Morris, Sergej Podolinskij e i naturisti Henry David Thoreau e Henri Zisly; singolare, invece, quella di considerare John Stuart Mill, certo preoccupato di ridistribuire l’accumulo capitalistico, ma non di mutarne lo statuto contrattualistico, cioè utilitaristico.
  • Sorprende infatti in particolare – tra le figure intellettuali scelte da Serge Latouche - l’assenza di Karl Paul Polanyi. Il suo pensiero è un punto di riferimento attualissimo per la critica antiliberale, in quanto evidenzia come la società di mercato è un episodio - per quanto rilevante - della storia umana, uno solo dei modi in cui l’uomo può organizzare la propria vita civile. Lo stesso mercato autoregolato nasce insieme con la rivoluzione industriale: prima, esistevano luoghi e sistemi di scambio i cui prezzi non dipendevano dalla cosiddetta legge della domanda e dell’offerta, ma erano controllati politicamente, quindi tendenzialmente stabili. Esistono cioè società economiche della redistribuzione e della reciprocità comunitaria. Nel misconosciuto Per un nuovo Occidente, pubblicato postumo, somma di saggi scritti sino al 1958, Karl Polanyi conferma, in base ad una amplissima gamma di argomentazioni storiche, antropologiche ed etnologiche come l’onore e l’orgoglio, il senso civico e il dovere morale, persino il rispetto di sé e la comune decenza fossero irrilevanti per i rapporti produttivi, anzi ne intralciassero gli obiettivi, e andassero quindi rimossi, estirpati dall’animo umano dal capitalismo. Da un lato, un orizzonte definito spregiativamente ideale, quindi irrazionale, dall’altro l’universo “autentico”, razionale e materiale. Siamo stati indotti ad accettare la triste teoria per cui i moventi dell’uomo possono essere rappresentati come materiali o ideali, ma la vita quotidiana deriva e va interpretata esclusivamente secondo riflessi e moventi pratici, utilitaristici.
  • Arriviamo quindi alla contemporaneità con i cosiddetti “pionieri”, da considerare i “padri della decrescita”, in quanto esplicitamente critici della società dei consumi dispiegatasi nel Novecento, e fondatori di fatto dell’ecologia politica. Sono filosofi, teologi, sociologi, economisti, che hanno posto l’evidenza del rapporto regressivo tra sviluppo dell’industrializzazione e distruzione ambientale, tra crescita dei consumi e perdita di senso. È una corona di pensatori molto significativi – Günther Anders, Simone Weil, Raimon Panikkar, Murray Bookchin, Cornelius Castoriadis, Ivan Illich, Jean Baudrillard, Guy Debord, Nicholas Georgescu-Roegen, Leopold Kohr, Bernard Charbonneau, Jacques Ellul, Arne Naess, Majid Rahnema – accomunati coerentemente dall’intenzione progettuale dell’autore. Il minimo comune denominatore di sensibilità assai diverse lo si coglie – per Serge Latouche – nell’urgenza di passare da un’austerità non egualitaria, subita, a una frugalità comune, generale e volontaria che deriva da una scelta di maggiore libertà e minore consumo di beni materiali. La logica conseguenza è che esiste un antiutilitarismo di “destra” e uno di “sinistra”, un antiproduttivismo di “destra” e uno di “sinistra”, un anticapitalismo di “destra” e uno di “sinistra”. Vi è quindi un “cattiverio” di «infrequentabili», che vanno puntualmente additati con l’intento di erigere un cordone sanitario «affinché queste tendenze non seminino la confusione tra la gente e facciano il gioco della propaganda produttivistica, ben contenta di giocare all’ammasso per delegittimare il rifiuto radicale del sistema esistente che viene dai partigiani della decrescita»; il che, tradotto, significa: è meglio rimanere assoggettati al pensiero egemone e al collante del “politicamente corretto” che rendere merito alla verità del pensiero. Lasciamo intendere ai lettori quanta disonestà intellettuale vi sia, in questo primato del (pre)giudizio di valore al giudizio di fatto che dovrebbe caratterizzare l’esegesi di un accademico (per quanto in pensione); ma andiamo al merito, sorvolando sulla modalità con cui vengono illustrate le figure di Ezra Pound e di Martin Heidegger (tra gli altri): basti dire che quest’ultimo – pur riconosciuto come uno dei più rilevanti pensatori del Novecento – imprescindibile nella formulazione concettuale dell’ecologia contemporanea per il fondamento ontologico dell’Essere nell’abitare la Terra, viene considerato come ambiguo non solo per il controverso episodio della carica di rettore dell'Università di Friburgo nel 1933, ma anche perché la sua riflessione, nel secondo dopoguerra, sull’essenza della tecnica «apre la porta al transumanesimo in cui alcuni suoi ammiratori si sono invischiati». Fantascienza, insomma. Ci vuole una tale malafede per travisare il pensiero altrui che vi è un sincero nostro imbarazzo a dover scrivere come il concetto heideggeriano di Gestell (impianto/imposizione) quale essenza della tecnica (Conferenze di Brema e Friburgo) – ovvero il lato non materiale delle macchine, che l’uomo moderno maneggia – sia una sistematica riduzione delle cose a risorse, una trasformazione in mezzi della produzione o, meglio, del lavoro. Impiantandosi al suolo, la tecnica moderna fissa il destino dell’umanità nell’unica cifra dello sviluppo di sé medesima, imponendo in tal fatta un dominio totalitario. Prometeismo? Transumanesimo? Mah…
  • La falsificazione sopra esposta manifesta la contraddittorietà dell’ambizione concettuale di Latouche. Ricostruisce con corretta esegesi il pensiero del grande teologo e filosofo Raimon Panikkar, evidenziando il tema del differenzialismo, dove il pluralismo – pluriversalismo per Panikkar – significa «che esistono sistemi di pensiero e culture incomparabili tra loro e, per usare una metafora geometrica, incommensurabili, come lo sono il raggio e la circonferenza o l’ipotenusa e il cateto, che rimangono comunque in condizioni di coesistenza e di coimplicazione», per poi negarlo con una misera faziosità unilaterale. Sono parole di Latouche a pagina 92 del libro: «Si tratta di promuovere una “democrazia delle culture”»; a “geometria variabile”, gli chiediamo noi? Cicero pro domo sua.
  • Andiamo al nocciolo della questione. Proporre una critica della modernità giacendo nel suo ambito, esalta all’evidenza empirica l’affermazione di Ortega y Gasset, per cui «essere di destra o essere di sinistra equivale a scegliere tra due delle innumerevoli maniere che si offrono all’uomo per essere imbecille. Entrambe infatti sono forme di emiplegia mentale». Se partiamo da ciò, non si può non dedurne, all’oggi, che le categorie di “sinistra” e di “destra” sono la manifestazione assunta storicamente, da poco più di due secoli, da due pulsioni contrapposte insite nell’animo umano; tale consapevolezza induce però ad analizzare – nell’attuale momento storico, in cui la contrapposizione si è attenuata tanto da diventare impercettibile – le modalità con cui si è realizzata, a comprendere le ragioni per cui si è attenuata e a ipotizzare che essa, così come ha avuto un inizio, è destinata ad avere una fine. Preferiamo quindi evitare sospetti e condividere le riflessioni di Maurizio Pallante – precedentemente citato – che nella sua più recente opera Destra e sinistra addio (Edizioni Lindau) spiega chiaramente come il confronto politico tra “destra” e “sinistra” abbia trovato un punto di convergenza e di indistinzione in base alla comune valutazione positiva della crescita come produzione delle merci (e del PIL), che entrambe hanno salutato come “progresso”, perché causa di una crescita economica irrefutabile; ragione per cui la globalizzazione possiamo intenderla “di destra” economicamente, “di sinistra” culturalmente, “di centro” politicamente: «Dire addio a questa obsoleta rappresentazione di interessi contrapposti è il punto di partenza per ridefinire programmi politici e per riformulare l’azione economica e sociale, sulla base di uno sguardo del tutto nuovo, che non può non avviare una decrescita selettiva della produzione sviluppando innovazioni tecnologiche che accrescano l’efficienza nell’uso delle risorse e attenuino l’impatto ambientale dei processi produttivi, perseguire l’autosufficienza alimentare valorizzando l’agricoltura di sussistenza, cogliere i limiti dell’antropocentrismo in una complementarietà di tutti i viventi, ridurre la mercificazione e l’importanza del denaro, riscoprire i beni comuni e le forme di scambio basate sul dono e la reciprocità, superare il materialismo e valorizzare la spiritualità». Anche Serge Latouche ha questa consapevolezza, perché non applicarla fino alle estreme conseguenze? Quando tratteggia la figura di Simone Weil evidenzia il tratto metafisico che la distingue. La sola forza in grado di resistere a quella della materia è il rifiuto opposto dallo spirito. Allo sradicamento dell’industrializzazione, l’appartenenza oppone l’organizzazione del cooperativismo, modelli produttivi partecipati. Su questa strada sarebbero da evocare i comunitaristi. Già l’Adriano Olivetti della “comunità delle comunità”, ma in generale quei pensatori – trascurati in questo volume – come Alasdair MacIntyre, Charles Taylor, Michael Sandel, Robert N. Bellah, Michael Walzer, Amitai Etzioni per cui, se non si potrà ridar vita a comunità subordinate alle idee di bene comune e valori condivisi, alla società non resterà altra alternativa all’infuori di quella fra autoritarismo e disintegrazione. La dimensione olistica è naturalmente sostenibile, come inteso da Leopold Kohr, per cui in un mondo organizzato nelle proporzioni del limite, c’è posto per “diversi mondi”, in quanto il multiculturalismo universalista – a differenza dell’interculturalismo – è per sua inerzia un anticulturalismo o, nel migliore dei casi, un multi-sottoculturalismo. La tragedia della civilizzazione occidentale deriva in grande parte dalla perdita del senso della misura. Il radicamento si oppone alla violenza nichilistica del produttivismo che saccheggia la natura, sfrutta senza limiti le risorse energetiche, produce danni irreparabili perseguendo unicamente il proprio accrescimento.
  • Quello che comunemente viene definito come “progresso” è la negazione stessa della “evoluzione” all’interno del processo naturale, perché il divenire va identificato con la Via (Tao), che mantiene l’ordine naturale e quindi la stabilità dell’ecosfera, mentre il progresso (o anti-evoluzione) può essere identificato con il comportamento eterodiretto, che sconvolge l’ordine naturale pregiudicandone la stabilità. Per questo, oggi, “destra” e “sinistra” appaiono entrambe espressioni di una storia finita: quella di un mondo che puntava a una crescita senza limiti, di cui non ha mai preso in considerazione le conseguenze. L’essere umano, degradando la natura, attenta alla stessa percezione di sé stesso. Amareggia constatare i limiti – in questo caso negativi – di questa consapevolezza per chi si pone come riferimento intellettuale della questione epocale della decrescita.