"Scuola Romana di Filosofia politica"

è diretta da

Giovanni Sessa

La S.R.F.P. fondata, a suo tempo, da Gian Franco Lami ed Emiliano Di Terlizzi, docenti alla “Sapienza”, è oggi un forum critico di filosofia e metapolitica.

  • Lovecraft

  • Lovecraft
  • poeta dell’abisso
  • Un prezioso volume del duo 
  • de Turrisi  Fusco
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • de Turris-Fusco: “duo fantastico”
  • Gianfranco de Turris e Sebastiano Fusco vanno annoverati tra i massimi esperti di letteratura fantastica e fantascientifica. E’ da poco nelle librerie, per i tipi di Bietti, un loro prezioso volume, H. P. Lovecraft  poeta dell’abisso (per ordini: 02/29528929). ...
  • Il volume uscì, in prima edizione, nel 1979 per La Nuova Italia. Non si tratta però, si badi, di una ristampa. Nella nuova edizione, infatti, compare un’ampia Appendice che contiene una serie di saggi inerenti, tra le altre cose, ai rapporti tra la letteratura del “solitario di Providence” e l’esoterismo, alle traduzioni italiane delle sue opere e agli illustratori dei suoi libri. Inoltre, sono presenti due capitoli, espunti, all’epoca, dalla prima edizione. Essi riguardano le false leggende riguardanti Lovecraft e la sua eredità letteraria.
  • ...
  • Al “fantastico-duo” De Turris-Fusco va attribuito il merito, come si evince dalla lettura del testo, di aver chiarito come le prime edizioni dei libri dello scrittore in Italia, fossero parziali, tanto per i tagli apportati ai testi, quanto per l’inaffidabilità delle traduzioni.
  • ...
  • Lovecraft.  Biografia esteriore ed interiore
  • L’incipit del narrato è dedicato a una minuziosa ricostruzione della biografia dello scrittore, mirata a cogliere non semplicemente i dati esteriori della vita dell’intellettuale, ma altresì a ricostruirne la biografia interiore, essenziale per la comprensione della produzione letteraria. Lovecraft (1890-1937) non poté contare su una famiglia “normale”: in tenera età perse il padre, mentre sua madre: «legò a se il figlio con una affetto possessivo […] Circondava Howard di attenzioni protettive soffocanti» (p. 39), che non consentirono al bambino di crescere, come di solito avviene, con i suoi coetanei. Grazie alla biblioteca di famiglia, il ragazzo presto acquisì conoscenze fuori dal comune per la sua giovane età e, durante l’adolescenza, si cimentò con una serie di saggi, che ne mostrarono la propensione per la creatività fantastica. Dormiva di giorno e scriveva di notte. Il sonno, la dimensione onirica, diventarono per Lovecraft valvola di sfogo e rifugio nei confronti della realtà storico-sociale degli USA degli anni Venti, avvertita come intollerabile.
  • ...
  • Collaborò con riviste, procurandosi da vivere attraverso la revisione di testi di scrittori esordienti. Nel 1924 si trasferì da Providence a New York, in seguito al matrimonio con Sonia H. Greene, che naufragò già nel 1926: «Dopo il ritorno a Providence, la sua vita trascorse senza scosse né avvenimenti particolarmente significativi sino alla fine» (p. 47). La formazione di Lovecraft era di fatto materialista e meccanicista, ricordano i due autori. Egli ebbe, comunque, il coraggio intellettuale: «di riconoscere che esistono realtà diverse da quelle che appaiono ai nostri sensi; e […] la via che […] ci farà uscire dalle contraddizioni del nostro tempo è il sogno» (p. 27).
  • ...
  • Del Tragico
  • Quella di Lovecraft fu, a parere di chi scrive, una gnoseologia originale e sui generis, sostanziata da una visione filosofica centrata su una rivalutazione del tragico. Lo si evince, in tutta evidenza, da alcune sue lettere pubblicate all’inizio del libro. In esse, tra l’altro, si può leggere: «Dato che l’intero piano della creazione è puro caos […] non vi è necessità di tracciare una linea fra realtà ed illusione. Tutto è mero effetto di prospettiva» (p. 22). Non esitono fatti, come seppe Nietzsche, ma interpretazioni degli stessi. Tale concezione è a-teleologica e, in tema, lo scrittore rileva: «Io non riesco a immaginare in altro modo lo schema della vita e delle forze cosmiche, se non come una massa di punti irregolari riuniti in spirali senza direzioni» (p. 22). Ancora più significativamente: «credo che il cosmo sia un insieme senza scopo e senza significato di cicli interminabili […] consistente soltanto di forze cieche che operano secondo schemi fissi ed eterni» (p. 23).
  • ...
  • La materia cui guarda il “solitario di Providence” è lucreziana, animata, non è “materia” da intendersi in senso moderno. Egli ha contezza del fatto che la trascendenza vive solo nell’immanenza, nella physis e, in essa, sancisce la magica possibilità dell’impossibile. Un cosmo leopardiano, quello di Lovecraft, orrido e meravigliante in uno. Il suo sguardo di “osservatore distaccato”, la sua curiositas di indagatore, è avulsa dal qualsivoglia antropocentrismo, come nelle corde del grande recanatese (Dialogo di un islandese e della Natura).  Il conservatorismo esistenziale e politico dello scrittore fantastico, va inteso, allora, quale risposta al caos, un tentativo di ordinare, di dar “forma”, sia pure momentanea, a ciò che ordinato non è. Lo sforzo letterario che lo contraddistinse è mirato a presentare: «un tipo di visione magnificata che conferisce strani colori all’universo, e che riveste le circostanze della vita d’un fascino mistico ed un significato occulto» (p. 25).
  • ...
  • Simbolo e divino
  • De Turris e Fusco ricostruiscono e analizzano, in modalità convincente, informata e organica, l’opera omnia di questo creatore di mondi immaginari, alla luce di una bibliografia critica assai ampia. Ne analizzano gli esordi, si soffermano sui “miti di Cthulhu”, sulla visione fantascientifica che traligna dalle sue pagine, sui rapporti con l’occulto, sulle lettere e le poesie, sulla struttura linguistica della sua prosa coinvolgente, nonché sul messaggio finale che la connota. Chiariscono, inoltre, le sue ascendenze culturali, da Dunsany a Poe, per citare solo alcuni degli “autori” di Howard.
  • ...
  • In particolare, notano che le figure simbolico-divine cui lo scrittore fa riferimento: «incarnano, il cieco terrore dell’individuo razionale posto di fronte ad un abisso cosmico» (p. 111), parallelo all’abisso che vive in interiore homine, nel foro interiore di ognuno di noi. L’uomo della ratio, attraverso gli universali e i concetti, staticizza l’essere sempre all’opera della vita, il carattere veicolare e metamorfico di ogni ente di natura, e richiude l’abisso.  Lovecraft, di contro, tenta di ridare vigore alle potenze che abitano il cosmo e l’uomo, questa la funzione svolta dai “miti di Cthulhu”: «nella sua narrativa non trovano posto divinità benevole o malevole, ma soltanto manifestazioni cieche di forze indifferenti, che agiscono tanto a livello universale quanto individuale» (p. 118). Il lettore non sia tratto in inganno da questa affermazione: il tragico puro, quando venga vissuto in modalità autentica, concede, lo seppero gli Stoici, serenità.  Ha tratto rasserenante di fronte all’orrido e al meravigliante della vita.
  • ...
  • Per questa ragione, Lovecraft, poeta dell’abisso, è libro da leggere e meditare, soprattutto oggi, in quanto la dismisura messa in campo dalla Forma-Capitale ha colonizzato l’immaginario degli uomini.   In tal senso, la lettura di queste pagine ha effetto liberante nei confronti degli idola della post-modernità.  Non è cosa di poco conto…
    Gianfranco de Turris - Sebastiano Fusco, H. P. Lovecraft, poeta dell’abisso, Bietti, pp. 314, euro 24,00.


  • Evola XXX

  • Dal Mediterraneo al Nord Olimpico
  • Una raccolta di articoli e conferenze di
  • Julius Evola
  •  rec. di
  • Giovanni Sessa
  •  
  • Una nuova raccolta evoliana
  • Julius Evola è stato pensatore dalla produzione assai vasta. Nel corso della sua esistenza, in particolare a muovere dagli anni Venti del secolo scorso, intrattenne una serie di relazioni con personaggi di primo piano dell’ambiente politico e, soprattutto, culturale, italiano ed europeo. Compì numerosi viaggi nella Mitteleuropa, si recò, più volte, in Austria, Germania, Ungheria, Romania.  È da poco nelle librerie una silloge, davvero preziosa, di articoli e conferenze del pensatore tradizionalista che permette di far luce sulle sue vaste relazioni internazionali, oltre che sulle sue intenzioni politiche-metapolitiche, negli anni decisivi che vanno dal 1920 al 1945.  Ci riferiamo a Julius Evola, Dal Mediterraneo al Nord Olimpico. Articoli e conferenze nella Mitteleuropa (1920-1945) comparso nel catalogo delle Edizioni Mediterranee (per ordini: ordinipv@edizionimediterranee.net   06/3235433).
  • ...
  • Novità del libro
  • Le traduzioni dei testi e la curatela del volume si devono a Emanuele La Rosa, collaboratore della Fondazione Evola, che in Archivi e biblioteche tedesche ha rintracciato articoli finora non noti o mai tradotti in italiano. La Rosa e Nuccio D’Anna, studioso di storia delle religioni e simbolismo, firmano i due saggi introduttivi, propedeutici alla comprensione dell’azione di interventismo "tradizionale" messa in atto da Evola nell’Europa centro-orientale. Il libro si segnala, inoltre, per la sua terza parte che raccoglie articoli dedicati ad Evola dalla stampa di lingua tedesca del tempo, molti ancora inediti nella nostra lingua, e per l’Appendice costituita dalla rassegna stampa dedicata all’Evola pittore.  I viaggi, gli scritti e le conferenze del tradizionalista miravano alla costituzione di un fronte comune pan-europeo, rivoluzionario conservatore, atto, da un lato, a “rettificare” i limiti teorico-pratici del fascismo e del nazionalsocialismo e dall’altro capace di dare una risposta forte e convincente alla pervasività del moderno in ogni ambito della vita.  Rileva D’Anna: «in questi suoi interventi non tralasciava di indicare comportamenti “esemplari”, forme di costume e modelli esistenziali considerati importanti in una società che in seguito al pesante crollo economico del 1929 era sprofondata in una pesante crisi d’identità» (p. 9).  A parere di chi scrive, la rivista più prestigiosa sulla quale comparvero gli scritti di Evola fu Europäische Revue, del principe Rohan.  Ad essa collaborarono, tra gli altri, W. F. Otto, Heidegger, Schmitt, Sombart, C. G. Jung e il nostro Ernesto Grassi.  In ogni caso, anche su altri periodici: «Evola continuerà a muoversi […] verso un’unica direzione le cui caratteristiche fondamentali appaiono ordinate attorno a tradizioni sacre […] simboli e forme del pre-politico che trovano su un piano metastorico la propria autentica ragion d’essere» (p. 11).  Per Evola, infatti, l’ordinamento dello Stato della Tradizione era connotato dalla sintesi di due potenze, quella temporale e quella spirituale (Melkitsedek), che il medioevo ghibellino tentò di ripresentare nella storia (sagra del Graal). Alla luce di tali posizioni il tradizionalista operò per rafforzare, in termini non meramente politici, l’alleanza italo-tedesca. In questa silloge compaiono, inoltre, scritti attraverso i quali Evola critica la versione meramente biologica del razzismo che si era affermata in Germania, nel nome di una razza dello spirito, tradizionale, consapevole della tripartizione umana in spirito, anima e corpo.
  • ...
  • Imperialismo pagano in Italia e Germania
  • Da alcuni dei contributi evoliani si rilevano, come coglie La Rosa, differenze importanti tra la versione italiana di Imperialismo pagano e la sua traduzione tedesca del 1933: nella prima, il pensatore: «contrappone al “pericolo euro-cristiano” la funzione positiva di una ripresa della tradizione mediterranea, in quella tedesca si fa latore della tradizione nordico-germanica» (p. 31).
  • Il cambiamento di prospettiva va imputato a ragioni biografiche (la rottura con Reghini, neo-pitagorico e sostenitore della vichiana antiquissima italorum sapientia, finita in tribunale) e a motivazioni ideali. Certo, come si evince dal saggio del curatore, ci fu una scelta strategica di Evola, di impianto “machiavellico”, mirata a spostare la sua influenza teorica nei paesi della Mitteleuropa, per la qual cosa le due versioni di Imperialismo pagano possono essere intese: «come due programmi politici differenti per forma e contenuto […] come una proposta (meta) politica ora offerta al governo fascista, ora a quello nascente nazional-socialista» (p. 32).  Il mutamento teorico è spiegabile anche per ragioni ideali: dopo l’incontro con Guénon, Evola cambiò prospettiva rispetto alla civiltà mediterranea e guardò con altri occhi alla Rinascenza italiana. Mentre in Imperialismo pagano, Giordano Bruno e la filosofia del Rinascimento (come nelle opere filosofiche) hanno ruolo di un certo rilievo, dai primi anni Trenta il filosofo della vicissitudine universale e i neoplatonici del Quattrocento non sono più citati, se non termini negativi. In Rivolta, il tradizionalista giungerà ad affermare: «La vera Rinascenza (della Tradizione) è il Medioevo».  Evola: «traslittera nell’idea imperiale quella della realizzazione dell’individuo […] la cui regola base è il principio di solidarietà tra gli elementi di un organismo» (p. 33). L’Impero diviene il modello metapolitico del filosofo, risposta tanto all’internazionalismo marxista quanto alla plutocrazia americana. Medesima curvatura “nordica” viene messa in atto rispetto ai simboli, dal fascio littorio si passa all’aquila imperiale: «Evola deve “machiavellicamente” operare attivando forze trainanti, simboli e miti […] che siano capaci di affascinare […] il pubblico cui si rivolge» (p. 35).
  • ...
  • La crucialità del pensiero evoliano
  • Tale interventismo tradizionale non produsse gli effetti sperati né in Italia, né in Germania. Si evince, comunque, anche da questa importante raccolta, il lascito iperbolico del pensatore. Sul piano individuale esso è simbolizzato dall’individuo assoluto, latinamente “sciolto”, liberato, perfino da se stesso, proteso nella tensione esistenziale indotta dall’incipit vita nova. Il suo esistere è già, in se stesso, esemplare, rinvia, metapoliticamente, al sublime superamento delle organizzazioni politiche contemporanee. La sua arbitrarietà non può venir intesa dall’occhio moderno, educato alle distinzioni escludenti indotte dal logo-centrismo.  Dal mediterraneo al Nord Olimpico è opera che fa ulteriore chiarezza sul pensiero abissale di Julius Evola, per questo da leggere e meditare con sguardo non-rappresentativo, assoluto, oltre la dicotomia soggetto-oggetto, in quanto, per Evola, fenomeno e noumeno dicono il medesimo…

  • Julius Evola, Dal Mediterraneo al Nord Olimpico. Articoli e conferenze nella Mitteleuropa (1920-1945), a cura di Emanuele La Rosa, Edizioni Mediterranee, pp. 331, euro 31,50.

  • Gasparotti

  • Disumanizzare l’arte
  • Romano Gasparotti
  • a confronto con
  • Joseph Beuys e Hermann Nitsch
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  •  
  • Romano Gasparotti, filosofo e performer di danza profonda, nella sua ultima fatica, "Disumanizzare l’arte. Joseph Beuys, Hermann Nitsch e l’anomalia del contemporaneo", nelle librerie per Aesthetica Edizioni (per ordini: info@aestheticaedizioni.it) si confronta con due artisti-filosofi di primissimo piano, Beuys e Nitsch, il cui pensiero e la cui opera non hanno, finora, avuto la considerazione che meritano. Gasparotti, con questo libro, riconosce la loro grandezza ed imprescindibilità, almeno per quanti guardino con interesse a un cogitare altro da quello prevalso in Occidente, centrato sul logo-centrismo e il primato del principio d’identità, nonché dei succedanei principi della non-contraddizione e del terzo escluso.  L’autore conobbe personalmente Nitsch e, fin dall’adolescenza, fu attratto dalle prospettive teorico-pratiche di Beuys. Il metodo esegetico di cui si avvale non fa riferimento alla comparazione, in quanto tale strumento: «risulterebbe forzato […] perché è la natura stessa del lavoro dei due grandi maestri che lo respinge e lo rifiuta» (p.13).
  • ...
  • Disumanizzazione dell’arte
  • Le similitudini, come mostrato da Magritte, sono espressione del pensiero logico-discorsivo, mentre il co-gitare kairosofico, rinviando all’“agitarsi in relazione agli altri”, vive di somiglianze. Non è casuale che Beuys giunse alla pratica che, nonostante la sua lezione centrata sul superamento dell’autonomia dell’arte, viene ancora definita “artistica”, a seguito di studi scientifici. Tali studi lo convinsero dei limiti della visione matematizzante del mondo. Le azioni artistico-teatrali di Nitsch, allo stesso modo: «costituiscono il più potente e radicale antidoto nei confronti degli effetti intossicanti del razionalismo iperapollineo» (p. 14). Questi mirò, sotto la spinta di una lettura non convenzionale del poema di Parmenide, a vivere, con l’Orgien Mysterien Theater, i “momenti sovrani” dell’esperire, vale a dire ebbrezza, erotismo, riso, l’“attimo immenso” dionisiaco. I due maestri hanno, di fatto, messo in atto la disumanizzazione dell’arte auspicata da Duchamp. Tale disumanizzazione mostra: «come il cogitare creativo che si mette all’opera […] dappertutto» riduca la logica a mera dimensione strumentale. Beyus e Nitsch testimoniano, come i Sapienti (da sapio: gli “assaporanti”) della Grecia, che “tutto è in tutto”, che ogni corpo e le stesse produzioni artistiche, sono veicoli nei quali momentaneamente pare “sostare” la dynamis, potenza-possibilità che, nella physis, è sempre in fieri.
  • ...
  • Ultrafilosofia
  • Tale concezione ribalta il primato concesso da Aristotele all’atto e si pone oltre l’antropocentrico primato del “vedere” che “cosalizza” il mondo, senza, comunque, negarlo, sublimandolo in una visione sinestetica, che chiama in causa udito, tatto, olfatto e gusto. Il lavoro creativo, pertanto: «non si riduce affatto alla produzione autonoma e speciale da parte di un soggetto […] le sue manifestazioni in progress non sono sostanze, non sono oggetti» (p. 17). L’arte non è poiesis ma praxis sempre in opera, come si evince dal: «modello dinamico della musica, della danza e dell’azione teatrante» (p. 17). Beuys, memore della lezione warburghiana, ritiene la propensione melanconica dell’artista latrice di uno sguardo altro rispetto a quello meccanico-causale. Tale “visione” induce la dimensione festiva dell’arte totale quale ultrafilosofia, ben oltre le stesse intenzioni wagneriane. In essa, si incontra il tratto ritmico-relazionale-fluente della vita, tacitato dal dialogo, strumento sul quale la logica diairetica, ha costruito la modernità e la post-modernità. Di contro, la conversazionalità improvvisante libera il dire dalle ossificazioni semantiche: «La conversazione […] dà corso ai liberi flussi e controflussi di una prassi corale dal carattere estemporaneo […] mai finalistico» (p. 23). Non con-vince, persuade.
  • ...
  • Disforia, mito e tragedia
  • L’operare nel flusso della vita, da parte dei due artisti, è “disforico”: «La disforia, intesa in senso lato, contraddistingue l’anomalia dell’arte contemporanea, mandando in corto circuito, senza negarla, la tradizionale macchinazione prometeica che è […] volta a programmare […] controllare euforicamente ogni forma del pensare e del fare» (p. 27). Beuys e Nitsch hanno espresso tutto questo in un gioco di mascheramenti, in quanto: «ogni forma di vita si presenta nel suo typos ricorrente unico […] tanto quanto anonimo e generico» (p. 31), rinviante al mito. Non al mito inteso, sic et simpliciter, come qualcosa che sta “prima” di altro, ma quale: «dinamica e plastica manifestazione, sempre risorgente nelle sue imprevedibili figure, della forza di un cogitare, che proviene da un incrollabile fuori e non appartiene a nessuno» (p. 33). L’arte di Beuys e Nitsch è sacra e magica, sciamanica, liberante: pone gli uomini nella possibilità di esperire il mondo come lo percepiscono gli altri uomini, gli animali o le piante. Un sacro che affascina e terrifica in uno: la visione tragica, lo intese Nietzsche, sa che la vita “mangia se stessa”. Alimentarsi, mangiare è un sacrum-facere nel quale sperimentiamo che “tutto è in tutto”. Violenza “pura”, l’avrebbe definita Benjamin. I due maestri, nel loro speculare, mettono all’opera: «la cangiante pluralità dei mondi stessi, nel ri-velare il mistero della loro provenienza» (p. 47), come nelle corde della tragedia attica.
  • ...
  • Figurazioni del possibile
  • Le opere di Beuys e Nitsch sono figurazioni del possibile, in quanto non riducibili all’oggetto, all’excrementum (Derrida). Suggeriscono di portarsi oltre la pittura e la scultura intese retinicamente, in quanto: «Ogni emergenza sensibile […] è l’evidente segnalarsi del momento traboccante di una materia viva ed effervescente in perenne autoformazione» (p. 63). “Ogni uomo è artista”, rilevò Beuys, anche gli uomini che camminano per le strade sono: «instancabilmente impegnati nell’opera condivisa di una danza collettiva» (p. 95). In natura tutto danza, le api, gli insetti, i pianeti in quanto ogni “ente” testimonia, nella sua animazione, la “vicissitudine universale”   della “materia”, come colsero, in modalità diversa, Bruno e Spinoza. L’arte, come la intesero i due maestri, è allora davvero ultrafilosofia, mette in scacco i limiti del pensiero logocentrico. A essa è necessario rivolgersi per liberare le nostre vite dallo sguardo relativo, divisivo ed escludente sul quale è costruito il mondo nel quale viviamo. Le pagine di Gasparotti, se opportunamente lette, risvegliano lo sguardo assoluto sulla realtà. Esigono, non semplici lettori, ma uomini disposti a compiere un “cambio di cuore” radicale al fine di cogliere l’aporia, il non, che ogni positivo dice.

  • Romano Gasparotti, Disumanizzare l’arte. Joseph Beuys, Hermann Nitsch e l’anomalia del contemporaneo, Aesthetica Edizioni, pp. 165, euro 16,00.

  • L’ODIO  e  il  NEMICO
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Nel prologo del dramma di Montherlant “La guerre civile”, questa, presentandosi, dice “Sono la guerra della piazza inferocita, la guerra delle prigioni e delle strade, del vicino contro il vicino, del rivale contro il rivale, dell’amico contro l’amico. Io sono la Guerra civile, io sono la buona guerra, quella dove si sa perché si uccide e chi si uccide: il lupo divora l’agnello, ma non lo odia; ma il lupo odia il lupo”. Già Clausewitz, col Vom Kriege aveva individuato, anche nella guerra tra Stati lo spazio per l’odio nel sentimento ostile che s’accompagna, ma non sempre, a molte guerre internazionali, mentre ad ogni guerra è connaturale l’intenzione ostile.
  • ...
  • Nel dibattito sull’assassinio di Charlie Kirk l’odio ha avuto un posto rilevante: e non pare che l’abbia occupato abusivamente, almeno a seguire la tesi di Montherlant. Quel che consegue da questa e dall’opinione di Clausewitz è che non è un elemento necessario in tutte le guerre onde ve ne sono state condotte senza odio: nel libro (postumo) che raccoglie scritti di Rommel, il titolo era Guerra senza odio, riferendosi a quella praticata dal generale tedesco.
  • ...
  • Ma non è così per le guerre civili: la coesione in un gruppo sociale, e così in un popolo, presuppone una certo tasso d’amicizia che valga a co-fondare l’unità politica con l’idem sentire de re-publica; se questo non c’è o è carente, i contrasti d’interesse, volontà, opinioni diventano determinanti e corrodono l’unità politica, fino (talvolta) a sfociare nelle guerre civili.  Il carburante principale delle quali è l’odio, come ritenuto da Montherlant.
  • ...
  • Una delle caratteristiche di quello contemporaneo è che divide le comunità in senso orizzontale: da una parte le élite e il loro seguito, dall’altra la parte maggioritaria o comunque in crescita dei governati.  Resta il fatto che, almeno in unità politiche con popolazione omogenea, quindi tale per lingua, religione, costumi, storia (e gli altri “fattori” indicati da Renan) occorre (creare, o) aumentare divisioni esistenti in grado di detronizzare quella principale a fondamento dell’unità politica. Ove non si può contare su differenze reali o almeno decisive, occorre lievitarle di guisa da creare un (nuovo) nemico che abbia la conseguenza, naturale in ogni conflitto, di rinsaldare la coesione del gruppo sociale che a quello si oppone. A portata di mano, per realizzare tale operazione, c’è l’intensificare l’odio al nemico scelto. In mancanza di differenze reali si corre così il rischio di crearne di immaginarie.
  • ...
  • Una variante delle quali è di identificare il nemico quale nemico dell’umanità o di caratteristiche umane (vedi i “diritti umani”) come sottolineato già un secolo fa da Carl Schmitt; a cui non erano estranei neppure i nazisti quando consideravano i popoli dell’Unione Sovietica degli untermenschen, cioè sotto-uomini, destinati a estingursi o a servire quello tedesco. Molto meglio per assicurare la pace e l’intesa tra popoli la concezione (e la prassi) romana che gli stranieri non erano così diversi (alienigeni) dai romani da non potersi accordare in una pace e una coesistenza concorde e nel comune interesse.
  • ...
  • Per cui l’odio è un moltiplicatore dei conflitti, se rivolto a creare nemici all’interno dell’unità politica, inversamente proporzionale alla coesione e potenza della stessa, nei conflitti internazionali, può diventare un elemento di coesione, ma non (o poco) controllabile.

  • Donà 7

  • "Una certa idea dell’idea"
  • L’ultimo saggio del filosofo Massimo Donà
  • Una filosofia della singolarità
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  •  

 

  • È nelle librerie, per InSchibboleth editore, l’ultima fatica di Massimo Donà, Una certa idea dell’idea (per ordini:info@inschibbolethedizioni.com). Un volume che, fin dal titolo, immette nel cuore delle problematiche teoretiche che stanno al centro della filosofia donaiana. Libro agile, che crediamo di poter definire, sommario e summa della visione del mondo del pensatore veneziano. Abbiamo scritto, in altro contesto, essere il pensiero di Donà, filosofia ritmica della singolarità.   In queste pagine, l’autore immette il lettore nelle complesse problematiche che il testo discute, con prosa coinvolgente, strutturata in domande e risposte, che egli pone, innanzitutto, a se stesso e, di rimando, al possibile interlocutore. Non si tratta dell’ennesima applicazione del metodo dia-logico, ma esempio di civiltà del conversare: un con-versare corale che non mira a con-vincere, ma a rendere persuasi (Michelstaedter) i partecipanti alla cerca. Non poteva essere diversamente: a venir messo in questione è il primato dell’idea, del concetto, dell’universale, insomma del lógos come si è affermato a muovere dalla filosofia classica per giungere a Hegel.
  • ...
  • Oltre gli universali
  • Allo scopo il filosofo-musicista (è jazzista) recupera il valore della fantasia, servendosi degli studi prodotti in tale ambito, tra gli altri da Ernesto Grassi e Gianni Celati. La via teoretica cui guardò Grassi non era: «fondata tanto sul lógos universalizzante e incontrovertibile, quanto piuttosto su una giusta mistura di individualità e universalità» (p. 12), come nelle corde della “ragione poetica” del dimenticato Gaetano Chiavacci. Un via che “salva” il singolare, l’individuale, di fronte al quale perpetuamente sorge la domanda filosofica. Una posizione che guarda al “poetico” e al “fantastico”, esperiti come originari.
  • ...
  • La fantasia, infatti, non è da intendersi quale negazione del lógos, ma come suo presupposto. Il fantastico restituisce: «la vera complicazione che caratterizza l’umana esistenza, le mille sfumature di cui la medesima è fatta […] i suoi mille modi d’essere - e non solo quelli riconducibili alla regolarità» (p. 14) Insomma, è necessario porsi oltre gli universali, in quanto dell’unicità di ogni vita: «il linguaggio razionale non può dire e non dice nulla» (p. 14). L’individuale testimonia: «l’originaria manifestatività di quel che sorge libero da ogni vocazione destinale […] punto di partenza di un percorso del tutto imprevedibile» (p. 15). La filosofia della singolarità procede verso l’abisso che anima ogni “esser-qui”, “evento” sempre esposto al novum, alla dissonanza nei confronti della regolarità previsionale della scienza.
  • ...
  • Linguaggio e immagine
  • Tale “vedere”, si serve del linguaggio in modalità indicativa, non dimostrativa, si affida a una scrittura immediata che si dà: «nella forma di un semplice linguaggio immaginale» (p. 18). Le immagini riflettono il flusso, la continua metamorfosi della dynamis, ben oltre la quiete apparente imposta dai concetti. Non si tratta di una realtà illusoria, al contrario: l’illusione è quella indotta dalle staticizzazioni degli universali: «Realissima è […] proprio la molteplicità […] dove ogni individuo si costituisce come unico ed irripetibile» (p. 21). Si tratta, in fondo, non tanto di conoscere ma di capire, scardinando il dualismo che vige in ogni rappresentazione, in cui il soggetto è distinto dall’oggetto. La realtà della vita sempre all’opera nega le significazioni, le distinzioni escludenti prodotte dalla logica identitaria: «l’unicità conviene a tutto ciò che non si lascia accomunare a nulla» (pp. 23-24). Essa è tacitata nell’esperire il mondo in termini di oggettualità. È necessario, pertanto, porsi alla cerca del “chi” non del “che cosa” degli essenti. In tal caso, si scopre l’incondizionatezza pura. L’ente è colto nella sua irriducibilità al mondo che, comunque: «non sarà mai qualcosa d’altro rispetto ad esso» (p. 27).
  • ...
  • Del Principio
  • Ma cosa anima gli essenti? Il principio. Esso non è un essente, ma non è posto, in alcun caso: «al di là dell’essente» (p. 30). Le cose portano alla presenza il medesimo, il non originario, non dicono nulla di determinato: «ma mostrano […] quel Principio il cui mostrarsi […] è identico al suo non mostrarsi mai» (p. 31). La vera filosofia ha, quale presupposto, la fede in questa “sacra negazione”.   Non può essere, sic et simpliciter, sapere acquisitivo, apodittico, affermativo. Guarda l’aporia custodita dalla vita, scopre che le cose, leopardianamente, non sono mai quel che dicono di essere. Il vero filosofare conduce oltre la permanenza e stabilità dell’idea, sospingendoci nell’in-tra di essere e nulla, sulla soglia del tempo, oltre la quale vivono gli “opposti” assoluti. È via erratica in quanto, come colto da Abelardo (status), anche l’universale esiste: «ma senza mai essere ancora quel che è» (p. 47).   La fantasia ha ruolo di primo piano perché destruttura le griglie del fenomenico empirico e lascia vedere: «quello che c’è», fenomeno e noumeno si danno in uno. Lo seppe Kandinsky: guardando il “movimento puro” si entra nel “cuore del reale”: «la vita è caratterizzata da una continua lotta, in virtù della quale gli opposti continuano a far emergere l’indisgiungibilità della luce e del buio di cui siamo tutti contraddittorie, ma divine manifestazioni» (p. 59).
  • ...
  • Della fantasia e del gioco del mondo
  • Gianni Rodari ha insegnato che la fantasia immaginativa è: «alimentata da quei “binomi di concetti” che ci consentono di rompere il rigido involucro che solitamente supporta le parole» (p. 63). I significati quotidiani vanno ricomposti, al fine di concedere loro la gratuita ludicità del linguaggio infantile: «il bambino comincia presto ad intravvedere questo più o meno sotterraneo commercio tra essere e non essere; e a “giocare”», rileva Donà.
  • ...
  • Il pensatore veneziano presenta, in una esegesi compiuta e con persuasività d’accenti interpretativi, quanto Aristotele e Platone, in particolare nel Parmenide e nel Sofista, sostennero in merito al rapporto Essere/Nulla. Coglie le grandi intuizioni di questi pensatori, ma ne mostra, altresì, i limiti. Donà afferma che Platone ebbe ben chiara: «la co-originarietà dei due principi […] L’Uno e la Diade» (pp. 87-88), per la qual cosa, chiosa l’autore, l’idea non può esser posta in un altrove sovramondano. L’Ateniese non lesse il mito come ciò che, semplicemente, indica “un prima” del lógos, anzi esso rappresenta un’ulteriorità teorica rispetto alla ragione discorsiva. Donà, infine, si confronta con lo statuto dell’immagine. Con Andrea Emo, nota: «Le immagini sono le metempsicosi dell’unica anima, dell’eterna unica fenice che si brucia e si consuma in un’immagine, e rinasce in un altro nido, altra e medesima, e con nuovi colori […] la sua sola giustificazione sono altre immagini» (p. 99).
  • ...
  • Tutto ciò è testimoniato dall’arte che, quando è veramente tale, ha valenza filosofica, “capisce” il mondo e riflette le “verità della natura”, abisso da cui tutto sorge e a cui tutto fa ritorno. Libro liberante, chiarificatore, Una certa idea dell’idea, in qualche modo nietzschiano, “per tutti e per nessuno”.

  • Massimo Donà, Una certa idea dell’idea, InSchibboleth, pp.120, euro 15,00.

  • ilsignorarmistizio

  • A proposito dell’Armistizio dell’ 8 settembre
  • Un’importante ricostruzione storico-giornalistica di
  • Rosanna Romanisio Amerio 
  •  rec. di
  • Giovanni Sessa
  • Rosanna Romanisio Amerio, appassionata studiosa di storia nonché pubblicista di vaglia, come ha mostrato la curatela, condivisa con Gianfranco de Turris, di un’opera di Enrico de Boccard, ha da poco dato alle stampe un volume che mira a fare (finalmente!) chiarezza sull’armistizio dell’8 settembre 1943, le cui conseguenze hanno profondamente inciso sulla storia italiana contemporanea.  Stiamo parlando dell’ampio volume, Il Signor Armistizio non lo conosciamo, nelle librerie per i tipi di Solfanelli (per ordini: 335/6499393; edizionisolfanelli@yahoo.it,). Il testo è aperto dalla presentazione di Gianluca Barneschi e da una breve nota di Alessandro Allemano.
  • ...
  • Barneschi rileva quanto segue: «le lettura e lo studio del risultato delle pluriennali fatiche di R. Romanisio Amerio […] aiutano a capire cosa effettivamente accadde in quella tragica estate […] grazie ad acquisizione documentali, anche recentissime» (p. 5). Il volume è impreziosito da un importante apparato fotografico e dalla raccolta dei documenti dei quali l’autrice si è servita nella stesura del testo.
  • ...
  • Romanisio Amerio, fin dall’incipit di queste pagine, precisa di non essere una storica di professione. In realtà, i documenti che ha ritrovato, in Archivi italiani e non solo, mostrano che la curiositas che ha animato la sua ricerca è sostenuta da una non comune acribia investigativa e, spesso, anche dal dubbio scettico che, in molti casi, la storiografia accademica non conosce. La studiosa precisa, a proposito del metodo seguito ne, Il Signor Armistizio non lo conosciamo: «la ricerca è qui raccontata come in un diario» (p. 28). Ciò rende le sue pagine godibili anche dal lettore meno informato, tanto da trasformare il narrato, centrato su basi documentali incontestabili, un’avvincente spy story. Tra i documenti inediti, ritrovati dalla ricercatrice, va, innanzitutto segnalato lo: «Short Military Armistice, il cosiddetto “armistizio breve” del 3 settembre 1943, corredato dalla firma del generale di brigata Giuseppe Castellano e […] del maggiore generale Bedell Smith, capo di S. M. dell’esercito USA» (p. 15). Si tratta dell’ “armistizio di Cassibile” che, in realtà, fu firmato nel Fairfield Camp, allestito nell’antica Masseria S. Michele, nei pressi di Cassibile. Il documento fu redatto in tre copie, di cui il Ministero degli Esteri italiano conserva solo una copia priva di firme, in quanto l’originale fu distrutto per ordine del capo di S. M., generale Vittorio Ambrosio. Un altro documento ritrovato è quello dell’armistizio firmato a Malta il 29 settembre 1943, l’ “armistizio lungo”, che ebbe due versioni corredate dalle firme di Badoglio e Eisenhower. Nella seconda si legge che le condizioni poste furono: «accettate […] dal Maresciallo Badoglio e da Eisenhower» (p. 15).
  • ...
  • L’autrice ricostruisce secondo i canoni del miglior giornalismo d’inchiesta le intricate vicende che caratterizzarono la caduta del fascismo a muovere dal 25 luglio, nonché i contatti, epistolari e non, intercorsi tra le parti in causa. L’indagine si sviluppa, inoltre, attorno alle tracce del cippo-ricordo dell’armistizio che gli Alleati posero nel luogo della sottoscrizione dell’“armistizio breve”, asportato nel 1955 da Enrico de Boccard. Vengono presentati e discussi i testi inediti di Franco Montanari, diplomatico che accompagnò il generale Castellano, con funzione di interprete durante le trattative, e i Diari inediti del diplomatico Luca Pietromarchi, sostituito in questo incarico inizialmente affidatogli, proprio da Montanari. Romanisio Amerio si intrattiene sul ruolo giocato nelle trattative da Dick Mallaby, agente segreto britannico e ricostruisce l’intricata avventura di Giacomo Zanussi che, per primo, ebbe la possibilità di visionare il testo dell’“armistizio lungo”. Si tratta di una ricostruzione puntuale e oggettiva degli eventi, carica, si badi, di un coinvolgimento empatico nella discussione degli stessi, motivata dal fatto che la studiosa essendo italiana ha contezza che l’armistizio, nel bene e nel male, segnò una cesura tragica della storia patria.
  • ...
  • Per tale ragione, il capitolo davvero dirimente del testo è l’ultimo, nel quale Ella si interroga sulle conseguenze dell’armistizio e sul suo senso profondo. Mentre gli Alleati, rileva, potevano contare su una complessa e articolata organizzazione nelle trattative, il fronte italiano non era unito e poteva contare su singole personalità, la principale delle quali era rappresentata, anche per i rapporti intrattenuti con la Casa Reale, da Badoglio. Nel discutere tale contesto storico, l’autrice si serve della più accreditata bibliografia storica, avvalendosi anche di notevoli fonti giornalistiche. La prima conseguenza dell’armistizio, è ben noto, fu l’esplodere della guerra civile che vide contrapposte le brigate partigiane e l’esercito della neonata RSI. Con la “fuga al Sud”, il Re e Badoglio scelsero definitivamente il fronte alleato. Questa scelta viene giustificata, dalla scrittrice, per l’impellenza, per gli italiani, che vivevano una situazione di evidente minorità politica e militare, di tentare di salvare il salvabile, innanzitutto bisognava ricostruire l’Italia. È bene precisare che Romanisio Amerio presenta tale lettura con il beneficio del dubbio.
  • ...
  • Chi scrive, di contro, fa propria, in merito all’armistizio dell’8 settembre, la tesi di Galli della Loggia: l’armistizio segnò la “fine della Patria”, cui fece seguito la colonizzazione politica e spirituale italiana da parte dell’Occidente. Negli anni Settanta, non è affatto casuale, che in Italia si registrasse una recrudescenza della guerra civile che sancì l’instaurasi, anche da noi, della post-modernità, del capitalismo computazionale, della dismisura che ammorba, ancora oggi, le nostre vite. Pertanto, il nostro giudizio sull’armistizio, è forse più negativo di quello espresso dall’autrice.
  • ...
  • Nonostante ciò, il libro che abbiamo sinteticamente presentato, fornisce al lettore molte informazioni e documenti sui quali vale la pena soffermarsi e riflettere. Essi chiariscono molti eventi di quel concitato frangente storico.

  • Rosanna Romnisio Amerio, Il Signor Armistizio non lo conosciamo, Solfanelli, pp. 363, euro 30,00.

  • DAZI e  MAZZI
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  •  
  • I

  • Mentre da gran parte della stampa si levano grida di dolore per i dazi all’Europa annunciati da Trump e sono calcolati i danni (le minori esportazioni) che ne conseguiranno alle economie europee, nessuno – che mi risulti – ha affiancato, come determinante del comportamento (e della decisione futura) di Trump, quanto vi concorrano presupposti, regole e regolarità della politica.   Tra questi il problema del nemico, inteso nel senso del competitore ostile, prescindendo dallo stato di guerra e di pace. E’ chiaro che in un pluriverso politico tutti i soggetti si trovano in uno stato di ostilità, che può avere carattere agonale o polemico (Freund). Ma gli Stati sono collocati in una graduazione di ostilità, come ci dimostra la storia. Per la Francia generalmente il primo posto è di chi occupa la riva destra del Reno, cioè la Germania; Italia e Spagna, pur confinanti sono per lo più collocati a gradini inferiori della “scala”.  Ovviamente, anche per evitare un confronto in posizione sfavorevole, occorre affrontare un nemico per volta e garantirsi che gli altri (potenziali) nemici conservino lo stato di neutralità, o meglio si comportino da alleati. Lo sapevano bene i Romani il cui divide et impera è la sintetica espressione di questa regola, che de Benoist considera la prima (e più importante) della lotta politica. Ossia la riduzione (del numero) dei nemici. In questa situazione Trump che ha trovato il modo di alzare il tono del conflitto con mezzo mondo, Cina in testa, difficilmente può non accordarsi con l’Europa. Anche perché – e qua si torna, almeno in parte, sull’economico – U.E. e U.S.A. hanno per lo più gli stessi problemi: delocalizzazione, dumping commerciale dei paesi emergenti, immigrazione fuori controllo. E avere gli stessi problemi non divide ma è un incentivo ad allearsi: nel secolo scorso UK, U.S.A. e U.R.S.S. divennero alleati perché avevano in comune gli stessi problemi; l’espansionismo tedesco e giapponese. Questo li indusse a superare le differenze di interessi ed ancor più quelle ideologiche.
  • ...
  • Infine se a seguire una certa convinzione, onde a determinare, almeno parzialmente affinità e non affinità politiche (e campi di maggiore o minore affinità) è l’appartenenza alla stessa “civiltà” (Kultur) è palese che U.E. ed U.S.A. sono la filiazione politica del cristianesimo occidentale, col suo millenario bagaglio di idee, convenzioni e costumi, estesi ad ogni campo: dal religioso all’economico, dal giuridico alla scienza. Il che aiuta: ha ragione la Meloni quando parla di occidente: una cultura comune unisce assai più di quanto interessi – per lo più occasionali e limitati – possano dividere.   A patto di non fare di questi ultimi il criterio (esclusivo) di scelta politica. Il che talvolta, succede.

  • II

  • La notizia della “conclusione” della trattativa USA-Europa sui dazi ha – come era prevedibile – alzato i toni del confronto politico, così come della confusione che approcci ideologici e comunque settoriali comportano. Qualche settimana fa provavo a valutare i comportamenti degli attori nella trattativa sulla base di regole (e costanti) politiche, a lato di quelle più invocate, economiche, ed ora, anche se sullo sfondo, alle conseguenze sociali. Ci riprovo ad individuare gli idola taluni sfornati da tempo e ora aggiornati.  Il primo è la cattiveria (e l’ignoranza) di Trump. Il quale, secondo i suoi detrattori, ha il vizio capitale: a) di agire per conseguire l’interesse (del popolo) americano, e b) di non applicare idee di qualche Balanzone di regime, colme di buone intenzioni e condite da zuccherosi appelli.   A cui bisogna notare che da qualche secolo (o anche di più) si ritiene che il governante capace sia quello che realizza l’interesse della comunità, e non quello che predica bene e anche quando razzola altrettanto bene, non consegue il reale interesse comunitario (un tempo chiamato – o meglio sussunto –al bonum commune).
  • ...
  • Al riguardo gran parte dei commentatori concorda sul fatto che l’accordo è più vantaggioso per gli U.S.A.. Non sono in condizione di giudicare, specie a lungo termine, né i benefici né le perdite. Sta di fatto che se Trump ha “messo nel sacco” la baronessa, bisogna ammettere che è stato bravo: se qualcuno sceglie un mediatore per trattare lo vuole fedele e capace, non uno sprovveduto remissivo. Di questo tipo di governanti ne abbiamo avuti tanti in Italia (e qualcuno anche in Europa): da chi vagheggiava di un’economia renana al “ce lo chiede l’Europa” per giustificare la loro arrendevolezza senza assumersene la responsabilità (si sa che servilità e viltà vanno quasi sempre a braccetto). Così che tacciare il Tycoon di aver messo l’Europa nel sacco conseguendo vantaggi per gli americanI è fargli un complimento.
  • ...
  • Terzo: non è che a indebolire l’Europa nel negoziato è stato proprio quello che il vicepresidente Vance aveva rimproverato ai governanti europei: di aver perso il consenso dei propri elettori? Come mi è capitato di sostenere, questo è uno dei fattori di potenza del governo: il sostegno non unico, ma principale che assicura la coerenza tra vertice e base, governanti e governati. Se l’avversario sa che è dubbio o carente, ne approfitta, nei frangenti estremi muovendo guerre, in altri facendolo pagare nelle trattative. Nella specie ha concorso con la frammentazione istituzionale dell’U.E., potenziandone gli inconvenienti.
  • ...
  • Quarto: sarebbe colpa dei sovranisti. Questo non si capisce proprio (se c’è qualcosa da capire in un’affermazione di propaganda di bassa categoria). Se è sovranista Trump e riporta tale successo, il fascino del sovranismo dovrebbe crescere. La tesi è comunque quanto mai debole per più ragioni.  La prima è che a condurre la trattativa è stata la Von der Leyen, dato che la competenza (giuridica) appartiene alla Commissione U.E. (pare), il tutto tra gli strepiti dei centrosinistrati nazionali i quali l’hanno invocata quale migliore dei negoziatori possibili.   Ma se la Von der Leyen ha il potere (di negoziare) ha pure la responsabilità del negoziato: il nesso tra potere e responsabilità è un nesso naturale (e quanto mai opportuno); cosa che i centrosinistrati carichi di battaglie perse e risultati negativi vedono come l’orco i bimbi.   In secondo luogo, dato che il tutto costituisce, a prenderlo sul serio, un tradimento, occorrerebbe qualche prova del fatto o almeno indicare un qualche interesse a favorire l’arcinemico Trump. Ma delle prime non ce n’é, e del secondo, non si capisce quale vantaggio ricavi Orban o la Meloni dal favorire gli interessi americani, a scapito di quelli nazionali.
  • ...
  • A cercare una spiegazione più aderente alla realtà è che la debolezza istituzionale e politica dell’Unione si ripercuote sui rapporti internazionali, dazi americani compresi. Neppure usare la baronessa come capro espiatorio, addebitandole responsabilità maggiori di quelle – istituzionali - che le competono è condivisibile,. Se un’entità politica ha poco potere, di conseguenza ha poco diritto, come sosteneva Spinoza: tantum juris quantum potentiae.    E chi la rappresenta ha mezzi modesti, non superiori ai risultati.


         Sabino Cassese Varcare le frontiere


  • Sabino Cassese,
  • Varcare le frontiere.
  • Una autobiografia intellettuale,
  • (Mondadori 2025, pp. 280, € 20,00)  
  • rec. di
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Quanto mai ben scelto il titolo di questa autobiografia intellettuale di Sabino Cassese.  In primo luogo per l’opera svolta dall’autore e per la varietà delle esperienze e degli incarichi ricoperti: da quelli presso le università – italiane ed estere - agli impegni presso l’ENI e nel settore bancario; dall’attività di governo a quella di consulente di Ministeri ed enti pubblici; dell’incarico di Giudice della Corte costituzionale alla costante presenza nel dibattito pubblico. La poliedricità di tali attività compensa largamente quello che i suoi colleghi d’università in genere sono: insegnanti – studiosi, serrati nelle tane (d’avorio) della didattica, ovvero insegnanti - avvocati, legati alla realtà dell’applicazione del diritto, fino al punto di esserne spesso distratti dall’insegnare (ma almeno abituati al confronto quotidiano con il diritto concreto).
  • ...
  • Tuttavia le frontiere si possono varcare anche in altro modo e così Cassese relativamente allo studio del diritto ricorda che “Lo studio del diritto era, negli anni Cinquanta, diverso da oggi. Era ispirato ai principi del purismo (ricordo solo la teoria pura del diritto di Kelsen; ma i kelseniani sono stati molto peggiori di Kelsen stesso). La maggior parte dei manuali si apriva con numerose pagine dedicate a dimostrare l’autonomia di quella disciplina dalle altre, giuridiche e no”.  Cassese si era convinto anche per l’insegnamento di M.S. Giannini che “Mi fu chiaro fin da allora, anche se non in maniera analitica, che vi sono problemi, non discipline; che è sbagliato parlare di un metodo esclusivamente giuridico come unico metodo del giurista; che il purismo comporta una separazione che non consente di esaminare l’ordinamento nella sua complessità; che il positivismo conduce all’omissione di tutti i dati che non consistono nella legge e nella norma”.
  • ...
  • Chiudendo le frontiere con la storia, la sociologia e la scienza politica, il normativismo perde di senso (e quindi di giustizia concreta) e di esatta applicazione quanto guadagna in purezza. Peraltro a valorizzazione la norma come elemento primario del diritto, corre il rischio, nelle decisioni amministrative o giudiziarie, di ridursi a fondarle su una norma piuttosto che sul diritto. Incorrendo così nell’errore, stigmatizzato da Celso quasi venti secoli fa: Incivile est, nisi tota lege perspecta, una aliqua particula ejus. Praeposita, iudicare vel respondere.
  • ...
  • Inoltre allargare la prospettiva d’esame, invece di costruire mura, ha il vantaggio di garantire meglio una visione d’insieme. L’eccessiva specializzazione soffre l’inconveniente contrario: come scriveva Spengler, la prima assicura una visione da aquila, la seconda da ranocchia. Per cui, come sostiene Cassese “La famosa frase di Vittorio Emanuele Orlando secondo la quale i giuristi sono stati troppo filosofi, politici, storici e sociologi e troppo poco giureconsulti andrebbe oggi rovesciata. Lo sono stati troppo poco”. In ogni caso a sottovalutare il momento applicativo del diritto. Il quale si realizza, nello Stato moderno, con l’organizzazione di un’amministrazione burocratica che rende effettiva la tutela (anche) dei diritti, anche attraverso il monopolio della violenza legittima (Weber).
  • ...
  • Hegel aveva espresso in un paragrafo dei Lineamenti di filosofia del diritto, tale carattere dello Stato moderno “Lo Stato è la realtà della libertà concreta”. Dimenticarlo o sottovalutarlo significa farne l’immaginazione della libertà astratta (nel senso che quelle proclamate nella legge non sono le regole di fatto applicate).
  • ...
  • Sostiene l’autore, poiché “il diritto non è mai immobile va studiato quindi nel suo sviluppo storico”. Tale affermazione è del tutto condivisibile e va collegata a quanto Cassese scrive sul neo-positivismo kelsenisano e al giudizio che Maurice Hauriou dava di Kelsen (e di Duguit); che le loro concezioni del diritto erano statiche, mentre quella del doyen de Toulouse – fondata sull’istituzione – ne considerava il continuo movimento, di guisa che, in uno dei passi critici, la paragona all’agmen; a un’armata in marcia che cambia forma ma mantiene la struttura essenziale.
  • ...
  • Il libro si conclude con un appendice in cui l’autore enumera le proprie attività in oltre sessant’anni di lavoro: vastità e varietà sono impressionanti e corroborano il senso del titolo, le frontiere sono state varcate: da quelle tra disciplina, oggetti e “campi” trattati, tra diritti nazionali e “rami” del diritto. Ottima ragione per leggere il saggio; e per il recensore che deve chiudere con questa raccomandazione per non incorrere nelle censure del direttore alle recensioni lunghe.

  •  
  • Vecchioni

  • "L’esoterismo nella letteratura antica" 
  • di
  • Carlo Vecchioni
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • È da poco tornato nelle librerie per Tipheret editore il volume di Carlo Vecchioni, L’esoterismo nella letteratura antica (per ordini: edizionitipheret@gmail.com  pagg.171, Euro 20) Il testo è curato da Vittorio Fincati e Gaetano Lo Monaco, autori, rispettivamente, della contestualizzante Presentazione e dell’Introduzione.
  • ...
  • Il libro, già uscito nel 2001, per la solerzia di Fincati, non è opera di un autore contemporaneo, ma di uno studioso che visse tra Settecento ed Ottocento. Carlo Vecchioni (1777-1858) fu vicepresidente della Suprema Corte di Giustizia di Napoli e Commendatore del Real Ordine di Francesco I di Borbone. Suo interesse prevalente fu lo studio delle origini del simbolismo di Dante e della Divina Commedia. L’opera del grande fiorentino, come si evince in tutta chiarezza nel volume che presentiamo, fu letta dal dotto partenopeo in chiave simbolica ed esoterica. Anzi, la sua esegesi può essere considerata tra le più rilevanti e fondative di tale corrente ermeneutica.
  • ...
  • Tra i primi a servirsi del lavoro del Vecchioni figura, lo ricorda Lo Monaco, Gabriele Rossetti, rosacroce e carbonaro di origini abruzzesi, che di lui scrisse: «Per dimostrare al chiarissimo autore (Vecchioni) ch’io lo considero come a me associato nella ricerca della verità, io riporterò le sue citazioni e le sue parole a preferenza […] non è solamente stima, ma anche gratitudine quella che mi impegna ad operar in tal guisa» (p. 11). A dire del Rossetti, il Vecchioni non avrebbe portato a termine il suo lavoro ma, in qualche modo e per ragioni ignote, si sarebbe fermato alle premesse, rintracciando, nelle pagine che presentiamo, i presupposti e i precedenti sapienziali cui Dante guardò nel comporre il Poema. Il volume, infatti, è articolato in molti capitoli, nei quali l’autore si intrattiene sulla “prisca sapienza” presente nella letteratura dell’antico Egitto, nei testi greci, nei Misteri d’Eleusi. Le sue interpretazioni discutono i nessi sussistenti tra linguaggio e simbolo negli Oracoli, nella favole, sottolineando la stretta connessione che univa in uno, almeno allora, poesia e filo-sofia. Rintraccia, in particolare i “nascosti sensi” presenti in Omero e gli “ascosi sensi” di Virgilio. Il libro è scritto in un italiano ottocentesco, solo la prosa dei primi due capitoli è stata adeguata al lettore contemporaneo, modernizzata. La sua prosa è comunque godibilissima. Da quanto detto, si comprende che Vecchioni si colloca tra i dantisti che si sono sottratti alla vulgata corrente, sia essa accademica o meno.
  • ...
  • Anticipa o si pone in sequela, lo nota Lo Monaco, di un numero considerevole di interpreti danteschi tra i quali, in modalità diversa, possono essere annoverati Boccaccio, Foscolo, Pascoli ma anche Caetani, Kremmerz, Lebano, Perez, Valli e Reghini. Non casualmente, Boccaccio fa dire a Dante: «son, Minerva oscura […] E ‘l nobil mio volume feci degno di temporal e spiritual lettura» (p. 13). Il dotto veneziano Gaspare Gozzi scrisse, alla metà del Settecento: «che la Commedia poteva essere compresa soltanto attraverso l’interpretazione allegorica […] Beatrice era la personificazione della Scienza divina» (p. 14). È noto che nell’Ottocento l’esegesi misteriosofica di Dante trovò il proprio momento saliente. Ne fu ispiratore il lucano Francesco Lomonaco. Ugo Foscolo parlò del sommo Poeta, quale riformatore religioso. Scopo di Foscolo era: «quello di dimostrare che nella mente di Dante la favola era santificata per un sistema occulto insieme e perpetuo e concatenato» (p. 15). Il massone Reghellini sostenne Dante essere affiliato a società segrete attive nel suo tempo. Rossetti fu ancor più preciso: il “sapere riposto” di Dante avrebbe guardato a quanto avevano statuito, a riguardo, Greci e Romani. Virgilio avrebbe condotto Dante alla scoperta di tale Via realizzativa.
  • ...
  • Più tardi, Giuliano Kremmerz scrisse, giustamente piccato: «...e Dante che ha scritto il più completo rituale d’iniziazione magica […] doveva essere ammirato sette secoli più tardi per l’adulterio di Francesca o la fame di Ugolino» (p. 17). Lo stesso Arturo Reghini, in tema, chiosa: «Il soggetto della Commedia è l’uomo, o meglio la rigenerazione dell’uomo, la sua metamorfosi in angelica farfalla, la Psiche di Apuleio» (p. 19). Lo stesso Pascoli vide nel Poema un’opera “misteriosofica”, ricca di simbolismi arcani, nel quale ruolo centrale è svolto dalla “morte mistica”. Per Perez, inoltre, Beatrice avrebbe rappresentato la “Sapienza degli Eletti”, l’intelligenza attiva che unendosi all’intelletto possibile, trasforma chi se ne faccia latore. Valli, è risaputo, ritenne che Dante appartenesse ai “Fedeli d’Amore”.
  • ...
  • Il libro di Vecchioni concede al lettore gli strumenti esegetici per entrare nelle vive cose di tali letture esoteriche. Forse tali interpretazioni possono parere a taluno unilaterali, da integrarsi con letture diverse. Resta il fatto che esse presentano, comunque, una loro dignità ermeneutica che non consente di guardare altrove con ritrosia, come se nulla fosse stato detto in tema.

 

  • vertigine della soglia davide susanetti libro

  • V ERTIGINE  DELLA  SOGLIA
  • Le “stazioni” del risveglio di
  • Davide Susanetti
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • Un libro rigenerante

  • Ci siamo confrontati con diversi volumi della vasta produzione libraria del grecista Davide Susanetti. Usciamo rigenerati dalla lettura della sua ultima fatica, Vertigine della soglia. Ferite, passaggi, metamorfosi, nelle librerie per i tipi di Tlon Edizioni (pp. 133, euro 14,00).  Queste pagine trasmettono l’intensità e la profondità dell’iter speculativo dell’autore che, si badi, non è centrato solo su vasta erudizione, su una non comune conoscenza del patrimonio mitico universale, ma ha tatto di sapere realizzato, vissuto nelle vive carni. Vertigine della soglia attraversa, in modalità allusiva e simbolica, ventidue “stazioni”, nelle quali si dipana, come attestato dai ventidue Arcani maggiori dei Tarocchi, qualsivoglia cammino iniziatico e mistico.
  • ...
  • Le sue pagine testimoniano il percorso di vita di Susanetti e invitano a porsi sul medesimo sentiero. L’autore avvisa il lettore: il cammino realizzativo richiede la capacità di accettare lacerazione e dolore ma, nonostante ciò, la meta cui invia è il sempre possibile, che mai si immaginava di poter conseguire.  Iniziazione, dal latino inire: «è quel movimento che conduce a varcare un confine. A compiere un passaggio. È ingresso in un dominio o in una sfera altri da quel che stava fuori […] Un altro che rende liberi» (p. 9).
  • ...
  • Uno e molti. Verso la soglia
  • Per comprenderlo è necessario muovere dall’inizio testimoniato dalle antiche storie, vale a dire da Phanes, lo “Splendente”, il “Manifesto”, che principiò a dispiegarsi quale presenza molteplice. Zeus inghiottì Phanes con tutto ciò che era apparso e: «da capo, riportò alla luce tutto ciò che aveva assorbito» (p. 11). Il padre degli dèi dopo aver ripetuto il passaggio dall’uno ai molti, generò Dioniso quale suo successore. I miti dionisiaci attestano che tale potestas divina era dio “nato due volte” (secondo altri racconti, nato “tre volte”). Questi accolse i doni dei Titani che lo sbranarono mentre si guardava riflesso nello specchio. Zeus fulminò i Titani e di essi rimase: «un cumulo di cenere […] e residui di bianco di cui si erano cosparsi. Dal depositarsi di quella materia fu plasmato il genere umano» (p. 14). Nella realtà, da quel momento, Dioniso appare, di volta in volta, presente e assente. Quando pare celarsi o scomparire, il suo ritorno rende la vita perpetua primavera: in essa gli uomini recuperano l’amicizia con tutti gli enti della physis. Egli è il dio che “scioglie”, che fa venir meno ogni forma e, per questo, è avvertito, all’inizio, come “straniero”, estraneo alla dimensione della vita civile, per il suo mettere in questione ogni identità e confine. Per approssimarsi alla soglia bisogna accettare la lacerazione dionisiaca, mettere in discussione appartenenze e ruoli “umani, troppo umani”. L’uomo deve comprendere di essere lacerto inconsapevole del divino: «La verità del passaggio è forse il nostro stesso passare attraverso la ripetizione» (p. 17) della lacerazione perpetratasi all’origine.
  • ...
  • Memoria e Via Sacra
  • I Misteri greci mostrano che, nel momento del passaggio dalla vita alla morte, è necessario abbeverarsi alle acque del lago della Memoria (alla seconda sorgente che si incontra nel mondo delle ombre, non alla prima, che prepara l’anima a una nuova nascita mortale) per imboccare la Via Sacra: «dove […] i posseduti di Dioniso procedono in gloria di esistenza divina» (p. 20). Pitagora e, più recentemente, Gurdjieff, consigliavano all’iniziando di rammemorare ogni particolare vissuto in una data giornata, al fine di: «evadere dal tempo, per sottrarsi a quello scorrere indefinito che si traduce in labilità ed assenza» (p. 22). Memoria non è potenza che conserva: al contrario, come seppe Andrea Emo, coincide con oblio, con la dimenticanza di tutto ciò che è riferibile all’Io. La maggior parte degli uomini, sostenne Eraclito, vive nella condizione dei dormienti, come in un sogno che: «ciascuno prende come misura della realtà» (p. 25). Chi voglia avvicinarsi alla soglia deve, al contrario, cogliere il “comune” e vedere: «come gli opposti che discordano siano connessi […] dalla più bella armonia» (p. 27), ponendosi oltre le attestazioni della conoscenza logocentrica.  Tutto è pùr, gli enti sono la momentanea solidificazione di un principio che li anima ed è sempre all’opera.
  • ...
  • Maritare il mondo. Il gioco del mondo
  • Allo scopo, la psiche deve chiudersi al tempo edipico della pólis e ogni uomo, come Socrate, deve farsi átopos, “senza collocazione”, allo stesso modo in cui l’ “attimo immenso”, nel quale soglia e passaggio si mostrano, è altro rispetto al fluire cronologico degli istanti. Solo nel kairos, per quest’uomo “senza luogo”, balugina la lucentezza dell’origine.  Il mondo, quale lacerto dell’origine, va, come disse Pico della Mirandola, “maritato”. Ogni suo frammento è tessera, simbolo rinviante alla pienezza indivisa dell’“ora prima”. Aión è un bambino che gioca, sapiente è l’uomo che vive in sintonia con tale dimensione ludica.  Il “gioco del mondo” dice in uno anima e corpo: «“Anima” è ciò che scopriamo nel “corpo” e del “corpo” quando non diamo per scontata la vita che ci abita e che di solito ignoriamo» (p. 47), la vita divina.  Anima è termine medio che attraversa e unisce gli opposti e simpateticamente invia, quale copula mundi, all’Uno-Tutto.  La bellezza dei corpi è segnavia che agevola il percorso di dis-velamento del misterium vitae.  Il bello sospinge, anagogicamente, verso: «il regno degli archetipi che sono al contempo pure forme e pure energie da cui la realtà sensibile è plasmata» (p. 55). L’immaginazione consente, precisa Susanetti, di portarsi oltre la mera descrittiva del mondo fenomenico, verso l’oltre che si apre di là della soglia e consente all’uomo: «di trasformarsi e di   […] riguadagnare una dimensione di sé che era sopita e dimenticata» (p. 61).  È la via indicata, tra gli altri, da Novalis nell’Enrico di Ofterdingen che conduce all’onirico e immaginale “fiore azzurro”: «Occorre prestar fede all’incanto del fiore […] fiore e viandante sono il medesimo» (p. 72).
  • ...
  • Il filo-sofo Eroe
  • Lo seppe Bruno-Atteone in, De gli eroici furori. Il filo-sofo è eroe che rinunciando a se stesso, facendo il vuoto in sé, si protende nella caccia al mistero dell’essere.  Vedere Diana nuda: «significa convertirsi in ciò che ella vede e in ciò che ella è» (p. 83). Pico della Mirandola, ricorda Susanetti, sostenne l’uomo esser simile al camaleonte, atto ad assumere colori e natura diversi, a seconda del contesto in cui agisce. Gli fece eco Nietzsche, che definì l’uomo “un ponte”. L’oltre cui guardano mistica e iniziazione, precisa l’autore, sono altro dalle tendenze trans-umaniste di tanta cultura contemporanea, in quanto l’umano che tecnologia e digitale mirano a estinguere: «costituisce solo uno dei piani possibili della realtà» (p. 92). L’oltre, di cui si dice in queste pagine, sostenuto dalle potenze dell’analogia e del simbolo, eccede la ragione calcolante, è: «trapasso all’invisibile e all’impalpabile che non appartiene alla tre dimensioni» del reale della scienza moderna (pp. 92-93). Esso conduce a una: «Identità che non toglie la differenza e a una differenza che diversamente abbraccia l’identità» (p. 94). In prossimità della soglia si deve compiere il “salto”.   L’“ora” cui si perviene, è l’“ora” del mito e della favola, nella quale si dissolvono le tentazioni proprie di progetti apprensivi e nella quale, forse, si palesa la possibilità di una comunità diversa dall’attuale, in cui il filo-sofo, stante la lezione di Plotino, è sempre felice in quanto ha contezza della natura non entificabile del principio e vive nella e della libertà-origine, altra dai simulacri di libertà che infestano il presente.

 

  • Musk

  • Teoria e pratica di un genio egoista
  • Un saggio di Paolo Bottazzini dedicato a
  • Elon Musk
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • Elon Musk è il personaggio del momento. Se ne parla ovunque, di continuo, non sempre in modo pertinente. L’interesse per la sua figura è stato accentuato, dapprima, dalla sua vicinanza politica a Trump, mentre, ultimamente, si è tornati a riflettere sul suo ruolo per la presa di distanze dalla presidenza USA. Usciamo dalla lettura di un libro critico e interessante dedicato al magnate americano. Si tratta del saggio di Paolo Bottazzini, The Musk. Teoria e pratica di un genio egoista, comparso nel catalogo di Bietti.   Il volume è articolato in tre capitoli. Nel primo, l’autore, docente incaricato presso l’Università degli Studi di Milano e pubblicista, presenta i tratti costitutivi della psiche di Musk soffermandosi, in particolare, sulla sua formazione, sulle idee attraverso le quali si è costituito il suo immaginario. Il secondo e il terzo capitolo, al contrario, indagano, in modalità organica, successi e insuccessi di questo originale genio dell’impresa. In queste brevi note discuteremo i plessi più rilevanti del primo capitolo, in quanto consentono al lettore di aver contezza della visione del mondo di questo protagonista della storia contemporanea.
  • ...
  • Il narrato di Bottazzini è sostenuto, da un lato, da ampia documentazione e da una non comune conoscenza delle fonti, come nelle corde della migliore saggistica, dall’altro, da una prosa affabulatoria e coinvolgente che agevola la lettura. Il ritratto di Musk è, in sintesi, quello di un eroe post-moderno che fa di scienza e tecnica gli strumenti salvifici cui l’umanità deve guardare per tutelarsi da un possibile e probabile disastro epocale. Paradossalmente, il tratto post-moderno del magnate statunitense è sostanziato da una visione solida dell’impresa, rinviante al capitalismo delle origini e, per nulla, a quella smart dell’attuale fase computazionale e globalizzante. Componenti significative del mondo della comunicazione e ampie fasce sociali sono state attratte da alcune componenti della personalità di Musk. Hanno esercitato una presa rilevante sulle masse: «Le dimensioni spettacolari dei suoi guadagni, la tendenza alla provocazione attraverso dichiarazioni lapidarie su X.com (ex Twitter) […] l’eccentricità da nerd o da autistico nei rapporti con il prossimo, il progetto di colonizzare Marte […] la prolificità da record» (p. 13). Musk ha, più volte, dichiarato di aver trovato un modello archetipico di riferimento in Samvise Gamgee, personaggio del Signore degli Anelli, in quanto questi scopre nel mondo un senso (“C’è del buono in questo mondo”), per il quale è necessario battersi.
  • ..
  • Questa scelta lo ha indotto a un’azione ottimistica e determinata, sintonica alla “follia” dei primi capitalisti, che operarono in una realtà ostile alle loro idee. Con Carlyle, egli è convinto che la riflessione teoretica non è atta a dirimere qualsivoglia dubbio cognitivo: solo l’azione volitiva dell’eroe può dare ordine alla realtà: «Il lavoro […] è il metodo attraverso cui si vince la mancanza di senso del reale e si conquista un significato che innerva di sé […] lo spazio sociale comune» (p. 15). Tale modello attivo rinvia alla filosofia individualista di Ayn Rand, per la quale: «l’egoismo si riduce al diritto civile di proprietà privata, e al diritto naturale di esercitare una libertà di impresa che non deve fermarsi davanti a nulla» (p. 18). Musk, quindi, è latore del capitalismo della dismisura. Laureato in fisica, ben presto ha sposato il primato dell’ingegneria, fondando tale scelta sulla prospettiva fantascientifica di Asimov e di Douglas Adams. Non è casuale che un personaggio di Asimov, Hari Seldon sia: «in grado di divinare l’imminenza del tracollo dell’umanità» (p. 25). L’eroe Musk si ritiene investito dal compito di salvare l’umanità. Nell’attuale contingenza storica si correrebbe, infatti, il rischio di perdere l’:«enciclopedia dei saperi in cui si distilla la coscienza della nostra civiltà» (p. 25). La sua prolificità (quattordici figli!), quanto l’idea di colonizzare Marte, sono conseguenze del terrore provato da Musk di fronte all’apprensione per la continuità dell’umanità nel futuro. 
  • ...
  • Pensare il futuro è compito da lui affidato alla setta dell’“Altruismo Efficace”, retta dal suo delfino, William MacAskill. Questi ha elaborato le idee di lungotermismo e di rischio esistenziale.
  • ...
  • Con il primo concetto si indica la necessità di pensare anche ai “venienti”, alle generazioni future e al loro benessere e, per far si che ciò si realizzi, è necessario evitare i rischi esistenziali, quali epidemie, catastrofe nucleare, cambiamento climatico. In particolare, Musk e i suoi sono convinti che sia indispensabile tenere sotto controllo le fasi recessive che investono la storia, al fine di evitare drammi sociali come quelli provocati dalla crisi del 2008. Spesso, si badi, le intraprese di questi gruppi, hanno prodotto effetti deleteri, come mostra il caso della speculazione cripto-valutaria perpetrata da Sam Bankmann-Fried, vicino all’“Altruismo Efficace”.  La previsionalità statistica domina la visione del mondo muskiana. Tale tendenza lo ha indotto a una visione distorta dei rischi impliciti nel potenziamento dell’Intelligenza Artificiale, centrata, di fatto, sull’articolo di fede delle proprietà emergenti che si mostrerebbero quando si raggiungono determinate soglie di potenza di calcolo. Allo stato attuale delle cose, tutto ciò non è prevedibile. Si tratta di un errore di prospettiva dettato dal fatto che, per Musk, la cura della situazione attuale dovrebbe nascere all’interno dello stesso orizzonte di pensiero che ha indotto la condizione presente: il paradigma logico-operativo del capitalismo liberista che si dà nel Ge-Stell, nell’Impianto della tecno-scienza.
  • ...
  • In sostanza, la proposta di Musk è un nuovo storicismo escatologico neo-gnostico mosso dalla volontà di emendare il mondo e la vita, nel nome di uno stato finale della storia. Sua intenzione reale è quella di preservare lo stato attuale delle cose, la governance, prevenendo i rischi che il sistema vigente corre.
  • ...
  • Musk, lo si è visto, è attento lettore di fantasy e fantascienza, ma la sua esegesi di questi generi letterari è parziale. Disconosce che la vita e la storia sono il regno del possibile che tende, di continuo, agguati alla previsionalità statistica e deterministica. Il libro di Bottazzini può essere, in questo senso, strumento indispensabile per quanti vogliano tornare a guardare con occhi critici alla nostra attualità e ai suoi miti.

  • Paolo Bottazzini, The Musk. Teoria e pratica di un genio egoista, Bietti, Milano 2025, pp. 181, euro 16,00.

  • Aretè Borgonovo

  • Aretè.
  • La decadenza e il coraggio
  • di
  • Francesco Borgonovo
  • (Liberilibri 2025, pp. 271, € 18,00)
  • rec. di 
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • I pensatori che hanno scritto della decadenza (di civiltà, Stati, élite, comunità) hanno per lo più osservato che in tali epoche prevalgono – soprattutto a livello di classi dirigenti – idee compassionevoli e lacrimose: ad essere esaltate sono le vittime e non gli eroi. Basti leggere (per tutti) quanto scrivono Pareto e Schmitt. Nel saggio di Borgonovo ciò che connota la decadenza attuale è qualcosa di sinergico ma non coincidente con un “buonismo” o un umanitarismo sfinito ed immaginario: l’accidia.
  • ...
  • Questa, scrive l’autore è “Peccato capitale per i cristiani, l’accidia viene spesso assimilata alla pigrizia ma non è esattamente la stessa cosa. In greco indica la mancanza di kedos, che è il pentimento, il compatimento ma anche la cura. Accidia è, dunque, l’essere incapaci di passione, noncuranti, indifferenti. E sì, anche pigri. Ma pure (e soprattutto) sconfortati, apatici, depressi... e, da quando abbiamo voluto far crollare il Cielo questo demone è più potente e il suo nome è legione: panico, ansia, angoscia, depressione, decadenza, rassegnazione, sottomissione, paura, conformismo, omologazione, vigliaccheria… La piattezza ci ha esasperato e fatto disperare, e ci ha fatto perdere la voglia di vivere e di combattere. La banalità a partita doppia ha ucciso i nobili sentimenti che hanno fatto grande la nostra civiltà: se non v’è più nulla di superiore, resta l’inferno”.
  • ...
  • L’accidia deriva dall’assenza dell’aretè (greca, assai vicina alla virtus romana) che abbonda, di converso, nelle fasi ascendenti delle comunità umane. Questa è “prima di tutto, la capacità di svolgere bene il proprio compito, di eseguire questo compito con perizia… In Omero aretè è «la forza e la destrezza del guerriero o del competitore, soprattutto il valore eroico...»”. Nel medioevo è intesa “come dono di sé prima di tutto. Il prode non si tira indietro, il cavaliere è generoso e non bada troppo al proprio tornaconto”. La potenza del denaro, tipica dell’età di decadenza (v. Hauriou) è una “potenza basata sulla forza dell’invidia e dell’avarizia umane, nient’altro. Così le nazioni diventano naturalmente ogni giorno più invidiose e avare. Mentre gli individui fluiscono via in una codardia che chiamano amore. La chiamano amore e pace, e carità, e benevolenza, mentre si tratta di mera codardia. Collettivamente sono orribilmente avari ed invidiosi” scrive l’autore citando Lawrence.
  • ...
  • Anche se emergono nella decadenza attuale, idee e pulsioni liberticide è l’assenza di coraggio che la caratterizza “La consapevolezza della decadenza, la forza di accettarla e il coraggio di osteggiarla. Un coraggio che è larghezza di cuore, disposizione del dono di sé, amore gratuito e insieme predisposizione alla battaglia. La libertà ci manca perché ci difetta il coraggio di guadagnarla. Il coraggio di accettare le sfumature del pensiero, le opinioni contrarie, la pluralità conflittuale del mondo. Il coraggio di guardare in faccia il reale e di cambiarlo sul serio, senza costruirgli attorno padiglioni artificiali”.
  • ...
  • Non si può non condividere con Borgonovo che è il coraggio ciò che più caratterizza sia le comunità in ascesa, ma più ancora le loro classi dirigenti. Ed è il coraggio, la capacità di sacrificarsi per gli altri ed assumerne i rischi che costituisce l’essenza dell’etica pubblica, del governante e del cittadino, come già nel Gorgia sosteneva Callicle. Il che pone tuttavia l’interrogativo fondato sull’opinione di don Abbondio: che se uno il coraggio non ce l’ha non se lo può dare. E l’alternativa consiste nel chiedersi se la decadenza dipende dalla pusillanimità o se questa dalla decadenza. Tuttavia è sicuro che coraggio, consapevolezza, accettazione del rischio ne costituiscono la terapia o, quanto meno il Katechon paolino.
  • ...
  • Borgonovo ricorda i tanti pensatori (a partire da Lawrence) i quali hanno avvertito la tara accidiosa della modernità decadente,  Non è possibile ricordarli tutti e si rimanda quindi alla lettura del saggio.  Ma qualche considerazione del recensore. La prima che la virtù (stretta parente dell’aretè) sia considerata essenziale alla coazione comunitaria (ed al successo) e così nota già Platone ed è il contraltare machiavellico della fortuna. Il virtuoso è quello che prepara gli accorgimenti adatti a contrastarla, e non chi si piange addosso o attende il soccorso degli altri.  La seconda: tra coloro che hanno considerato essenziale all’ordine il coraggio della lotta e l’inutilità del vittimismo ci sono parecchi esimi giuristi: da Jhering a Forsthoff, da Calamandrei ad Hauriou. Alcuni, come Santi Romano hanno insistito sulla vitalità degli ordinamenti (propiziata dal coraggio e dall’assunzione dei rischi)- Tra questi il più vicino alla tesi di Borgonovo è proprio Hauriou, il quale tra i caratteri ricorrenti delle fasi di crisi indica l’affievolirsi dello spirito religioso e il progredire (a dismisura) di quello critico nonché la capacità dissolutoria del denaro (ossia di un’economia prevalentemente finanziaria); oltre alla perdita del senso del limite.   Tutte cose che troverete – tra l’altro –, mutatis mutandis, in questo interessante saggio.

 

  • MOSAICO FILOSOFI

  • DAZI  e  MAZZI 
  • di 
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Mentre da gran parte della stampa si levano grida di dolore per i dazi all’Europa annunciati da Trump e sono calcolati i danni (le minori esportazioni) che ne conseguiranno alle economie europee, nessuno – che mi risulti – ha affiancato, come determinante del comportamento (e della decisione futura) di Trump, quanto vi concorrano presupposti, regole e regolarità della politica.
  • ...
  • Tra questi il problema del nemico, inteso nel senso del competitore ostile, prescindendo dallo stato di guerra e di pace.  E’ chiaro che in un pluriverso politico tutti i soggetti si trovano in uno stato di ostilità, che può avere carattere agonale o polemico (Freund). Ma gli Stati sono collocati in una graduazione di ostilità, come ci dimostra la storia. Per la Francia generalmente il primo posto è di chi occupa la riva destra del Reno, cioè la Germania; Italia e Spagna, pur confinanti sono per lo più collocati a gradini inferiori della “scala”.
  • ...
  • Ovviamente, anche per evitare un confronto in posizione sfavorevole, occorre affrontare un nemico per volta e garantirsi che gli altri (potenziali) nemici conservino lo stato di neutralità, o meglio si comportino da alleati. Lo sapevano bene i Romani il cui divide et impera è la sintetica espressione di questa regola, che de Benoist considera la prima (e più importante) della lotta politica. Ossia la riduzione (del numero) dei nemici. In questa situazione Trump che ha trovato il modo di alzare il tono del conflitto con mezzo mondo, Cina in testa, difficilmente può non accordarsi con l’Europa.  Anche perché – e qua si torna, almeno in parte, sull’economico – U.E. e U.S.A. hanno per lo più gli stessi problemi: delocalizzazione, dumping commerciale dei paesi emergenti, immigrazione fuori controllo. E avere gli stessi problemi non divide ma è un incentivo ad allearsi: nel secolo scorso UK, U.S.A. e U.R.S.S. divennero alleati perché avevano in comune gli stessi problemi; l’espansionismo tedesco e giapponese. Questo li indusse a superare le differenze di interessi ed ancor più quelle ideologiche.
  • ...
  • Infine se a seguire una certa convinzione, onde a determinare, almeno parzialmente affinità e non affinità politiche (e campi di maggiore o minore affinità) è l’appartenenza alla stessa “civiltà” (Kultur) è palese che U.E. ed U.S.A. sono la filiazione politica del cristianesimo occidentale, col suo millenario bagaglio di idee, convenzioni e costumi, estesi ad ogni campo: dal religioso all’economico, dal giuridico alla scienza. Il che aiuta: ha ragione la Meloni quando parla di occidente: una cultura comune unisce assai più di quanto interessi – per lo più occasionali e limitati – possano dividere.
  • ...
  • A patto di non fare di questi ultimi il criterio (esclusivo) di scelta politica. Il che talvolta, succede.

 

  • Buzzati


  • "Dino Buzzati"
  • Torna nelle librerie la monografia di
  • Fausto Gianfranceschi
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • Dino Buzzati è uno dei nomi più significativi della letteratura italiana del Novecento. Eppure, la sua figura ha rappresentato, per troppo tempo, un “caso a parte” nelle lettere patrie. Alieno alle mode culturali del tempo in cui visse, discreto per carattere e dotato di un temperamento sognate, fu estraneo al “politicamente corretto” che, fin dagli anni dell’immediato dopoguerra, andava organizzandosi in consorterie intellettuali legate al gran carro della partitocrazia. A rivelarne la genialità scrittoria, si distinse, tra i primi, Fausto Gianfranceschi, intellettuale libero dai condizionamenti del mainstream, in una monografia, comparsa da poco in nuova edizione nel catalogo di Iduna con il titolo, Dino Buzzati (per ordini: associazione.iduna@gmail.com).   Il volume, curato da Gianfranco de Turris, uno dei massimi studiosi del fantasy, è articolato in due parti di cinque capitoli, ed è chiuso dalla raccolta di tre introduzioni di Gianfranceschi a volumi di Buzzati e da una Appendice che presenta un’intervista rilasciata dallo scrittore bellunese, poco prima della morte, al curatore e dall’intenso “coccodrillo” che de Turris scrisse in occasione della scomparsa del giornalista-scrittore.
  • ...
  • Dalla lettura si esce con la ferma convinzione che l’autore del Deserto dei Tartari sia uno scrittore di spessore, assolutamente attuale, nella sua inattualità, anche oggi. La prosa di Gianfranceschi risulta efficace nel concedere al lettore, non solo accesso proficuo alla biografia esteriore del bellunese, ma anche ai meandri più nascosti della sua complessa psiche. Nella prima parte, il volume si intrattiene sul personaggio Buzzati e presenta un’esegesi organica della sua produzione letteraria. Buzzati, nato a Belluno: «ha tratto due eredità da questa origine: il rigore nordico […] e l’unica passione immutabile della sua vita, quella per la montagna. Sciatore, rocciatore, non ha mai abbandonato questi sport» (p. 17). Attratto dai silenzi alpini e boschivi amò, di un amore profondo, Milano (dove lavorò al Corriere della sera, ricoprendo incarichi disparati): «ne conosce gli angoli segreti e tranquilli, mentre le voci della metropoli lo mantengono in contatto con il dinamismo collettivo» (p. 17). Buzzati, in ogni luogo e circostanza della vita si mantenne in: «attesa del meraviglioso quale inclinazione dell’animo ad accogliere manifestazioni insolite della natura e della realtà umana» (p. 18). Seppe, per questo, elevare l’attività di cronista ad una osservazione attenta dei casi umani, mirata non semplicemente a cogliere i dati esteriori in quanto osservato, ma anche la profondità da essi celata, attestante, in molti casi, la possibilità dell’impossibile: «Il lato favoloso, l’essenza mitica di ogni fenomeno» (p. 18).
  • ...
  • Per questo, i temi e le strutture (analizzati nella seconda parte del volume) che animano la produzione letteraria buzzatiana sono: «tragici e significativi» (p. 21). La creatività, nel nostro autore, è dominata dalla fantasia, la sua vocazione alla frammentarietà: «dipende dall’urgenza di questa fantasia sempre in moto e sempre avida di macinare una situazione» (p. 22). Lo si evince fin dal primo libro del 1933, Bàrnabo delle montagne, così diverso dalle letteratura del tempo, forse prossimo solo al “realismo magico” di Bontempelli. Le sue pagine evidenziano il lavoro di scandaglio della realtà messo in atto dallo scrittore, teso a dis-velare: «l’irrazionale sotto le strutture apparentemente razionali della vita moderna» (p.24). Buzzati conduce ad ascoltare risonanze vaghe proprie di alcuni particolari del reale che, ai più, appaiono insignificanti. In Bàrnabo, l’elemento magico-favoloso è insinuato in modalità lieve, pudica, mentre erompe prepotentemente nel Segreto del Bosco Vecchio, nel quale la natura recupera appieno la sua animazione principiale. Nella physis tutto pensa, come seppe la tradizione ermetica, in quanto “tutto è in tutto”. La vocazione della letteratura buzzatiana, per Gianfranceschi, è essenzialmente “religiosa”. L’apprensione moderna alla natura è impersonata, nel Segreto, dall’aridità del Colonnello, incapace di cogliere l’invisibile nei fenomeni.
  • ...
  • Solo con Deserto dei Tartari, lo scrittore conseguì vasta notorietà. L’attesa di Drogo testimonia che l’eterno coincide con l’attimo immenso, rivelatore dell’essenza profonda della vita. Buzzati ci pone di fronte a una meditazione della morte che, a ben vedere, è meditazione attorno alla temporalità aperta.  Drogo è: «l’eroe coinvolto in un’irriducibile tensione: assorbito dalla routine […] attratto dall’altra nella cerchia dei pochissimi che guardano più in alto verso il “grande evento”, verso l’illuminazione» (p. 47). Con, Sessanta racconti, tale visione consegue tratto compiuto: «il mondo dei morti si sovrappone a quello dei vivi […] nelle delicate favole L’assalto al grande coniglio e Il Mantello» (p. 50). Lo scrittore indica la via che rende possibile liberarsi dall’inganno “retorico”, avrebbe chiosato Michelstaedter, del tempo. Per sfuggire alle sue maglie non bastono i progetti spensierati imbastiti, per tutti, dalla “società dei consumi”. Essi, al massimo, possono indurre, visto il loro inevitabile fallimento, ad insediare gli uomini nel nostos, nella nostalgia. Il bellunese è animato da “carità” nei confronti delle cose della vita. Tale atteggiamento lo rende edotto del fatto che il “risveglio" è possibile.  La vita stessa è appesa alla dimensione originaria della possibilità. I protagonisti dei racconti buzzatiani sconfiggono le perfidie e le delusioni della vita. L’amore, forza cosmica, rende il miracolo possibile.  Il suo magismo letterario mira a rilevare: «le trasmutazioni fra paesaggio, cose, eventi, immagini ed emozioni » (p. 151).
  • ...
  • Per tale ragione, il presunto kafkismo di Buzzati: «si risolve nel rinvio a modelli ispiratori dislocati in un passato molto profondo» (p. 162), a modelli archetipici e mitici, e il suo mondo può esprimersi solo in modalità immaginale. La visione del Nostro ha un precedente illustre nella pittura di Bosch, nella sua figuratività (non casualmente lo scrittore è stato anche valente pittore) che ha: «tratti insieme umani, bestiali ed è ripresa dal mondo degli oggetti dove si nota la profusione di realismo e il pervadente desiderio di esprimere l’immateriale» (p. 149). Il Buzzati di Gianfranceschi va letto quale antidoto alla visione moderna della vita. Dino Buzzati è libro, per dirla con de Turris, esemplare.  Induce a pensare un mondo diverso rispetto a quello in cui viviamo, in quanto è latore della possibilità dell’impossibile.

  • Fausto Gianfranceschi, Dino Buzzati, a cura di G. de Turris, Iduna, Sesto S. Giovanni (Mi) 2025, pp. 233, euro 20,00.

 


 

  • Biblioteca filosofica

  • Il leonardo

  • I primi due volumi  dell’OPERA OMNIA  di
  • Arturo Reghini
  • La Biblioteca Filosofica (1902-1908) e Il Leonardo (1906-1907)
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • Arturo Reghini è autore di grande interesse. Nato a Firenze nel 1878 da una stirpe di antico lignaggio, poliglotta che vantava una conoscenza rilevante di molte lingue antiche e moderne, fu animato da: «larghe curiosità in campi non convenzionali del sapere e da una non comune erudizione» (p. 17). Negli ultimi anni c’è stata una recrudescenza di interesse per il suo pensiero anche se, ad oggi, le ristampe delle sue opere, non hanno avuto il tratto “scientifico” e sistematico che solo può consentire al lettore di entrare nelle vive cose della sua proposta speculativa e realizzativa. Finalmente, grazie alla meritoria iniziativa della casa editrice Mimesis, e all’opera di impeccabile curatela di Moreno Neri e di un gruppo di studiosi che lo affiancano, sono nelle librerie i primi due volumi della sua Opera omnia. Si tratta de, Gli esordi di Arturo Reghini: la Biblioteca Filosofica (1902-1908) e di, Gli esordi di Arturo Reghini: Il Leonardo (1906-1907). L’opera completa dell’esoterista, che presto verrà data alle stampe nella sua interezza, non mira, sic et simpliciter, a riproporre in ordine cronologico gli scritti già noti, ma propone al lettore anche testi comparsi in riviste di difficile reperimento, alcuni dei quali ignoti perfino agli studiosi più accreditati del neo-pitagorico.
  • ...
  • I due volumi appena pubblicati raccolgono le prove letterarie degli esordi di Reghini che, a differenza di altri esegeti reghiniani, Neri considera dirimenti per comprendere le posizioni mature del matematico-massone. Per tale ragione, l’attento curatore ricostruisce con acribia critica, l’ambiente, animato da vivaci stimoli intellettuali e spirituali, nel quale questi primi scritti maturarono, vale a dire il milieu della Firenze “scapigliata” di inizio secolo, incarnata da Papini e Prezzolini, e quello, altrettanto significativo, gravitante attorno alla Biblioteca Teosofica, poi divenuta Filosofica, che fu diretta proprio dal nobile fiorentino.  Reghini fu intellettuale che attraversò da uomo libero l’esperienza teosofica, si avvicinò al Martinismo, per giungere, infine, a un originale neo-pitagorismo massonico. Una delle sue iniziali prove letterarie è da individuarsi nella prima traduzione italiana del romanzo di Stevenson, Lo strano caso del dott. Jekyll e del Signor Hyde, apparso a puntate sulla rivista, La Nuova Parola, nel 1902-1903.
  • ...
  • Altro lavoro di una certa rilevanza, pubblicato nel primo volume dell’opera omnia, è la relazione tenuta dallo studioso al Congresso della Federazione delle Sezioni Europee della Società Teosofica nel 1904. Si tratta di uno studio matematico (Reghini si laureò a Pisa in tale disciplina) applicato alla fisiologia dell’occhio. Dagli elenchi della Società Teosofica, Reghini risulta iscritto a essa, a muovere dal 1902, in quel di Torino. Il 1 agosto dello stesso anno, egli pubblicò su La Stampa un articolo dedicato agli: «insoliti eventi luminosi di Berbenno» (p. 19). Su La Nuova Parola comparve un ulteriore testo del Nostro: «dedicato all’ultimo libro di Herbert Spencer» (p. 19).
  • ...
  • Gli ambienti teosofici frequentati da Reghini ebbero, ricorda Neri, rapporti significativi con la “massoneria di frangia”, tanto che il Nostro fu iniziato alla Loggia “I Rigeneratori” di Rito A. e P. di Memphis e Mizraim di Palermo, della quale faceva parte Sulli-Rao, fondatore della Libreria Editrice Ars Regia di Milano. In tali ambienti, Reghini legò con Eduardo Frosini, “il polimorfo esoterico”, con il quale chiuse i rapporti a partire del 1914, per poi intrattenere con lui una burrascosa polemica, dopo l’ascesa al potere del fascismo. Rientrato a Firenze nel 1903, Reghini aderì alla Loggia “Michele di Lando”, ricostituitasi successivamente come Loggia “Lucifero”, aderente al Rito Simbolico. A tale opzione latomica, Reghini rimarrà fedele per il resto della vita. Neri, nell’informata introduzione, rileva, in particolare, come la “Lucifero”: «fosse in procinto di diventare anche il luogo degli spiriti più progressisti e riformisti» (p. 36), tanto che molti massoni eletti a Firenze nel Consiglio comunale con la lista nathaniana nel 1907 erano appartenenti a questa Loggia. A differenza del semplice “radicalismo” democratico di questi ultimi, Frosini e Reghini criticavano gli ambienti massonici dell’epoca, perché avevano, di fatto, obliato l‘impegno esoterico-iniziatico. Al loro fianco si posero alcuni collaboratori del Leonardo. Frosini assunse la risoluzione di uscire dalla “Lucifero”, in quanto riteneva si fosse trasformata in un sodalizio “puramente politico”: «Uscimmo, non per dormire, ma per svegliare» (p. 45) scrisse. Le sue furono speranze deluse.
  • ...
  • Nel medesimo frangente Reghini, attraverso la direzione della Biblioteca Filosofica e con la collaborazione al Leonardo, inaugurata dal significativo articolo, Giordano Bruno smentisce Rastignac, si pose quale epicentro di un appassionato dibattito intellettuale e spirituale, mirato a individuare l’esistenza di una tradizione iniziatica italica. Con la rivista e la biblioteca: «promosse una vera rivoluzione […] che perseguiva l’affermazione di valori dell’interiorità contro quelli dell’esteriorità» (pp. 64-65), facendosi latore di un personalismo pagano radicale. Fu, tra l’altro, autore del saggio, Imperialismo pagano che divenne, in seguito, il titolo di un libro di Julius Evola. Il Reghini degli anni degli esordi fu vicino a Roberto Assagioli, padre della psicosintesi. Questi, da studioso critico della psicanalisi, era convinto che: «“al di fuori della coscienza” non esistono solo “tendenze di natura inferiore”, ma esistono anche regioni superiori in cui “sono accumulate preziose energie […] mirabili possibilità di più alta vita spirituale”» (p. 111).  Per questa ragione, in Appendice al secondo volume dell’opera omnia, compaiono: «i primi scritti di Assagioli […] per far meglio comprendere obiettivamente e in chiave temporale le affinità tra entrambi e le dinamiche di quel che si muoveva in quel tempo» (p. 81). I due autori condizionarono l’ultima serie, “magico-occultistica”, del Leonardo, dalla quale, ben presto, Papini e Prezzolini presero le distanze. Il primo, dopo l’infatuazione futurista, si convertì al cattolicesimo, il secondo guardò con sempre maggior interesse al neo-idealismo.
  • ...
  • L’introduzione di Neri ricostruisce, in modo compiuto, i tratti del pensiero degli esordi di Reghini contestualizzandolo storicamente, e si intrattiene, inoltre, sui personaggi con cui l’esoterista entrò in relazione, tra gli altri, Giovanni Amendola, Rocco Amedeo Armentano, Decio Calvari.  Presenta il tratto umano, oltre che intellettuale, dei protagonisti della vita culturale di quella lontana stagione. Scrive, in fondo, per la ricchezza e varietà delle documentazione presentata e discussa, una vera enciclopedia dell’esoterismo, del teosofismo e della massoneria italiana del primo decennio del “secolo breve”.  
  • Arturo Reghini, Gli esordi di A. Reghini: La Biblioteca Filosofica 1902-1908, a cura di M. Neri, Mimesis, pp. 216, euro 18,00.     Id., Gli esordi di A. Reghini: Il Leonardo 1906-1907, a cura di M. Neri, Mimesis, pp. 212, euro 18,00.


  • Cieli segreti

  • "Cieli segreti"
  • Trattato di magia talismanica
  • rec.di
  • Giovanni Sessa

  • È nelle librerie per i tipi di Mimesis, un libro che contribuisce a fare chiarezza su uno degli snodi più significativi della cultura della Rinascenza, vale a dire sulla ripresa in essa di contenuti magico-esoterici. Ci riferiamo al volume attribuito a Pseudo Abele intitolato, Cieli segreti. Trattato di magia talismanica (per ordini: 02/24861657, mimesis@mimesisedizioni.it, pp. 165, euro 15,00). Il libro è curato da Ezio Albrile, antropologo e storico delle religioni, e da Elisabetta Tortelli, docente di Letteratura italiana e dottore di ricerca in civiltà dell’Umanesimo e del Rinascimento, cui si deve la traduzione del testo dal latino all’italiano e la contestualizzante e organica introduzione. Il manoscritto è custodito in un Codice della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze contenente ventitré testi magici e astromagici sabei. Risale al sec. XV, ma la traduzione dall’arabo al latino avvenne tra il 1140 e il 1270. La traduzione latina che Tortelli ha trasposto in italiano, con il titolo Cieli segreti, è quella del Liber Planetarum ex scientia Abel, articolato in sette trattati, nella versione di Roberto di Chester.
  • ...
  • Tortelli scrive: «Il comune denominatore che ispira i testi astrologici e astromagici […] è l’incrollabile convinzione che la vita di ogni elemento dell’universo dipenda dal moto e dall’influsso degli astri» (p. 21). Ciò lo si evince anche dal testo che presentiamo, articolato in sette libri secondo la successione Luna-Sole-Mercurio-Venere-Marte-Giove-Saturno, cui vanno aggiunti il liber Lunae e il Liber Solis L’importanza del Liber planetarum è rilevabile fin dal prologo. In esso è contenuta, in sintesi, la leggenda che narra come, in vista del diluvio, Abele figlio di Adamo, trascrisse i principi della scienza magico-talismanica, rivelatagli dal padre, su lapidi marmoree. Dopo aver soddisfatto tale compito, decise di seppellire le lapidi perché, di tale sapere, potessero benificiare i posteri. Dopo il diluvio, le lapidi furono rintracciate da Ermete Trismegisto che: «avrebbe deciso di divulgare questa antichissima sapienza, trascrivendo i testi […] nei sette libri» (p. 37).  In realtà, la figura di Abele rinvia al primo Ermete della genealogia dei tre Ermete, tesi fatta propria da Roberto di Chester. Il Liber planetarum è: «uno dei più interessanti scritti del corpus ermetico di origine arabo-latina che si diffuse in Occidente tra il XII e il XIII secolo» (p. 37). Gli insegnamenti contenuti nel libro di Abele-Ermete riguardano prevalentemente la scientia ymaginum, la scienza dei talismani.
  • ...
  • Tale sapere è strettamente connesso con le “elezioni”, con il momento astrologicamente più opportuno, individuato dal mago-sapiente, per realizzare i talismani stessi, affinché questi potessero svolgere un’azione significativa sulla vita di chi li possedeva e li indossava.  I talismani, di diversa fattura e tipologia, sono oggetti manipolati o indossati dal possessore: «per costituire un polo d’attrazione delle forze astrali e hanno un’azione diversa dagli amuleti» (p. 38), in quanto questi sono dotati di un potere occulto di tipo naturale.  I talismani, al contrario, derivavano la propria potestas dalla sagace azione del mago che: «valutava il momento della costellazione dominante, considerando l’aspetto che la Luna e il Sole o gli altri pianeti intrattenevano tra loro e con i dodici segni dello zodiaco» (p. 39).  Il mago svolgeva, quindi, funzione di medium, posizione teorica tipicamente neoplatonica, in quanto atto a congiungere microcosmo e macrocosmo, alto e basso, cielo e terra, imbrigliando le potenze planetarie nella pietra talismanica. La sua efficacia: «scaturisce dall’incantesimo […] ossia dalle formule proferite dal mago che comanda agli spiriti (astrali) di insinuarsi» in esso (p. 39). Questo ritorno a una visione simpatetica della physis, ricorda Tortelli, fu avversato da Giovanni di Salisbury, esponente della Scuola di Chartres e, in modalità più radicale, da Tommaso d’Aquino.  I due pensatori videro nella trattatistica astromagica del periodo, il rischio dell’evocazione demonologica: si trattava, a loro dire, di un ritorno all’antico, che l’ortodossia cattolica non poteva accettare.
  • ...
  • Tale cultura esoterico-astrologica era, di fatto, centrata su un celebre testo magico-ermetico, il Picatrix, che offriva precise indicazioni sulla realizzazione dei talismani implicanti: «l’incisione di determinate immagini su specifiche pietre in determinati periodi» (p. 43).  La sua influenza è evidente nel De vita di Marsilio Ficino, mitigata, come del resto in Pico della Mirandola, dal riferimento alla Grazia divina, vera artefice degli influssi. Tale scelta avrebbe salvato i due filosofi dall’accusa di riproporre una visione “pagana” del mondo. In ogni caso, la visione astromagica e simpatetica del cosmo, circolava ampiamente nell’Italia del Quattrocento e durante il Rinascimento, influenzando l’iconografia del periodo. Tortelli, al riguardo, rinvia all’esegesi della Sala dei Mesi del Palazzo Schifanoia: «“I grandi talismani murali di Schifanoia conservano l’inquietante fascino tramandato […] dal manuale di magia Picatrix, ma diventano, al contempo, oggetti di contemplazione”» (p. 47). Medesima visione si mostra nella creazione della volta celeste nella scarsella della Sacrestia Vecchia della chiesa di San Lorenzo a Firenze: «pittura murale, concepita forse come un gigantesco e potente talismano» (p. 22).  Non dissimile è la rappresentazione pittorica della scarsella della cappella dei Pazzi nella Chiesa di Santa Croce, realizzata, come la prima, per celebrare, il 6 luglio 1439, il Concilio di Firenze indetto per riunificare chiesa d’Oriente e d’Occidente. In tutto questo ebbe ruolo di primo piano Toscanelli, cartografo, geografo e astrologo di grande rinomanza.  In Firenze, in sequela con il diffondersi di tali saperi, dei quali i Medici si servirono anche per ragioni politiche, si diffuse il culto dei Re Magi.
  • ...
  • Consigliamo vivamente, la lettura di, Cieli segreti: le sue pagine chiariscono la complessità e la crucialità della cultura della Rinascenza. In quella congerie storica fu messo in atto il tentativo di dar vita a un Nuovo inizio della storia europea. Il neoplatonismo fiorito a Careggi, impregnato di esoterismo e magismo, fu una filosofia epistrofica mirante a recuperare l’origine che dice, in uno, la meraviglia della vita e il suo tratto tragico.

 lo stato del potere


  • Lo Stato del potere
  • Politica e diritto  ai tempi della post-libertà
  • di
  • Carlo Iannello
  • (Meltemi 2025, pp. 267, € 18,00)
  • rec. di 
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Tanti sono i saggi pubblicati negli ultimi anni che valutano la situazione politica generale e, in particolare, la contrapposizione tra globalisti e sovranisti (con i primi in evidente ritirata). Pochi quelli che ne analizzano gli effetti sul diritto pubblico e nelle istituzioni; tra questi ultimi, il saggio recensito.
  • ...
  • Scrive Iannello: “Questo libro riguarda le politiche, comunemente definite neoliberali, che hanno provocato un’espansione del tutto inedita dell’area del mercato nell’Occidente capitalista a partire dagli anni Ottanta dello scorso secolo, producendo cambiamenti radicali non solo in campo economico e sociale, ma anche nei sistemi costituzionali degli Stati occidentali... Il diritto è stato, infatti, il principale strumento che ha consentito la messa in atto delle nuove politiche. Tuttavia, le riflessioni, di carattere prevalentemente settoriale, non hanno abbracciato, da una prospettiva ampia, e in particolar modo costituzionale, l’influenza che queste nuove politiche hanno dispiegato sul complessivo sistema dei poteri pubblici...  Il diritto espressione del paradigma neoliberale ha messo in discussione, al tempo stesso, gli architravi su cui si reggeva l’edificio dello stato liberal-democratico e quelli su cui poggiava il costituzionalismo del Novecento…  Tutto ciò ha avuto ripercussioni, al tempo stesso, sul godimento delle libertà e sul governo della società e dell’economia, provocando effetti all’interno dello Stato e oltre lo Stato” (il corsivo è mio).
  • ...
  • Ne è derivata, secondo l’autore, una neutralizzazione della dimensione politica. Il costituzionalismo dello Stato liberal-democratico ha conosciuto varie fasi: nella prima (fino all’inizio del XX secolo) la funzione dello Stato era di garantire lo spazio delle libertà individuali “classiche”; in una seconda fase, iniziata circa un secolo fa, ha tutelato anche le libertà “sociali”, tipiche del Welfare State.  Con la fase neo-liberale, iniziata negli ultimi decenni del secolo passato, la funzione dello Stato è divenuta quella di garantire l’ordine di mercato, anche all’interno di settori e procedimenti pubblici.  Sostiene Iannello “per il neoliberalismo, invece, il mercato non rappresenta affatto un ordine spontaneo ma è, al contrario, una costruzione artificiale del diritto. Il mercato da promuovere è quello concorrenziale. Al potere pubblico viene, pertanto, affidato il compito di creare l’ordine giuridico del mercato concorrenziale”.  Per fare ciò è necessario l’intervento del potere statale, la cui funzione principale è divenuta così quella di garantire la concorrenza.  Il tutto attraverso diverse soluzioni.
  • ...
  • Da un canto con la “creazione di ircocervi istituzionali, cioè di nuove autorità, indipendenti dal potere politico, denominate garanti del mercato, di natura giuridica ibrida (per metà amministrazione e metà giudice) e di dubbia compatibilità con i principi costituzionali”; ma dato che non bastava “Il paradigma del mercato concorrenziale, sperimentato con successo in questi settori un tempo riservati alla mano pubblica, è stato quindi esteso ben al di là degli ambiti tradizionalmente considerati economici, coinvolgendo il cuore dello Stato sociale”. Così “Le università, ad esempio, sono sottoposte a valutazione e i loro finanziamenti hanno una quota premiale, che si conquista nella misura in cui si sia vinto un gioco competitivo le cui regole sono fissate in sede legislativa”. Il tutto senza considerare “la sostanziale differenza fra un controllo di qualità di un prodotto industriale (che ha parametri oggettivi su cui fondarsi) e quello di un’opera dell’ingegno (la quale) non è stata presa in considerazione… Il controllo di qualità, pertanto, ha come parametro privilegiato dati quantitativi o formali, cioè il numero dei prodotti pubblicati o il rating delle riviste su cui si è pubblicato. Ciò che nel mondo accademico si risolve, peraltro, in un evidente incentivo al conformismo”. E Dio solo sa se di tale conformismo, già abbondante di suo, ce ne fosse bisogno. Così per altri settori onde “conclusivamente, si deve osservare che in questo scenario di nichilismo giuridico, in cui le costituzioni hanno perso la loro forza prescrittiva e il diritto è disancorato dal suo nomos originario (nel nostro caso, i valori etico-sociali della Costituzione), non ci pone più il problema della giustizia del diritto positivo tenuto in piedi solo dal mero rispetto delle procedure. In questo scenario, anche le libertà individuali, diverse dalla mera libertà economica, finiscono con l’essere minacciate, proprio perché non necessarie, quando non ostative, al corretto funzionamento del mercato”.
  • ...
  • Così l’ordine neo-liberale finisce col ridurre le libertà “classiche”, per dedicarsi alla salvaguardia della concorrenza.
  • A tale riguardo non si può non condividere, almeno per l’Italia, quanto scrive Iannello: nell’ultimo trentennio sono state poste in essere decine di norme volte a rendere più difficile, costoso, defatigante il concreto esercizio di diritti conclamati rumorosamente quanto sabotati silenziosamente; per lo più se, loro contraddittori erano (e sono) le pubbliche amministrazioni.
  • ...
  • Ed è chiaro che le grandi imprese multinazionali e non, non hanno per la tutela delle loro pretese, tanto bisogno di un Giudice, data la posizione di forza che hanno, anche nei confronti di tanti Stati; parafrasando il detto di Hegel, se non c’è Pretore tra gli Stati, non se ne sente granché la necessità neppure tra questi e le macro-imprese.
  • ...
  • Nel capitolo conclusivo, l’autore sostiene che la subordinazione della politica all’economia non è ineluttabile “né il destino della società, né quello dell’uomo, può essere la riduzione alla sola dimensione economica e il dominio dalla tecno-economia”. L’auspicio è invertire l’ordine delle priorità “per ricostruire gli Stati nazionali e per fondare, finalmente, una federazione europea in continuità con i principi liberaldemocratici e con il costituzionalismo del Novecento, che sia custode della civiltà e della libertà e che riponga al centro, coerentemente, la persona umana”.
  • ...
  • Due osservazioni per concludere questa recensione.  Non è prevedibile come finisca l’ordine neo-liberale, anche se si vede che sta collassando, ma non si percepisce chiaramente come sarà sostituito. Anche per questo è interessante il saggio di Iannello, perché mostra come valori manifestati e istituzioni volte a preservarli si convertono in ordini concreti diversi e talvolta opposti. Specie se vengono ignorati (e spesso occultati) regolarità, leggi sociali, presupposti. Ad esempio nella contrapposizione globalisti/sovranisti sembra che i secondi vogliono la sovranità e gli altri sopprimerla.  In effetti se ai tempi di Sieyès l’alternativa era tra sovranità del monarca o della nazione, nell’attuale è tra quella delle macro-imprese (élite, classi dirigenti) sovranazionali o del popolo (anche attraverso la rappresentanza di una scelta). Tant’è che gli Stati non sono in via di eliminazione, ma di sottomissione perché il loro apparato di regolazione e di coercizione è indispensabile per l’ordine voluto dalla sovranità globale.
  • ...
  • In secondo luogo, scriveva Maurice Hauriou, che la dottrina teologica più propizia alla libertà è quella del diritto divino provvidenziale: in effetti anche questo saggio appare condividerla.  Un’opera interessante che amplia la prospettiva da cui si considera l’epoca attuale.

 

  • Terrore e musica large

  • "Terrore e musica" 
  • Un libro di
  • Guido Mina di Sospiro
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • (Guido Mina di Sospiro, Terrore e musica, Lindau, Torino 2025, pp. 256, euro 19,00)
  • In Italia, gli anni Settanta del secolo scorso sono stati un decennio cruciale. Da un lato, sotto il profilo politico, in quel frangente storico si assistette al radicalizzarsi degli scontri tra “opposti estremismi”, furono gli “anni di piombo”, seconda fase della guerra civile italiana.  Il mondo della cultura, al contrario, mostrava una non comune vivacità, in particolare in ambito musicale. Tale duplicità dei Settanta è ben testimoniata dall’ultima fatica di Guido Mina di Sospiro, Terrore e musica, nelle librerie per i tipi di Lindau (pp. 256, euro 19,00). Il volume è articolato in una premessa, in 19 capitoli e tre brevi Appendici. Presenta, nella prosa affabulatoria, snella e graffiante dell’autore, i pregi della migliore narrativa mentre, per la puntuale ricostruzione storica degli eventi narrati, in forza di una non comune conoscenza della documentazione storica e giornalistica in tema, può anche essere letto quale saggio su cultura e politica in quel decennio tragico e, per certi versi, cruciale per la comprensione della contemporaneità.
  • ...
  • In realtà, Terrore e musica, è qualcosa di più di un semplice romanzo e di un saggio documentato. È, fondamentalmente, la storia dell’educazione sentimentale, della formazione dell’autore che ha, quale sfondo di scena, la città in cui visse dopo il ritorno in Italia dall’Argentina, dove è nato. Mina di Sospiro discende da un’antica famiglia, e la città in cui trascorse l’adolescenza è Milano, epicentro delle tensioni sociali e politiche allora in essere. Mina è abilissimo nel ricostruire, in medaglioni dal tratto fotografico, veri e propri “scritture di luce”, le atmosfere di Milano, città grigia e nebbiosa, per la quale l’autore prova un sentimento commisto di amore e odio, come Joyce per Dublino. Fa rivivere, sulla pagine, il primo incontro con il preside del liceo scientifico Leonardo da Vinci.  Questi lo introdusse al “clima” dell’epoca, nel quale il giovane che si affacciava alla vita avrebbe dovuto muoversi, mostrandogli una vetrata della presidenza crivellata dai colpi di proiettili delle “avanguardie proletarie” che “animavano” quella scuola. Ricorda, inoltre, i picchetti davanti all’ingesso, che spesso si concludevano con pestaggi. Dalle descrizioni si evince lo sconcerto che egli allora provò di fronte a tali scene drammatiche. Mise in atto, per poter sopravvivere in tale realtà, una sorta di “mascheramento” sostanziato di distanza atarassica nei confronti dei sostenitori del “tutto è politica”.
  • ...
  • La maschera di Mina è quella dell’impolitico in senso manniano, che è, si badi, essa stessa in qualche modo politica, in quanto centrata sul rifiuto di un presente inaccettabile. Mentre esteriormente l’adolescente sembrava partecipare alla “recita” dei più, il suo foro interiore si formava e rafforzava soprattutto nell’interesse per la musica. Mentre Milano viveva giornate drammatiche (il pestaggio e la morte di Sergio Ramelli, come quelle di alcuni militanti di sinistra, sono rievocati con toni commossi) e l’Italia precipitava nella “strategia della tensione” (eterodiretta, oggi è chiaro, dagli effettivi detentori del potere), Brigate Rosse e stragisti divennero protagonisti indiscussi della cronaca. Il nostro autore, nella Milano delle “bottiglie Molotov”, incontrò il noto Maestro di chitarra Brambilla, che: «si sentiva in dovere di insegnare […] l’armonia, quindi gli accordi, la progressione degli stessi» (p. 21).  Mina, a riguardo, chiosa: « la chitarra mi diede, fin dall’inizio, una sensazione di felicità che rasentava l’ebbrezza» (p.21). La medesima sensazione che provava nel frequentare i concerti con gli amici o durante le onnivore letture nelle sale della biblioteca Sormani.
  • ...
  • Queste letture compensavano la formazione di parte, politicizzata, che veniva impartita nelle aule del liceo. I docenti del Leonardo, la loro personalità e cultura, vengono presentate in stilizzazioni sferzanti e riuscite. La professoressa Sprezzante riteneva che: «la matematica si fosse fermata a Cartesio, la fisica a Newton, la geometria a Euclide» (p. 36). Disprezzavano, la docente e i suoi colleghi, il “qualunquismo” dell’uomo della strada: dalle loro “lezioni” di marxismo alla gauche caviar era possibile difendersi solo con il ricorso all’ironia.  La scoperta della musica di Monteverdi risultò essenziale per comprendere la realtà di quegli anni: «Fu Monteverdi a inaugurare gradualmente i tre secoli del periodo tonale adottando l’accordo di settima dominante» (p. 31). In musica, un campo gravitazionale, rileva Mina, mette in atto una forza eccezionale capace di indirizzare l’ascolto. In politica, le ideologie: «erano in grado di esercitare forze gravitazionali (che) costringevano la gente a uccidersi a vicenda» (p. 32), in nome dell’astrazione concettuale che nulla sa della vita e del primato della persona.  Una diversa visione del mondo il giovane incontrò nel trattato di Sallustio, Sugli dèi ed il mondo e durante la prima rappresentazione della, Passione secondo Matteo di Bach, diretta da Antoine-Pierre de Bavier, organizzata dalla madre di Mina.  Una sorta di musica delle sfere, illuminante, calata nella realtà nebbiosa e magica della Milano della P 38, delle chiavi inglesi e dell’eroina dilagante tra i giovani. Lungo la strada della sua educazione sentimentale, a un certo momento, per il nostro autore, libri, musica, viaggi, amori adolescenziali, non parvero più adeguati alla scelta di vita da “convitato di pietra” negli “anni di piombo”. Subentrò un ulteriore distacco, più profondo, dalla realtà storica. Mina lo ha di fatto trascritto, assieme ad amici fidati, nel cortometraggio, Heroes and Villains, proiettato nella Cineteca di Milano.  Mina ricorda l’ostracismo incontrato nel promuovere questa produzione cinematografica. Allora, bisognava essere parte di una “cordata” politica per ottenere l’attenzione di critica e di pubblico.  Da uomo libero, l’autore si sottrasse al ricatto ideologico. Fu sollevato dalla delusione, dalla scoperta della musica di Nick Drake: «Ne avevo imparato anche i testi e passavo […] tempo a cantarli e a suonarli» (p. 215).
  • ...
  • Nella chiusa del volume, il valente scrittore nota: «l’idea che la violenza sia giustificabile, anzi necessaria, permea la storia e l’antropologia italiane» (p. 233).  Un insegnamento da tenere in debito conto.  Terrore e musica è, a parere di chi scrive, libro jüngeriano.   Elegge il foro interiore a luogo di custodia della libertà, in un mondo che tende, sempre più, a negarla.

  •  

  • INTERVISTA A MACHIAVELLI
  • (DEL 27/06/2025) 
  • di   
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Dato l’alternarsi di guerra e pace, di riarmi controversi, di canti di vittorie e te deum intonati da tutti i contendenti, siamo andati a chiedere, come sempre, l’opinione a Machiavelli, il quale ci ha ricevuti con l’usuale cortesia.
  • ...
  • Che ne pensa della situazione europea dopo le dichiarazioni di Trump sul riparto delle spese NATO?
  • Che il Presidente americano cerca di risparmiare. Soprattutto perché è convinto – ed ha ragione – che la Russa di Putin è molto meno pericolosa dell’URSS anche per l’Europa, onde può essere affrontata riducendo l’impegno americano, almeno quello convenzionale. Onde gli europei devono farsene carico. Coloro i quali pensano che Putin sia un nuovo Lenin, un nuovo Trutzky o anche un nuovo Stalin non hanno capito la “natura” di guerra civile mondiale del vecchio bolscevismo.
  • ...
  • E il riarmo europeo è un rimedio?
  • A metà. Ai miei tempi ancora meno. Comunque, come scrissi, sono gli uomini e il ferro a procurare danaro e cibo, non viceversa; e aggiunsi che il disarmato ricco è premio del soldato povero. La conseguenza è duplice: che tutte le storie raccontate dai vostri governanti sulla povertà dei russi che avrebbero dovuto soccombere alla ricchezza dell’occidente, andavano, semmai, ribaltate.  Secondariamente per non ripetere un simile errore dovete considerare che l’altra metà è di assicurarsi una reale volontà di combattere tra i cittadini prima e nell’esercito, poi. Elemento decisivo della quale è la sintonia tra vertice e popolo. Che, come dice il vice-Presidente Vance, in Europa è, a dir poco, carente.
  • ...
  • Per conservare la pace, serve preparare la guerra? Oppure le armi la inducono?
  • Non so se la Meloni abbia letto Vegezio, ma per confortarne il pensiero basta il buon senso. L’opposta tesi omette di ricordare che la guerra dipende non solo dalla mia volontà, ma da quella del nemico. Il quale può essere dissuaso se l’obiettivo che si propone non può essere realizzato per la nostra preparazione militare. D’altra parte ho scritto che la fortuna è arbitro di metà delle azioni umane, ma l’altra metà è a nostra disposizione: prepararsi alla difesa è costituire un argine alle inondazioni della storia. E virtù dei governanti apprestarlo; ma anche di questa da voi ce n’è poca, e mal distribuita.
  • ...
  • Cosa ne pensa che nella guerra USA-Iran-Israele tutti cantino vittoria? Non è impossibile?
  • Sicuramente. Ma può essere utile quando una sconfitta è evidente; evitare di far nascere dalla sconfitta il revanscismo, di cui i francesi (ma non solo) sono gli esperti: onde la sconfitta di oggi è gravida della guerra di domani. Ma se tutti si dichiarano vincitori, almeno tale convinzione è il vaccino migliore contro le velleità di rivincita.
  • ...
  • Ma se c’è un nemico non è necessario batterlo?
  • Sì, ma non eliminarlo con un bellum internecinum. E’ col nemico che si fa la pace. Più la guerra è relativizzata, più è facile avviare trattative di pace. Se ogni guerra è psicologica, e voi fate guerre più psicologiche che in altre epoche, ai gazzettieri e ai talk-show è affidato il messaggio di vittoria o sconfitta. Come c’è la guerra, c’è anche la pace psicologica. Propiziata da rappresentazioni disformi dal reale, ma tranquillanti.  Scrissi che in guerra l’inganno (al nemico) è sempre lecito; e non posso non dire che per fare la pace non sia lecito distorcere la realtà, raccontandosene un’altra, quanto meno verosimile, che consenta di salvare la patria e la sua indipendenza.
  • ...
  • La ringrazio molto, caro Segretario.
  • Mi torni a trovare, una chiacchierata sul mondo mi tiene in esercizio.

  • Donà Battisti

  • "La filosofia di Lucio Battisti"
  • Un saggio di
  • Massimo Donà
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
    • (Massimo Donà, La filosofia di Lucio Battisti, Mimesis,  2025, pp. 137, euro 14,00)

  • Massimo Donà, filosofo, musicista e strumentista di primo livello, ha dedicato un numero considerevole di volumi all’esegesi teoretica della produzione musicale di artisti del secolo XX, tra essi Miles Davis, i Beatles e i Rolling Stones. Non si è occupato, sic et simpliciter, della sola musica “alta”, colta (cfr., in tema, il suo Filosofia della musica, 2006) ma anche di musica considerata, dal pensiero corrente, “leggera”. Donà ha contezza che la distinzione tra cultura “alta” e “bassa” è l’esito, al pari degli altri dualismi che parcellizzano il pensiero e la vita, del primato del concetto impostosi nella filosofia europea. In ultimo, eccolo a confrontarsi con una delle icone della musica, non solo italiana, degli anni Settanta e Ottanta, Lucio Battisti. Lo fa nel suo ultimo libro, La filosofia di Lucio Battisti, comparso nel catalogo Mimesis. Un testo che induce nel lettore il medesimo effetto magico-incantatorio prodotto delle atmosfere aleggianti nei brani del musicista di Poggio Bustone. Il filosofo veneziano mostra di avere una conoscenza non comune tanto del repertorio di Battisti, quanto della letteratura critica in argomento, che egli interpreta con persuasività d’accenti.
  • ...
  • Il libro è aperto da un prologo e si sviluppa in quattro capitoli nei quali vengono attraversate e discusse le fasi più rilevanti della produzione del Lucio nazionale, dagli esordi alla collaborazione con Pasquale Panella. Sostanzialmente, Donà legge Battisti quale esempio mirabile del processo de-costruttivo della “forma-canzone”. In questo senso, il compositore avrebbe, di fatto, realizzato in musica, la de-costruzione che Derrida auspicava per il “sistema” in filosofia. Anche per questa sola ragione, i testi e le musiche del nostro, risultano meritevoli di un’esegesi teoretica. L’autore de, La filosofia di Battisti, ricostruisce, in prima istanza, le suggestioni culturali che, a partire dagli anni Sessanta, investirono anche il nostro paese. Esse furono vento innovatore mirante a liberare gli uomini da qualsivoglia staticità, in quanto: «Per rimanere veramente fermi […] bisognava correre il più velocemente possibile» (p. 17). Bisognava imparare: «ad abitare il “paradosso”» (p. 17), la contraddizione che anima ogni vita. Tutte le cose, stante la lezione di Calvino, sono, di fatto, intrascendibile parzialità, nelle quali si dice il medesimo non originario.
  • ...
  • Le “canzoni”, in quel frangente, subirono una metamorfosi radicale: in forza dell’influenza della musica afro-americana, custodivano in sé diversi moduli ritmici, il tre quarti e il quattro quarti. Lo si evince anche da 29 settembre, uno di primi brani del reatino. Si tratta di un racconto musicale breve in cui sono messe in scena da Mogol, in modalità impressionistica, due giornate caratterizzate da un tradimento, non si sa se onirico o reale. Il brano ha andatura sincopata e spiraliforme, non presenta alcuna strofa distinta dal ritornello ed è aperto dalla voce di uno speaker radiofonico. Parole e musica sono trascrizione dell’avvento del post-moderno: da quel momento, nulla sarebbe più stato come prima nell’arte e nella vita. La copertina, del resto, riproduceva un’immagine di Mario Schifano, interprete della pop art. Di lì a poco, con Dolce di giorno e Per una lira, Lucio sarebbe diventato, in prima persona, interprete delle proprie composizioni, proseguendo lungo la strada della de-costruzione. Donà si intrattiene sui rapporti che Lucio strinse con musicisti dell’epoca, con le case discografiche, introducendo il lettore in tutte le produzioni dell’artista. Per mostrare il tratto filosoficamente rilevante di Battisti, è opportuno soffermarsi sull’esegesi donaiana di, La luce dell’est, un brano, sotto il profilo poetico-musicale, davvero magistrale.
  • ...
  • Fu composta nel 1972 e produce sull’ascoltatore una vera e propria ipnosi sonora. In essa, Lucio si mostra capace: «di essere decostruttivo anche nei confronti del proprio anelito decostruttivo» (p. 65). Egli non fu, quindi, servo neppure della propria libertà e non si vietò di tornare a precedenti modelli compositivi. Con, Amore e non amore, Battisti: «sembra aver preso coscienza del fatto che, in verità, nelle cose tutte gli opposti vivono […] inseparabili» (p. 56). È diventato empedocleo, parla di: «un “gioco” di forze contrastanti […] Forze che dividono e uniscono […] E così fanno essere tutto quel che è » (p. 58). Per questo, la sua musica pretende di valere in uno, come “bella” e “popolare”. Il tema degli opposti fa mostra di sé anche sulla copertina di, Giardini di marzo, a dire il gioco, perpetuamente in fieri, di luce e ombra. Battisti, successivamente, guardò alla musica latino-americana. Iniziò a farlo con, Anima latina, prima del viaggio in Sud America, e proseguì, così, a contaminare il suo dire con sonorità etniche, a ibridare la musica elettronica con il sitar, animato da consapevolezza hegeliana: aveva ormai acquisito chiara contezza che l’andare avanti è sempre un tornare indietro, come si evince dai suoni e dai testi di, Orgoglio e dignità.
  • ...
  • L’iter di Battisti si concluse con la collaborazione con il poeta ermetico Panella, a seguito della chiusura del rapporto con Mogol. La critica ha finora ritenuto le opere di questa fase creativa di Lucio, le meno riuscite. Donà ribalta tale giudizio. Nella produzione musicale Battisti-Panella, infatti, si fanno ancor più evidenti le implicazioni filosofiche: «il nostro torna a mirare gli opposti; e li vede su un ponte che “connette”, ma non determina e neppure significa» (p. 107). Tutto diviene astratto, la parola si fa musica. L’attualità, il quotidiano, sono anagogicamente ripensati al fine di produrre nell’ascoltatore disincanto per la condizione umana. L’artista scopre che l’aporia è nella vita stessa, insegna agli uomini a sopportarla serenamente attraverso l’arte, quale novello Leopardi. Lucio vede nelle cose quel medesimo che l‘approccio empirico è incapace di trascrivere. Il nostro è divenuto “scrittore di luce”, fotografo (cfr. M. Donà, Filosofia della fotografia, 2025). Non ci sono messaggi da lanciare, non c’è più nulla da capire, come seppe l’Evola dadaista. Non è casuale che il suo ultimo album si intitolasse, Hegel. In esso, di fatto viene messa a tema l’arché che ogni autentico poietes prova a sperimentare e a vivere. Battisti è ancora lui: «pur nella differenza radicale rispetto al passato» (p. 134). La de-costruzione della “forma-canzone” lo ha condotto alla non canzone, al frammento, in modalità profetica e inusitata.  Tale lacerto è, si badi, custode dell’arché. Questa, in sintesi, la lezione del Battisti musicista-filosofo di Massimo Donà.

  •  
  • Evola e Tolkien

  • Evola e Tolkien antimoderni
  • Un saggio di
  • Gianfranco de Turris
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • È da poco comparso nelle librerie per i tipi di Idrovolante Edizioni, un volume davvero prezioso di Gianfranco de Turris, Evola e Tolkien antimoderni. Idee per la lotta al conformismo culturale (per ordini: idrovolante.edizioni@gmail.com, pp. 190, euro 14,00). Il libro si articola in due parti. La prima è dedicata all’analisi, puntuale e organica in ogni suo momento, della vita e dell’iter intellettuale e spirituale del tradizionalista romano, mentre la seconda presenta l’itinerario esistenziale dell’uomo Tolkien e gli aspetti più significativi della sua produzione letteraria centrata sul fantastico. Il volume è chiuso dall’Appendice “Teatrino tolkieniano” nella quale de Turris mette in luce le contraddizioni in cui sono rimasti imbrigliati certi critici italiani malevoli, a seguito dell’uscita del film, Il Signore degli Anelli di Peter Jackson. Il testo è, inoltre, arricchito dalla premessa di Adriano Scianca e dal saggio introduttivo di Guido Andrea Pautasso.
  • ...
  • De Turris ha scritto pagine fondamentali su questi due autori. Quale curatore dell’opera omnia di Evola e Presidente della Fondazione che porta il nome del filosofo è, di certo, il massimo esperto del pensatore tradizionalista. Del resto, Evola e Tolkien sono gli autori cui ha dedicato la sua vita di studioso. È stato animatore del Premio Tolkien, istituito nel 1980, e direttore della rivista «Minas Tirith», nonché curatore e prefatore di alcune opere del professore oxoniense. Pautasso scrive, con pertinenza argomentativa, che l’obiettivo che muove queste pagine, è da individuarsi nella volontà di far cogliere al lettore la prossimità dei due autori: «L’accostamento Evola-Tolkien emerge dalla fondata condivisione della dimensione simbolica e mitopoietica dell’antimodernità». Essi sostanzialmente operarono da «Demiurghi di un’altra Civiltà», in pieno secolo XX. Evola e il filologo di Oxford furono quasi coetanei. Il primo, infatti, nacque nel 1898 e chiuse i suoi giorni nel 1974, il secondo, nato nel 1892 morì nel 1973. Come uomini, per formazione e carattere, furono diversi. Evola, dapprima dadaista e idealista magico, poi cultore della tradizione ermetica e fondatore del “Gruppo di Ur”, dopo l’incontro con Guénon, realizzatosi sul finire degli anni Venti del “secolo breve”, aderì al tradizionalismo integrale.
  • ...
  • Nel Secondo dopoguerra si fece latore: «di un “anarchismo di destra” in un mondo che ha (aveva) perso tutti i valori, acerrimo critico del cristianesimo […] antidemocratico e vicino al fascismo». Il secondo, al contrario fu: «amoroso padre di famiglia, conservatore, studioso delle lingue, amante dei Miti del Nord, nemico di ogni totalitarismo, cattolico romano». Nonostante tali differenze caratterizzanti due diverse equazioni personali, essi furono assolutamente prossimi nella valorizzazione del Mito e dei simboli. La loro produzione scrittoria pone come centrali i medesimi valori simbolico-anagogici: l’albero, la montagna, la caverna, il viaggio, la regalità dall’alto, per citarne solo alcuni. In forza di essi, svilupparono: «una implacabile critica della modernità», che permise loro di attraversare da “convitati di pietra” le crisi, tragiche e drammatiche, del Novecento.
  • ...
  • Non furono, insomma, questa la chiave di volta dell’interpretazioni di de Turris, intellettuali integrati nel loro tempo, ma degli apocalittici. Tale distinzione fu colta, in un suo volume, da Umberto Eco, con il quale, lungamente e tra i primi, il nostro autore polemizzò in merito al senso liberatorio proprio della letteratura fantastica. Evola e Tolkien vedevano nell’accelerazione catagogica verso la quale la modernità pareva avviata, una sciagura inenarrabile, sia sotto il profilo spirituale che esistenziale. La via d’uscita era rappresentata, per loro, da un radicale cambio di paradigma culturale atto a recuperare una kultur radicata nel Sacro. Furono, per questo, critici della tecnoscienza. Evola riteneva che il Gestell, per dirla con Heidegger, condizionasse gli uomini in profondità: «pur se ci offre infinite (apparenti ed effimere) meraviglie». La scienza moderna ha di fatto realizzato la desacralizzazione del mondo ponendo la Natura quale dimensione meramente quantitativa, mera res extensa, di fronte alla res cogitans-uomo, divenuto “padrone dell’ente”. La realtà animata e meravigliante della physis è stata, dall’Impianto tecnico, devastata, deturpata, sfruttata per ragioni legate all’utile e alla produzione.
  • ...
  • Le macchine, comprese quelle che hanno creato l‘infosfera, ci determinano, condizionano il nostro immaginario. Tolkien, ricorda de Turris, durante il Secondo conflitto mondiale, definì l’aereo da guerra : «il vero male», utilizzato, in quel frangente storico dai diversi totalitarismi su piazza. Dopo la guerra, persino l’abitare, a dire del grande scrittore, aveva perso il suo tratto poetico: «Questa casa così graziosa è diventata inabitabile […] è agitata e tormentata dal rumore, avvolta dai fumi. Questa è la vita moderna». Da antimoderni senza compromessi, Evola e Tolkine hanno scritto pagine memorabili sulla Natura. Il tradizionalista, durante le sue pratiche alpinistiche di primo livello, ha riscoperto la montagna quale “regno degli dèi”, nel quale sarebbe stato possibile tornare a far esperienza del sacro, che avvolge, perfino nell’Età Ultima, la vita. Il filologo-narratore fu, invece, cantore impareggiabile della campagna inglese e dei suoi borghi rurali, della monumentalità dei suoi alberi secolari.
  • ...
  • Il mago bianco Saruman, venduto a Sauron, è simbolo dell’uomo moderno. Distrugge, come lui, i boschi, forgia armi di distruzione e crea nuovi esseri malvagi, gli Uruk-hai. La Natura che altro non è se non il volto dell’origine, del principio, si ribellerà alla devastazione, in forza dell’intervento degli Ent. Questo libro ci dice che l’antimodernismo non è sterile nostalgia, ma prelude al superamento del moderno e del post-moderno. Evola e Tolkien, se abbiamo ben inteso il messaggio di de Turris, furono sostanzialmente animati da una visione ultramodernista, mirata al superamento del tempo presente. L’intera produzione saggistica di de Turris mira a fornire le giuste coordinate perché ciò accada. Una testimonianza da non dimenticare…

 

  • Nihil Medium

  • Nihil medium
  • Carl Schmitt tra passato e futuro  
  • di
  • Orazio Maria Gnerre
  • (Morlacchi Editore, Perugia 2024, pp. 185, € 18,00)
  • rec. di 
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Bene ha fatto l’autore a scrivere questo ampio saggio. Carl Schmitt, infatti “è uno dei pensatori che maggiormente hanno influenzato e previsto il tempo presente, grazie alla sua visione complessa e multifattoriale della realtà, che lo ha portato ad indagare diversi campi del sapere per definire una prospettiva globale delle principali questioni politico-sociali della modernità avanzata”.
  • ...
  • L’attualità di tante intuizioni di Schmitt è impressionante, anche se l’oblio di cui il giurista di Plettemberg era circondato nel secondo dopoguerra non era sorprendente. E non solo per la di esso adesione al partito nazista (anche se in Italia il passaggio dal fascismo alla Repubblica nata dalla resistenza è stato diffuso, perfino nell’alta burocrazia), ma anche di più per l’incompatibilità di molte tesi di Schmitt con gli idola ideologici del nuovo regime italiano (e non solo).  Tuttavia a partire dagli anni ‘70 Schmitt era progressivamente rivalutato (e tradotto). Merito all’inizio soprattutto di Miglio e Schiera. Già a metà degli anni ‘80, a pochi mesi dalla morte del giurista di Plettemberg, Maschke poteva indicare nel saggio in memoriam pubblicato su Der Staat l’Italia, tra i paesi europei, come quello in cui il pensiero (e la figura) del giurista renano era all’epoca il più studiato.
  • ...
  • La differenza dalla situazione attuale, rispetto agli anni ‘80 è che il crollo del comunismo ha modificato la situazione politica. Onde la fecondità delle idee di Schmitt è confermata dalla loro applicabilità all’evoluzione avvenuta: non è solo la sensibilità e l’interesse degli studiosi a sancirla, ma il contesto politico globale.     
  • ...
  • Faccio quale esempio:
  • 1) Si legge spesso che l’antitesi tra destra e sinistra sia tramontata: è sicuramente vero, anche se, ad esser più precisi, l’antitesi andrebbe precisata in quella borghese-proletario, che ha dominato nel “secolo breve”, anzi da qualche decennio prima.  Schmitt ritiene che (nell’occidente moderno) il campo centrale dello scontro politico (amico-nemico) sia quello decisivo per l’epoca. Così dai primi del ‘500 agli ultimi decenni del ‘600, questo era la teologia, con relativo diffondersi delle guerre di religione; neutralizzato questo Zentralgebiet, poi subentrò quello “etico” per approdare, circa due secoli dopo, a quello economico.  Ogni progredire è dovuto alla neutralizzazione dell’opposizione precedente e nella politicizzazione della successiva.  Quindi essendosi ormai neutralizzato – o meglio depotenziato – il conflitto borghese/proletario, subentra un nuovo “campo di battaglia”. All’inizio sembrava quello religioso (v. 11 settembre), ma poi più che altro la nuova antitesi globalisti/sovranisti la quale ha come campo di conflitto centrale l’identità dei popoli e la relativa decisione sul loro destino.
  • 2) Allo scoppio della guerra russo-ucraina è stato indicato come nuovo satanasso (e non solo) Putin, il quale oltre a personificare il male, era un po’ tonto, gravemente malato, ecc. ecc. Invece Putin non faceva (e fa) che rivendicare parte del Grossraum russo, conquistato in quattro secoli dai suoi predecessori. E il Grossraum, lo spazio vitale degli imperi è idea di Schmitt esposta in molti scritti, e soprattutto nel Nomos della terra.
  • 3) Al tempo del COVID, (quasi) l’intera Italia cascò dal pero, notando che il governo, coi decreti del Presidente del Consiglio, limitava i diritti garantiti dalla Costituzione “più bella del mondo”. In questo caso, qualcuno si ricordò del pensiero di Schmitt sullo stato d’eccezione, il quale nello Stato moderno si realizza con la sospensione, la modifica o la deroga della legislazione normale, sostituita da normativa (e non solo, anche con organi straordinari) d’emergenza. La quale arriva (anche nel caso COVID) a limitare o sospendere diritti garantiti dalla Costituzione. La parte politica più zelante nella difesa della normativa eccezionale fu proprio quella che dell’oblio dello stato d’eccezione e – ma a un tempo - della limitazione dei diritti aveva fatto una “dottrina”.
  • ...
  • Questi sono solo alcuni dei punti in cui le idee di Schmitt mostrano un’attualità sorprendente, ma solo per coloro che le valutano sotto il profilo ideologico; mentre connotato di Schmitt è che le sue idee seguono sempre la massima di Machiavelli di considerare la realtà delle cose e non la loro immaginazione; e meno ancora di valutarle in base alle convinzioni ideologiche.
  • ...
  • Il saggio di Gnerre considera altri aspetti vitali ed attuali delle concezioni di Schmitt: dal pensiero di Ernst Kapp sulla civiltà talassica del mediterraneo al colonialismo europeo in Africa; dalle migrazioni umane alla teologia economica.  Proprio su quest’ultimo argomento, basantesi sul confronto del pensiero di Max Weber e Carl Schmitt, Gnerre parte dalla considerazione che “esiste un rapporto tra religione ed economia, e ciò è tanto più evidente in quanto l’economia, secondo l’insegnamento di Weber, non può essere separata dalle sue risultanti nell’organizzazione sociale”. Il capitalismo è stato favorito dalla teologia protestante, calvinista soprattutto. Diverso è con la teologia (e soprattutto la Chiesa) cattolica perché “il cattolicesimo saprà adattarsi a ogni ordine sociale e politico, anche in quello in cui dominano gli imprenditori capitalistici […]. Ma questo adattarsi gli è possibile solo se il potere basato su una situazione economica sarà divenuto politico, cioè se i capitalisti[…] si assumeranno la responsabilità, in tutte le forme della rappresentazione statale”. Ma il capitalismo ha una natura privatistica e non “pubblica”. Quanto al liberalismo, “controparte ideologica dell’economia capitalista” l’autore riprende le considerazioni di Donoso Cortes, molto simili a quelle precedenti di de Bonald, per cui “ogni teologia ha un fondamento radicale, ma solo il liberalismo era riuscito a costruire una teologia politica nella negazione di ogni punto di riferimento essenziale, allontanando Dio dal mondo”. Il deismo che è la teologia sottesa al liberalismo, concepisce un Dio creatore, ma non interveniente nel mondo. Come scriveva Bonald se il teismo era la teologia cattolica e l’ateismo quella delle correnti democratiche (giacobini), il deismo era quello dei costituzionali dell’89, i quali avevano inventato una forma politica con un Re il quale, come il Dio deista, non agisce e non interviene nella politica (regna ma non governa).
  • ...
  • Gnerre ritiene che se la dottrina della predestinazione e “l’ascesi intramondana” ha favorito il capitalismo e addirittura ha giudicato la miseria segno di colpa, ciò non è avvenuto con la teologia cattolica.  Anche se in correnti cristiane, di converso, la ricchezza era considerata elemento negativo “la visione cattolica della religione cristiana concilia invece le dimensioni della materia e dello spirito, cercando di non frustrare il primo, ma sottomettendolo formalmente al secondo”.  Scrive l’autore che “E’ lo stesso Carl Schmitt a ribadire come sia nel deismo che vada rintracciata la teologia fondamentale che sostanzia il liberalismo. Tuttavia, ciò crea un paradosso di portata incommensurabile per cui il deismo, che è una teologia senza grande interesse per la religione, produce una teologia politica che non è affatto teologica”.
  • ...
  • A questo punto il recensore rivolge una domanda all’autore, contando che scriverà una congrua risposta, in tema di teologia politica (di attualità). De Bonald (per i democratici giacobini) e Donoso Cortes (per i socialisti) indicavano il carattere panteista della teologia loro sottesa, ritenendo la società umana come prodotta spontaneamente, senza un’autorità, un ordine, senza che fosse necessario un sovrano. La società comunista (dopo la dittatura del proletariato), la cuoca di Lenin (in grado di “governare” la società) sono esempi (estremi) di un ordine spontaneo, in cui l’autorità è superflua.
  • ...
  • Ma non è che certe idee tecnocratiche nostre contemporanee, che derivano (deviandola) dalla mano invisibile di Adam Smith, non sono affini a quella socialista nelle radici panteiste, nell’illusione di poter realizzare un ordine senza un principio e un potere ordinatore? Insomma l’amministrazione delle cose, destinate a sostituire il governo degli uomini, ha anch’essa una teologia politica, confermandosi così la concezione di Hauriou che ogni ordine giuridico è l’involucro (couche) di un fondo (fond) teologico?    Nel complesso un libro che merita di essere letto per capire il nostro presente, onde se ne consiglia la lettura.

  • dioniso

  • Dioniso.
  • Mito e culto
  • Un’opera fondamentale di
  • Walter Friedrich Otto
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • Walter F. Otto è stato uno dei maggiori esegeti novecenteschi del mondo antico e, in particolare, della cultura e della religione greca. Ne 1929 dette alle stampe un testo, Gli dèi della Grecia, che rappresentò un momento di svolta negli studi in tema. Nel 1933, inoltre, uscì un testo che, assieme ad altri volumi, l’ultimo dei quali vide la luce nel 1938, gli consentì di definire, in termini compiuti, le proprie tesi relative alla straordinarietà della religione dell’Ellade. Ci riferiamo a, Dioniso. Mito e culto. Questo studio è nuovamente nelle librerie per i tipi di Adelphi, a cura del germanista Giampiero Moretti (pp. 285, euro 15,20). Per entrare nelle vive cose della trattazione dell’insigne storico delle religioni è bene muovere da questa considerazione del curatore, tratta dalla postfazione che accompagna il volume: «(Otto) riteneva che il fenomeno complessivo della grecità non potesse esser affrontato unilateralmente», quasi si trattasse di un evento concluso, da indagarsi esclusivamente con strumentazione storico-filologica né, tantomeno, risultava possibile comprenderlo convenientemente facendo riferimento al cliché estetico, assolutizzato nell’età romantica.
  • ...
  • Otto, al contrario, individua quale campo centrale e dirimente per la comprensione della kultur ellenica ciò che definisce la “percezione del divino”, carnalmente esperita dagli uomini di quell’età. Una presenza delle potestates divine, chiosa Moretti, che si dava nella forma del mito-racconto e del culto-azione, atti a rendere evidente la loro vigenza nel mondo, nella physis. L’uomo greco veniva “afferrato” in un movimento: «che procede(va) incessantemente da un polo all’altro della relazione uomo-dio». Le forme mitico-cultuali, pertanto, erano lungi dall’essere vissute quali mere “illusioni”. Per tale ragione, le ermeneutiche psicologiste o sociologiche furono ritenute inadeguate dallo studioso tedesco, incapaci di rinviare a ciò che i Greci, nella loro vissutezza, avrebbe chiosato Colli, realmente esperivano della teofania. Il divino era, in Grecia, fatto ontologico. Per quanto attiene alla potestas dionisiaca, Otto rileva che essa, da un lato, era avvertita come opposta ad Apollo ma, allo stesso tempo, induceva, favoriva l’incontro con la polarità divina apparentemente opposta. Per tale ragione, Dioniso, nel suo “darsi” nella vita, alludeva alla “convergente unione”, tra Grecia pre e post-omerica.
  • ...
  • A dire dello studioso tedesco, nel dio convivevano la dimensione tellurica e quella spirituale. Un teorico della forma, della Gestalt, quale, di certo, fu Otto, in forza di tale assunto guardò con interesse rilevante al dio dell’estasi, dio travalicante limiti, identità e latore della s-determinazione degli enti. Lo fece, ponendosi oltre le stesse lezioni di Bachofen e Creuzer, respingendo, ricorda Moretti: «l’idea che il senso dei misteri […] dionisiaci possa essere ricondotto a una prefigurazione del cristianesimo». Il Dioniso di Otto è dio ellenico. Tale tesi è supportata, in queste pagine, da ampia documentazione archeologica, filologica, storico-religiosa. Dioniso, non casualmente, nasce da madre mortale, con ciò rivelando: «la duplicità dell’essere e il trascorrere da un polo all’altro della duplicità morte-vita in ogni circostanza dionisiaca dell’esistenza», ambiguità testimoniata nel mito e nel culto. Dioniso, per nascita, conosce e vive la dimensione della lacerazione e del dolore, della morte, a differenza delle divinità olimpiche. Pertanto, il divino greco, il divino dionisiaco, ha in sé il tratto dell’eccezionalità, rappresenta un unicum nella storia religiosa dell’uomo europeo, altro, in ciò, dalla religiosità cristiana, di origine asiatica, orientale e, per questo, sostenuta da afflato escatologico e salvifico.
  • ...
  • Di contro, Dioniso è cuore pulsante, ritmico, della visione tragica greca, come mostra lo sviluppo complesso della tragedia attica. Nell’estasi, nell’entusiasmo, nell’esperire la presenza del principio in sé, i Greci vivevano la contraddizione inscritta nella vita, il rapporto ambiguo uno-molti, zoé e bioi. Il culto donava forma all’informe, trascrivendo il perpetuo gioco della dissolvenza delle esistenze, sempre esposte al confronto con la morte. Sostanzialmente, per Otto il dionisiaco indica un percorso che muove dal divino per coinvolgere l’umano in un iter divinizzante. Sostanzialmente, egli mostra la duplicità divina di Dioniso nel darsi in uno di vita e morte, gioia e dolore, caldo e freddo, simbolizzata, in modalità emblematica, dai suoi attributi vegetali, la vite e l’edera.
  • ...
  • Ma è il suo darsi attraverso la “maschera” a indicarne l’essenza più profonda, il suo “farsi incontro”, il suo “essere sempre presente” nella physis. In tema, Otto si esprime in questi termini: «Lo si rappresentava con la maschera perché lo si conosceva come il contemplante, è il dio della più immediata presenza […] proprio perché è sua caratteristica apparire improvvisamente e con tanta potenza […] Dioniso è simbolo e manifestazione di ciò che è e allo stesso tempo non è: immediata presenza, in uno con l’assoluta assenza […] ci scuote con una vicinanza che è al tempo stesso un ritrarsi: i misteri ultimi dell’essere e del non-essere fissano l’uomo con occhi smisurati». Affermazione chiarificata dalla complementarità di Apollo e Dioniso, dall’essere il primo “maschera” del secondo: «Il regno olimpico s’innalza al disopra dell’abisso terrestre […] Ma la stirpe dei suoi dèi è scaturita essa stessa da quelle profondità […] essa non sarebbe se non esistesse quel grembo materno, quella fonte sorgiva dell’essere elementare: Apollo con Dioniso, avremmo così la dimensione totale dell’universo […] E con ciò la religione greca, in quanto consacrazione dell’essere com’esso è, avrebbe raggiunto la sua più sublime altezza». Una re-ligio della vita nuda, singolare, esposta al ludico incontro di limite e illimitato, visione del mondo centrata sulla coincidentia oppositorum.
  • ...
  • Il Dioniso di Otto è libro con il quale si può guardare al senso ultimo della civiltà ellenica. Esso non ha, per questo, solo rilevanza storico-religiosa, ma significativo e attualissimo valore filosofico.

  • Céline

  • Louis-Ferdinand Céline
  • Torna in libreria la biografia di
  • Maurice Bardèche
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • Usciamo dalla lettura di un libro articolato e complesso, appassionato e appassionante, Louis-Ferdinand Céline di Maurice Bardèche, nelle librerie per i tipi di Italia Storica Edizioni (pp. 316, euro 29,00). Il volume, curato dal compianto Moreno Marchi, conserva la sua prefazione alla prima edizione italiana. Si tratta del saggio di un critico letterario di vaglia che si occupò, in modo mirabile, tra gli altri, di Proust. Allo scopo, tra le Appendici rinviamo alla lettura dello scritto di Amerino Griffini, atto a introdurre alla vastissima produzione di Bardèche.
  • ...
  • Lo scrittore indagato in queste pagine è Céline, uno dei più grandi del Novecento. Lo studio si sviluppa in tre parti, articolate, a loro volta, in numerosi capitoli. In essi, l’enigma Céline è scandagliato in modalità organica e con persuasività d’accenti esegetici. Al centro dell’attenzione, è posto non solo il letterato, di cui l’autore attraversa l’intera opera, ma l’uomo Céline, con l’evidente intenzione di mostrare come i due aspetti, nel collaborazionista, tendano continuamente ad intersecarsi, a sovrapporsi. Marchi, nella prefazione, rileva come Bardèche sia animato, nei confronti dell’autore di Viaggio al termine della morte, da una sorta di “empatia della contraddizione”, connotata dall’ambivalenza di amore-odio. Lo studioso transalpino: «si pone gli abituali problemi di obiettività, ma […] non rifugge dall’immettersi appassionatamente, sanguignamente […] nella vicenda Céline» (p. 5).
  • ...
  • Quali sono le conclusioni dell’ampio excursus ermeneutico di Bardèche? Prima di ogni altra cosa, egli legge lo scrittore quale abilissimo costruttore di maschere. La sua opera, quindi, non può essere interpretata in chiave autobiografica, quale: «canovaccio [..] di un itinerario» (p. 273) di vita. La deformazione della realtà è stata, volutamente, uno degli obiettivi che hanno mosso la tecnica narrativa céliniana. Céline fu, in uno, artigiano della parola e rock star che disse, il più delle volte in modalità urlata e sincopata, la tragicità della vita nuda. È stato amato, ammirato quale demistificatore, “maestro del sospetto” atto a mettere in guardia dagli idola del tempo in cui visse, ma fu anche odiato. Il suo esercizio parresiastico imbarazzava i benpensanti, li offendeva: «Cos’è uno scrittore che non accetta la responsabilità di quel che ha scritto, quando quel che ha scritto (l’antisemitismo) è stato per altri mortale?», si chiede Bardèche (p. 274). Céline fu, al contempo, irresponsabile ed eroe (eroe lo fu nel secondo dopoguerra durante la tragica peregrinatio da “un castello all’altro” e durante l’esilio danese). Nel corso della vita indossò maschere differenti, lo attesta perfino il nome, mutato da Destouches in Céline per onorare la memoria dell’amata nonna.
  • ...
  • Mirabile il capitolo dedicato all’infanzia e all’adolescenza, ricco di quadri d’ambiente e atmosfere vivaci, nei quali Bardèche fa muovere familiari e conoscenti dello scrittore e in cui vengono ricordate le diverse attività svolte dal giovane, da commesso a venditore, da funzionario in Africa a “medico dei poveri” in un dispensario. Fu utopista sui generis, non nutriva alcuna fiducia negli uomini. Una lettura attenta della sua opera mostra come i “detti” célianiani”, custodiscano dei “non-detti”, un’ombra ben più importante dell’apparente luce della parola scritta. Nel dopoguerra rispose all’odio con l’odio, non temeva più, eppure: «è (era) ancora prigioniero del suo panico» (p. 275). Assunse una nuova maschera, quella del sacrificato. Lasciò cadere la traccia cinica che, fino ad allora, aveva seguito, si trasformò, in relitto, in proscritto e reietto. Una maschera protettiva fu, in tal caso, la sua. Bardèche, non casualmente, si chiede se Céline fu fascista in senso proprio. Risponde negativamente, precisa che non fu neppure vero “razzista”, fu essenzialmente un medico igienista alieno dall’arianesimo, un “materialista” in senso non-moderno, antico, votato al disincanto della vita nuda: «lo si crede fascista a causa di suoi pamphlet: non lo è più di quanto non fosse comunista quando scrisse il Viaggio» (p. 276). In ultima analisi, egli fu un inclassificabile.
  • ...
  • La sua opera è costituita: «da due trilogie che non si oppongono che […] corrispondono a due diverse ambientazioni» (p. 276). La prima si spinge dal 1914 al 1930. La seconda è dipintura esistenziale del secondo dopoguerra, a muovere dalla disfatta tedesca. Dalle trilogie si evince che, tratto costitutivo della letteratura céliniana, non è da individuarsi nella politica, in quanto egli: «degli uomini ha un’idea: non una concezione societaria» (p. 277). Espresse, alla luce delle acquisizioni freudiane, il senso profondo delle situazioni in cui visse, lo fece in modalità sentimentale e lirica. Guardò le piaghe dell’esistenza da medico, non nutrendo speranze in una terapia davvero definitiva e risolutiva.  Céline visse e scrisse sperimentando, mettendosi alla prova.
  • ...
  • Negli ultimi anni, suo malgrado, a causa della polemica politica in cui fu coinvolto, assunse la maschera del portabandiera. Letterariamente ripiegò sullo stile, fu stilista d’eccezione, stilista del nulla, al pari di Benn, atto a rendere: «il rappresentato più vero della medesima realtà» (p. 279). Allo scopo si servì, a seconda del periodo produttivo, di diverse declinazioni della comicità, altro volto del tragico: «ad ispirarlo meglio è la miscela tra il grottesco e la tragedia» (p. 280). Si vantava, per questo, di aver compiuto una rivoluzione impressionista in letteratura, di aver sostituito la “luce dello studio” con la “luce all’aria aperta” e aver prodotto una trascrizione della vita così come essa è, coniugando in uno bellezza formale e verità. In realtà, si trasformò in “musicista della parola”: «Quel che conta […] è il ritmo delle sue frasi […] lo stile parlato-emotivo di cui ha preso il brevetto» (p. 282).
  • ...
  • I Greci ebbero chiara contezza che la musica dice il profondo della vita, il “non” dell’origine che anima ogni esistente. È quanto il lettore può desumere sfogliando il ricco apparto fotografico che accompagna questo volume. Le foto ritraggono Céline assieme a suoi familiari o sodali, in momenti e luoghi diversi. La fotografia, “scrittura di luce”, nell’attimo dello scatto, trascrive quel che il visibile cela e custodisce. L’origine tragica, un principio negativo che anima la physis, che non sta in un altrove ma che vige sempre nel “qui e ora” degli enti.
  • ...
  • L’iter céliniano, per chi scrive, va esperito in termini filosofici, in quanto teso a dis-velare l’originario. La biografia di Bardèche è di grande pregio, chiarisce i “non-detti” delle maschere sempre all’opera di Céline.

 

  • Antonio Forza, Rino Rumiati,
  • "L’errore invisibile. Dalle indagini alla sentenza"
  • (Il Mulino 2025, pp. 286, € 20,00)
  • rec. di 
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • E’ noto che il ragionamento giuridico e in particolare quello giudiziario è stato oggetto, oltre che di norme che lo disciplinano, di molti studi.  Meno noto è che spesso l’attenzione è stata rivolta a evitare gli errori, le fallacie logiche e argomentative piuttosto che a dettare le regole della corretta decisione.  Oltretutto il giudizio è attività umana, e l’argomentare (dei difensori) come la motivazione (dei decisori) è condizionata dalla professione di questi ultimi; onde sono diverse. In particolare se i decisori sono degli esperti (funzionari di carriera od onorari) o dei comuni cittadini (giurie popolari).  Il tutto è complicato dal fatto che il linguaggio giuridico non è formalizzato (a differenza di quello scientifico) ma è quello di uso comune.
  • ...
  • Questo libro si pone una domanda, partendo dal dato di fatto che nell’ultimo trentennio in Italia sono stati registrati oltre trentamila casi di ingiusta detenzione: da dove derivano questi errori? Gli autori rilevano che molti conseguono a travisamenti risalenti alla fase iniziale, i quali poi condizionano le fasi successive, decisione compresa.  Gli autori prendono in considerazione la psicologia degli inquirenti e così il soggettivismo degli stessi, ossia l’insidia-principe dell’oggettività della decisione (e del diritto). Dai tempi di Bacone e dei suoi idola si sa che sono i pregiudizi a condizionare i giudizi, quel che è nuovo nel saggio è che gli autori si servono dei più moderni strumenti della psicologia.
  • ...
  • Emerge così un’ampia ricognizione delle “trappole cognitive” che producono effetti nella decisione. E quindi nella vita delle persone.  In definitiva un libro da leggere sia per l’argomento sia per il modo di affrontarlo degli autori. Sperando che migliori la qualità delle decisioni e così quella della giustizia di uno Stato di diritto.

  • Copertina 1450x2048

  • Essere e tempo in Ugo Spirito
  • Un libro di
  • Hervé A. Cavallera
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  •  
  • Hervé A. Cavallera, professore onorario dell’Università del Salento, è curatore dell’opera di Giovanni Gentile e studioso di vaglia del pensiero pedagogico. Nella sua ultima fatica, Essere e tempo in Ugo Spirito, nelle librerie per i tipi delle Edizioni Grifo (pp. 257, euro 20,00), porta la propria attenzione esegetica sulla filosofia dell’allievo di Gentile, interpretato quale pensatore: «che più di altri illustri discepoli del filosofo siciliano ha a suo modo sviluppato l’attualismo» (p. 5). Cavallera accompagna il lettore all’interno dei plessi più rilevanti della speculazione spiritiana, servendosi di una non comune conoscenza dell’opera del filosofo transattualista, attraversata con persuasività di accenti ermeneutici. Non trascura alcun aspetto delle tesi di Spirito, si sofferma sulla dimensione eminentemente etico-politica, e quindi anche pedagogica della proposta del pensatore. ...
  • Presenta i tatti dirimenti della sua opzione problematicista, indaga la dimensione religiosa e quella estetica e, soprattutto, si interroga, come esemplificato dal titolo: «sull’esistenza nel suo essere legata al tempo» (p. 6), alla luce di un possibile che, anche nell’età della globalizzazione, potrebbe attualizzarsi, potrebbe farsi storia, nuovo umanesimo.
  • ...
  • Il volume, articolato in sette capitoli e in un Epilogo, è chiuso da una Appendice che ripropone prefazioni, recensioni e testi utili alla comprensione dell’iter teoretico di Spirito. Alcuni dei saggi sono inediti, altri sono comparsi in studi specialistici e su riviste. In questo senso, è possibile asserire che il libro di Cavallera è un testo conclusivo, imprescindibile per la comprensione della filosofia spiritiana. Il primo capitolo rappresenta, per chi scrive, il momento apicale dell’esegesi dell’autore. In esso, infatti, Cavallera chiarisce la ragioni dell’adesione del pensatore al magistero di Gentile: l’attualismo fu: «l’alternativa al dato del positivismo e alla fede del credente, e per tale motivo deve realizzarsi concretamente. Deve […] divenire azione politica» (p. 14). Per tale ragione, rispetto al fascismo, Gentile tentò di mettere in atto un’azione pedagogica-culturale al fine di ridurlo all’attualismo. Spirito, in sequela del Maestro, fondò con Arnaldo Volpicelli la rivista «Nuovi studi di diritto, economia e politica» con lo scopo di riconnettere: «il pensiero italiano contemporaneo […] alla sua originale e genuina tradizione vichiana» (p. 15), centrata sull’identità di verum e factum. Gli scritti che Spirito dedicò al dibattito sul corporativismo, inteso quale strumento di realizzazione dello Stato etico, analizzati con minuzia di particolari da Cavallera, mostrano l’ inteso impegno politico del pensatore. Tale spendersi nella prassi trovò il suo momento conclusivo nel Convegno di Ferrara del 1932.
  • ...
  • Il filosofo, prima di presentare al consesso ferrarese la tesi della corporazione proprietaria e il suo corporativismo integrale, si rivolse a Mussolini trovandolo consenziente. Eppure, il corporativismo proprietario, non ottenne il favore che Spirito si sarebbe atteso: a Ferrara fu stroncato sul nascere per intervento diretto, tra gli altri, di Bottai. Da allora, le corporazioni assunsero mero ruolo amministrativo, incapaci di realizzare l’umanesimo del lavoro cui guardavano Gentile e il suo allievo. La proposta di corporazione proprietaria fu definita “comunista”, in realtà si trattava di una tesi “comunitarista” di impianto platonico, centrata sulla valorizzazione della competenza. Del comunismo, Spirito accetta esclusivamente il concetto di programmazione. Nel dopoguerra, infatti, si recò in Urss e in Cina, rimanendo deluso da quanto in quei paesi era stato realizzato. Constatata, di contro, l’impossibilità di realizzare lo Stato etico, la difficoltà di tradurre in atto l’idea, il filosfo inaugurò la fase teorica problematicista. Nel dopoguerra si dedicò ad opere mirate alla trascrizione del presente. Da esse si evince una critica radicale della democrazia liberale, fondata sulla negazione della competenza, così come il rigetto del totalitarismo comunista, incapace di cogliere la vigenza dello Stato in interiore homine.
  • ...
  • In tale condizione storica ed esistenziale, l’uomo di cultura, cui Spirito guarda, è chiamato a svolgere un ruolo di primo piano. Il suo dire deve farsi esercizio di parresia, libero dai condizionamenti che le parti politiche impongono agli intellettuali, atto a concedere una gioia rasserenante. Precisa Spirito: «Si tratta di una libertà e di una gioia che costano» (p. 30), esito dello svincolarsi del filosofo dagli idola dominati il tempo presente. La filosofia spiritiana anticipa analisi, avanzate decenni dopo, della società neocapitalista. Ha contezza delle trasformazioni che la tecno-scienza stava imponendo al mondo attraverso l’omologazione senza precedenti della realtà: «Si tratta di un passaggio dall’io al noi in ragione della funzionalità» (p. 31), le cui conseguenze cominciavano a farsi sentire perfino nella vita delle chiese. Una situazione, quella imposta dal Ge-stell, inaggirabile: «Ciò non significa che Spirito sia un apologeta del suo tempo […] Si limita a coglierne i caratteri e a illustrali con la lucidità del […] filosofo» (p. 31). Nel mondo contemporaneo si assiste al logoramento, alla liquefazione, di qualsivoglia valore o fede.
  • ...
  • Nulla si lascia più ricondurre all’unità. Per questo, nonostante la teorizzata morte dell’arte, la creatività stava riaffermando il proprio ruolo ineliminabile (Spirito, ricorda Cavallera, in gioventù fu pittore). L’arte è espressione, infatti, di una soggettività incapace di addivenire epistemicamente all’uno, a cui, per altra via, comunque, essa guarda e allude. Assume, pertanto, ruolo dirimente il “problema” della religione. In tema, Spirito è davvero, nonostante la proclamata “infedeltà” nei confronti del Maestro, allievo di Gentile. I due pensatori sono convinti che il concreto sia: «l’atto spirituale. La cui concezione immanentista […] mentre è l’inveramento del Cristianesimo, può parere perciò anche la liquidazione della religione» (p. 11). La centralità del Cristianesimo è data dall’Incarnazione, con la quale, tale religione, tentò di colmare lo iato distinguente il mondo dal sovramondo. Un Cristianesimo paradossale che non coincide con la fede “ortodossa” e neppure con le chiese positive. Per la sua comprensione è bene tener a mente l’interesse gentiliano per i grandi spiriti religiosi, per i “riformatori” e, tra essi, Bruno.
  • ...
  • Questi sono solo alcuni dei plessi teorici del volume di Cavallera. La lettura di, Essere e tempo in Ugo Spirito permette di comprendere la grandezza speculativa di questo pensatore. A parere di chi scrive, alcune delle problematiche che egli sollevò, furono anche al centro del dibattito filosofico inaugurato dagli ultrattualisti della linea Emo-Evola-Diano. Spirito, con il suo problematicismo di ascendenza attualista, giunse negli ultimi anni di vita, a una sorta di “sospensione del giudizio” rispetto alle: «diverse possibilità che confluiscono nella ricerca dell’incontrovertibile» (p. 6), lasciò aperta una strada ancora da percorrere. Ragione ulteriore per riflettere sulle pagine di Cavallera…

  • tortarolo

  • Lo scultore di uragani
  • Una raccolta di racconti e dialoghi di
  • Carlo Tortarolo
  •  rec. di
  • Giovanni Sessa

  • Carlo Tortarolo è caporedattore di Satisfiction ed editorialista de il Giornale, sulle cui colonne discute temi d’attualità e di politica internazionale. È nelle librerie la sua ultima fatica, Lo scultore di uragani, comparso nel catalogo di Coniglio Editore (per ordini: info@coniglioeditore.com, pp. 188, euro 17,50). Si tratta di una silloge di racconti e dialoghi i cui protagonisti sono frutto della fantasia dell’autore ma, al contempo, rinviano, in modalità del tutto evidente, a protagonisti e tematiche della storia contemporanea, in particolare italiana.
  • ...
  • Gian Paolo Serino, che firma la prefazione, sostiene che Tortarolo è autore raro, dispone, infatti, di un coraggio divenuto, nel nostro tempo, inusuale: il coraggio della Letteratura. La sua prosa è esercizio di parresia, in un tempo che ha girato, apparentemente in modalità definitiva, le spalle alla dimensione assiologia sulla quale, in un passato neppure troppo remoto, gli uomini avevano costruito la propria vita. La scrittura di Tortarolo è agile, lieve nell’incedere dei racconti e ritmica, quanto basta, per trascrivere il rincorrersi dei pensieri nei dialoghi. Una prosa moderna, contemporanea, attenta al parlato, al linguaggio quotidiano degli avventori di bar e locali pubblici.
  • ...
  • Moderno nella forma, Tortarolo, quanto anti-moderno nei contenuti. Lo scultore di uragani è animato dall’intento di lanciare una sfida al mondo contemporaneo, ai suoi idola, attraversando, con perspicacia argomentativa e persuasività d’accenti, le ragioni della attuale intransitabile crisi. Fin dall’incipit del volume, il nostro autore dichiara di scrivere per: «i postumi del pensiero Unico e per gli antenati» (p. 11). Ha consapevolezza della solitudine esistenziale ed intellettuale nella quale vive, per questo definisce la propria visione delle cose, filosofia immorale, in quanto: «è immorale essere contro il pensiero di tutti» (p. 11). In tale condizione non si può, attraverso lo scrivere, che rivolgersi all’imperitura presenza-colloquiante di chi è stato o, di contro, guardare al futuro, ai “venienti”.
  • ...
  • Nato alla fine di un decennio tragico, gli anni Settanta, Tortarolo si definisce “nato dalle basi”. Queste: «Sono il frutto del pensiero degli antichi, Della saggezza degli zappatori. Della sapienza di chi sa risparmiare. Di chi non ostenta» (p. 12).
  • ...
  • Tale attaccamento agli “elementi”, alla dimensione concreta e arcaica della vita, è venuta meno: viviamo in un mondo liquido centrato sulla dismisura, sul “sempre di più” e “sempre più in fretta” in ogni ambito. Solo la parola, l’arte, la creazione, sembrano, nella loro possibilità di scolpire gli uragani che impazzano su di noi e intorno a noi, poter custodire dalla deriva nichilista, dal trionfo dell’astratto e dell’universale, l‘irripetibile singolarità del vivere.  L’Occidente è come un treno nella notte la cui corsa va sempre più accelerando in direzione del baratro e: «L’uomo occidentale è come il passeggero del Titanic che […] (aveva) l’illusione di essere a bordo di una nave inaffondabile» (p. 15).  Ecco, la scrittura, può svolgere il compito di svegliare gli uomini della nostra epoca da tale sogno che rischia di trasformarsi in incubo. I nostri contemporanei hanno perpetrato un atto di abiura, hanno rinunciato a se stessi, in un iter che, attraverso la denatalità, sta conducendo l’Europa all’estinzione biologica. La tradizione viene meno. Non c’è neppure più la prole a cui poter “trasmettere” ciò che si è ereditato, in termini soprattutto spirituali, da chi ci ha preceduto.  Nel racconto, Etica della crisi, viene svelato come la tecnologia informatica, propria del capitalismo computazionale, sia lo strumento dell’etero-direzione della masse, assieme al signoraggio bancario. In, Tutti al voto, dialogo intorno al senso della democrazia liberale, si evince come gruppi di potere transnazionali abbiamo ormai espropriato, di là della false distinzioni tra destra e sinistra sistemiche, la sovranità popolare, riducendo la prassi democratica a “gestione amministrativa”, a governance deprivata di qualsiasi visione realmente progettuale rispetto a un possibile futuro diverso dal presente, in cui trionfa la mercificazione della vita.
  • ...
  • La categoria di pensiero che meglio qualifica la letteratura di Tortarolo è quella del possibile. Lo si evince dal racconto-dialogo intitolato, Dove c’è il mare. La storia è ambientata in un ipotetico futuro, nel 2062, anno nel quale, si narra, gli italiani avevano ormai perso il ricordo dell’esistenza, al di là dello stretto di Messina, della Sicilia. L‘isola era stata cancellata dalle carte geografiche nel 2032, durante la Terza guerra mondiale. In quell’anno terribile l’isola fu colpita da ordigni nucleari. La memoria storica, giornali, libri, tutto era andato perduto. Uno dei deuteragonisti aveva gelosamente custodito ritagli di quotidiani, usciti in quelle tragiche giornate, oltre a tre volumi di scrittori siciliani che consegnò al suo giovane amico perché questi, al momento opportuno, comunicasse nei suoi scritti la verità su quella fase della storia caduta nell’oblio. Il possibile domina la vita degli uomini. Rispetto agli eventi storici non si può, pertanto, essere fatalisti. La crisi attuale, amplificata dai dogmi del femminismo imperante, spesso stigmatizzati in queste pagine, dalla cultura Woke, tesa a cancellare il passato dell’uomo occidentale, può essere superata in un Nuovo inizio, questo il messaggio di Tortarolo, centrato “sulla cultura della vita”e non su quella della morte e del Nulla.  Per pervenire a tanto, gli uomini dovranno far conto sulla loro intelligenza critica e servirsi, all’occorrenza, di pratiche (l’autore fa riferimento agli “Esercizi spirituali” di S. Ignazio) atte a far ri-scoprire in noi, ciò che gli Stoici chiamarono l’Egemonikon, il centro vitale del nostro essere.
  • ...
  • Quella di Tortarolo, avrebbe chiosato Kierkegaard, è “comunicazione d’esistenza” mirata al risveglio delle coscienze. Dalla Letteratura la possibile nuova vita…

  • Eraclito

  • Tutto dirige la folgore
  • Eraclito:
  • politico e mistico
  • A proposito di un saggio di
  • Filippo Venturini
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  •  
  • Filippo Venturini è noto per alcune significative pubblicazioni di argomento archeologico. Studioso da sempre interessato al pensiero antico, in particolare alla filosofia presocratica, ha da poco dato alle stampe un interessante studio su Eraclito, "Tutto dirige la folgore. Eraclito: politico e mistico", nelle librerie per i tipi de il Cerchio (per ordini: info@ilcerchio.it, pp. 187, euro 24,00). Il saggio è chiuso dalla raccolta dei frammenti del pensatore di Efeso nell’edizione Diels-Kranz dei quali l’autore fornisce, in diversi casi, una traduzione critica e alternativa, accompagnata da commenti ai detti eraclitei assolutamente pertinenti e condivisibili.
  • ...
  • Il volume, fin dalle prime pagine, chiarisce come Venturini abbia maturato una conoscenza non comune, tanto dei testi del filosofo “oscuro”, quanto della più accreditata letteratura esegetica in tema. Il libro è articolato in tre capitoli: nel primo, il saggista si occupa dell’afflato politico che connota di sé la visione del mondo dell’aristocratico greco; nel secondo affronta i plessi teoretici più significativi della speculazione del filosofo; nel terzo, infine, presenta la tragica fine di Eraclito, interpretandola quale inevitabile conseguenza dell’inattualità politica delle tesi del grande presocratico. Nell’incipit del testo, Venturini, in forza della lezione di Nietzsche, rileva come i Greci, nella propria tradizione, abbiano accolto anche visioni esotiche, provenienti dall’Oriente, rielaborandole in modalità originale, alla luce dell’ethos ellenico. In particolare, sostiene che: «Eraclito è un pensatore […] politico, nel senso più ampio ed esauriente di questo termine […] un pensatore della polis, un pensatore comunitario» (p. 8). La sua filosofia è legata, dato il retaggio nobiliare, allo sfondo mitico della cultura religiosa poliadica. Nella sua vita e nei suoi frammenti è chiarissimo l’emergere delle due tendenze fondamentali, che a dire di Colli, dettero luogo alla kultur ellenica: la propensione mistico-dionisiaca e la tensione apollineo-politica, protesa, quest’ultima, a dar “forma” alla caoticità conflittuale della vita.
  • ...
  • Fu coinvolto, in prima persona, nella vita di Efeso, appoggiando il tentativo politico di Ermodoro. La sua concezione anti-dualista e relazionale degli opposti, stante la lezione di Teognide, lo indusse a leggere il polemos vigente nella polis in sintomia con quello che si dà nella physis. Venturini, con Gadamer, ritiene che i continui riferimenti a phronesis, “virtù, ragionevolezza dell’azione”, presenti nei frammenti, attestino, in tutta evidenza, il tratto eminentemente pratico del pensiero dell’efesino. Eraclito pensò, al pari degli altri Sapienti ellenici, la physis sintonica a politeia, “costituzione”. La dimensione “democratica”, da intendersi in senso greco, rilevata in Eraclito da Preve, non contrasta con l’animo aristocratico del pensatore: a seguito del fallimento del progetto di Ermodoro, la natura nobile lo indusse a disprezzare le masse, insensibili, orami, a qualsivoglia politica anagogica. L’integrità di cosmo e polis era, in quel frangente storico, minacciata: «dalle forze contrastanti e centrifughe dell’egoismo dei singoli e delle fazioni, generato dalla brama di ricchezza» (p. 10). L’irruzione della moneta nel mondo greco aveva prodotto eris, corrompendo parte significativa della stessa aristocrazia. All’atomismo sociale di cui furono latori i nuovi ceti emergenti plutocratici, Eraclito contrappose, con inusuale potenza teorica, la struttura organica del cosmo, inteso quale spazio ordinato da leggi.
  • ...
  • Avrebbe voluto con tale richiamo alla visione aurorale ellenica, “svegliare” gli inconsapevoli, i “dormienti” . Gli uomini sono momento dell’armonia cosmica di cui dice il fr. 30: «la cui essenza è il perenne balenare della luce (physis) dall’oscurità che la circonda» (p. 11). La luce evidenzia gli “elementi” che costituiscono il reale, attraverso i metra, spazio e tempo. A tale incedere naturale l’uomo corrisponde con la vista, il “vedere”, che dischiude l’aphanes, l’armonia di "tutte-cose", di cui dice il fr. 54.  Heidegger ha rilevato che tale “inappariscente” armonia è: «qualcosa che si ha costantemente sotto gli occhi, ma della quale non si è consci» (p. 11). Chi colga tale consapevolezza, giunge all’origine, al principio, alla coincidentia oppositorum, oltre la logica diairetica dell’identità. Pervenirvi, implica “conoscere se stessi”, controllare le pulsioni katagogiche che pur ci costituiscono. Eraclito e i Greci non conobbero “metafisica”, seppero che l’uno si dà solo nei molti e l’“al di là”, se si vuole utilizzare tale temine, vive nel “qui e ora” dell’eterno presente, nella congiunzione di kairos con aion, nella memoria comunitaria della polis.  Colli sostenne che tale istanza conoscitiva è “vissutezza” non comunicabile, in quanto contatto con lo sfondo abissale della vita, meravigliante e tragico in uno.
  • ...
  • Politica e mistica in Eraclito coincidono: la polis testimonia l’unità di finito e infinito, rende possibile vedere: «l’unità del tutto e la competizione tra gli opposti» ( p. 14), come si evince dal fr. 53.  A causa della delusione patita a seguito del fallimento del progetto di Ermodoro, Eraclito si immerse nella natura selvaggia, si dette al “vagabondaggio”.  Non fu questa, chiosa Venturini, una scelta anti-politica, ma estrema testimonianza della vocazione mistico-politica autenticamente ellenica. Eraclito, nei boschi, “visse”, come seppe Bruno, il senso ultimo del mito di Atteone, colse l’esser uno di soggetto e oggetto: tutto è dynamis, possibilità-potenza-libertà. Il cliché scolastico che presenta Eraclito “piangente” va, dunque, capovolto nell’Heraclitus ridens. Eraclito è filosofo della soglia che unisce tempo ed eternità, per questo gli Efesini ne venerarono le spoglie mortali. Il filosofo si spese nel tentativo di insegnare ai propri concittadini che la vita nuda può essere amata e vissuta solo nella polis ordinata, trascrizione dei ritmi della physis.

  • Manzoni

  • "Nel lento movimento dei ghiacci"
  • Le prose poetiche e la dipintura del Nulla
  • di
  • Gian Ruggero Manzoni
  • rec. di  
  • Giovanni  Sessa

  •  
  • È nelle librerie, per l’editore Puntoacapo, un volume di Gian Ruggero Manzoni, Nel lento movimento dei ghiacci (per ordini: acquisti@puntoacapo-editrice.com, pp.113, euro 15,00). Manzoni è ben noto ai lettori quale autore di numerose pubblicazioni, traduttore di testi sacri, studioso di miti ma anche di astrofisica, e soprattutto quale autentico poietes, uomo d’arte e di poesia.  Recentemente, il critico Stefano Lecchini lo ha definito artista: «tra i più radicali ed eccentrici presenti in Italia, […] porta in sé una scintilla di verità in un mondo dominato e anestetizzato dal falso». Questa asserzione consente di entrare nelle vive cose del libro che qui presentiamo. Il testo raccoglie tre componimenti in prosa poetica i cui temi hanno valore universale. L’autore dice dall’origine dell’umanità, si interroga sia sul senso del nostro viverre e di quello degli enti di natura che sul significato profondo della morte e, soprattutto, si intrattiene sul valore della creazione artistico-poetica. Una confessione esistenziale ad alta voce, quella di Manzoni, sentita, partecipata, vissuta nella nuda carne.
  • ...
  • Un’opera sacrificale, trascrizione del sacrificio, di quel “fare sacro”, proprio di ogni autentico creatore. Lo seppero i Greci con la Tragedia, produzione comunitaria, nella quale, in forza della presenza della potestas dionisiaca, i ruoli di autore-attori-spettatori si sovrapponevano: l’uomo per conoscere il principio deve entrare in se stesso, in quel luogo-non luogo nel quale alberga l’origine: «sia per superare l’escatologia […] sia per ritrovarsi in un’apertura completa di significati» (p. 5). Di fronte alla provenienza dal nulla-di-ente e al ritorno a esso, nel “lento movimento dei ghiacci” della vita, l’artista non cede alla disperazione ma, guardando al misterium custodito dalla physis, si insinua in esso facendosene custode. Gli enti di natura, gli atti aristotelici, altro non sono se non ciò in cui l’uno, la dynamis, possibilità-potenza-libertà, pare momentaneamente acquietarsi. Allo stesso modo, le opere dell’artista sono mero excrementum che trascrive un’origine mai normabile che, con l’ex-sistere, dà anche, in esso, la morte. In ciò è da ravvisarsi il tratto aporetico della vita e la dimensione iconoclasta propria dell’arte, «tomba scoperta» (p. 5), sepolcro testimoniante l’eterna resurrezione della Fenice dalle sue ceneri, dai suoi lacerti (lo intese perfettamente il filosofo Andrea Emo). Manzoni ci affida, di là da qualsivoglia consolazione, al «lato più netto, più duro […] enunciazione costante di uno stato» (p. 6), del poietico. Gian Ruggero sfiducia il concetto senza servirsi di concetti, lo fa, di contro, in modalità lieve, poetica.
  • ...
  • Leggere le sue pagine, per chi, come chi scrive, ha dichiarato guerra al logo-centrismo servendosi dei suoi logori strumenti, quelli dell’armamentario filosofico-concettuale, è stata davvero un’ esperienza liberante, ri-velativa. Ci ha fatto comprendere quanto si debba lavorare sulla dura scorza dell’Io per far emergere il Sé, al fine di vivere in sintonia con la “forza” che anima le cose. La mia è confessione di un sentimento ignobile, che pensavo di essermi lasciato alle spalle, quello dell’invidia. Si, invidio Manzoni perché il suo dire custodisce il non-detto della Parola, il Silenzio da cui essa sorge, cui ogni parola, di fatto, prova ad alludere. Il senso ultimo della vita, appesa alla libertà nel movimento gratuito e insensato, tragico, del tutto, è ben espresso dalla musica: «il miglior mezzo per sopportare lo scorrere del tempo, per dirsi nella sincerità, per non barare» (p. 13). La musica dice tempo ed eternità esser il medesimo nell’attimo immenso. Nel verbo“sopportare” sta l’insegnamento più profondo che Manzoni lascia al lettore. Con Leopardi, egli ha contezza che l’arte è experimentum che, riproponendo l’effimero ma meravigliante bagliore del principio, ci consente di “ben sopportare” in modalità “euforica” (euphero) gli inciampi dell’esistenza, non ultime malattie e morte.  L’artista sperimenta che, chi si sia posto sulla Via dell’assoluto, dovrà pascersi di solitudine e dolore.  L’arte è solo uno dei strumenti atti a “scaldare” tale glaciale solitudine.  Un’arte magica e sciamanica, come quella professata, alle più diverse latitudini e in epoche disparate, dagli “uomini di medicina”. Capaci, in sogno e nella trance, di parlare con: «l’anima delle cose» (p. 17), oltre la loro effimera forma-figura.  Tutto è in tutto, la natura per l’artista-sciamano, è mixis.  Il suo agire s-detrmina le cose dall’ossificazione cadaverica-concettuale, le libera.
  • ...
  • Lo mostrano, in tutta evidenza gli “Sciamani” ritratti nel secondo capitolo. Figure contratte, stilizzate in pochi tocchi di lapis, dai quali si evince in qual modo l’universale sia custodito solo dal particolare. Figure dinamiche, sempre oltre se stesse, tese, come nell’arte dei nomadi dell’Asia centrale, a porre in forma, in modalità transitoria, quali inflorescenze destinate a svanire, l’origine inarrestabile, sempre in fieri.
  • ...
  • Le figure sciamaniche di Manzoni ci hanno fatto ri-cordare (riportare al cuore, al Centro) un libro di “medaglioni grafici” di un altro figlio di Romagna, Leo Longanesi. Ci riferiamo allo straordinario volume longanesiano “Una Vita”, che molto ci intrigò nella nostra adolescenza imberbe. I luoghi ci segnano, ci formano. Il dire di Gian Ruggero è umbratile, padano. Paradigma di tale letteratura è da rinvenirsi nelle Bucoliche e nelle Georgiche di Virgilio. La penna di Manzoni fa irrompere tra il filari di pioppi, nelle trasparenze dei cieli hiemali, tra le nebbie della grande pianura, la Quarta Moira, il Nulla di ente, il ni-ente, di cui disse, assieme a un’eletta schiera pensante, Meister Eckhart. La Quarta Moira è il vero protagonista delle pagine di, Nel lento divenire dei ghiacci: un Nulla volitivamente accettato, che non indulge in alcun contemptus mundi!
  • ...
  • Al contrario, spinge a vivere “intensamente” e, soprattutto, insegna la “rinuncia”. Lo mostra l’ultimo capitolo, appassionato e coinvolgente, dedicato alla recente scomparsa della madre dell’autore. La donna, animata da una fede carnale e sanguigna, retaggio della civiltà contadina, “scelse” il momento di lasciare questo mondo: «in quel totale…ma pur magnifico…disperdersi del certo […] quale esaltante, e di nuovo barbara, sparizione» (p. 96). La Quarta Moira dice vita e morte essere il medesimo: misterium vitae. Per questo, il dire di Manzoni è atto di parresia, parola di verità per quanti oggi abbiamo contezza di “pensare dalla fine”.

  • Copertina Tertium datur Sessa

  • Tertium datur
  • Filosofie dell’originario
  • Un saggio filosofico di
  • Giovanni Sessa
  • rec. di
  • Giacomo Rossi
  • Abbiamo letto un libro importante di Giovanni Sessa, Tertium datur. Filosofie dell’originario, comparso nel catalogo di InSchibboleth (per ordini: info@inschibbolethedizioni.com, pp. 389, euro 28,00). Nelle sue pagine, l’autore porta a conclusione un iter intellettuale al centro del quale sta il lógos physikós, la natura dei Greci in cui “tutto è in tutto”. Si tratta di un esperimento teoretico “originale” (rinviante all’“origine”), connotato da estrema radicalità, che si propone quale uscita di sicurezza dalla attuale condizione teorico-pratica. L’autore, come ricorda nella prefazione il filosofo Romano Gasparotti, è cosciente di “pensare dalla fine” (l’espressione è mutuata da Alain Badiou e Giovanbattista Tusa) della filosofia e della civiltà europea e ha contezza che il lógos physikós debba tradursi in prassi di vita, atta a mostrare l’inanità dei dualismi propri della onto-teologia. Sessa è convinto, scrive il prefatore: «che la traboccante vitalità del cogitare, nei caratteri evocati dalla Settima lettera platonica […] non coincide affatto con il raziocinare astrattamente logocentrico». Vi è, comunque, una possibilità di uscita dallo stato presente delle cose, al di là di ogni astratto volontarismo e di qualsivoglia umanesimo di ritorno. Affinché tale possibile si attualizzi, sostiene Gasparotti con Sessa, è necessario: «aggirare gli schemi metafisico-modernisti di negazione, alternativa, superamento, essendo questi i patterns secondo i quali agisce l’acefala, anonima […] macchinazione» del Ge-stell.
  • ...
  • Sessa fa propria l’esegesi transpolitica della storia che fu propria di Del Noce e Severino, alla luce della quale il moderno è l’esito ultimo della metafisica. Scienza e metafisica, condividendo i medesimi presupposti teoretici, hanno obliato il principio greco di hyle, materia-animata, introducendo le distinzioni di essenza-esistenza, essere-nulla, uno-molti, dando luogo a una visione nella quale la dynamis, libertà-possibilità-potenza sempre all’opera, è stata tacitata. L’autore ripercorre la storia di tale sterilizzazione, condividendo le posizioni che Davide Ragnolini ha presentato in, Hyle. Breve storia della materia increata (Rubbettino, 2023). Analizza, inoltre, alla luce delle bibliografia critica più accreditata, il saggio di Del Noce, Il problema dell’ateismo, ritenendo che, al di là delle due “vie” individuate dal pensatore cattolico (quella immanentista che con Hegel, Marx e Nietzsche, avrebbe inaugurato l’epoca della secolarizzazione, e quella giobertiano-rosminiana del recupero della metafisica), ne esista una terza, tertium datur, centrata sul primato della potenza e del possibile, sulla coincidentia oppositorum (mai da intendersi quale nuova sintesi positiva!) e sulla piena accettazione della singolarità.
  • ...
  • Una via carsica della filosofia europea, emersa in piena Rinascenza, testimoniata dal pensiero e dalla vita di Niccolò Cusano, di Giordano Bruno, dalla mistica di Jakob Böhme e Franz von Baader, le cui tesi risuonarono in alcuni assunti dell’idealismo tedesco. 
  • ...
  • In Tertium datur viene rintracciato dall’autore un canone minore del pensiero europeo, diverso, ma altrettanto prezioso di quello rinvenuto da Rocco Ronchi. A proposito di Cusano, Sessa nota: «il (suo) mondo si configura come realtà, che, partecipando della potenza, anzi, essendone sola espressione, è sempre all’opera […] non staticizzabile dal lavoro del concetto».  Al filosofo di Kues, guardò, nel suo coerente panteismo, Bruno.  Nelle opere del Nolano, la cui esegesi è condotta in modalità organica e con pertinenza di accenti, tornò a mostrarsi nella “vicissitudine” della physis, la hyle ellenica che fece sentire la propria voce anche nella teosofia di Jacob Böhme.  Il tedesco pensò la hyle quale seme, germe cosmico, vivo nella coincidenza dei contrari. Le opere del teosofo, in primis Aurora: «realizzano il tentativo di sospensione ed effrazione delle valenze locutoriamente semantico-simbolico-discorsive del linguaggio», in quanto esse: «non possono affatto restituire la sorgività e l’immediatezza assoluta» del principio e: «finiscono per estraniare il lettore da un’intima e interattiva compartecipazione con il pragma cogitante […] L’experimentum del ciabattino-teosofo […] è quello dell’esercizio di un linguaggio eminentemente metaforico-immaginale».  Baader, in sequela di tale tesi: «Alla fondazione del soggetto moderno, contrappone la distillazione alchemica del Sé».  Tra gli idealisti, Fichte portò alla luce la negazione originaria, la dynamis-principio e a tale acquisizione teorica si mantenne fedele Schelling nella Filosofia della libertà oltre che nel momento teosofico del suo sistema.  Hegel, al contrario, tradurrà dialetticamente tale negazione in un nuovo positivo.  Quello hegeliano è, di fatto, un ermetismo imperfetto, deviato, in quanto ancora impigliato nel soggettivismo razionalistico di ascendenza cartesiana. Fu, al contrario, il pensiero-poetante di Friedrich Hölderlin, a salvare, in quel frangente storico, la visione tragica ellenica.
  • ...
  • La dynamis, rileva Sessa, ha acquisito ruolo dirimente nelle filosofie ultrattualiste del Novecento italiano, nella linea speculativa Evola-Emo-Diano. Di Evola, l’autore riprende i motivi dell’idealismo magico e dell’individuo assoluto; di Emo quelli del ciclo del continuo rigenerarsi e sacrificarsi dell’iconoclastia e dell’autonegatività di Dio, individuando nell’irresistibilità dell’irrompere dell’Impossibile l’elemento cruciale di collegamento tra loro. Per quanto concerne il pensiero di Carlo Diano – nel quale si intrecciano la lunga meditazione su Leopardi poeta e la lezione filosofica di Gentile – nota Gasparotti, l’autore: «indugia sul nesso originario tra evento e forma, nell’articolarsi del quale […] l’Evento non si lascia mai catturare interamente dalla forma, nella misura in cui esso […] rende possibile il relazionarsi stesso […] di forma eventica e forma eidetica».
  • ...
  • Il ritorno del “pensare greco” è, inoltre, espresso dall’esperienza sapienziale di Giorgio Colli, cui Sessa dedica un capitolo denso e ricco di suggestioni teoriche. Nel grande antichista, nella sua esegesi di Empedocle, la visione dell’Uno-Tutto ha trovato testimonianza d’eccezione.
  • ...
  • Nel libro viene colta la crucialità del “pensiero italiano”. Lo mostra il capitolo imperniato sulla filosofia ritmica e singolare di Massimo Donà, le cui opere sono attraversate e discusse con evidente empatia dall’autore. Donà ha sostenuto la necessità di tornare a coniugare theorein e poiein ed ha insegnato come l’aporia implicita nella vita, possa essere “sopportata” serenamente, in una prassi inconclusa aperta all’incipit vita nova.
  • ...
  • Libro articolato, complesso, Tertium datur di Sessa. Il dato teorico che lega i diversi plessi è il seguente: per il lógos physikós uno e molti dicono il medesimo, Geist e Leib si danno in uno, senza rinviare ad alcun altrove.  La nostra lettura è parziale, abbiamo presentato solo alcuni aspetti del volume. Non possiamo che concludere con questa considerazione del prefatore: «È veramente una gioia per il pensare poter leggere e potersi confrontare con libri come questo, i quali sono preziosamente rari».

 

  • unnamed

  • Oltre l’Idealismo
  • Una silloge di scritti evoliani
  • curati da Massimo Donà e Giovanni Sessa
  •     rec. di
  • Giacomo Rossi
  • È nelle librerie per i tipi di InSchibboleth Edizioni una raccolta di cinque saggi di Julius Evola intitolata, Oltre l’Idealismo. Il volume è impreziosito dalla prefazione del filosofo Massimo Donà e dalla postfazione di Giovanni Sessa, curatori del testo (per ordini: info@inschibbolethedizioni.com, pp. 140, euro….). Gli scritti di Evola raccolti in queste pagine sono: 1) Superamento del Romanticismo; 2) Neue Sachlichkeit. Una confessione delle nuove generazioni tedesche; 3) Sorpassamento dell’Idealismo; 4) Superamento dell’Idealismo; 5) Nuova Essenzialità, neorealismo e realismo socialista. Il primo scritto fu pubblicato nel 1928, mentre il secondo, il terzo e il quarto uscirono tra il 1933 e il febbraio del 1935, solo l’ultimo fu pubblicato nel dopoguerra, più precisamente nel 1958. Tutti i testi, comparsi in origine su riviste, sono di contenuto filosofico e, per comprenderli appieno è bene ricordare quanto, in relazione all’iter intellettuale di Evola negli anni Trenta del secolo scorso, ebbe a scrivere Marco Iacona, accorto studioso di cose evoliane: «Evola negli anni Trenta (i defeliciani anni del “consenso”) desidera cambiare passo, desidera che il “mondo” cambi passo, vuole quel di più che la cultura fascista non gli offre, quel quid goethiano, che consenta alle sue idee […] di affermarsi».
  • ...
  • Per comprendere senso e significato dell’idealismo magico è necessario, come seppe Gian Franco Lami, attento esegeta della filosofia evoliana, far riferimento alla “Nuova Oggettività”.  Nei due scritti della silloge dedicati alla discussione del volume scritto in tema dal ventisettenne Franz Matzke all’inizio del terzo decennio del Novecento, Evola dichiara guerra aperta a qualsivoglia umanesimo, all’antropocentrismo, ritenuti responsabili della catastrofe cui la civiltà europea era andata incontro al termine del Primo conflitto mondiale. Bisognava, di contro, riscoprire il tratto “indifferente” della natura che non è affatto natura “per noi”, a disposizione dell’uomo e dell’Impianto della tecno-scienza. Il movimento tedesco della “Nuova Oggettivà”, in un ritorno “alle cose” ben più radicale di quello pensato dalla fenomenologia husserliana, stava rivelando: «un mondo algido; illuminato da un sole meridiano» (p. 10), chiosa Donà. Prosegue, in tema, il filosofo veneziano: «Ormai si era compreso che bisognava andare incontro alle cose, in tutta la loro freddezza e durezza facendo tacere l’anima» (p. 12). Il pensiero di Evola è qui attraversato da una chiara ripresa di motivi leopardiani. Il grande recanatese, fu latore (si pensi al, Dialogo della Natura e di un islandese) di un pensiero-poetante recuperante il tragico emerso nell’esperienza speculativa della Grecia aurorale e che, in quel frangente storico, faceva mostra di sé, lo ricorda lo stesso Donà, nella pittura “metafisica” di De Chirico.
  • ...
  • In questa nuova visione della natura e delle cose, nella quale l’Io è implicato, al di là della dicotomia soggetto-oggetto indotta dal momento della rappresentazione, sarà possibile anche agli uomini conoscere e vivere in modalità assoluta, posti in faccia a un reale: «costitutivamente inviolabile e del tutto indifferente ai nostri miseri e insignificanti bisogni» (p. 15). In tale natura indifferente, nella quale si può davvero sapere ermeticamente, oltre il pathos soggettivo romantico, che “Tutto è in Tutto”, l’uomo ri-scopre il proprio essere assoluto, sciolto, svincolato, s-determinato, nient’affatto mero “atto” aristotelico. Si ha, così, la possibilità di comprendere che, ab initio, nei molti e solo in essi, si dice l’uno.  Questi non vive in un altrove, ma in tutto ciò che è. La natura è animata dalla dynamis, libertà-potenza, di cui i singoli “atti”, gli enti, non sono che momentanea, flebile, meravigliante e tragica espressione. Quella cui Evola guarda è la lingua muta delle cose, della quale disse von Hofmannsthal. Lo si evince nei saggi di Evola dedicati, in questo volume, al superamento dell’idealismo.
  • ...
  • In queste pagine, sintetiche e illuminanti, il pensatore rileva, lo nota Sessa, che: «La forma ultima ed estrema dell’idealismo, l’attualismo gentiliano, aveva – con la teoria dell’Atto puro – finito per riproporre i dualismi connotanti di sé le filosofie precedenti: soggetto-oggetto, essenza ed esistenza, essere e nulla. Gentile, con l’Io trascendentale, statuiva, al pari dei suoi predecessori, l’impotenza dell’io empirico nei confronti del reale» (p. 114).  Si trattava, pertanto, di trasformare la tesi idealista da meramente gnoseologica, in verità affermativa, di potenza. Insomma, l’individuo per vivere e non semplicemente pensare la propria assolutezza avrebbe dovuto sintonizzarsi sul principio-dynamis, aprirsi al suo perpetuo incipit vita nova, farsi sempre nuovo, ogni volta da capo, in un percorso aporetico, iperbolico e inconcluso. L’individuo assoluto è per Evola il poietes, produttore di: «Un tipo di arte anti-medianica, anti-universalista, incentrata nel valore secco e volitivo dell’Io» (p. 44). Tale arte, a dire del filosofo, ha trovato chiara espressione, lo rilevano sia Sessa che Donà, nel Jazz: «Il ritmo jazzistico ha tratto menadico, elementare: “diremmo quasi di minerale, qualcosa che, come la Dance de la Terre […] di Strawinsky, sa di terra, di forze elementari, sa di una pura intensività scatenata e pur trattenuta ad ogni tempo dai sincopati, per una esasperazione che impone il liberarsi, il muoversi, l’agire”. Il Jazz mette in scena la forza pura» (p. 119).
  • ...
  • Insomma, la realtà aperta dall’ idealismo magico e dalla “Nuova Oggettività” non era da considerarsi aumana in quanto “non ancora umana”, ma in quanto “non più umana”, svincolata, come detto, dalle proiezioni culturali con le quali il soggetto, umanisticamente e romanticamente inteso, aveva segnato di sé la vita e le cose del mondo. Oltre l’Idealismo è, quindi, testimonianza di rilievo della grandezza della filosofia evoliana, ma anche della produzione artistica del pensatore, connessa, in modalità evidente, alla prima. I saggi di Evola sono stati letti dai curatori in modalità oggettiva, oltre il pregiudizio politico che grava ancora sul filosofo e la mera volontà di esaltazione agiografica propria degli “evolomani”. Una ragione ulteriore per leggere questo significativo volume.

  • Fil. della fotografiajpg

  • Filosofia della fotografia
  • Un saggio di
  • Massimo Donà
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • È nelle librerie, per i tipi di Silvana Editoriale, un volume di Massimo Donà, Filosofia della fotografia. I prodigi di un insospettabile “obiettivo” (pp. 93, euro 18,00). Il libro è arricchito dalla prefazione di Italo Zannier, fotografo di vaglia e storico della fotografia. Le pagine di Donà, mirate a disvelare senso e significato del fotografare, muovono da questa definizione di Zannier: «la fotografia può essere intesa come una tecnica che consente di ottenere immagini figurative di porzioni della realtà, ma […] non necessariamente percepibili dal nostro occhio, mediante gli effetti provocati dalla luce […] su alcune sostanze sensibili» (p. 48).  L’argomentare del pensatore veneziano è sostenuto da una non comune conoscenza della letteratura critica in argomento. Egli attraversa e discute, con pertinenza argomentativa e persuasività di accenti, non solo gli aspetti teoretici implicati nell’arte fotografica ma anche, con minuzia di particolari, la sua storia, discussa in relazione ai momenti salienti della rivoluzione tecnico-scientifica e intellettuale della congerie storica nella quale la “scrittura di luce” fece la sua prima, timida, comparsa (in particolare nel capitolo, Verso l’invisibile).
  • ...
  • Se la fotografia è arte che ha avuto nel Novecento il proprio momento saliente, rileva Donà, essa ha a che fare, come le altre arti del “secolo breve”, con una storia millenaria e, in particolare, con il problema rappresentato dall’irruzione del cristianesimo nella cultura europea. La nostra civiltà è stata l’esito dell’incontro tra il rigido monoteismo ebraico con: «il variegato e popolatissimo Olimpo della cultura greca» (p. 30). Mentre il giudaismo negava la rappresentabilità del divino, la grecità, di contro, è stata attraversata da una polifonia del sacro sostanziata di immagini divine.  In tale iter, il dogma trinitario cristiano avrebbe rappresentato una paradossale novità, atta a dire in uno la semplicità: «dell’unico principio quanto la variegata polimorficità di una realtà dai mille volti» (p. 33). Il trinitarismo induceva a pensare tanto la non-raffigurabilità del divino, quanto il suo essere raffigurabile. L’immagine divenne, pertanto, “soglia” che conduceva a un’ulteriorità insondabile, come attestato dalla teologia dell’icona di Florenskij: «l’immagine sarebbe stata ritenuta vera solo nella misura in cui si fosse dimostrata capace di custodire la perfetta invisibilità di quel che essa medesima mai si sarebbe azzardata a mostrare» (p. 34). Il cristianesimo è stato, nel medesimo tempo, iconoclasta e iconofilo.
  • ...
  • “Immaginare” significa ritagliare una “parte”, istituire la sua determinatezza ma, al contempo, tale “immaginare” rinvia a un’azione di custodia, al suo evocare il “tutto” come, a sua volta, “determinato”. Ciò vuol dire che, immaginando, istituiamo l’indeterminatezza della parte nel suo essere relata al “tutto” in quanto, oltre la parte: «vi è sempre e solamente un’altra parte […] diversa da quella caratterizzante la parte che dovessimo aver preso in considerazione» (p. 37).  Insomma, nota Donà, la parte non è mai altra né dal tutto assoluto, né dal tutto parziale, essa non: «sideterminerà” mai […] come distinta dal tutto» (p. 38). Tale situazione è paradigmaticamente testimoniata dalla fotografia. I fotogrammi non saranno mai vita in toto, ma la vita in essi: «sarà comunque venuta ad immaginarsi» (p. 39). Il fotografo fissa una “permanenza” di fatto in-esistente, nell’unica immagine possibile che il divenire della vita si concede. La foto, nella sua immobilità, è “parte” della vita non rinviante a un altrove, a un “fuori” dalla vita stessa, a un’idea quale universale capace di spiegare le singolarità del mondo. Il fotogramma espone a un’altra dimensione della vita che si agita, invisibile, in tutto ciò che è, non rinviando né al passato né al futuro, ma alla vita nuda, tragica e ammaliante. Il fotogramma nella sua positività, nella sua incontestabile datità empirica, dice ciò che in ogni positum palpita, dice il non, la negatività dell’origine alla quale siamo appesi.
  • ...
  • La fotografia fa comprendere che le cose non sono mai quel che “dicono” di essere: «riuscendo a far emergere quello che le persone e le cose in ogni tempo possono essere state, di là da quello che avrebbero voluto essere» (p. 43). La fotografia è latrice di una visione antiuniversalista, non legata ai desiderata del soggetto, registra la voce muta degli uomini, delle cose, della natura. Con Barthes, rileva Donà, è possibile asserire che essa metta in atto: «un’astuta dissociazione della coscienza» (p. 45), disvelante l’istante, nel quale l’immobile non sta al di là del mobile. La “scrittura di luce” fissa l’attimo per mostrare ciò che, ogni reale, pare non voler far trasparire da sé: il medesimo, il “permanente” che lo anima, il “non”: «che nel presente, è sempre o già passato o ancora futuro, il “non” che non c’è mai» (p. 54).  Un attimo inafferrabile tanto per il nous quanto per i sensi. L’arte fotografica, come qualsivoglia arte autentica, s-determina gli enti dalla cosalità che pur li costituisce e coglie: «il distinguersi del non-distinto» (p. 59).
  • ...
  • Il mistero della fotografia è strettamente connesso al misterium vitae, ha a che fare con il sogno di una possibile eternità (aion) che non è altra dal tempo, ma che si dà nel kairos. La macchina fotografica è strumento magico che sottrae, fotografo e fruitore, alle logiche della significazione concettuale e distinguente: le immagini che essa produce sono foto-fanìe (l’espressione è di Zannier), che alludono e accompagnano verso l’invisibile fantasma della vita. Ciò che realmente desideriamo, ben lo seppe Leopardi, non è una “determinatezza”, aneliamo l’infinito. Ci disperiamo, come Narciso che non riuscì, secondo il mito, a possedere la sua immagine riflessa nello specchio d’acqua, perché non sappiamo che quell’infinito non è un altro, è in noi. Siamo divini ab origine.  La fotografia insegna a non sperare e a non disperare, a uscire dagli steccati logici e finalistici istituiti dal soggetto. I fotogrammi, nel loro significato profondo, alludono all’aporia della vita: inducono, pertanto, a vivere in dimensione “euforica”, consentono, quantomeno, come le altre produzioni artistiche, di “ben sopportare” il gioco caleidoscopico nel quale siamo avviluppati.  Non è poca cosa…

  • Schilling

  • Storia delle idee politiche e sociali
  • Un saggio di
  • Kurt Schilling
  •  rec. di
  • Giovanni Sessa
  •  
  • Kurt Schilling è stato, a muovere dalla fine degli anni Venti del secolo scorso, studioso e accademico tedesco che godette di notorietà internazionale. I suoi interessi, vastissimi e pluridisciplinari, spaziavano dalla filosofia aristotelica a quella hegeliana ed ebbero il loro nucleo vitale nella discussone critica dell’idea di Stato. Tra il 1939 e il 1941 fu docente all’Università di Praga. Assunse, nel 1939, la Direzione dell’Ufficio per l’insegnamento e la ricerca dell’Ahnenerbe. Nonostante ciò, al termine del Secondo conflitto, in forza degli indubbi meriti scientifici del suo lavoro, tornò ad insegnare a Monaco di Baviera, sua città natale (1899). Si spense in un paesino delle Alpi bavaresi, dove si era recato in cerca di silenzio e pace, nel 1977. È nelle librerie, per i tipi di Oaks editrice, la sua opera capitale, Storia delle idee politiche e sociali, ottimamente prefata da Nuccio D’Anna (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 396, euro 25,00).
  • ...
  • L’impianto teorico del volume mostra l’adesione dello studioso alla sociologia di Tönnies, secondo la quale l’aggregazione sociale comunitaria sarebbe altro da quella societaria. La prima si fonda su un corpo sociale ordinato sulla base di vincoli originari e solidi, che danno luogo a una configurazione unitaria, organica e gerarchia. La “società”, di contro, è corpo sociale strutturato sulla fluidità e i vincoli che, in essa, legano tra loro gli uomini hanno tratto utilitaristico e instabile. La “società” è regno dell’atomismo sociale. Muovendo da tale premessa generale, Schilling, nell’incipit delle proprie analisi, si intrattiene sui gruppi umani del paleolitico, primo esempio di “comunità”: «Attorno al capo-sciamano si ordinava tutto un organismo che […] trovava nelle caverne riccamente pitturate […] il luogo ideale per i complessi rituali che intendevano trasfigurare l’esistenza in un riflesso dell’ordine divino», rileva D’Anna.
  • ...
  • Momento dirimente dell’esegesi dello studioso tedesco è da individuarsi nel paragrafo dedicato alla discussione delle idee politiche dell’antica Cina. Se la storia arcaica cinese era stata dominata dal sacerdote-sciamano, a muovere dalla dinastia Shang l’Imperatore divenne il centro della vita del popolo. L’idea di Stato che, in tal modo, si afferma: «per la sua essenza è cosmica [...] nata dal legame con la natura […] che ha le proprie radici nell’agricoltura, nella venerazione degli antenati e nell’osservazione del cielo».
  • ...
  • In India, il riferimento alla tradizione sacrale delle origini rappresentò il vero legame che seppe unificare una realtà linguistica ed etnica assai composita. L’indagine di Schilling, attenta al lascito socio-politico di tale civiltà, perde di vista il ruolo essenziale che in essa svolse l’afflato al divino, animante tanto gli appartenenti alle caste “alte”, quanto i rappresentanti delle ultime. Di maggior rilievo teorico, oltre che filologicamente più corretta, è la lettura della pólis ellenica. In essa, la libertà fu non semplicemente modus essendi dei singoli cittadini, ma portato della stessa vita politica. Il nostro Autore individua nell’irruzione della sofistica l’inizio della decadenza greca. A essa rispose, in modalità forte Platone che, sostiene il tedesco, fece dell’ordine politico della Politéia il risultato del “cambio di cuore” dei cittadini. Questi, in forza di un’opportuna paideia, avrebbero potuto far fronte al nósos, malattia esistenziale-spirituale dell’epoca, recuperando il perduto ordine interiore. L’esegesi del cristianesimo, ci permettiamo di rilevare, assume in Schilling, valenza tradizionale.  Agostino nel De civitate Dei avvertì l’urgenza, in quel frangente storico di passaggio, di: «instaurare una nuova “forma” politica che doveva sostituire le vestigia svuotate del vecchio Impero».
  • ...
  • In tale processo di cristianizzazione della romanità, altro momento dirimente è rappresentato dall’incoronazione di Carlo Magno. Il Sacro Romano Impero armonizzò l’ordinamento giuridico romano, germanico e cristiano, dando vita a un corpo statuale fortemente impregnato di riferimenti religiosi e sacrali: «Con l’idea del Cristo-Re si colma l’abisso tra l’aldiqua e l’aldilà», l’Impero fu vera e propria “religione regale”, della quale Melkitsedek è simbolo. Con il luteranesimo ma, soprattutto, con il calvinismo, tale ordine si dissolse. Schilling, in sequela di un numero considerevole di autori, considera il protestantesimo calvinista, che fece del successo terreno segno tangibile d’elezione divina, anima del capitalismo. Sulla sua scorta, tra i secoli XVI e XVIII, molti filosofi pensarono in termini utopistici, costruirono a tavolino società immaginarie improbabili, mentre Bodin e Machiavelli elaborarono una “quasi-dottrina” dell’assolutismo, nel tentativo di dare stabilità all’ordine politico-sociale. Inoltre, il liberalismo “riformatore” di Locke e Montesquieu, presto sarebbero stato travolto dal radicalismo rivoluzionario del 1789.
  • ...
  • L’anima giacobina di quest’ultimo fu incubatrice dei tentativi di correzione del capitalismo perpetrati dapprima dal “socialismo utopistico” e poi da quello “scientifico-marxista”, tentativi che, in realtà, condividevano con il capitalismo il medesimo orizzonte di pensiero immanentista e materialista.  Nietzsche, sostiene Schilling, fu profeta dell’età del nichilismo dispiegato, pur ritenendo ancora possibile una correzione dei processi storici in corso nella seconda metà del secolo XIX. Le tesi espresse in, Storia delle idee politiche e sociali, sono certamente interessanti. Almeno su alcune di esse è però possibile dissentire. La sofistica, ad esempio, non fu semplicemente latrice di una visione sovversiva dei valori tradizionali: al contrario, molte sue posizioni rinviano, al di là delle esegesi scolastiche, alla chiara volontà di preservare il misterium vitae. Ancora, le posizioni degli “utopisti” rinascimentali sono molto diverse tra loro, Moro e Bacone non dicono affatto il medesimo. L’ “ironia” del primo ha a che fare con l’"utopia" classica, non con l’"utopismo" modernamente inteso. Siamo, da ultimo, così certi che il Sacro Romano Impero sia stato davvero, per così dire, “custode del Graal”?  Non sopravvivevano forse altrettante eredità tradizionali a Bisanzio? I nostri dubbi non fanno che confermare l’importanza del volume.   Un libro è valido quando fa pensare e discutere.

  • DEMOCRAZIE APERTE O CHIUSE? 
  • di 
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Occorre dedicare attenzione, a seguito del noto rapporto dei servizi segreti tedeschi sull’affidabilità democratica e ai principi dello Stato di diritto dell’AFD; partito il quale, a leggere i sondaggi, sarebbe ormai quello primo nel consenso degli elettori tedeschi.
  • ...
  • La Costituzione tedesca (Grundgesetz) all’art. 21, II comma, dispone che sull’incostituzionalità dei partiti decide la Corte Costituzionale, La norma è assai ampia e suscettibile di applicazioni altrettanto late; a tale riguardo è stato sostenuto che quella tedesca sia una democrazia protetta, mentre altri testi costituzionali – come quello italiano – segnatamente con l’art. 49 e la XII disposizione transitoria siano democrazie aperte. In effetti in quella italiana, manca l’indicazione di chi giudica sulla costituzionalità, e il dettato normativo è assai più ristretto. La ragione storica di ciò è spesso ricondotta alla fine della costituzione della Repubblica di Weimar – e al dibattito sviluppatosi anche tra i più eminenti giuristi, in particolare Carl Schmitt e Hans Kelsen – sul più ampio problema di chi dovesse essere il “custode della Costituzione”.
  • ...
  • La costituzione di Weimar fu “abolita” di fatto, approvando la legge “sui pieni poteri” del marzo 1933 con un voto del Reichstag che rispettava la norma (costituzionale) della maggioranza qualificata, indipendentemente da ogni valutazione del contrasto tra i principi e la forma della repubblica e quelli della “modifica” costituzionale approvata che ne erano la negazione.  E’ palese che la costituzionalità dei partiti e di chi li debba giudicare è un aspetto particolare di una tematica che interessa i principali istituti (e concetti) dello Stato moderno: dalla sovranità al potere costituente, dalla democrazia al principio dell’art. 28 della dichiarazione dei diritti dal 1793 (detta giacobina) per cui ogni generazione ha il diritto di modificare e cambiare la propria costituzione. A tal fine occorre che non si frappongano ostacoli, tenuto conto del pensiero di Pareto, alla circolazione delle élite. E considerando anche, come scriveva Hauriou, che l’ordinamento giuridico è sempre in movimento, vuoi per il cambiare delle situazioni come per quello delle opinioni e, anche per questo, il giurista francese riteneva il sistema di Kelsen “statico” (e di conseguenza poco realistico).
  • ...
  • E’ tutt’altro che semplice risolvere le opposizioni concettuali e, quel che più conta, reali (e le loro conseguenze) che si pongono.  La sovranità e non meno il potere costituente sono degli assoluti rispetto alla normativa: e farne dei poteri relativi (cioè limitati) li si nega. La democrazia implica opinioni diverse e per tutti i cittadini uguaglianza di chances nell’accesso al potere; ma se è la Corte costituzionale a decidere cosa bisogna pensare e credere per accedervi, la democrazia se non abolita, ne risulta gravemente azzoppata. Se una comunità vitale è connotata dalla circolazione delle élite, decidere chi possa aspirare (e ottenere) il comando e chi no significa un ordinamento a ZTL, che è poi quello più connaturale al modo di pensare delle élite decadenti, soprattutto in Italia.
  • ...
  • D’altra parte occorre riconoscre che ammettere élite incostituzionali nello spazio pubblico, con la conseguente possibile abolizione totale della costituzione è una contraddizione. Tuttavia è un fatto costantemente ripetutosi nella storia, anzi sotto tale angolo visuale, del tutto normale: la teoria ciclica delle forme politiche lo presupponeva, anzi era la la puntuale rappresentazione di come le opere umane siano transeunti. E le transizioni, come scriveva Spinoza, non sono mai pacifiche e legali. Cercare di renderle tali è opera meritoria, ma l’esperienza prova che è assai difficile.  Anche perché norme del genere, animate da buone intenzioni, possono essere utilizzate dalle élite decadenti per impedire l’accesso alle nuove. Specie all’ombra della legalità.  Non aveva torto Machiavelli che, nel chiedersi se in una repubblica facessero più danno quelli che vogliono acquistare il potere o quelli che cercano di non perderlo, riteneva che provocassero più tumulti i secondi “il più delle volte sono causati da chi possiede, perché la paura del perdere genera in loro le medesime voglie che sono in quelli che desiderano acquistare” (D, I, V) e, come sempre, non aveva torto.

 

  • IL LUPO E IL CHIODO
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Quanto è accaduto la scorsa settimana tra Germania e Romania, mi ha ricordato un manifesto dei repubblicani francesi dopo la caduta del Secondo impero, quando la Francia doveva ri-decidere se essere una Repubblica o una monarchia. Nel manifesto si vedeva un chiodo con la testa di Marianna (simbolo della Repubblica) piantata nella Francia con sopra un martello che la batteva.
  • ...
  • La relativa didascalia di Alexandre Dumas figlio diceva “Le opinioni sono come i chiodi: più li si colpisce, più li si pianta”. Intendendo così l’effetto contrario alle intenzioni della propaganda monarchica, la quale, demonizzando la repubblica, rafforzava i sentimenti repubblicani.
  • ...
  • Ho l’impressione che tale manifesto sia ignoto alla comunicazione mainstream e in genere ai globalizzatori (aiutantato compreso) perché ogni volta ricadono nel medesimo errore.   Da ultimo proprio in Romania e Germania.
  • In Romania l’eliminazione per via giudiziaria del candidato, di estrema (??) destra ha solo prodotto che nelle rinnovate consultazioni l’estrema destra (cosiddetta dagli esorcisti mainstream) è passata da circa il 23% a oltre il 40% dei voti espressi. In Germania la “ghettizzazione” post-elettorale dell’AFD pare (perché risultante dai sondaggi, sempre opinabili) abbia provocato l’aumento del gradimento di detto partito fino a promuoverlo a primo partito tedesco. Non è dato sapere quanto lucrerà l’AFD dal rapporto negativo dei servizi segreti della Repubblica federale, di cui si discute in questi giorni.  Né se tutto abbia influito sul primo scrutinio (negativo con 18 “franchi tiratori”) per l’elezione di Merz.
  • ...
  • Ma appare chiaro da questo e dalle analoghe vicende in altri paesi che il richiamo dei “poteri costituiti” alla legalità è affetto da costante e persistente “eterogenesi dei fini”, onde, di solito, ottiene l’effetto contrario.  Si ha l’impressione che, per ottenere quello voluto, sarebbe opportuno sostenere che AFD è un partito di democrazia ineccepibile, o che Georgescu è nemico giurato di Putin.  In fondo aveva ragione Giorgia Meloni quando, mesi fa, parlando al Convegno di Atreju disse di aver stappato una bottiglia del vino migliore ascoltando le critiche mossele da Prodi; le quali, alle orecchie della maggioranza degli italiani suonavano come (meritati) complimenti.  Gridare “al lupo, al lupo” in assenza dello stesso è controproducente.
  • ...
  • Si possono enumerare varie ragioni per spiegare la credibilità inversa della propaganda delle élite decadenti.  La prima – e la più ovvia – specie in Italia è che i modesti risultati di quelle ne rendono poco appetibile le soluzioni proposte. Sempre da noi, si aggiunge il fatto che spesso (come per il jobs act) il PD (e non solo) quando sta all’opposizione propone rumorosamente di abrogare qualche riforma o provvedimento fatti stando al governo (e perché li hanno posti in essere o almeno modificati prima?).  La seconda, che ho sottolineato da mesi, è che il tutto può ricondursi a una contrapposizione tra legalità (la quale va dall’alto in basso) e legittimità (che segue il percorso inverso).  La prima è perciò (anche) strumento del comando; l’altra produce obbedienza.  La terza è che, proprio per esercitare ed aver esercitato il potere, la legalità è comune alle élite decadenti, come la legittimità (di solito) alle emergenti.
  • ...
  • E si potrebbe continuare ad enumerare, in particolare, per la Germania dalla normativa sui partiti e su chi decida, di cui all’art. 21 della Grungesetz tedesca e sulle sue implicazioni.  Ma questo un’altra volta.

  • Avanguardie dellorigine

  • "Avanguardie dell’origine"
  • di
  • Autori Vari
  • Potenza e Tecnica
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  •  

  • Usciamo dalla lettura di un volume collettaneo che ci ha fatto pensare. Ci riferiamo a, Avanguardie dell’origine. Idee per una tecnodestra, nelle librerie per i tipi di Polemos editrice (pp. 90, euro 12,00). La silloge raccoglie sette saggi di cui sono autori Adriano Scianca, Carlomanno Adinolfi, Andrea Anselmo, Guido Taietti e Francesco Boco (questi ultimi hanno contribuito alla pubblicazione con due scritti) ed è aperta dalla prefazione di Alberto Brandi. Gli autori condividono delle premesse di fondo. Innanzitutto sono convinti, e noi con loro, che viviamo in un frangente storico nel quale è in gioco il senso profondo della civiltà europea. Chi oggi si dedica al pensiero, deve muovere da una certezza: nell’età iper-industriale si pensa, per dirla con Alain Badiou, “dalla fine” non solo della filosofia, ma di qualsivoglia posizionamento identitario, comunitario dato. L’altra premessa condivisa riguarda l’“inaggirabilità” della Tecnica (l’espressione è del filosofo francese Bernard Stiegler). Dal Gestell è necessario muovere per pensare e agire. Rispetto allo stato presente delle cose, qualsivoglia risposta meramente “conservatrice”, qualsiasi atteggiamento politico animato da nostalgia per il “bel tempo andato”, neo-luddista, risulta inefficace, passivo, in quanto condivide il medesimo orizzonte politico-ideologico della “religione dei diritti”, ennesima variabile degli universalismi progressisti.
  • ...
  • Di contro, se abbiamo ben inteso, i saggi di Avanguardie dell’origine, tendono a una messa in discussione radicale dei presupposti teorici prevalsi nel pensiero europeo attraverso la metafisica a muovere dalla filosofia classica. Essi stanno a monte della visione monocratica, discesa dai monoteismi, fattasi storia in un lungo processo temporale. L’ultimo momento di tale iter è rappresentato dalla governance che pienamente risponde, sotto il profilo politico, ai bisogni del capitalismo cognitivo e computazionale.
  • ...
  • Viviamo ormai virtualmente; l’infosfera creata dal Gestell contemporaneo (di cui si occupano Guido Taietti e Francesco Boco) sta annullando la realtà, le relazioni vere, corporali, che legano gli uomini. L’uscita di sicurezza da tale impasse è individuata dagli autori nel recupero dello spirito europeo: «uno spirito in cui gli opposti si incontrano, in cui la visione di antiche fortezze si sovrappone ad astronavi che si librano nel vuoto interstellare verso nuovi mondi» (p. 8), sostiene Brandi. Tutti i saggi sono animati da tensione archeofuturista che, muovendo dagli assunti del Futurismo italiano, sposa le tesi di Guillaume Faye. Al tema, Andrea Anselmo dedica il suo scritto, incentrato sull’analisi della profondità iniziatica delle pagine di Ernst Jünger, non casualmente autore di Der Arbeiter, per giungere alla proposta trasvalutatrice della Tecnica propria del pensatore francese.
  • ...
  • La medesima direzione ideale la si evince dal contributo di Carlomanno Adinolfi. Questi propone la conciliazione di realtà divergenti, barbarie e civiltà, che sarebbe resa possibile, a suo dire, dal recupero della Tecnica quale archetipo puramente indoeuropeo. E’ l’Eroe, figura negletta dalla cultura dominante, a divenire, in questa prospettiva il nuovo soggetto della storia. Gli Eroi, ben lo seppe Carlyle sono tali quando, nell’agire antiutilitaristico che li induce al sacrificio della vita, non si limitano a rivendicare un passato dato, ma: «la fonte metastorica della nostra identità» (p. 9).
  • ...
  • Il fondamento filosofico di tali tesi va rintracciato nel saggio di Adriano Scianca, Dynamis. Una filosofia delle forze, che apre il volume e ne rappresenta il momento più rilevante. L’autore discute l’asserzione platonica del Sofista, nella quale il filosofo ateniese sostenne l’ente altro non essere che dynamis: «Essere è produrre o patire un effetto, agire o patire […] il reale è una potenza che si esercita producendo effetti» (p. 11). Scianca ha ragione nel sostenere che la dynamis in quanto en-ergheia precede la distinzione di atto e potenza. A sua dire, la traduzione del termine dynamis con “possibilità” e la stessa ontologia aristotelica, nella quale la potenza sarebbe legata, in rapporto costitutivo, con la potenza-di-non, come chiarito da Agamben, avrebbe sterilizzato il senso della dynamis, intesa da Scianca quale forza puramente affermativa. In realtà, la nostra posizione in tema è differente: per uscire dagli esiti della metafisica è esattamente al “possibile” che bisogna guardare. L’origine, per chi scrive, è il sempre possibile: essa si dà, come seppe la filosofia greca inaugurale, solo nella physis.
  • ...
  • Nel suo spazio, gli atti non sono che periechein, “ciò che momentaneamente avvolge” la dynamis mai normabile, come sostennero Andrea Emo e Julius Evola nella loro critica alla linea ermeneutica che, in relazione all’Atto, si è sviluppata con continuità da Aristotele fino a Gentile. Pensare, sic et simpliciter, la dynamis quale “forza affermativa” rischia, a nostro parere, di ricondurre la “filosofia delle forze” nelle braccia del soggettivismo, esito chiarissimo della metafisica. Non è casuale che l’esegesi di Scianca si richiami esplicitamente a Nietzsche, al prospettivismo, sia pure letto in termini nominalistici che, come mostrato da Giampiero Moretti, in Heidelberg romantica, indica, con tutta evidenza, come il grande pensatore tedesco, con la teorizzazione della volontà di potenza, sia stato l’ultimo metafisico. Lo stesso Heidegger era di questo avviso. Per uscire dalla metafisica, e recuperare, stante la lezione in tema di Löwith, la physis-mixis quale unica trascendenza cui guardare, è necessario salvare quel “non-potere” della dynamis che vige sempre negli atti. Essi altro non sono che il momentaneo positivizzarsi di una negazione originaria.
  • La Tecnica moderna è altro dalla technè ellenica. Se l’ambito della prima è inaggirabile e, con essa, è giusto fare politicamente i conti, è necessario riconciliare Orfeo e Prometeo, non assolutizzare uno dei due termini. Il prometeismo, lasciato a se stesso, non tiene in alcun conto il limite greco segnato dalla physis, che impedisce qualsivoglia possibile ibridazione trans-umanista. Detto questo, sia pure nei termini rapsodici che una recensione impone, condividiamo con Scianca la necessità di uscire dai dualismi di mondo e sovramondo, di essenza e di esistenza, di corpo e anima in quanto: «La filosofia delle forze è […] un pensiero dell’immanenza, dell’immediatezza, della pienezza» (p. 15) e non può per questo essere pensata in termini assiologici. Per noi resta centrale il superamento della dicotomia essere-nulla. Quest’ultimo, il principio, il nulla-di-ente, la libertà-potenza, si dà solo come essere nell’eterna metamorfosi della physis.
  • ...
  • Di là dalle divergenze interpretative siamo grati agli autori di, Avanguardie dell’origine, per aver presentato tematiche cruciali, sotto il profilo teorico e pratico, che dovrebbero essere, per questo, discusse in spazi diversi da quelli di una semplice recensione.

  • Pupo

  • La destra e lo Stato
  • Un saggio di
  • Spartaco Pupo
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  •  

  • Spartaco Pupo è studioso davvero prolifico. È nelle librerie la sua ultima fatica, La destra e lo Stato. Storia di una cultura dal primo Novecento a oggi, comparsa nel catalogo di Eclettica Edizioni (per ordini: 0585/1817914, info@ecletticaedizioni.com, pp. 293, euro 16,00). Si tratta di un saggio di grande rilievo nel quale l’autore conferma di essere uno degli intellettuali più rappresentativi del conservatorismo italiano. Nelle sue pagine mostra, con persuasività d’accenti, con ampia conoscenza delle fonti e acribia esegetica, che il vituperato (dalla vigente cultura mainstream) stato nazionale: «sintesi insuperata tra la dimensione burocratico-amministrativa e quella spirituale-culturale» (p. 5), non è affatto un riferimento politico superato, fuori dalla storia dell’età della globalizzazione ma, al contrario, risulta essenziale per uscire dallo stato presente delle cose. La fiducia in tale istituzione, ricorda Pupo, ha fortemente segnato di sé il patrimonio ideale della destra italiana a muovere dal post-fascismo del MSI ed, per tal via, giunto a Fratelli d’Italia.
  • ...
  • L’approccio metodologico seguito dallo studioso, se abbiamo ben inteso, è quello proprio della “Storia delle idee”, mirato a registrare non solo l’elaborazione dottrinaria di filosofi e politologi, ma attento all’interazione di quest’ultima con la concreta azione politica esercitata, nelle diverse fasi della sua storia, dalla destra italiana. L’incipit del volume rappresenta la pars destruens delle intenzioni teoriche di Pupo. L’autore chiarisce l’inanità delle tesi universaliste marxiste e liberali, in un confronto serrato con le divergenti posizioni sovraniste. Le stesse tesi cattoliche, in particolare quelle di Sturzo, che parlò di Stato sussidiario, nel quale si realizzerebbe il primato della persona, sono ricondotte da Pupo, con pertinenza argomentativa, alla loro matrice liberale, all’idea di Stato minimo. Infine, l’istanza federalista è esperita quale esempio di “decentrismo”, di effettiva perdita della sovranità da parte dell’istituto statuale. Oggi, il grande nemico dello Stato nazionale, ricorda il Nostro autore, è rappresentato dal cosmopolitismo dei diritti, dalla cultura Woke, neganti qualsivoglia appartenenza identitaria.
  • ...
  • Nella parte successiva del testo, Pupo presenta, in termini organici, il tema della difesa dello Stato nazionale in pensatori e giuristi che furono vicini al fascismo. Tra gli altri, Rocco, Costamagna, Evola, Maraviglia. La Statologia di Rocco diede: «impulso alla difesa morale dello Stato […] in grado di guidare la società italiana nella lotta contro ogni nemico» (p. 50), interno ed esterno. Posizione, quella del giurista, che guardava alla “solidarietà nazionale” che, al di là degli egoismi di classe, avrebbe dovuto esser perseguita dallo Stato corporativo. In quel particolare frangente storico, il Codice Rocco rappresentò: «lo strumento principe della civilizzazione statuale della società italiana» (p. 52). Costamagna, a sua volta, si fece latore di una scienza della politica atta a mettere in scacco la visione meramente giuridica dello Stato e, per questo, capace di porsi quale: «disciplina regolatrice di tutte le materie che avevano a cuore lo studio dell’uomo nella sua attività teoretica e pratica e rivendicavano quella “funzione direttiva” da sempre esercitata dalla teologia» (p. 59). Sulla scorta di tali acquisizioni teoriche, lo stesso Evola, aristotelicamente, riconobbe allo Stato la funzione di “forma” rispetto alla materia-nazione, oltre qualsivoglia nazionalismo etnico. Lo Stato di Evola si configura quale “organismo spiritualizzato” mirante all’Imperium, sintesi di potere regale e sacerdotale: «Evola ripone tutte le sue speranze in uno Stato che non dovrà procedere da alcun elemento “inferiore” per trovare la sua ragion d’essere esclusivamente in principi superiori, spirituali, metafisici» (p. 63). Del resto, anche per Maraviglia: «Solo lo Stato era (sarebbe stato) in grado di esprimere la volontà piena e complessiva della Nazione» (p. 79).
  • ...
  • Capitolo dirimete, attraversato da evidente empatia dell’autore per le tesi espresse dal filosofo, è quello dedicato al pensiero politico di Gentile. Questi era fermamente convinto di una cosa: ciò che realmente stava a cuore al fascismo era l’idea di una “grande Italia”. Per il teorico dell’attualismo lo Stato: «ha un valore assoluto […] fa “uomo l’ uomo” […] è vita di uomini, vita spirituale: e questa vita non è dato concepirla se non come devozione assoluta a un’idea» (p. 98). Lo Stato vive nel nostro foro interiore, in interiore homine. Qui rinveniamo il “Noi”, la nostra appartenenza comunitaria, il nostro esser parte di una storia, di una tradizione, di un destino comune. Per questo, la libertà vive in simbiosi con l’autorità statuale in quanto: «non esiste uno Stato esterno all’individuo, né un individuo esterno allo Stato» (p. 100) e ancora: «la res publica “prima di tutto” è per l’individuo sua propria res» (p. 105). Non dissimile, ricorda Pupo, la posizione di Pound. Il poeta sostenne che Mussolini sarebbe stato l’artifex di una nuova fase della civiltà, oltre l’individualismo finanziario-usuraio, nella quale, ruolo di primo piano, avrebbero avuto i produttori, gli artisti e i creatori di idee.
  • ...
  • Tale patrimonio ideale si irradiò dalla RSI ai protagonisti della vita politica del MSI, il cui dibattito interno l’autore analizza minutamente, e di lì giunse alle formazioni partitiche successive della destra italiana. Particolarmente significative, oltre che eticamente edificanti, sono le pagine dedicate al giudice Borsellino e alla sua nobile difesa dello Stato. Questi: «ebbe a rimarcare la necessità di “un profondo rinnovamento delle istituzioni e della politica” […] accompagnato da un impegno culturale diretto alla valorizzazione del ruolo delle istituzioni pubbliche» (p. 180). Il magistrato siciliano pagò questo suo impegno, proprio come Gentile, con il sacrificio della vita. Nel 1994, con la vittoria elettorale del centro-destra, si riaccesero le speranze in una ripresa della tradizione politica statualista. Esse andarono presto deluse: «Berlusconi […] contribuì in prima persona alla frantumazione del progetto da lui stesso creato» (p. 223). Nella attuale congerie storica, ci si attende che la destra di governo sappia far valere la nostra sovranità nazionale.
  • ...
  • Pupo, in tema, è probabilmente più ottimista di chi scrive. A noi pare che la politica estera, ma non solo, del governo in carica, smentisca tale aspettativa. Nonostante ciò, La destra e lo Stato è libro importante per la sua puntuale ricostruzione storico-teorica e per la proposta politica in essa implicita. Ci auguriamo, pertanto, che la sua lettura riapra, finalmente, il dibattito politico a destra…

  • Rivoluzionarie

  • "Rivoluzionarie"
  • Storie di grandi italiane
  • di
  • Emanuele Ricucci
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  •  
  • Emanuele Ricucci è giornalista e saggista. Non ancora quarantenne, ha già firmato un numero considerevole di volumi. È nelle librerie, per i tipi delle Edizioni Archeoares, la sua ultima fatica, Rivoluzionarie. Storie di grandi donne per una grande Italia. Il volume è arricchito dalla prefazione di Lucia Esposito (pp. 121, euro 13,00). Si tratta di un testo controcorrente, al centro del quale stanno sette figure femminili, meglio, sette straordinarie italiane. Di alcune di esse, la vulgata storiografica vigente ha sottaciuto il valore del contributo fornito in momenti dirimenti della storia d’Italia, di altre, invece, non sempre ha riconosciuto il tratto innovatore e rivoluzionario. Badi il lettore, il testo di Ricucci non è un lavoro meramente storiografico. Le pagine di Rivoluzionarie, infatti, attraverso la ricostruzione cronachistica delle vicende nelle quali queste donne furono implicate, entrano nelle vive cose del loro vissuto quotidiano, interrogando in profondità l’animo femminile connotato da naturale capacità euforizzante. Utilizziamo questo aggettivo nel senso greco: esso rinvia al “ben sopportare” i dolori e i drammi dell’esistenza, a vivere “serenamente”, anche in contingenze avverse, la tragicità della vita, tratto connotante ontologicamente il “femminile”.
  • ...
  • Dalla lettura del volume si evince la non comune qualità affabulatoria della prosa di Ricucci. Essa è risultato dell’empatia con la quale l’autore presenta la grandezza, tutta italiana, delle sette protagoniste del narrato. Lo fa in modalità, in un certo qual modo, diaristica, intima, ma tenendo in debito conto la bibliografia storico-critica prodotta in tema, presentando bervi spaccati della storia d’Italia dell’età nella quale le protagoniste vissero. Il primo “medaglione” è dedicato a Marzia degli Ubaldini che, nel 1300, combatté per difendere Cesana dall’assedio delle truppe pontificie. Lo fece a tutela dello Stato retto dal marito, Francesco degli Oderlaffi, signore di Forlì e Cesena. Marzia fu sollecitata all’azione da questa pressante domanda: «Patria, casa della vita che non può essere ceduta. Come si può concedere l’albergo naturale, come si può permettere l’abuso del ventre materno?» (p. 19). Il suo coraggio risulta simile alla potenza dello zefiro primaverile, atto a rinnovare ciclicamente la vita. Del resto, la donna era sostenuta, come si evince dal nome Marzia, dal dio della guerra e, allo stesso tempo, dall’Amore che discese su di Lei della divina Venere. Quella di Marzia degli Ubaldini fu femminilità votata alla grandezza.
  • ...
  • Non dissimile fu l’azione realizzata a Firenze da Anna Maria Luisa de’ Medici, ultima discendente della dinastia che a Careggi permise il costituirsi dell’Accademia neo-platonica. Questa donna firmò la “Convenzione del 1737” sottoscritta anche dai nuovi Signori di Toscana, i Lorena, con i quali: «dispose che tutte le collezioni dei Medici restassero a Firenze» (p.10), realizzando un: «atto di materna cura per la futura memoria d’Italia» (p. 31). Mise in salvo, in tal modo, il Genius loci della città di Dante, Firenze, la “sempre fiorente”, per determinare un Nuovo inizio della sua storia e di quella d’Italia. Ricucci, inoltre, nelle pagine del libro, ridà vita alla nobile figura di Elena Lucrezia Cornero Piscopia e alle travagliate vicende che la condussero a diventare prima donna laureata al mondo. Ai dinieghi iniziali delle autorità accademiche e della cultura del tempo, rispose con affermazione volitiva, riuscendo nel proprio intento. Chiosa l’autore: «Siamo di fronte a un confine mai valicato prima» (p. 49), da una donna. Properzia de’ Rossi, in piena Rinascenza fu, invece, latrice di un primato diverso, fu prima scultrice italiana a essere ammessa a partecipare ai lavori della cattedrale di San Petronio a Bologna, tanto da venir ricordata da Giorgio Vasari ne, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architetti.
  • ...
  • Francesca Caccini, fu, fin da afnciulla, di eccellente e polivalente ingegno, poetessa che versificava in latino, virtuosa del liuto, del clarinetto e del clavicembalo, si adoperò, perfino, per l’apertura di una scuola di canto: «Per questo concepire e realizzar profondamente il processo che conduce, […] a una coltivazione interiore, che si esprime anche attraverso l’arte» conseguì: «il più potente antidoto alla finitezza, all’(in)utilità d’aver vissuto» (pp. 75-76). Al suo fianco, per meriti artistici, va posta Sofonisba Anguissola. Pittrice attenta ai dettagli, nei suoi ritratti mise un luce un’attenzione psicologica non comune per gli stati d’animo dei personaggi rappresentati su tela e, per tale ragione, fu ammirata nelle corti d’Europa. La donna fu: «Di sicuro […] un raggio di luce dell’arte che trova traduzione in ogni tempo […] il cui frutto non si decompone con l’artista» (p. 108).
  • ...
  • Infine, ma non ultima, Matilde Serao. Nacque alla fine dell’Ottocento ma, per sensibilità, è, di fatto, nostra contemporanea. Fondò e diresse un quotidiano. Figlia di un italiano e di una greca, nutrì profonda ammirazione per la civiltà mediterranea. Chiosa l’autore: «È figlia del contrasto e del lungo orizzonte del mare nostrum, che offre sempre la speranza di un nuovo viaggio, di un rinnovato inizio» (p. 94). Si convertì al cattolicesimo nel 1872, fu candidata, in più occasioni, al Premio Nobel, ed ebbe in spregio, da donna realizzata qual’era, le prime avvisaglie del montante femminismo. I sette “medaglioni” raccolti da Ricucci in, Rivoluzionarie, mostrano, nell’analisi del femminile, un incontestabile primato italiano, che fa mostra di sé anche oggi oltre gli steccati eretti della cultura mainstream dominante.

  • gliannidellaquila

  • Gli Anni dell’Aquila
  • Cronache dell’UR-Fascismo 1922-2422
  • di
  • Errico Passaro
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  •  

  • È nelle librerie, per i tipi delle Edizioni Tabula Fati, un volume di Errico Passaro, Gli Anni dell’Aquila. Cronache dell’UR-Fascismo 1922-2422, che vivamente consigliamo a chi ci legge (per ordini: edizionitabulafati@yahoo.it, 335/6499393, pp. 188, euro 14,00). L’autore è stato uno dei più rilevanti narratori italiani degli ultimi decenni, con riferimento al genere letterario del fantastico, del fantascientifico e poliziesco.
  • ...
  • Gianfranco de Turris, che in questo ambito, è autorità riconosciuta oltre che generoso promotore di scrittori ai loro esordi, nella Presentazione ricorda di aver compreso immediatamente, al momento della prima lettura di un testo di Passaro, le sue qualità creative e scrittorie. Errico, prematuramente scomparso nel 2023, viene definito da de Turris, in forza della professione delle Armi da questi svolta, scelta per vocazione dopo gli studi in Giurisprudenza, “il Colonnello della fantascienza”. Ne ricorda, con evidente commozione, il tratto signorile e discreto cui si mantenne fedele fino agli ultimi giorni di vita, nonostante patisse il dramma della malattia. La conoscenza e frequentazione tra i due ebbe inizio durante un’edizione del Premio Tolkien, evento culturale attraverso il quale venne finalmente sdoganato dalla marginalizzazione il genere Fantasy.
  • ...
  • Inizialmente, il libro avrebbe dovuto intitolarsi, Cronache del Quinto Stato, ma a seguito della pubblicazione, nel 1995, del noto saggio di Umberto Eco, Totalitarsimo “fuzzy” e Ur-fascismo, assunse fin dalla prima edizione del 1996 (Settimo Sigillo), il titolo attuale. Intenzione dichiarata di Passaro è quella di ribaltare le quattordici caratteristiche tipiche e negative che il semiologo piemontese attribuiva al fascismo, in altrettanti aspetti positivi. In particolare, l’autore afferma che: «L’Utopia non è patrimonio inalienabile della Sinistra, che la Destra ha da dire la sua in merito» (p. 18). La storia, infatti, non è riducibile, se di essa si vuol fare strumento per la comprensione profonda della vita, a mera accumulazione di dati, come nell’accezione positivista e critico-accademica di tale disciplina. In essa palpita il regno del possibile, connotato dalla possibilità dell’impossibile, come ebbe a riconoscere il filosofo Adriano Tilgher. Il passato, custodisce, come seppe Walter Benjamin, qualcosa di non-espresso pienamente che il pensatore tedesco definì l’immemoriale, scintilla che può sempre essere accesa nel presente esposto sul futuro, in una connessione estatica delle tre dimensioni della temporalità.
  • ...
  • Con Gli Anni dell’Aquila, Passaro destruttura il feticismo del “fatto compiuto”. Lo fa servendosi, come ricorda de Turris, delle tesi di Toynbee della “sfida e risposta”. Nello specifico, poiché il tema trattato è quello del fascismo visto in uno sviluppo di cinquecento anni, dal 1922 giunge al 2422, l’autore sostiene tale movimento politico essere aperto, di fronte a ogni crisi indotta dal cadere preda del burocratismo e della routine partitocratica, a continui cambiamenti e metamorfosi. Esse sono, in qualche modo, il risultato dell’adesione piena all’idea di Tradizione. Nel suo etimo, tale espressione rinvia a “trasmissione” e, al contempo, a “tradimento”. Trasmissione dell’originario e dell’essenziale, tradimento di ciò che in esso è accessorio e transeunte. Si tratta dell’applicazione alla storia del fascismo, se abbiamo ben inteso, dell’idea evoliana di individuo assoluto, uomo sciolto, svincolato perfino da sé, sempre aperto all’incipit vita nova. La vicenda narrata si sviluppa in cinque episodi. Nel primo, ambientato nel 1922, il fascismo giunge al potere guidato da Gabriele D’Annunzio e non da Mussolini. Un movimento, quindi, animato da volontà realmente rivoluzionaria, nel quale l’aristocrazia creatrice degli artisti, poundianamente, avrebbe realizzato una gerarchia dello spirito mirata alla giustizia sociale.
  • ...
  • Nel secondo episodio viene presentata la ribellione rinnovatrice dei seguaci del Duce, mentre, nel terzo capitolo, viene narrata la rivolta simbolica dei tradizionalisti e di Evola. Nel quarto, di contro, si dice del confronto del regime con il conflitto nucleare potenzialmente catastrofico mentre, nell’ultimo episodio, si racconta, addirittura, del confronto con gli alieni e della loro critica alle ideologie terrestri. In tali fantastiche contingenze storico-politiche, il fascismo di Passaro seppe rinnovarsi, seppe sempre porsi oltre le ossificazioni sistemiche che avevano paralizzato la sua “artecrazia”. Simbolo di tale volontà metamorfica è l’Aquila coronata dannunziana, che fa la comparsa nella chiusa del volume, stringendo: «tra gli artigli la spada fiammeggiante di Evola e il fascio» (pp. 13-14).
  • ...
  • Soffermiamoci sul terzo capitolo, dedicato alla rivolta simbolica dei tradizionalisti. Il tentativo di rivolta è narrato attraverso il diario degli eventi steso da Evola stesso a partire dal 1 febbraio 1982 (è noto che il tradizionalista morì nel 1974). Il filosofo, si dice, beneficiava, nel suo eremo alpino, pur essendo anziano, di piena Salus, fisica e spirituale. Gli emissari di un fantomatico Ordine, organizzato in cellule nelle città italiane, lo arruolarono tra le proprie file al fine di rettificare in “senso tradizionale”, con un’azione politica, il regime in fase di decadenza. Pur nutrendo dei dubbi, Evola accettò la sfida e si impegnò nella lotta. Il diario è una sorta di analisi psicologica di questa scelta del pensatore che incorse in un attentato, dovuto al frazionamento interno dell’Ordine. I cospiratori, alla fine, nel tentativo di prendere Roma, furono sconfitti ed Evola venne condotto in carcere: «La propaganda del fascismo regime è entrata in azione e ha seppellito la verità sotto un mucchio di veline» (p. 115). Nonostante ciò, l’azione ebbe comunque un senso, almeno simbolico: «In un futuro nemmeno troppo lontano, qualcuno riprenderà la nostra battaglia […] vincendola» (p. 116).
  • ...
  • In queste pagine, Passaro mostra di essere scrittore di vaglia, la sua prosa è connotata dalla: «vividezza del romanziere» (p. 14), supportata da passione ideale. Il volume, inoltre, non è frutto solo di ipotetica ricostruzione fantastica: l’autore mostra di conoscere la bibliografia critica più accreditata in merito alla storia del fascismo, non casualmente posta alla fine di ogni capitolo. Passaro, nonostante la prematura scomparsa, come mostrano le pagine de, Gli Anni dell’Aquila, è scrittore vero, per alcuni ancora da scoprire, per altri da ri-scoprire.

  • Talmon le origini della democrazia totalitaria JPEG 2

  • Jacob L. Talmon
  • Le origini della democrazia totalitaria,
  • (Il Mulino 2024, pp. 448, € 18,00, Presentazione di C. Galli)
  • rec. di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Una nuova edizione del saggio di Talmon è proposta dal Mulino con la presentazione (aggiornata) di Carlo Galli. Scrive il presentatore “Quando, nel 1951, Jacob Talmon concludeva la stesura del suo libro su Le origini della democrazia totalitaria la cultura occidentale – in quasi tutte le sue accezioni e declinazioni – si stava interrogando su che cosa avesse determinato il totalitarismo fascista e comunista”. Molti intellettuali si chiedevano come il razionalismo, connotato peculiare della modernità “si fosse rovesciato nelle tenebre di Hitler e di Stalin”. La tragedia era imputata alle ragioni più varie.
  • ...
  • A tale temperie appartiene anche l’opera di Talmon, secondo il quale “Il libro è dedicato alla formazione della religione, e del mito, del messianismo politico rivoluzionario e del millenarismo nella filosofia illuministica del Settecento”. Dopo essersi manifestato nella rivoluzione francese il messianismo, ispiratore anche della Comune di Parigi, emigrava ad oriente nella Russia e nella rivoluzione bolscevica. Talmon ritiene che tratto principale ne sia “il postulato di un sistema sociale unico basato sulla soddisfazione uguale e completa dei bisogni umani come programma di azione politica immediata. La giustificazione economica o la definizione di questo postulato è una questione di secondaria importanza”.
  • ...
  • Babeuf l’aveva immaginato oltre un secolo prima, nel sostenere che così si sarebbe razionalizzata al massimo produzione e distribuzione. Il che implica anche l’abolizione della proprietà privata (e altro). Scrive Galli che “Questo libro è dunque costruito su di un disegno unitario: secondo Talmon c’è un’obiettiva evoluzione della fede politica negli ultimi due secoli, dal postulato dell’armonia etica all’obiettivo dell’uguaglianza economica e della felicità universale”, e i fondamenti hanno più a che fare con l’armamentario dell’illuminismo, in particolare con la virtù, principio politico secondo Montesquieu della democrazia, onde dev’essere, se insufficiente, imposta.
  • ...
  • Nella nota aggiunta a questa edizione, Galli ritiene che “il rovesciarsi della democrazia in dominio, è nel frattempo emerso come rischio immanente non solo allo Stato sociale ma anche alle cosiddette «società aperte» che lo hanno (parzialmente) sostituito e che all’individuo, ai suoi diritti e al suo libero agire economico, affidano il compito di evitare gli effetti totalitari della politica”; infatti anche tale ordine “pretende apertamente di costituire una totalità omogenea, priva di alternative – peraltro non certo immune dalle logiche più dure della politica”.
  • ...
  • In conclusione il messianismo politico e la di esso compagna inseparabile, cioè l’eterogenesi dei fini può trovare la principale spiegazione nel rapporto tra immaginazione e realtà. Il messianismo si nutre della prima, ma finisce per essere succube della seconda. La quale recupera, trasformandone i risultati, che confermano le regolarità e i presupposti del politico. Questo a meno che, come scriveva Gaetano Mosca, certe costruzioni siano non “sogni di uno sciocco”, ma furberie da ipocriti. Come spesso succede.

 

  • Eredità eretiche

  • "Eredità eretiche"
  • Una raccolta di pensieri di
  • Alter Spirito
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  •  
  • Alter Spirito è autore noto per avere dato alle stampe, negli ultimi vent’anni, diverse sillogi poetiche. Badi il lettore, la sua formazione e la stessa ispirazione di fondo che muove i suoi scritti sono di natura filosofica. Lo si evince, in tutta evidenza, dalla sua ultima fatica, Eredità eretiche. Saggio erratico sulle offese del contemporaneo, nelle librerie per i tipi di Ortica Editrice (pp. 119, euro 11,00). Un testo che si presenta, a una prima lettura, quale raccolta di pensieri sparsi.
  • ...
  • In realtà, il lettore attento comprende facilmente che, in esso, Spirito enuncia la propria visione del mondo, ruotante attorno a due cardini. Il primo è ben esemplificato dal sottotitolo polemico che rinvia a un antimodernismo, non semplicemente concettuale o teorico, ma esperito e patito in termini esistenziali, nella nuda carne, dallo scrittore. Spirito, attraverso l’espressione scrittoria, mette in atto una disperato, ma potente j’accuse, nei confronti della mestizia spirituale del tempo presente, della post-modernità liquida. Il secondo cardine ideale, quint’essenza della visione dell’autore, è il tragico, grecamente inteso.
  • ...
  • Ricorriamo, al fine di cogliere quello che ci pare, se abbiamo ben inteso, il cuore vitale del libro, all’espressione coniata da Roberto Esposito a proposito di uno dei caratteri dell’Italian Thought, “filosofia della resistenza”. Spirito è, per noi, rappresentante di rilievo di tale “filosofia della resistenza”. Resiste al pensiero dominate e agli idola, oggi virtualmente pervasivi che hanno colonizzato l’immaginario individuale e comunitario. Per questo, come recita il titolo, si pone in sequela di Eredità eretiche, le cui molteplici voci (non solo italiane) animano empaticamente il suo dire: «Ho vissuto e vivo di eredità eretiche. La devianza esistenziale mi appartiene sempre di più» (p. 5). Lo scrittore-filosofo muove dalla constatazione che la tarda modernità, si mostra, innanzitutto, nella fuga dalla Parola, dal Dire originario, indotta dall’oblio dell’Altrove. La “morte di Dio” pare aver insterilito la spinta esistenziale e teoretica a una possibile Persuasione, per questo il dire tragico diviene, nel tempo della post-verità, per chi pensi, come rilevato da Alain Badiou “dalla fine”, esercizio di parresia. Il lettore non è blandito da alcun atteggiamento consolatorio, ma posto, ad occhi aperti e sbarrati, di fronte alla nuda vita, all’ineluttabilità della morte. La morte, la grande esclusa dal banchetto caleidoscopico e abbagliante della modernità volta all’utile, come si evince dal ricordo del dolore indotto nell’autore dalla perdita della madre, cela in sé la possibilità dell’autentico: «Ogni vera autenticità ha sempre il sapore di un fallimento» (p. 8).
  • ...
  • Queste pagine sono scritte da un solitario, da un uomo che si è auto-escluso dal perverso gioco di società che tutto lega e sono attraversate dall’idea umanistica di Malinconia, con tutti i suoi correlati, in particolare la fantasia e l’immaginazione. Esse spingono a contemplare il silenzio del non-detto, custode dell’origine. Tale ascolto, a cui l’udito di Spirito è avvezzo, propizia l’otium, il non-agire: «Limitarsi a contemplare l’essente, anziché, come accade da più di tre secoli, a manipolarlo sottoponendolo alle leggi brutali dello sfruttamento utilitaristico» (p. 11). Per tale esercizio è necessario riscoprire il “foro interiore”, luogo di tutela del “cuore avventuroso” jüngeriano.
  • ...
  • Portare l’attenzione in interiore homine consente il passaggio al “regno dell’inazione” di cui ha detto Musil, baluardo di libertà e di misura nell’età della dismisura imposta dal capitalismo computazionale. Una tesi impolitica, in senso manniano, ma proprio per questo, connotata in termini civili, essendo volta a beneficio del singolo e della polis. Il non-agire fa cadere le barriere dicotomiche e dualiste imposte dal logo-centrismo. Spirito, avendo contezza del proprio cammino esistenziale sostiene: «l’ho solo sfiorata la vita» (p. 14), egli ha vissuto la tentazione di esistere di Cioran.  La scrittura che corrisponde a tale visione delle cose non può che essere: «lacerata, eretica ed urticante, frantumata e discontinua» (p.16). Si tratta della “comunicazione d’esistenza” praticata da Kierkegaard nei Diari, mirata a “prender per il collo” il lettore, a svegliarlo dalla letargia epistemica nella quale vive. Un dire del disinganno che s-determina, come accade nell’arte autentica, mirato a s-mascherare l’io, al fine di far sorgere in noi, limpido e cristallino, il principio che ci anima.
  • ...
  • È il serrato e coraggioso confronto con la lacerazione della vita, con il dolore, a liberarci. Lo seppe Andrea Emo, ricordato dall’autore: per il filosofo veneto il principio è un non orginario che, momentaneamente, si positivizza negli atti aristotelici, negli enti di natura e che tutto pervade.
  • ...
  • Per chi scrive, quindi, l’origine non vive in un Altrove, ma è sempre e solo, qui. Lo intese Giordano Bruno che finì, per questo, sul rogo: vive in noi e nella physis. il problema sul quale Spirito porta l’attenzione è di: «tentare di dire quel (questo) nulla» (p. 109). Solo tale experimentum linguae, stante la lezione di Derrida, può consentire di comprendere che l’aporia non sta nella morte, l’aporia è nella vita, nella sua caotica manifestazione, nel suo darsi. Tale aporia non atterrisce, lo seppe Leopardi, ma euforizza, consente, etimologicamente, di sopportare serenamente la lacerazione, l’assurdo di cui disse Rensi, della nostra ex-sistenza, del nostro esser-gettati nel mondo.
  • ...
  • Pur non conoscendo l’autore, ci sia consentito sostenere che nel suo libro abbiamo riconosciuto la testimonianza, partecipata anche emotivamente, di un “fratello”, di un comes in spirito. Non è poca cosa, nell’in-solitudine nella quale viviamo. Eredità eretiche ci ha permesso di compiere, nell’erranza del vero, come ebbe a scrivere il filosofo politico Gian Franco Lami: «Un passo per la vita, un passo per il pensiero».

  • LA PRASSI DELLA LEGALITÀ CONTRO LA LEGITTIMITÀ
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Non meraviglia che un Tribunale francese abbia condannato Marine Le Pen e, quel che più conta, l’abbia interdetta dal candidarsi alle prossime elezioni. Non sorprende perché il tutto segue un copione ben noto (la cui prova generale fu fatta, in questo secolo, proprio in Italia con la defenestrazione di Berlusconi nel 2011) di estromettere dal potere attraverso decisioni giudiziarie, coloro che con quelle elettorali, cioè democratiche, non lo perderebbero.
  • ...
  • Le prospettive da cui giudicare ciò sono molteplici e sempre concorrenti: dalle regolarità (Miglio) della competizione per il potere alla necessità di una situazione eccezionale, dalla conformità (asserita) a regole inviolabili (la cui origine va dalla divina a scendere) al clamore assorbente della propaganda ad ampio spettro.
  • ...
  • Mi preme evidenziarne due, forse le meno (o punto) ricordate sui media: il conflitto tra legittimità e legalità e il comportamento (ricorrente) delle élite decadenti.
  • ...
  • Quanto al primo problema la distinzione tra legalità e legittimità, a leggere in rete, è normalmente così espressa “La legalità innanzitutto viene definita come la condizione di conformità alla legge e a quanto essa prescrive o vieta. Il termine legalità quindi non può essere riferito ad ogni atto, azione, provvedimento che rispetti la legge in vigore… Lì dove per legalità s’intende la conformità di un atto con l’insieme delle leggi dello Stato, la legittimità sta ad indicare il fondamento stesso del diritto dello Stato, ovvero il criterio a cui si rifà chi detiene il potere di legiferare – cioè il potere di dare forma alla legalità – o eventualmente chi lo contesta”; ovvero “Legalità può sinteticamente significare soggezione alla legge, o anche rispetto della legge. In questa accezione si è parlato, almeno sin dall’Ottocento, di principio di legalità… Legittimità invece significa, piuttosto, conformità ad una legge, cioè corrispondenza di un atto o di un comportamento specifici al modello astratto configurato da una norma di legge”.
  • ...
  • Hasso Hofmann scrive che “Schmitt pone il problema della legittimazione dell’autorità da legittimare con una svolta antitetica rispetto al presunto funzionalismo privo di contenuto della legalità dello Stato di diritto e spinge il concetto di legittimità in una inusuale e provocatoria contrapposizione con il concetto di legalità”. E in effetti il problema del legittimo fondamento del potere si pone dalla constatazione che questo è oggetto di conquista, cioè di un fatto storico, prima che modificazione, anche profonda di norme giuridiche. Per lo più questa è conseguente a quello, e talvolta (poche) non è una reale fine e rinascita dell’ordinamento, ma solo una di esso revisione, ancorché profonda.
  • ...
  • Lassalle descriveva bene questo rapporto tra situazione reale (i “rapporti di forza”) e redazione documentale “Questi effettivi rapporti di forza li si butta su un foglio di carta, si dà loro un’espressione scritta, e, se ora sono stati buttati giu, essi non solo sono rapporti di forza effettivi, ma sono anche diventati, ora, diritto, istituzioni giuridiche, e chi vi oppone resistenza viene punito”.  Ne consegue che giudicare legittimo un ordinamento è confrontare la corrispondenza tra fatti generatori e successivi comportamenti, in primo luogo, quello dei governati, se considerano che chi ha afferrato (e consegnato) il potere abbia il “diritto” di esercitarlo. Come scriveva Santi Romano, un ordinamento così acquista vitalità e durata. Il che non ha nulla a che fare con la legalità, come sopra intesa. Se la storia, come diceva Pareto, è un cimitero di aristocrazie, data la successione di élite, regimi e sintesi politiche, è la legittimità a determinare l’ordine concretamente esistente, e non il legale - raro – avvicendamento tra quelli.  Ciò stante la legalità può essere legalmente utilizzata anche per realizzare fini contrapposti a quelli dell’ordinamento legittimo. Lo teorizzava da rivoluzionario Lenin. Ma il caso più frequente è che se ne serva chi esercita il potere per conservarlo a scapito delle élite emergenti.
  • ...
  • E’ questa la via che vogliono far percorrere le élite europee (ma non solo) in “lista di sbarco”, forse anche nell’inconsapevolezza dei legali estensori delle decisioni relative. I quali possono sempre sostenere di aver osservato la legalità (norme, Stufenbau) cioè di avere il potere di decidere se il candidato rumeno escluso o Marine Le Pen fossero colpevoli dei reati loro ascritti e di averlo legalmente esercitato. Ma la conclusione, con l’interdizione ad esercitare o aspirare al potere politico, grava sull’esito elettorale e sulla legittimità dello stesso. In particolare in una democrazia governa chi è scelto (ha il consenso) dal popolo. Se si impedisce al capo dell’opposizione di presentarsi alle elezioni si annulla la prerogativa del popolo di designare chi governa. Cioè il contenuto essenziale e principale della democrazia politica.
  • ...
  • D’altro canto, soggetti dell’ordinamento internazionale sono coloro che esercitano il potere effettivo e non quelli che hanno diritto ad esercitarlo. Tant’è che persino i movimenti rivoluzionari conquistano una loro soggettività in conseguenza del potere esercitato, anche se in situazioni incerte (e precarie) su popolazione e zone di territorio. Vale sempre il principio generale di Spinoza che tantum juris quantum potentiae; costruire e garantire un ordine senza il potere è impossibile. Una delle conseguenze ne è, per l’appunto che il soggetto in diritto internazionale è colui che, di fatto esercita il potere e non chi ha il titolo legale a detenerlo.  Ciò stante, nella specie, il far confliggere legalità e legittimità è semplice, anche laddove l’uso della legalità non fosse strumentale. Se una corretta decisione giudiziaria consiste in una logica e motivata sussunzione di una fattispecie a una norma, non significa che sia politicamente opportuna e conveniente. Diversamente una decisione politica opportuna e conveniente non significa che sia lecita e conforme a norme (anzi spesso non lo è).
  • ...
  • Quel che però conta di più – ed è un bene in sé – è che questa sia legittima: abbia con ciò il quantum di consenso dei governati necessario a non interrompere il rapporto tra vertice e base, capi e seguito. Proprio quello che manca alle élite decadenti (e alla burocrazia) che perdono consenso e potere.  Lo stesso uso strumentale della legalità è un sintomo di decadenza.
  • ...
  • E con ciò passiamo al secondo tema. Pareto, che considerava regolare il movimento ondulatorio delle comunità, che alternavano periodi di crescita e di decadenza, considerava manifestazioni di declino delle classi dirigenti il richiamarsi a derivazioni (ossia a giustificazioni del potere) miti (umanitarie, buoniste), all’uso prevalente dell’astuzia piuttosto che alla forza, alla chiusura della circolazione delle élite.  In diversa misura e in modi analoghi le élite euroccidentali in decadenza li manifestano tutti: dagli invocati diritti umani, alla “fine della storia”, dalla lotta climatica, ai vaccini, ecc. ecc.
  • ...
  • All’uso strumentale e indiretto delle varie emergenze (virus, clima, guerra) si accompagna la propaganda che talvolta attinge a livelli grotteschi: non ho prove che i Tribunali, da Berlusconi in poi, abbiano fatto un uso strumentale della giustizia, ma è evidente che l’abbiano fatta le élite decadenti (e i loro corifei) ed è altrettanto sicuro che il copione sia stato ripetuto più volte fino alla Le Pen.  Onde pensare che sia voluto e programmato non è da respingere.   Da evitare è l’adeguarvisi.

  • Contributi
    Contributi alla filosofia
  • (Dall’evento)
  • di
  • Heidegger
  • Il  
  • commentario
  • di F. W. von Herrmann
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  •  
  • I Contributi alla filosofia (Dall’evento), per disposizione testamentaria di Heidegger, furono pubblicati in Germania nel 1989, nell’anniversario dei cento anni della sua nascita. Un’opera cruciale, non solo per l’iter teoretico heideggeriano e la comprensione del suo reale ubi consistam, ma, altresì, per la filosofia europea del XX secolo. È nelle librerie, per l’Editrice Scholé (Morcelliana) un volume   di Friedrich-Wilhelm von Herrmann, assistente privato di Heidegger tra il 1971 e il 1976, che fornisce al lettore gli strumenti esegetici per entrare accortamente nelle complesse pagine dei Contributi. Va ricordato che l’autore intrattenne un’assidua frequentazione sia con il filosofo quanto con la sua famiglia, a muovere dal 1961. Il libro cui ci riferiamo si intitola, Contributi alla filosofia (Dall’evento). Un commentario (pp. 270, euro 25,00). Il testo, curato e ottimamente tradotto da Giampiero Arciero, psichiatra e valente studioso del pensatore dell’Essere, è aperto dalla Premessa del prof. Francesco Alfieri, assistente privato di von Herrmann fino alla scomparsa dello studioso e da poco nominato garante scientifico della pubblicazione delle opere di Heidegger presso il gruppo Morcelliana.
  • ...
  • Alfieri ricorda, contestualizzandole, le polemiche intercorse tra gli eredi del filosofo tedesco e Franco Volpi, al momento dell’uscita della sua traduzione italiana dei Contributi. Volpi non avrebbe rispettato, a dire degli eredi, le direttive contrattuali stipulate da Heidegger con l’editore Klostermann, alla luce delle quali i curatori e/o traduttori, nelle postfazioni, non avrebbero dovuto esprimere giudizi sui contenti delle opere del pensatore di Meßkirch, né far riferimento alla sua vita privata. Volpi, al contrario, nella chiusa dello scritto che accompagnava l’edizione italiana dei Contributi, rilevò come, di fatto, in queste pagine, il pensiero del tedesco fosse imploso su se stesso. Fece, inoltre, riferimento a carteggi dai quali emergeva la crisi personale che investì Heidegger negli anni 1936-38. Al di là delle polemiche, ci pare debba essere riconosciuto a Volpi un ruolo di primo piano nella diffusione della filosofia heideggeriana nel nostro paese. Ma veniamo al Commentario di von Herrmann: si tratta di un libro importante, frutto della lettura, lungamente ponderata, del manoscritto dei Contributi. Sintesi, inoltre, dei numerosi colloqui intrattenuti in tema dall’autore con il filosofo stesso, regolarmente trascritti da von Herrmann e divenuti oggetto dei corsi che questi tenne presso l’Università di Friburgo.
  • ...
  • I Beiträge furono redatti tra il 1936 e il 1937: «dopo un lungo lavoro di preparazione iniziato nell’autunno del 1932» (p. 17), e il loro contenuto aleggia su tutte le opere successive del pensatore. Von Herrmann si decise a riordinare il materiale in suo possesso nel 2014, a seguito delle polemiche divampate attorno ai taccuini di Heidegger. Obiettivo perseguito dalle pagine del Commentario, è quello di sottrarre la filosofia del pensatore dell’Essere a fraintendimenti indotti dalla complessità del suo linguaggio. I Contributi hanno, quale incipit, lo scritto “Sguardo preliminare” e sono costituiti da sei “combinazioni”: “La risonanza”; “Il gioco di passaggio”; “Il salto”; “La fondazione”; “I venturi”; “L’ultimo dio”. In quest’ultima “combinazione”: «si completa tematicamente il cammino di configurazione della fuga delle verità dell’Essere» (pp. 17-18). Von Herrmann precisa che il titolo del testo heideggeriano è connotato, nella sua prima parte, da “tratto pubblico”, in quanto nella dimensione pubblica contemporanea, caratterizzata dalla ratio calcolante: «tutte le “parole fondamentali” sono state logorate e il “genuino riferimento” dell’uomo […] “alla parola” è andato distrutto» (p. 22). L’espressione Dall’evento del titolo ha, al contrario, a che fare con la “cosa” del pensiero, con l’epoca: «del passaggio dalla metafisica al pensiero conforme alla storia dell’Essere» (p. 22).
  • ...
  • Si badi, metafisica, in tale contesto, indica il tratto essenziale, a dire di Heidegger, della filosofia europea da Platone a Nietzsche (viva, ancora oggi, nella falsa contrapposizione di analitici e continentali, condividenti il medesimo impianto teoretico). La “domanda guida” della metafisica è stata ed è quella aristotelica: «che cos’è l’ente?». Di contro, la “domanda fondamentale” heideggeriana apre il domandare filosofico non solo all’ente, ma all’essere stesso: «nella sua sveltezza, radura, apertura» (p. 23). Heidegger e von Herrmann, rispettivamente nei Contributi e nel Commentario, si intrattengono sul momento del “passaggio” da una domanda all’altra. In tal modo: «si indica una differenza: è la differenza nel passaggio, tra il pensiero incipiente conforme alla storia dell’Essere e il pensiero venturo conforme alla storia dell’Essere che ha compiuto questo passaggio» (p. 23). Si tratta di un “itinerario” speculativo, di un “tentativo” che guarda ai “venturi”, a un “Altro inizio” della storia e del pensiero europei, intesi: «come ambiti dell’essenziale presentarsi dell’evento» (p. 25).
  • ...
  • La verità dell’Essere-evento richiede la trasformazione dell’uomo da “animale razionale” ad “esser-ci”. In esso il “-ci” è la verità gettata: «radura dell’Essere che progetta» (p. 26). Per tale ragione, in particolare nel secondo e nel terzo capitolo, von Herrmann rileva un’evidente continuità tra Essere e tempo del 1927 ed i Beiträge: «È in Essere e Tempo […] che si articola la prospettiva della trascendenza» (p. 27). L’analitica-ontologico esistenziale dell’esser-ci, elaborata nelle sue pagine, per Heidegger non era erronea, ma insufficiente. Nei Contributi, rileva von Herrmann, Heidegger ha messo in atto un mutamento immanente rispetto alla prospettiva del 1927. Pertanto, I Beiträge vengono considerati, dal nostro autore, la seconda grande opera, al pari di Essere e Tempo, del filosofo dell’Essere. Va segnalato, inoltre, che l’impianto esegetico di von Herrmann mira a “cristianizzare” la filosofia di Heidegger, come si evince dal capitolo dedicato all’“Ultimo dio”. Questo tema in Heidegger, e l’autore del Commentario ne ha contezza, non rinviava affatto al dio del cristianesimo, per la qualcosa la tesi di von Herrmann, pur risultando plausibile, possibile, è filologicamente non attendibile.  
  • ...
  • L’interna unità della filosofia di Heidegger che emerge dal Commentario, a parere di chi scrive, conferma il giudizio complessivo che Karl Löwith formulò sulla filosofia del Maestro: tanto nel primo Heidegger, quanto in quello successivo alla Svolta, permane un residuo storicista.  Nei  Contributi si evince uno spostamento invertente rispetto al volume del 1927: nella prima fase speculativa l’essere veniva inteso come storico, legato al tempo, nella seconda, quella evenienziale, l’essere si manifesta nella sua processuale epocalità, che è, a sua volta, di natura storica. Il libro di von Herrmann, comunque lo si legga, è un capitolo rilevante della bibliografia critica heideggeriana contemporanea.

 

  • Riccardo Scarpa LA LIRA DELLA MENTE JPEG

  • "La Lira della Mente"
  • Un saggio monumentale di
  • Riccardo Scarpa
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • Riccardo Scarpa è studioso di vaglia del mondo della Tradizione. È autore di profonda cultura. In lui il sapere è testimonianza di vita: possiamo affermalo per l’amicizia che ci lega, quanto per il confronto che intratteniamo da tempo con le sue opere. Il suo sapere dice una ricerca inesausta, partecipata nelle vive carni, “patita” sotto il profilo esistenziale e spirituale. Nel suo ultimo libro, testo monumentale, mette in campo le vaste conoscenze dell’Antico di cui è in possesso, oltre a una non comune padronanza della bibliografia critica in tema. Ci riferiamo a, La Lira della Mente. Dalla vibrazione cosmica alle intuizioni ed istituzioni umane, nelle librerie per i tipi di ArtinGenio editrice (per ordini: 335/7789135, artingenio.museum@gmail.com, pp. 475, euro 35,00). Il volume è impreziosito dall’Introduzione di Antonio Girardi, Presidente della Società Teosofica Italiana e Direttore della Rivista Italiana di Teosofia. Nelle sue pagine, Scarpa inscena la ricerca intorno all’origine del cosmo, della vita, in un excursus che non conosce confini spazio-temporali. Si avvale di una documentazione assai vasta, di cui compie l’esegesi in termini critici e puntuali. Intendiamo dire che, in queste pagine, l’autore va alla ricerca dei germi della filo-sofia, prima della nascita della filo-sofia stessa.
  • ...
  • È possibile asserire, quindi, che il nostro studioso porta a conclusione l’esperimento teoretico di Giorgio Colli, pensatore che rintracciò nel lógos aurorale ellenico un’evidente continuità con il mythos. Al fine di portarsi oltre la storia, quella statuita dagli “storiografi” moderni, Scarpa tiene in conto l’indicazione di Bachofen: l’Antico deve essere lasciato parlare con la “voce” che gli è propria, quella del Sacro e del divino. Gli “occhiali moderni”, positivisti e storicisti in particolare, ne hanno tacitato l’ubi consistam. Si badi, la lettura di Scarpa è empatica, ma attenta alle fonti, la sua è un’ermeneutica, pertanto, “oggettiva”. Ogni civiltà, ci dice, è il risultato di disparate realizzazioni di modelli e archetipi universali. L’incipit del reale cosmico-storico è individuato nel punto vibrazionale dell’origine. In ciò, lo studioso è memore della lezione, se abbiamo ben inteso, di Schneider, in particolare è attento al tema del suono originario, ma anche ai collegamenti che legano tale vibrazione allo sviluppo filo-sofico e delle istituzioni umane. Per coglierli, è necessario guardare alla physis. In essa: «tutti i regni sono interconnessi tra loro. Lo Spirito è la vita». Al centro di queste pagine è l’Unità della vita prodotta da un principio ineffabile, inconoscibile, aporetico, che dà mostra di sé in cicli di espansione-manifestazione e di decadenza-distruzione.
  • ...
  • L’obiettivo dell’uomo di conoscenza è conseguire l’identità con il principio, oltre qualsivoglia dualismo indotto dal logo-centrismo, mirato a staticizzare la dynamis, la possibilità-potenza dell’origine. In tale contesto teorico, risulta dirimente la trattazione della tradizione sciamanica, messa a tema da Eliade. Lo sciamano, presso molte tradizioni, è uomo iniziato da dèi e spiriti, soggetto dotato di capacità innate che gli consentono di fare esperienza di stati dell’essere preclusi al senso comune. Egli conosce l’invisibile nel visibile che lo custodisce. Le due dimensioni, pur nella diversità, risultano intimamente connesse, si tratta di trascendenza immanente. Rilevante, nelle pagine del volume, risulta essere l’analisi delle principali Scuole filo-sofiche dell’Oriente. Scarpa si intrattiene sull’ancestralità dei Veda e delle Upanishad, posta ben oltre l’età assiale del VI secolo a. C. 
  • ...
  • La riposta Sapienza Vedica fu trasmessa oralmente, per generazioni, da Maestro a discepolo. Inoltre, la predicazione del Buddha ha evidenti parallelismi con la Sapienza greca, in particolare con Pitagora. Le analisi dello studioso investono la cultura della Persia antica, della tradizione mediterranea, dall’Egitto alla Caldea, dalla civiltà ebraica all’Ellade dei primordi. Il Pitagorismo è interrogato, a differenza di quanto accade nella moderna storiografia filosofica, a muovere da Diogene Laerzio. I critici moderni: «non sanno quanto il mito veli intuizioni della verità, ben più, di quanto non contenga la mera storiografia». La Scuola Italica mirò, praticando la ricerca dell’armonia con le potestates animanti la physis, a realizzare una “repubblica cosmica”, tesi, per certi tratti, prsente anche in Reghini. Tale tentativo era ancora in essere nella filosofia classica socratico-platonica-aristotelica, come era solito ricordare, memore della lezione di Voegelin, Gian Franco Lami, fondatore della Scuola Romana di Filosofia politica, di cui il nostro autore fu ottimo comes. Scarpa, indaga, nei medesimi termini, la tradizione romana, imperniata su: «intuizione spirituale e fatto storico». L’esegesi della romanità è sviluppata attraverso opere prodotte tra XX e XXI secolo, ma anche sulla lettura “mitizzante” di Virgilio e Tito Livio.
  • ...
  • Particolare rilevanza riveste, per Scarpa, l’opera che Giovanni Antonio Colonna di Cesarò dedicò alle origini di Roma nel 1938, fondata sulla volontà di interpretare il dato “occulto” tralignante dai dati meramente “materiali”, propri della storiografia critico-accumulativa.Viene richiamato, nel testo, anche il lavoro dell’archeologo Andrea Carandini. Questi legò la storia di Roma al suo passato mitico, sacro, nel quale operavano Re e Sacerdoti: «Uomini di religione oltre che di ragione». Inoltre, con Aldo Ferrabino, l’autore vede nell’idea di Nazione fatta propria dai Romani: «Il superamento di quella concezione etnica, di razza, limite delle città greche». Altro tema di interesse è la “discontinuità di delega” dei Cesari, stante la lezione di Paul Veyne. Il grandioso e ricchissimo excursus messo in scena da Scarpa trova conclusione nel capitolo, Misteri cristiani ed Impero dei Romani. Gli originari Misteri, a dire di Scarpa, ereditati dal Cristianesimo, ebbero tratto Teosofico, dicevano di un Theós facente riferimento non già a un Dio Padre, ma al “divino” (che fu proprio dello stesso Giuliano Augusto) che tutto metamorfizza e che è in noi. In origine, quindi, la traslazione dei Misteri nel Cristianesimo non scisse la dimensione sacra da quella profana. La scissione si manifestò, più tardi, con l’imporsi del solo lato esterioristico dei Misteri stessi.
  • ...
  • Il libro di Scarpa, ricorda Girardi, è antidoto alla visione gnoseologica e teologica dualista oggi imperante, è espressione del sapere Teosofico. Per coglierne appieno il senso, il lettore deve attivare in sé la dimensione intuitiva, atta a svelare la Storia e la Natura quali topoi dell’intrecciarsi di simboli rinvianti all’Uno.

  • Addio cavaliere

  • Filosofia e destino del corteggiamento
  • Un saggio di
  • Cesare Catà
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • Cesare Catà, filosofo e performer teatrale, è autore di diversi scritti teoretici e letterari. Studioso, tra le altre cose, di mito e fiabe ha, di recente, dato alle stampe la sua ultima fatica, Addio, Cavaliere! Filosofia e destino del corteggiamento, comparsa nel catalogo dell’editore Liberilibri (pp. 204, euro 16,00). Un volume originale, singolare, nel quale l’autore, interrogandosi sul senso profondo del corteggiamento e nel tentativo di rispondere a tale quesito, perviene a un’esegesi di Eros, dell’Amore, inteso quale quint’essenza delle nostre vite.
  • ...
  • Il volume, come è dichiarato esplicitamente fin dall’incipit del sue pagine è, al contempo, saggio e racconto intimo. Catà, per comprendere ogni tratto, senso, significato e i rituali propri del corteggiare, muove dal proprio vissuto, dall’analisi dell’emozione che, sempre, accompagna l’inizio di un amore. Egli parte dalla sconsolata considerazione che l’arte del corteggiare sia venuta meno, o si sia stata degradata nella società liquida, nella quale tutti viviamo. Le intenzioni dello scrittore, si badi, non sono mosse da mera nostalgia reazionaria per un passato che non è più.  Al contrario, egli sostiene che, ancora oggi: «il corteggiamento […] possa (può) darci un orizzonte unico e luminoso per condividere parte del nostro passaggio terrestre con una persona che ci attrae» (p. 13) e, per questo, può rivestire un ruolo risolutore per le nostre esistenze.
  • ...
  • L’attrazione per un'altra persona è qualcosa di misterioso, espressione tangibile del misterium vitae che condividiamo con gli altri enti di natura. A differenza degli animali e delle piante, condizionati in termini biologico-istintuali alla mera riproduzione fisica, gli uomini possono rispondere al magnetismo erotico, all’attrazione per l’altro, in modalità non condizionata, aperta e problematica. Siamo, in fondo, enti capaci di modificazione, sempre esposti al possibile: «La molla psicologica e metafisica che ci spinge eroticamente verso un altro soggetto è composta di un materiale invisibile e non analizzabile»(p. 19), che si sottrae alla significazione concettuale. L’analisi del corteggiamento umano rivela, nota Catà, il tentativo di: «piacere per piacere. Si corteggia qualcuno perché essere amato […] è per la creatura umana, fonte di una profondissima soddisfazione psicologica e fisica» (p. 25). Il corteggiamento innalza il linguaggio convenzionale a livello poetico e, in tale circostanza straordinaria, mutiamo perfino la postura, il linguaggio del corpo. Nel corteggiamento entra in scena il dio Eros, figlio di Afrodite dea della pienezza gioiosa e non semplicemente di Penia, dea della mancanza, come avrebbe voluto Platone nel suo riproporre nel Simposio il mito dell’Androgine. La mancanza, infatti, sollecita a soddisfare, sic et simpliciter, un bisogno, l’Eros afroditico, di contro, consiste nel: «godere di qualcosa per se stessa» (p. 28).
  • ...
  • Tale Amore non è soteriologico, non salva, può addirittura dannare, come nelle corde dell’Amor Cortese, fiorito tra l’XI e il XII secolo: «secondo il quale amare significa adorare un altro essere umano sentito come qualcosa di divino e miracoloso» (p. 29). Un Amore questo che non può essere compreso dal riduzionismo interpretativo biologico (riproducibilità/compatibilità) o psicanalitico freudiano (ipotesi anaclitica e narcisistica), in quanto si tratta di una potestas che non appartiene al Regno dell’Io e delle certezze epistemiche. Il bosco, la selva, Regni di Artemide sottratti al confine segnato dalla vita cittadina e politica, sono i luoghi del corteggiamento e dell’incontro con la potenza cosmica, la dynamis sempre all’opera e mai normabile nella physis. Ne ebbero contezza tanto Shakespeare che Ariosto. Questi compresero che il momento dell’attrazione erotica ammutolisce il nostro Io, ci fa piombare nel silenzio, vera musica del cosmo. Si tratta di un’esperienza non dissimile da quella che viviamo passeggiando nei giardini, in particolare quelli all’inglese. In essi, ha sostenuto Merleau-Ponty, viviamo un’“atmosfera”, siamo attratti da quel “non so che” che lì costituisce, ben al di là dei processi di “fattorizzazione” concettuale, e che è impossibile definire.  Ecco, la persona che ci attrae e che tentiamo, con gentilezza e cortesia, di corteggiare è latrice di tale occulta proporzione, di tale indefinibile “non so che”.  L’emozione suscitata in noi, induce: «il desiderio misterioso di mescolare la (nostra) esistenza con quella di un altro» (p. 44), del quale, in quel momento, non sappiamo nulla.
  • ...
  • Amare e corteggiare quell’Unico, s-determina, come avviene nell’arte autentica, la nostra individualità, la pone in congiunzione con l’altro, rendendoci sempre aperti al novum rappresentato, oltre l’Io, dal Sé.  In tale circostanza ci liberiamo della maschera, dei ruoli sociali, in un processo identificativo con il dio che ci investe, Eros-Dioniso. Nell’Amore, come sosteneva Simone Weil, scopriamo la consistenza, la realtà, la carnalità dell’altro, ci sottraiamo al sogno notturno dell’irrealtà delle cose ed incontriamo, come il cosmo al termine dell’inverno, l’incipit vita nova. Il verbo greco manomai, “corteggiare” è un derivato di mimnesco che fa cenno: «a una specifica cognizione che la psiche ha acquisito […] avendola “a cuore” (ri-cordo)» (p. 61).  In tal senso il corteggiare preserva la consistenza del cosmo e può rappresentare una risposta alla liquefazione della realtà attualmente in atto.
  • ...
  • Nel mondo contemporaneo è svanito l’“enigma dell’alterità”, trasformata in “semplice presenza” virtualmente riproducibile e, ormai, priva di “aura”: «L’altro ha cessato di essere Unicus» (p. 177) e, al contempo, il “femminile” ha smarrito la propria statura divina. In tale contesto storico-esistenziale, tornare a corteggiarsi può diventare: «la forma attraverso la quale ci svincoliamo da un destino inautentico» (p 191). 
  • ...
  • Per chi scrive, sarebbe forse necessario tener conto della lettura della potenza d’amore di Julius Evola e della sua Metafisica del sesso, opera dalla quale si evince come Eros sia energeia della physis, atta a condurci oltre le mortifere regioni segnate dall’Io e dagli idola della contemporaneità.

  • Castro

  • Le mille proposizioni inattuali
  • di
  • Alessandro Castro
  • "Scritti brevi contro il mondo moderno"
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • Negli ultimi anni, nella società liquida, si è avuta una vastissima produzione letteraria e filosofica antimoderna. In tale congerie intellettuale, è inscritto il libro di un giovane e coraggioso studioso siciliano, Alessandro Castro. Si tratta di una silloge di aforismi, Mille proposizioni inattuali. Scritti brevi contro il mondo moderno, pubblicato dall’autore tramite la piattaforma Youcanprint (per ordini: info@youcanprint.it, pp. 149, euro 15,00).
  • ...
  • Fin dall’incipit di queste pagine, Castro esplicita l’obiettivo che si è prefisso nel pubblicare questo testo: «organizzare una dura e decisa risposta alla confusione che pervade i tempi presenti» (p. 9). Gli aforismi sono raccolti in tredici capitoli e in una Conclusione. Il giovane studioso mostra di aver fatto propri gli assunti del “tradizionalismo integrale” del Novecento, corrente di pensiero che ha prodotto una critica radicale del moderno. Muove, infatti, dal presupposto che esistano due forze sovrastoriche e sovraindividuali, la prima, anagogica e spirituale, la seconda katagogica e materiale: «L’edificio da abbattere è la modernità; da edificare è quello della speranza uranica e perenne, incarnato dalla Tradizione» (p. 11). L’intero libro è, di fatto, una chiosa, una chiarificazione di tale affermazione assiomatica.
  • ...
  • Preliminarmente, il giovane siciliano afferma che: «Come fondamento ontologico e veritativo della Tradizione vi è l’Uno» (pp. 12-13) e che l’epoca post-moderna: «non è altro che una fase avanzata di quella moderna; la dicotomia Tradizione/modernità, di fronte a essa, rimane quindi inalterata» (p. 13).  La Tradizione può, in tale prospettiva, venire momentaneamente obliata, ma non può essere definitivamente tacitata. La modernità, del resto, è surrogato parodistico ed invertito della Tradizione. Nell’attuale contingenza storica, essa ha trovato compiuta espressione negli pseudo valori della Nuova Cartagine, incarnata dalla civilizzazione angloamericana, utilitaristica e globalizzante. Sua quint’essenza è da rilevarsi non nel caos che la costituisce e che esprime, sic et simpliciter mancanza d’ordine: «ma in un ordine che è totalmente rovesciato», (p. 20) incapace di riconoscere ciò che davvero distingue gli uomini, insensibile ai valori dell’areté e della noesis. In tale contesto, risulta dominante una razionalità priva di Lógos, statistica, quantitativa ed algoritmica: «Denaro, società dello spettacolo, feticismo delle merci: i tre virtuosissimi capisaldi della modernità» (pp. 24-25). Essi rendono la modernità simile a una bolla di sapone che potrebbe dissolversi con incredibile facilità.
  • ...
  • L’intero libro è un appello accorato alla: «Rivolta metafisica contro il mondo moderno» (p. 37), atta a mettere in scacco l’egemonia dell’Io centrata su orgoglio, superbia prometeica e invidia: «Nel momento […] in cui si riesce a distaccarsi dall’Io caduco e manchevole si crea quel vuoto che non può che essere colmato dalla spiritualità primordiale» (p. 43). Essa è fondata sul mètron, la giusta misura. Molto interessante e prossimo alla nostra sensibilità è la ripresa, da parte di Castro, dell’elogio della giovinezza di Leopardi: «Non è spento nei giovani l’ardore che li porta a procacciarsi una vita e a sdegnare la nullità e la monotonia» (p. 47). Tale ardore ha permesso, di generazione in generazione, il perpetuarsi della Tradizione. La giovinezza spirituale è connotato interiore dei “clandestini”, dei “resistenti” al potere pervasivo e subdolo della modernità liquida. Leggiamo, poco dopo: «L’oppositore più radicale si identifica nella figura di un anti-Prometeo come il restauratore dell’unico ordine naturale possibile, quello in cui la natura fisica rimane sottomessa» (p. 55). L’aspetto per cui dissentiamo dalle posizioni di Castro sta tutto qui. Se la Tradizione è l’Uno, qualsivoglia posizione dualista gli è estranea. A parere di chi scrive, tra i “tradizionalisti” del Novecento, solo Evola, nelle sue opere teoretiche scritte prima dell’incontro con Guénon, comprese che nel mondo tradizionale essenza ed esistenza, corpo e spirito, essere e nulla si dicevano in uno, in un rapporto tragico, in quanto come intese Hölderlin, mai chiuso in un terzo dialettico ma sempre in fieri. L’Evola idealista magico ebbe chiara contezza che parlare di sovranatura o sovrastoria, implicava abbracciare categorie statuite dal moderno. La visione tradizionale della storia non può essere ciclica, ma sferica (stante la lezione in tema di Nietzsche, Heidegger, Locchi) in quanto il principio, l’origine è dynamis, libertà-potenza, mai normabile negli enti di natura e negli eventi della storia. La visione ciclica altro non è che una versione invertita di quella lineare, nella quale il tempo ha un inizio e una conclusione. Si tratta di una concezione chiusa, non aperta della storia.
  • ...
  • Castro ci pare aderire a un’impostazione rigidamente “tradizionalista”, tutta giocata sulla contrapposizione di Tradizione e modernità. Tale visione, finisce per sposare il male che vorrebbe combattere, vale a dire l’atteggiamento neo-gnostico, centrato sulla volontà di emendare, correggere il mondo, in un pathos salvifico ed escatologico: «Il sistema mondo angloamericano, col suo seguito di falsi idoli, non è altro che il Regno del Male Assoluto» (p. 93). Non casualmente, nei pensieri di questo giovane autore, aleggia (non citato) il pensiero di Dugin. È, forse, per la stessa ragione, che Castro, dopo aver criticato aspramente Bergoglio, pare cogliere nel cattolicesimo tradizionalista una possibile via di uscita dallo stato presente delle cose. Chi scrive è lontano da qualsivoglia posizione di teologia della storia o di filosofia della storia e guarda con interesse, con Karl Löwith, al recupero della physis ellenica e del tragico. Ciò implica il rigetto del determinismo consolatorio, sia di segno progressivo che reazionario.
  • ...
  • Nonostante queste differenze di prospettiva, riteniamo che il volume di Castro possa svolgere il ruolo di sasso lanciato nello stagno. L’autore padroneggia abilmente la lingua: il suo testo è di godibilissima lettura. Il giovane studioso, per le idee che diffonde e difende, non avrà accoglienza nel mondo culturale contemporaneo. È solo, come molti della sua generazione, in un mondo ostile che non conosce più, non dico Maestri, ma neppure guide.
  • ...
  • Probabilmente mi considererà, come scrive nella Premessa, “uno degli idioti” che si sono fatti avanti per criticare il suo libro. Non è così, non sono scandalizzato dalle sue idee, né mi scandalizza l’epiteto “idiota”.  Solo gli “idioti”, i “folli” i “ribelli” e gli “eretici”, coloro che mettono in discussione il “senso comune”, perfino quello “tradizionalista”, potranno difenderci dal domino del Medesimo nel quale viviamo.

  • Del castillo

  • Massoneria e Tradizione segreta
  • Un saggio di
  • Raffaele Del Castillo
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • Raffaele Del Castillo è stato autore assai attivo nella prima metà del secolo XX. Tra i suoi lavori, vanno segnalati la biografie di Carlo Alberto e un saggio storico dedicato a Napoleone III e alla sua epoca. Nella vasta produzione di questo studioso un posto a sé occupa il volume, La Tradizione segreta, uscito in prima edizione nel 1940, ora riproposto nel catalogo Iduna (per ordini: associazione.iduna@gmail.com, pp. 226, euro 20,00).
  • ...
  • Nelle sue pagine l’autore si confronta con quella che definisce una: «curiosa leggenda […] che è servita di base a tutto un sistema mistico, tra il religioso e il filosofico, offerto alla venerazione del mondo attraverso una delle più originali montature che conosca la storia» (p. 5).  Del Castillo si riferisce, di fatto, alla “Tradizione segreta” a cui si sarebbe ispirata, nel corso dei secoli, la Massoneria. Il libro vorrebbe rappresentare una disamina oggettiva, scientifica e storica di tale tradizione. L’affermazione appena ricordata, di contro, testimonia l’atteggiamento pregiudiziale nei confronti dell’oggetto indagato da parte dello studioso.  Badi il lettore, ciò non implica che questo saggio non abbia alcun valore.
  • ...
  • Pregevole è, innanzitutto, l’elegante e raffinata prosa dello scrittore, atta a coinvolgere, chi abbia la ventura di incontrare queste pagine, nel narrato. Inoltre, risulta decisamente interessante e condivisibile la prima parte del volume. In essa, vengono ricostruite le tappe storiche attraverso le quali è sorta la “leggenda” della “Tradizione segreta”. Le vicende muovono dalla costruzione del Tempio di Salomone a Gerusalemme da parte dell’architetto Hiram. Questi eresse due colonne nel vestibolo del Tempio, Jachim e Booz, sormontate da fregi a forma di giglio. Hiram, a parere di quanti diffusero la “leggenda”, sarebbe stato in possesso di due forme di sapere: il primo inerente la dottrina delle tecniche costruttive, il secondo riguardante una dottrina mistica ineffabile, dai tratti religiosi. I suoi discepoli furono divisi in tre gruppi: gli apprendisti, i compagni e i maestri. A ognuno di essi corrispondeva un grado diverso di conoscenze. Tale “Ordine” diffuse segretamente questa sapienza: «la dottrina hiramica, denominata modernamente “Tradizione segreta”, sopravvivendo miracolosamente al crollo della civiltà ebraica […] si sarebbe trasmessa di iniziato in iniziato, fino al decimo settimo secolo dopo Cristo» (p. 12).
  • ...
  • Essa sarebbe riemersa, dapprima, in Pitagora e nella sua Scuola, all’interno della quale, il filosofo-taumaturgo, mantenne vivi i tre gradi di iniziazione. Attraverso Numa Pompilio si sarebbe affermata a Roma. Questo Re, a dire di Del Castillo, avrebbe, attraverso i colloqui con la ninfa Egeria e alla luce delle rivelazioni ricevute, fondato le corporazioni degli artefici, Collegia artificum.  In essi, alle attività di ordine costruttivo, si affiancavano rituali sacri. Con l’estendersi dell’Impero, tali sodalizi assunsero sempre maggiore importanza, fino a eclissarsi, apparentemente, dalla storia, con la fine della stessa compagine statuale romana. Dei loro rituali sarebbe testimonianza un mosaico rinvenuto a Pompei nel 1878, in un locale ubicato nei pressi del tempio di Iside. I simboli in esso presenti sono gli stessi utilizzati dalla Massoneria moderna. Il problema, rileva Del Castillo, è che a seguito della persecuzione cui i Collegia furono sottoposti da Diocleziano, dopo che questi divennero ricettacolo di cristiani, non consente di documentare storicamente la continuità iniziatica. Il vuoto documentale sarebbe stato riempito da una nuova “leggenda”, quella dei “Maestri comacini”. Nel Medioevo gli appartenenti a tale sodalizio avrebbero indossato: «un grande grembiule di cuoio e guanti bianchi» (p. 27). Dalle Compagnie dei Franchi Muratori sarebbe sorto il nuovo stile gotico. I Maestri godevano, per i loro spostamenti, finalizzati all’erezione delle cattedrali, di grande libertà, da cui l’appellativo di “liberi muratori”. Tra essi si distinsero Erwin e Giovanni von Steinbach, che realizzarono il Duomo di Strasburgo: «Determinate formule presiedevamo all’iniziazione e al giuramento delle tre gerarchie degli apprendisti, dei compagni e dei maestri» (p. 35).
  • ...
  • Del Castillo analizza la penetrazione dei “franchi muratori” In Inghilterra, discute la fondazione della Massoneria inglese e si intrattiene sul suo disegno utopistico e anti-cristiano, a suo dire chiaramente espresso nella Nuova Atlantide di Francesco Bacone. Affronta, inoltre, il sorgere del mito dei Templari e del Rosa+Croce e procede alla critica della “leggenda” rilevandone, sostanzialmente, l’a-storicità.  In particolare, sostiene, che la tradizione ebraica mal tollerava il fiorire di sette e che non esisterebbe prova documentale di una sua ibridazione con la dottrina pitagorica. Il simbolismo del mosaico di Pompei si riferirebbe esclusivamente alle tecniche costruttive e non ad un sapere riposto, “segreto”. Viene meno, pertanto, in questa esegesi, il tema della continuità iniziatica che legherebbe la “Tradizione originaria” con i “liberi muratori”. La ripresa di tale tema in età moderna, si inserirebbe, pertanto, nel progetto anti trascendente, inaugurato dalla Riforma e portato a termine dalla Rivoluzione francese: «Il connubio, inventato dalle logge inglesi […] non può produrre se non un ibrido mostro. E tale appare veramente nell’evo moderno: la Tradizione segreta è divenuta patrimonio e dottrina programmatica della Massoneria» (p. 221).
  • ...
  • Il limite dell’esegesi dell’autore è dato dal suo pregiudizio anti-iniziatico, teso alla difesa esclusiva della visione cristiano-cattolica della vita. La “Tradizione segreta”, certamente tradita dalla Massoneria moderna, come rilevò Evola, ha dato i propri frutti migliori nel “pensiero di Tradizione”, in particolare nel Novecento filosofico. Ma di tali esiti, Del Castillo, non si occupa.  Il suo è uno studio parziale, condivisibile nelle premesse, ma non nelle conclusioni.

  • VESPAIOTENE
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • L’ultimo vespaio suscitato dal discorso della Meloni alla Camera per le citazioni del “Manifesto” di Ventotene, si presta ad una serie di considerazioni, che vado ad enumerare:
  • ...
  • 1) Come succede spesso il “Manifesto” è assai più citato che letto, e i di esso estimatori (di professione) non hanno l’accortezza di citare i passi interpretati (magari corredandoli con l’indicazione relativa come i versetti della Bibbia o i frammenti del Digesto). Per cui complicano il lavoro del lettore curioso che voglia approfondire e controllare. A pensar male la prassi sarebbe volontaria, con l’effetto (voluto) di ascrivere a Rossi o a Spinelli le idee dell’interprete.
  • 2) Le affermazioni del “Manifesto” citate dalla Meloni – e comunque oggetto della discussione, concernono idee che, all’epoca della redazione del “manifesto” (1941) erano diffuse e dibattute, in particolare tra intellettuali e politici.
  • Le ricordiamo: “La metodologia politica democratica sarà un peso morto nella crisi rivoluzionaria” e “Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente” (sulla democrazia).
  • ...
  • E sul carattere dell’auspicata rivoluzione “La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista”.
  • ...
  • Sulla proprietà: “la proprietà privata dei mezzi materiali di produzione deve essere in linea di principio abolita e tollerata solo in linea provvisoria quando non se ne possa proprio fare a meno… La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio”.
  • ...
  • Sul rapporto tra popolo e partito dirigente: “Durante la crisi rivoluzionaria […] (il movimento, ndr) attinge la visione e la sicurezza di quel che va fatto non da una preventiva consacrazione da parte dell’ancora inesistente volontà popolare, ma dalla coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società… Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo Stato, e intorno a esso la nuova vera democrazia”.
  • ...
  • Tutte tali affermazioni, inequivocabili, corrispondono a convinzioni allora diffuse, ma che le vicende successive – e la stessa evoluzione di Rossi e Spinelli – hanno cambiato spesso radicalmente.  Ernesto Rossi fu un benemerito sostenitore del liberismo contro i monopoli; Spinelli fu a favore del Piano Marshall e nel corso della sua carriera politica, pur sempre di sinistra, non risulta che avesse posizioni o prassi simili a quelle esposte nel Manifesto prima sintetizzate.
  • ...
  • Fa in particolare impressione il rapporto tra rivoluzionari e masse (sia movimenti politici che cittadini comuni). Quanto ai primi nel manifesto si criticano i partiti (e loro dirigenti) democratici: che questi «Credono nella “generazione spontanea” degli avvenimenti e delle istituzioni, nella bontà assoluta degli impulsi che vengono dal basso. Non vogliono forzare la mano alla “storia” al “popolo” al “proletariato” o come altro chiamano il loro dio… Sono perciò dirigenti adatti solo nelle epoche di ordinaria amministrazione, in cui un popolo è nel suo complesso convinto della bontà delle istituzioni fondamentali, che debbono essere ritoccate solo in aspetti relativamente secondari. Nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente».
  • ...
  • Il popolo, nelle situazioni rivoluzionarie è disorientato «Mille campane suonano alle sue orecchie, con i suoi milioni di teste non riesce a raccapezzarsi, e si disgrega in una quantità di tendenze in lotta tra loro» e conseguentemente «i democratici si sentono smarrirti non avendo dietro uno spontaneo consenso popolare, ma solo un torbido tumultuare di passioni; pensano che loro dovere sia di formare quel consenso, e si presentano come predicatori esortanti, laddove occorrono capi che guidino sapendo dove arrivare… Man mano che i democratici logorassero nelle loro logomachie la loro prima popolarità di assertori della libertà, mancando ogni seria rivoluzione politica e sociale, si andrebbero immancabilmente ricostituendo le istituzioni politiche pretotalitarie, e la lotta tornerebbe a svilupparsi secondo i vecchi schemi della contrapposizione delle classi».
  • ...
  • Anche i comunisti, col loro classismo «costituiscono nei momenti decisivi un elemento settario che indebolisce il tutto» per cui «Una situazione dove i comunisti contassero come forza politica dominante significherebbe non uno sviluppo in senso rivoluzionario, ma già il fallimento del rinnovamento europeo». Invece il «partito rivoluzionario non può essere dilettantescamente improvvisato nel momento decisivo, ma deve sin da ora cominciare a formarsi almeno nel suo atteggiamento politico centrale, nei suoi quadri generali e nelle prime direttive d'azione… dalla schiera sempre crescente dei suoi simpatizzanti deve attingere e reclutare nell'organizzazione del partito solo coloro che abbiano fatto della rivoluzione europea lo scopo principale della loro vita… e costituiscano così la solida rete che dia consistenza alla più labile sfera dei simpatizzanti… Durante la crisi rivoluzionaria spetta a questo partito organizzare e dirigere le forze progressiste, utilizzando tutti quegli organi popolari che si formano spontaneamente come crogioli ardenti in cui vanno a mischiarsi le forze rivoluzionarie, non per emettere plebisciti, ma in attesa di essere guidate»[1].
  • ...
  • È evidente l’influenza del modello del partito rivoluzionario-totalitario e, soprattutto, l’insegnamento di Lenin. Il quale nel “Che fare?” scriveva:  "...il “nostro compito pratico più urgente: creare un’organizzazione di rivoluzionari capace di garantire alla lotta politica l’energia, la fermezza e la continuità” e affermava “che non potrà esservi un movimento rivoluzionario solido senza un’organizzazione stabile di dirigenti che ne assicuri la continuità… che tale organizzazione deve essere composta principalmente di uomini i quali abbiano come professione l’attività rivoluzionaria”. È inutile poi ricordare il ruolo guida che, nel pensiero di Gramsci ha il partito rivoluzionario o la sua organizzazione tattico-insurrezionale (Malaparte). Giudizi in cui il consenso, la democrazia, la legittimità sono quasi sempre un impaccio, e comunque non costituiscono né una condizione né una preoccupazione. Secondo Malaparte alla tattica insurrezionale dei bolscevichi non servivano le masse, ma nuclei ristretti, esperti e organizzati. Tutto il resto delle citazioni della Meloni (estratte dalle più numerose conferme esposte nel Manifesto) concernenti socialismo, proprietà (dei mezzi di produzione) più che proprietà in genere, sono state superate dall’attuale EU, che sicuramente non è socialista, è contraria a ogni nazionalizzazione dei mezzi di produzione (e così via).
  • ...
  • Cos’è   ancora vivo nel Manifesto di Ventotene, esaminandolo con un occhio realista?   A mio avviso principalmente due cose: il giudizio che in un’epoca di potenze continentali, gli Stati nazionali sono superati non avendo una massa critica per competere con le superpotenze in essere o in fieri (oggi USA, Cina, India, Russia e forse Brasile). È un buon argomento per costruire uno Stato federale europeo come quello auspicato dal Manifesto.  La seconda: che Rossi e Spinelli non credevano ad una “unione” che prescindesse dall’elemento decisivo perché unione ci sia: un potere sovraordinato ai singoli Stati, come scriveva il giovane Hegel sul Sacro Romano Impero (allora in via di estinzione), al quale mancava proprio quello. L’insistenza sul partito rivoluzionario e l’indifferenza verso il consenso e le procedure democratiche non è altro che la riproduzione nella prima metà del XX secolo della essenzialità per una sintesi politica di avere un centro unificatore supremo (Hegel). all’epoca del filosofo era il monarca assoluto, ai tempi di Rossi e Spinelli, era diventato il partito rivoluzionario che, esercitando la dittatura, costruiva un nuovo ordine.  Al contrario dell’UE attuale, la quale ha unificato molte cose, ma non il potere (decisivo e superiore) ai singoli Stati, ma si è limitata ad alcuni “rami bassi”.  Anzi in Italia è stato teorizzato il “vincolo esterno” che si presta a questa unificazione delle mezze misure. Dai tappi delle bottiglie in su. Cioè di ciò che non è (o è poco) politico.
  • E, anche per ciò, il Manifesto, liberato da utopismo e condizionamenti d’epoca, può dirci ancora qualcosa.
  • [1]     
  • I corsivi sono miei.

  • Fuori di questo mondo

  • "Fuori di questo mondo"
  • Il testamento spirituale di
  • Ioan Petru Culianu
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • È nelle librerie un libro davvero importante.  Ci riferiamo a, Fuori di questo mondo di Ioan Petru Culianu, comparso nel catalogo SE (pp. 243, euro 26,00). Il volume è stato ben tradotto nella nostra lingua da Maria Sole Croce ed è impreziosito dalla postfazione contestualizzante di Federico Ferrari. Si tratta dell’ultimo libro dell’intellettuale romeno. Poco dopo avere ricevuto, nel 1991, le bozze di questo volume, Culianu venne assassinato, in circostanze tuttora misteriose e di cui molto é stato scritto, nei bagni della Divinity School dell’Università di Chicago, dove insegnava Storia del cristianesimo e Storia delle religioni. Il libro, tanto nel titolo quanto nei contenuti, rimanda al volume, Uscite dal mondo di Elémire Zolla, studioso con il quale, negli anni immediatamente precedenti, il romeno aveva intrattenuto proficui rapporti intellettuali, condividendo alcuni aspetti della prospettiva teorica del pensatore italiano. Ma chi era Culianu? Qual è stata la sua formazione?
  • ...
  • Nato, nella Romania comunista, in una famiglia borghese, fin dall’adolescenza mostrò una non comune versatilità intellettuale. Apprese, con facilità, molte lingue moderne, fu poliglotta, medesima propensione conoscitiva ebbe per le lingue antiche. La sua formazione universitaria fu di stampo umanistico, anche se il giovane evidenziò un interesse non comune per la scienza “ultima”, in particolare per gli sviluppi della fisica relativistica einsteiniana e, di rimando, per il dibattito epistemologico. Patì, non poco, il clima culturalmente claustrofobico del paese natale. Riuscì ad evadere da tale asfissia intellettuale, grazie a una Borsa ottenuta presso l’Università di Perugia. Giunto in Italia chiese asilo politico, subendo, in patria, un processo in contumacia. A Milano, sotto la guida di Ugo Bianchi, approfondì gli studi sullo gnosticismo, in particolare si occupò dell’esegesi di tale eresia in Hans Jonas. Si trasferì presto in Olanda e da lì giunse a Parigi. Nell’ambito storico religioso, suo riferimento imprescindibile è da considerarsi Mircea Eliade, maestro di un’intera generazione di intellettuali non-conformisti del paese danubiano. Sotto il profilo filosofico-teologico guardò al neoplatonismo rinascimentale e, nell’ultima fase di vita, alla Cabala e alla mistica ebraica. La lettura di Fuori di questo mondo rende edotti, ricorda Ferrari, che l’iter intellettuale di Culianu è stato segnato da evidente continuità: «l’estasi, le fuoriuscite dal mondo, dall’io, dalla parola sono le esperienze cui fin dalla gioventù egli aveva dedicato i propri studi» (p. 242).
  • ...
  • Eccolo, allora, attraversare, in forza di una straordinaria erudizione multidisciplinare, le più disparate tradizioni relative alle “uscite dal mondo”. Nel volume vengono chiamate in causa l’antica sapienza egizia, la visione taoista, la concezione della vita di quelli che Colli ha chiamato i Sapienti greci, qualsivoglia aspetto dei viaggi interplanetari, ultraterreni o nel regno di Ade. Le argomentazioni di questo esegeta d’eccezione coinvolgono il lettore in un viaggio spiraliforme, nel quale il tema della “fuoriuscita” dal senso comune (meramente empirista), si ripete di continuo, in modalità ossessiva. Nella scrittura di Culianu inizio e fine, come tutte le opposizioni dicotomiche, si confondono, si dicono in uno: egli mira, infatti, a un’apertura, a esporsi sull’origine.
  • ...
  • Ruolo dirimente, ai fini della comprensione del testo, a parere di chi scrive, è da individuarsi nei primi due capitoli. In essi lo studioso sostiene che: «il mondo esterno è un costrutto della nostra percezione […] privo di “oggettività” […] il mondo fuori di noi e il mondo dentro di noi […] non solo interferiscono tra loro […] ma è anche difficile capire dove finisca l’uno e dove cominci l’altro» (p. 16).  Insufficienti risultano le spiegazioni che chiamano in causa la trasmissione genetica o l’esistenza di un inconscio collettivo che starebbe alle spalle delle testimonianze, antiche e moderne, di “uscite dal mondo”. Al contrario, è necessario guardare alla tradizione culturale, all’esistenza di sistemi di idee che tendono, nel tempo e nello spazio, a ripetersi, ogni volta in forma originale e differenziata. Si assiste a: «una rielaborazione continua di antiche credenze, che implica oblio, annullamento e innovazione continui» (p. 20), come nelle corde della filosofia di Andrea Emo, che riteneva la conoscenza essere, ab origine, legata all’oblio, la salvezza alla rinuncia a essa.
  • ...
  • Culianu, nel secondo capitolo, discute la possibilità dell’esistenza della “quarta dimensione” intuita da Hinton, che si riverberò nella fisica di Einstein. Dimensione presente anche in Flatlandia di Abbot, in Alice nel paese delle meraviglie di Carroll e, soprattutto, in Borges: «La quarta dimensione ci costringe ad accettare l’ipotesi che esistano molti livelli di realtà superiore», livelli non dissimili dagli Stati molteplici dell’essere di cui ha detto Guénon e dei quali ebbe contezza Gurdjieff.  Se abbiamo ben inteso, categoria centrale, in questo libro, è quella dello “sciamanesimo”, stante la lezione in tema di Eliade, che vi lesse un insieme di tecniche estatiche mirate a realizzare il contatto con l’universo parallelo delle potenze cosmiche, a beneficio dei singoli e delle comunità. D’altro lato, in questo libro e nelle altre opere di Culianu, si evince il debito gnostico. Il suo, rileva Ferrari, è esempio di: «una gnosi contemporanea, di una salvezza per mezzo della conoscenza in un mondo […] opera del Male» (p. 234). Una gnosi centrata sulla potenza immaginante della mente, sui suoi spazi appartenenti a n dimensioni possibili. Sono i mutamenti del nostro immaginario ad aver dato vita, e potranno ancora farlo infinite volte, ai diversi paradigmi epistemici dell’umanità.
  • ...
  • La conoscenza prende avvio da principi semplici, elementi inaugurali che il Nostro interpreta in prospettiva tanto diacronica quanto sincronica. Essi dipendono e si trasformano alla luce di fattori ed interferenze diverse. Pur muovendosi in direzione di una mathesis universalis, Culianu presenta una teoria dell’intertestualità, della “trasmissione”, del tradere che si pone oltre il prospettivismo, in funzione ontologica. È il “senso interno” aristotelico a fungere da guida verso l’origine: «l’anarchos senza cominciamento», chiosa Ferrari (p. 238). In tale itinerario speculativo, egli rielabora, in modalità originale, le tesi di Feyerabend (anarchia della conoscenza) e di Bloom (“dislettura” decostruttiva derridiana).  "Fuori dal mondo" è libro che abbatte gli steccati segnati dagli idola contemporanei. Chi scrive ritiene che essenza ed esistenza, essere e nulla si diamo sempre e solo in uno. In Culianu, in forza del debito gnostico, il mondo “altro” che si incontra nella “uscite dal mondo”, almeno in alcuni casi, pare mantenere una sua distanza dal mondo “reale”, in quanto connotato da residuale trascendenza. Nonostante ciò, Fuori di questo mondo è testo che illumina l’oblio nel quale il pensiero è caduto nell’età della post-verità. Utile a quanti vogliano mettersi alla prova, vogliano provare a pensare “dalla fine” della filosofia.

  • Il libro proibito

  • Il libro proibito
  • Un thriller esoterico di
  • Mina di Sospiro e Godwin
  •  rec.  di
  • Giovanni Sessa

  • Joscelyn Godwin è considerato, a livello internazionale, uno dei più rilevanti studiosi di esoterismo. Molte sue opere sono tradotte anche nella nostra lingua. Guido Mina di Sospiro è, a sua volta, scrittore di vaglia, autore di numerosi romanzi dai quali traspare il suo interesse per le dottrine iniziatiche. È da poco nelle librerie, per i tipi delle Edizioni Bietti, ben tradotto da Andrea Scarabelli, un volume che i due studiosi hanno scritto a quattro mani, Il libro proibito. Un thriller esoterico (per ordini: 02/29528929, pp. 357, euro 22,00). Dalle sue pagine, il lettore può evincere, non solo la grande padronanza degli autori dei plessi più rilevanti del sapere ermetico, del sapere “riposto” proprio della Philosophia perennis, ma anche la loro non comune capacità scrittoria. La prosa è trascinante, conduce il lettore nelle intricate vicende del thriller e, soprattutto, riesce a far vivere e percepire le “atmosfere”, l’alone magico in cui sono coinvolti, volontariamente o inconsapevolmente, a seconda dei casi, i principali protagonisti del racconto.
  • ...
  • Al centro delle vicende sta la famiglia aristocratica dei Della Riviera. Di generazione in generazione, questa Gens, narrano Mina di Sospiro e Godwin, avrebbe trasmesso al momento delle nozze del primogenito, un “libro segreto e proibito”: l’edizione inedita, riservata ai membri di questa schiatta nobiliare, di un testo alchemico assai noto, pubblicato in prima edizione nel 1605 dall’ermetista Cesare Della Riviera, Il Mondo magico de gli Heroi. Il trattato richiama le posizioni ermetiche di John Dee ed è: «la pietra miliare di una corrente di alchimia spirituale italiana, tuttora attiva» (p. 351). È, a tutt’oggi, in commercio l’edizione annotata, introdotta e modernizzata nel linguaggio, da Julius Evola, data alle stampe più volte a muovere dal 1932. Protagonista negativo del giallo è il Barone Emanuele Della Riviera, l’ultimo ad aver ricevuto la pesante eredità del testo “proibito” del suo illustre antenato. I dati storici, ne Il libro proibito, sono commisti alla creazione fantastica: «le allusioni alla vita contemporanea rappresentano in modo emblematico il primo decennio del XXI secolo» (p.7), frangente storico nel quale sull’Europa sembrava incombere il pericolo islamista. Il thriller si apre, infatti, con un attentato alla cattedrale San Petronio di Bologna, dal quale uscì indenne, miracolosamente, Leo Kavenaugh, docente di Italianistica presso la Georgetown University.
  • ...
  • Il Barone Emanuele, alla ricerca di “realizzazione” attraverso rituali di magia sexualis, tiene nella villa avita, ubicata nelle campagne veronesi, periodiche conferenze su tematiche e simboli dell’ermetismo a un centinaio di giovani accoliti, provenienti da ogni parte d’Europa. L’aristocratico vorrebbe porsi alla testa di una nuova Lega Santa, capace di rispondere sul campo, come avvenne a Lepanto, all’invasione musulmana. Auspica una rinascita dell’Europa, apparentemente legata alla tradizione cattolica, in realtà mirata a far risorgere un Imperialismo pagano: «debellata la minaccia islamica, avrebbe ripulito l’Europa dal giudeo-cristianesimo» (p. 314). Emanuele, lettore attento del volume di Cesare, presto si rese conto di non essere, “per natura”, dotato per tale Via. Per sopperire a tale mancanza, si dette alla pratica dei riti di magia sexualis con la giovanissima nipote Angela, facilmente assoggettata al suo volere, e dopo la morte di questa, avvenuta durante un rito e causata dalla compressione dell’aorta, avrebbe voluto proseguirli servendosi di sua sorella maggiore, la bella Orsina, già assistente di Kavenaugh negli USA. Il professore, innamorato (senza volerlo ammettere) di Orsina e ricambiato dalla donna, nel frattempo convogliata a nozze con un ricco finanziare di origini scozzesi, Nigel, era stato chiamato in Italia da Orsina Della Riviera, per dipanare il mistero del “libro proibito”. Non ci soffermiamo su tutti momenti della trama, lasciamo che il lettore li scopra entrando nella pagine del libro.
  • ...
  • In ogni caso, il narrato è ricco di colpi di scena che si sviluppano, in particolare, nel Palazzo Della Riviera sul Canal Grande a Venezia, una sorta di trascrizione architettonica delle fasi dell’Opera, nigredo, albedo, rubedo. Nell’“Antro di Mercurio”, costruito nell’area sottostante il Palazzo, veniva custodito il “libro proibito”, posto su una sorta di altare. A sciogliere l’intrico sarà il professore americano che, dotato di naturali capacità magiche e studiando, dopo averla rocambolescamente trafugata dall’Antro, la versione originale de Il Mondo magico de gli Heroi, vide, in un sofferto vaticinio, l’episodio dell’assassinio di Angela ad opera dello zio, e intuì i rischi cui sarebbe andata incontro la stessa Orsina. Inizialmente, gli inquirenti imputarono a Nigel il delitto, in quanto il cadavere della giovane era stato trovato nel bagagliaio della sua automobile. Il “femminile”, il suo potere magnetico, attrattivo e rivelativo, è al centro di queste pagine, non solo nelle figure di Angela e Orsina, ma anche nelle parole dell’anziana domestica Marianna, incolta, che metterà sulla strada della risoluzione del caso il docente-mago“bianco”. Gli ambienti, siano essi le amene e verdeggianti colline venete, cantate da Foscolo - non casualmente autore d’elezione di Kavenaugh, a causa delle sofferenze d’amore raccontate nell’Ortis - o le magiche trasparenze di Venezia, rivelanti, ad occhi sapienti, la possibilità dell’impossibile, svolgono ruolo dirimente. Il misterium vitae, in essi, sovrasta ogni cosa, traligna nei sotterranei del Palazzo: «Angela gridò […] finché realizzò che quelli di fronte a loro non erano i tentacoli di una piovra, ma le radici di un enorme albero» (p. 127), il secolare platano del giardino. Il simbolo anagogico dell’Albero, è essenziale per comprendere il senso del narrato e l’esito della prassi alchemica.
  • ...
  • Il Barone perverso e i suoi seguaci attentatori, specificano gli autori nelle Postille che chiudono il volume, non sono veridica rappresentazione della Philosophia perennis, ne sono tragica parodia. Emanuele è: «parodia di quegli evoliani che alterano e viziano lo scopo di tale magia “eroica” e […] dell’intera tradizione ermetica» (p. 351). Per questo, il nobile Della Riviera troverà la giusta punizione e il suo piano diabolico fallirà. A trionfare sarà il misterium coniuctionis che unisce, in uno, il “maschile” e il “femminile” del professore e di Orsina. Mina di Sospiro e Godwin hanno scritto un libro letterariamente godibile, coinvolgente e importante.

  • Piccolo ordine di grandezza 205x300
  • Ansaldi 1

  • Gli aforismi di uno scettico
  • L’opera di
  • Amedeo Ansaldi
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • Usciamo dalla lettura di tre raccolte di aforismi di Amedeo Ansaldi. L’autore è un traduttore, vive in una cittadina sulle sponde del Lago Maggiore. Le sue opere hanno ricevuto significativi riconoscimenti: ha vinto il premio internazionale per l’Aforsima “Torino in sintesi” e, nel 2014, il Premio “Le figure del Pensiero”.  Suoi aforismi sono comparsi, nel 2013, in traduzione inglese nell’antologia, The New Italian Aphorists. Giorgio Gramolini, nel Preludio alla silloge di Ansaldi, L’onere delle condizioni, uscita nel catalogo di Babbomorto Editore, ha sostenuto che la “scrittura breve” del nostro autore è: «indipendente ed equidistante da tutte quelle coloriture […] che essa è venuta spesso ad assumere» nell’età del digitale e di internet.
  • ...
  • L’esercizio compositivo di Ansaldi ha, proprio per questo, tratto contenutistico-filosofico inattuale testimoniante, non si tratta di un gioco di parole, la perenne attualità di tale genere letterario. Dario Stanca, nella postfazione a, Per un piccolo ordine di grandezza, dato alle stampe in tiratura limitata dalle preziose Edizioni Cenere, ha rilevato come Ansaldi non sia, sic et simpliciter, ascrivibile alla grande tradizione aforistico-moralistica francese. I suoi riferimenti, possono essere, di contro, individuati in Leopardi, Caraco e Cioran, maestri di disincanto.
  • ...
  • La scrittura di Ansaldi è elegante, sobria, “ben educata”, si fa latrice di ciò che Kierkegaard definì “comunicazione d’esistenza”. Una modalità espressiva che vuole decostruire, nel lettore accorto, le false certezze del senso comune. Ci sentiamo prossimi alla sensibilità dell’autore: al termine della lettura delle sue opere lo abbiamo avvertito quale comes di vaglia, nostro compagno di viaggio. I suoi aforismi, così si sarebbe espresso Zolla, sono, infatti: «Verità segrete esposte in evidenza». Ansaldi mostra, in prima istanza, di aver contezza che nella vita e nella physis, gli opposti, i contrari, si danno sempre in uno, istituiscono un rapporto relazionale, non dicotomico, come nelle corde del logo-centrismo. Essere e nulla, essenza ed esistenza, uno e molti, dicono il medesimo. Del resto l’aforisma, la frase breve, non testimonia forse che l’universale, il principio, l’origine, vive solo nel particolare? Ciò induce l’autore a rilevare: «Se Dio esiste, Egli vive tutte le nostre vite, sante e turpi, come fossero la Sua» (Per un piccolo ordine di grandezza, p. 16). Il Dio delle religioni rivelate, ente assolutizzato, è: «metafisica da operetta» (Manuale di scetticismo, Punto a capo Edizioni, p. 21). Tra gli aforismi leggiamo anche: «Aborro la nudità, nella quale risalta il genere e rimane negletta la persona» (Per un piccolo ordine di grandezza, p. 13).
  • ...
  • Ansaldi si riferisce alla nudità fisica: in realtà, il suo percorso dischiude al lettore un’altra nudità, ben più profonda, spirituale ed esistenziale, la vita nuda, il suo essere appesa a un’origine libera, che la rende effimera, tragica ma capace di ammaliare, di meravigliare. L’uomo libero, cui allude lo scrittore, testimonia il principio, non vuole essere servo, ma neppure padrone, diffida degli idola del presente e del passato, adorati dai benpensanti: «I perbenisti: sono sempre loro che si scandalizzano, e sono sempre ancora loro che soffocano lo scandalo» (Manuale di scetticismo, p. 31).  Quello di Ansaldi è, al pari del lascito dei “suoi autori”, esercizio di parresia che, l’interprete sprovveduto, potrebbe leggere quale testimonianza di “mal di vivere”, mera affermazione pessimistica. In realtà, solo tenendo gli occhi ben aperti sull’abisso dal quale la vita si schiude, vale a dire un non originario, dynamis, libera possibilità non normabile dal pensiero, ci è dato conseguire quello stato di serenità, cui allusero gli stoici. In ciò, un ruolo di rilievo come in Leopardi, è rivestito dalla creazione estetica: «Il mio ateismo è scosso dalle fondamenta quando leggo una pagina scritta divinamente» (Per un piccolo ordine di grandezza, p. 6). La “menzogna”, l’“errore” poietico concedono all’uomo di proseguire a vivere, pur nella consapevole esposizione al nulla.
  • ...
  • L’uomo libero si apre così alla pietas: per lui non contano le consuetudini sociali, l’esibizione del rango o della professione. Si trasforma in vagabondo, in colui che ha contezza che il viaggio di tutto ciò che vive non ha mai una metà reale, è senza fine e senza scopo. Ansaldi è, alla luce di tale acquisizione teorica, un inguaribile “perdigiorno della letteratura”. Dai suoi aforismi traligna una caustica ironia nei confronti delle manie del tempo presente (ma anche nei confronti di se stesso). Il suo esercizio scrittorio è lama di coltello che si conficca nel pregiudizio del progresso, colpendo a fondo la filosofia aziendale oggi dominante, mirata a catalogare e mercificare la realtà. Non casualmente sostiene, con accenti che ricordano Ernst Jünger: «La decadenza […] è incominciata con la misurazione del tempo […] fino alle tristezze inoppugnabili dell’orologio» (Manuale di scetticismo, p. 9) e ha trovato il proprio momento apicale nelle rigidità del burocratismo, sottraenti anima alla vita. La pietas dell’uomo libero la si evince in quanto Ansaldi sostiene a propostito della vita animale: «la vita degli animali […] presenta tratti pienamente epici […] agonie strazianti […] atti di meravigliosa abnegazione […] le loro abissali sofferenze non trovano però degni cantori» (ivi, p. 41).
  • ...
  • Con tale asserzione egli restituisce dignità e “anima” a questi esseri viventi, sottomessi alla crudeltà umana. Perché, sia chiaro, come ha insegnato Karl Löwith, chi guarda alla physis tragica quale unica trascendenza possibile, non spera e non dispera: «Temere e sperare: le due facce di una stessa, fondamentale ignoranza» (ivi, p. 41), chiosa Ansaldi. I suoi aforismi, se abbiamo ben inteso, sono un invito a portarsi oltre i confini segnati dall’Io, nelle terre solitarie epoco battute dove regna coscienza, consapevolezza. Per giungere a tanto è necessario, lo suggeriva Epicuro, “vivere nascosti”, isolati dalla massa. L’ aspirazione suprema degli individualisti è, in fondo, quella di porsi a guida di quest’ultima. L’uomo che vive nella consapevolezza si sottrae a tale gioco delle parti, è sempre oltre. Lo scetticismo, come ben sapeva Rensi, ha tratto liberante.
  • ...
  • Ci auguriamo che Ansaldi, se avrà modo di leggere queste brevi note, non sia indotto a ripetere: «Non mi sento mai tanto defraudato come quando parlano troppo facilmente di me» (Ivi, p. 20).


  • gianfranceschi

  • "L’amore paterno"
  • Nuovamente nelle librerie un libro di
  • Fausto Gianfranceschi
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • Fausto Gianfranceschi fa parte della ristretta pattuglia di intellettuali che animarono, con il loro apporto originale, la cultura non conforme a muovere dal secondo dopoguerra. Uomo colto, erudito, animato da un non comune coraggio esistenziale. Lo ho conosciuto negli ultimi anni della sua vita e me ne rammarico, benché avessi letto e molto apprezzato, al momento del nostro incontro, i suoi libri.  Era stato colpito da un mio scritto dedicato all’analisi del nichilismo, comparso sulla rivista di Sandro Giovannini «Letteratura-Tradizione». Giano Accame fece da intermediario tra noi e mi fissò un appuntamento con Gianfranceschi. Andai a trovarlo nel suo appartamento, era il 2008. Per il Settimo Sigillo era da poco uscita la mia monografia dedicata a Carlo Michelstaedter. Mi ricevette nel suo studio, parlammo a lungo del mio saggio ma, soprattutto, della sua formazione intellettuale e spirituale, della frequentazione di Evola e della sua successiva opzione di fede cattolica. Compresi che l’uomo Gianfranceschi incarnava esemplarmente il mondo ideale cui aveva aderito.
  • ...
  • In questi giorni, la rilettura della nuova edizione di un suo bellissimo volume, L’amore paterno, comparso nel catalogo Iduna, mi ha definitivamente persuaso della veridicità dell’impressione di allora (per ordini: associazione.iduna@gmil.com, pp. 127, euro 12,00). Il libro è preceduto dall’introduzione di Gianfranco de Turris, nella quale è rievocata, in tono nostalgico e appassionato, la loro amicizia. De Turris, inoltre, ricostruisce organicamente l’iter intellettuale e professionale di Gianfranceschi. Il libro del quale parliamo è prezioso, aureo, un inno alla vita, scritto per celebrare ciò che, per la cultura dominante, è tabù, l’amore paterno. Le sue pagine narrano, in una descrizione sostenuta da una prosa affabulatoria da cui traligna in ogni parola, la gioia che Fausto visse in occasione della nascita della figlia Michela. L’autore si intrattiene, in particolare, sui rapporti instaurati con la bimba nei primi tre anni di vita della piccola. Sappia il lettore che, in quel frangente, lo scrittore aveva cinquant’anni e da poco aveva perso, a causa di un tragico incidente stradale, il figlio Giovanni, poco più che ventenne. L’elaborazione di questo terribile lutto, il confronto con l’ineluttabilità della morte, erano stati messi a tema da Gianfranceschi nel volume, Svelare la morte.
  • ...
  • La nascita di Michela fu, per Fausto, un ritorno alla vita, un riconciliarsi con la sua positività e meraviglia: «Riflettendomi nell’aura di mia figlia neonata […] ho visto che leggevo nel libro dell’uomo cominciando dallo stato giusto: quando è intonso, non quando è consunto e riscritto tanto male» (p. 10). Viviamo nelle mefitiche nubi create dal sistema della menzogna, in un mondo centrato sulla degradazione del piacere perseguita dall’utopismo, che vorrebbe emendare, correggere la natura e la vita. Il risultato cui si è giunti lungo questa via, è un mondo tanatocratico, nel quale la memoria, personale e comunitaria, è obliata. Per la qualcosa, rileva lo scrittore: «Tutto, oggi, ha bisogno di essere riscoperto nella sua semplicità ed evidenza» (p. 11) e l’accoglienza amorevole, calda e partecipe di un figlio riconduce alla semplicità, all’innocenza pura dei bambini. Lo seppe Hofmannsthal, ricorda Gianfranceschi, che scrisse: «Solo gli artisti e i bambini vedono la vita così com’è […] Sono gli unici in grado di concepire la vita come totalità» (p. 5).  Nel venire al mondo di un figlio è da vedersi: «la nascita dalla quale ricomincia sempre la storia dell’uomo nella perenne fedeltà all’archetipo e nell’innumerabile varietà di destino» (p. 11). Si tratta della continua ri-creazione del mondo nel tradere, nella trasmissione della vita e del sapere di padre in figlio.
  • ...
  • Se per l’adolescente il padre incarna l’esempio, la Legge, per il bambino l’amore paterno si mostra allo stato puro, carico di sorgiva freschezza. Lo scrittore rievoca le prime cure prestate a Michela, ricorda il suo primo vagito, il cingerla tra le braccia quale germoglio di vita, il suo discorrere con lei nel silenzio: «I figli fanno crescere. Quale meraviglia assistere al melodico risveglio della tua anima neonata» (p. 21), afferma Gianfranceschi.  In tale contesto, l’affermarsi della Parola in Michela assume per il padre senso di evento cosmico: «La vita fluisce in te anche dalle parole che ti danno posto nel mondo» (p. 28). L’alimentazione dell’infante non è mero bisogno biologico, ma atto che lo unisce alle radici della realtà, di cui i bambini sono ornamento e lode. In forza della loro sensibilità totalizzante, la casa, luogo degli affetti, è vissuta quale templum, ha valenza sacra, così come le persone che la abitano. Tutto ciò è negato dalla cultura barbara che ci attornia, che vorrebbe ridurre l’uomo a puro istinto, ad animalità.  L’intuizione fantastica del mondo di Michela, è prova che il cuore sente, percepisce e parla.
  • ...
  • Il bambino si rispecchia, si scopre nella propria natura più intima, nel dare e ricevere amore: «principio permanente di vita» (p. 46). La paura della bimba chiarisce come l’esistenza sia effimera, solo i bambini sanno confrontarsi serenamente con i mostri della fiabe: hanno consapevolezza che il male è inscritto nello stesso bene e consente di conoscerlo per antitesi. In ogni bambino vige il sentimento poetico del mondo, che molti adulti dimenticano. Lo si evince dallo stupore di Michela per il bello, per le immagini che tanto l’attraevano nei libri d’arte, per la meraviglia dei giardini, colta durante le passeggiate a Villa Pamphili. In questi luoghi, stante la lezione di Rosario Assunto, pensatore ricordato da Gianfranceschi, Prometeo e Orfeo sono conciliati, l’agire dell’uomo è sintonico a quello che fa mostra di sé nella manifestazione naturale: i loro viali illuminati dal sole conducono in uno spazio-tempo carico di atmosfera, magico. Lo scrittore si rivolge alla figlia con queste parole: «Se sono tuo padre, e se sono un padre vero, non posso chiudere gli occhi davanti all’evidenza che ogni destino […] si forma nel legame con altri destini» (p. 125), innanzitutto nella famiglia.
  • ...
  • L’amore paterno, ne abbia contezza il lettore, non è semplicemente testimonianza del sentimento di un padre per la figlia, è libro antimoderno che guarda a un futuro libero dalle miserie riduzioniste del presente: encomio commosso al sempre della vita.

  • 71KxgghrpeL. SL1500

  • Gianluca Sadun Bordoni
  • Guerra e natura umana
  • (Il Mulino, Bologna 2025, pp. 341, € 20,00)
    • di 
    • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Il ritorno della guerra in Europa e soprattutto nei mass-media rende di grande interesse ed attualità due idee – o meglio idola – contemporanei: che la guerra sia (solo) frutto di decisioni e culture belliciste e che il “progresso” (correntemente inteso) porti al suo superamento come mezzo di risoluzione dei conflitti. Accanto alla guerra – aggiungo io – oggetto in via di estinzione è anche il nemico. A meno che non si tratti di colui/coloro che si oppongono alle suddette convinzioni: nel qual caso si tratta di un arcinemico, un nemico assoluto, colmo di tutto il male possibile.
  • ...
  • Scrive l’autore “non c’è dubbio che il fenomeno politico più eclatante di questi anni sia il ritorno prepotente del conflitto tra le grandi potenze. Si tratta di un brusco e amaro risveglio dopo il breve interludio seguito alla conclusione della guerra fredda, in cui parve che, assieme alla storia, fosse prossima a finire la sua ombra ferrigna, cioè la guerra. Dall’altro lato, la rivoluzione in atto nelle scienze antropologiche…, ha reso ineludibile confrontarsi con l’evidenza scientifica che la guerra appartiene all’uomo sin dalle sue origini”.
  • ...
  • Ma il carattere anarchico, conseguente alla parità dei soggetti politici internazionali, esclude un potere superiore decisore dei conflitti. Il problema della natura umana, consustanziale al realismo politico (v. Tucidide e l’Ambasciata ateniese ai Meli) può essere affrontato “nel quadro delle scienze biologiche. Uno degli obiettivi di questo libro è in tal senso quello di innestare sul tronco del realismo politico l’analisi scientifica della natura umana, e cioè l’antropologia evoluzionistica”. Il libro è diviso in due parti, “la prima parte, storico-politica, intende mostrare il naufragio del tentativo moderno di superare la perenne precarietà della pace, una tregua tra due guerre, mediante un assetto durevolmente pacifico delle relazioni tra stati, mirando addirittura a una «pace perpetua»”. Nella seconda si analizza il rapporto tra guerra e natura umana (Proudhon) alla luce anche dei moderni risultati della biologia e dell’antropologia (e non solo), onde rispondere alla domanda se la guerra sia “un’attività con profonde radici nella nostra storia naturale, ovvero un adattamento evolutivo”. Data l’inevitabilità della guerra si chiede Sadun Bordoni nella conclusione se “la superiore intelligenza, capacità tecnica e presumibilmente aggressività, che consentirono a Homo sapiens di affermarsi nella competizione con altre specie di uomini, potrebbe causarne l’autodistruzione, anche solo parziale. Non si tratta infatti solo dell’ipotesi di un’estinzione della specie: anche un radicale collasso di civiltà rappresenterebbe il giorno del giudizio per l’uomo”.
  • ...
  • Due considerazioni del recensore. L’ineliminabilità del conflitto e della guerra è una regolarità della politica (Miglio) e un presupposto del politico (Freund). Tanto per ricordare due acuti studiosi del secolo scorso, senza bisogno di citare i loro (tanti) predecessori da Tucidide, passando per Machiavelli e Hobbes fino a Carl Schmitt.  Senza conflitto e nemico non si comprende né la politica e neanche – tra l’altro – il diritto (Carnelutti tra i tanti): non se ne può dare una giustificazione razionale. Il fatto poi che chi pensa il contrario non indica, in millenni di storia, alcuna comunità che sia esistita senza capi, senza nemici e senza conflitti è indicativo della regolarità di questi e del carattere favolistico del contrario.  Che vengano, come scrive Sadun Bordoni, indagini moderne a confermare ciò è un’ulteriore conforto alla tesi della regolarità del conflitto e del nemico. Tuttavia tale tesi deve contemperarsi con l’esistenza del libero arbitrio che se rende comunque possibile la guerra, può indurre a scegliere la pace. Ne deriva che le concezioni antropologiche della bontà naturale, del raziocinio, del progresso (e così via) nonché i loro sostenitori potrebbero finire col generare un pianeta senza guerre.  Neanche tale concezione può essere condivisa – anche se auspicabile. La modernità ha perso la distinzione tra ciò che è impossibile e quindi non oggetto di prescrizioni giuridiche, come osservare la legge di gravità, nutrire i tavoli, far volare gli asini (Spinoza), cioè l’impossibile ontologico e ciò che, pur essendo possibile, è altamente improbabile, come contrario a comportamenti costanti.  Ossia alle regolarità (psicologiche e) sociologiche; onde si può evitare una guerra ma non eliminare la guerra dalla possibilità (dalla volontà e dalla natura) umana.
  • ...
  • La regolarità del potere di Tucidide, la legge ferrea dell’oligarchia, la distinzione amico-nemico sono conformi al comportamento umano e quindi regolari. Se una comunità di stiliti nella Tebaide o una tribù polinesiana sono vissute senza capi e senza nemici ciò conferma il carattere di eccezione rispetto alla costanza di comportamenti contrari. E la necessità quindi di costruire gli argini per proteggersi dalle (future) inondazioni (Machiavelli). Cosa che questo libro aiuta a fare.

  • Ildegarda

  • "Il libro delle opere divine"
  • Ildegarda di Bingen
  • e il cristianesimo “naturalistico”
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • È nelle librerie, per i tipi di Mimesis, l’opera capitale di una delle figure più rilevanti, ma meno note e studiate, della filosofia medievale. Ci riferiamo a, Il libro delle opere divine, di Ildegarda di Bingen (per ordini: mimesis@mimesisedizioni.it, 02/24861657).
  • ...
  • Il volume raccoglie, in un Prologo e in due parti, dieci “visioni” della contemplativa considerata, dalla vulgata esegetica prevalente, sic et simpliciter, “mistica” cristiana. La lettura del testo mostra, al contrario, soprattutto nei “commenti” di Ildegarda alle “visioni”, che la sua personalità è molto più complessa. Fu, di certo, una mistica, seppur in possesso di una cultura fuori dal comune, non solo filosofico-teologica, ma anche, per l’epoca in cui visse, “scientifica”. Il suo sapere fu enciclopedico, integrale: da un lato, annunciava, anzi tempo, il gusto umanistico nel rintracciare relazioni tra micro e macrocosmo, mentre dall’altro, in forza di una straordinaria capacità di sintesi, si fece latore di un cristianesimo, al pari di quello francescano a lei succedaneo, atto a recuperare la physis, la centralità della natura. Il volume è impreziosito dalle Tavole miniate contenute nel manoscritto n. 1942, conservato presso la Biblioteca Statale di Lucca, che permettono al lettore di avere proficuo accesso al multiforme mondo simbolico dell’illuminata studiosa.
  • ...
  • Per entrare nelle vive cose della trattazione di Ildegarda, è necessario aver contezza che le “visioni” furono trascritte nel decennio che va dal 1163 al 1174. Periodo cruciale nella vita della pensatrice, impegnata nella fondazione del monastero di Eibingen e nella redazione della Vita di San Disibodo. Inoltre, nel medesimo frangente temporale, la donna affrontò la morte del fedele segretario Wolamr, valido aiuto nella stesura de, Il libro delle opere divine. Dopo il luttuoso evento, il volume fu terminato grazie al contributo del nipote della badessa, Wezelin, e di Ludovico di Sant’Eucario. L'opera può essere considerata una risposta, teoricamente assai potente, al conflitto che, con Federico I, stava contrapponendo la Chiesa all’Impero. Al magistero spirituale di Ildegarda aveva guardato con interesse lo zio di Federico, Corrado III. In forza di tali rapporti con l’autorità imperiale, la mistica si sentì indotta a inviare epistole accorate all’Imperatore, perché questi sanasse il conflitto in essere. Le tensioni del papato nei confronti di Fedrico I avevano portato all’assassinio dell’arcivescovo filo-imperiale di Magonza, città non distante da Eibingen.
  • ...
  • Fin dall’incipit dell’opera, inoltre, Ildegarda dichiara la propria ispirazione giovannea. Giovanni evangelista, al pari della pensatrice, aveva fatto discendere nella propria anima l’ispirazione divina,  nutrendosi della profondissima rivelazione che sgorga dal cuore del Cristo, dio incarnato, potente e sofferente, che si è fatto uomo per salvare il mondo. L’impianto giovanneo del libro è mirato a fornire una risposta forte allo gnosticismo dualista, in quel tempo tornato prepotentemente sulla scena con il bogomilismo e con la dottrina catara.
  • ...
  • I commenti alle “visioni” (indotte da un’accentuata sensibilità psichica e, stando a certi interpreti, risultato anche delle potenti emicranie che affliggevano la monaca), sono articolati da Ildegarda con continui rimandi ad Agostino, Boezio, Giovanni Scoto Eriugena e alla Scuola di Chartres.  Nella prima “visione” emerge una figura splendente di oro e di rosso, simboleggiante una vera e propria visualizzazione immaginale e non logocentrica della conoscenza, richiamante la dottrina stoica del fuoco, energia atta a preservare l’armonia mundi. Il Lógos è identificato con il pneuma, soffio infuocato, anima del cosmo. L’espressione chiave al fine di interpretare il mondo ideale della mistica è viriditas, “energia verdeggiante”. La nozione fa rilevare l’intenzione teorica dell’autrice: scendere in profondità all’interno delle metamorfosi naturali per cogliervi, con Dionigi l’Aeropagita, il principio animato, la sua “non-forma”. Una sorta di “razionalità biologica” sempre all’opera.  Agostino aveva, del resto, insegnato che il: «generarsi del pensiero nel linguaggio, costituisce modello privilegiato per comprendere la generazione del Padre nel Verbo» (p. 13).  La parola divina si manifesta nel duplice ordine della natura e della Scrittura, per questo Ildegarda scrive, testimonia il Verbo e, con Eriugena, interpreta, anti dualisticamente, in modalità cosmologico-antropologica il Prologo di Giovanni.  Il Verbo, in queste pagine, ha tratto naturale, “fiorisce”, “ri-suona” in tutti gli enti.
  • ...
  • Al modo dei Maestri di Chartres, in Ildegarda lo Spirito Santo assume valenza di connectens, è nexus che lega il trascendente all’immanente. Non si tratta ancora di panteismo in quanto, a dire della pensatrice visionaria, vi è una distinzione tra la prescienza di Dio: «nella cui eternità è fondata, platonicamente, la realtà delle cose, e il successivo apparire dell’opera divina nel tempo» (p. 19). Certamente, tali tesi, rappresentano un momento di innesco di una nuova prospettiva teoretica portata a compimento durante la Rinascenza.  Ildegarda, da interprete fedele di Giovanni, rinvia, inoltre, alla dimensione soteriologica, alla teologia della storia, in una prospettiva per certi tratti non dissimile da quella di Gioacchino da Fiore. Lo si evince dalla parte conclusiva del volume, anche se il tema escatologico emerge, in tutta evidenza, già nella prima “visione”. In essa, l’itinerario verso il nulla di Lucifero, angelo ribelle, è simbolicamente rappresentato in una circonferenza di oscurità e male, mentre la paternità divina è visibile in una diversa circonferenza, “circolo di pienezza”. L’apertura al “naturalismo” è innegabile nella seconda “visione”. In queste pagine, i venti animano l’uovo cosmico originario (tradizione orfico-pitagorica), trasferendo il “soffio vitale” al mondo. Ogni vento riveste una particolare valenza simbolica, in un cosmo sacralmente orientato e animato, dall’interno, dal principio. Medesimo ruolo giocano gli animali-simbolo, leopardo, lupo, leone e orso, così come il firmamento.
  • ...
  • L’uomo cosmico di Ildegarda è copula mundi: il suo agire può avere esiti anagogici o catagogici. Il monaco è paradigma di tale cosmicità. Un monachesimo, quello della badessa, lontano dal rigorismo ascetico, aperto al “femminile” e al “generativo”, capace di veicolare verso l’alto gli impulsi meramente “biologici” (come statuito dalla Regula Benedicti, cui l‘autrice guarda quale positivo esempio di azione nel mondo), non contrastando, in toto, la realtà corporale della vita.
  • ...
  • Ildegarda è alla ricerca della giusta misura tra contemplazione e azione. La sua filosofia rappresenta un anello di rilevo in una corrente carsica del pensiero europeo che fiorirà nel Rinascimento con Bruno e si riaccenderà nella mistica di Böhme e di von Badeer, per riaffacciarsi nella filosofia del Novecento, in particolare italiana.
  • ...
  • Il libro delle opere divine di ldegarda di Bingen, animato da non comune potenza linguistico-affabulatoria, è opera di spessore, sulla quale bisognerà tornare a riflettere.

  • Agamben

  • "La potenza del pensiero"
  • Saggi e conferenze
  • di
  • Giorgio Agamben
  • rec.  di
  • Giovanni Sessa
  • Giorgio Agamben è pensatore di valore, una delle voci più significative e libere del panorama teoretico dell’Italia contemporanea. Lo mostra la sua ultima fatica, La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, comparsa nel catalogo di Neri Pozza Editore (pp. 392, euro 26,00). Il testo è una silloge di conferenze e di scritti inediti o pubblicati su riviste, a muovere dal 1980 ad oggi, ed è articolato in tre sezioni: Linguaggio, Storia, Potenza. Volume composito,organico nei contenuti, dal quale si evince l’erudizione speculativa dell’autore esser supportata dalla volontà di far luce sui plessi della filosofia europea che hanno indotto lo stato presente delle cose. L’espressione linguistica di Agamben è sostenuta da volontà di parresia, dal voler, nell’epoca della post-verità, confrontarsi, in modalità originale, con problematiche teoretiche dirimenti per il nostro tempo. Le argomentazioni hanno sviluppo spiraliforme: come in ogni autentico filosofare, lo scritto torna di continuo, “ossessivamente”, sui medesimi temi, fin dall’ incipit, La cosa stessa (del pensiero).
  • ...
  • Agamben, in questo saggio, si intrattiene sulla Settima lettera di Platone, il più delle volte interpretata dalla critica quale testimonianza dell’esistenza di dottrine non scritte nel pensiero del grande Ateniese, dottrine rinvianti a un “primo”, a un’origine indicibile. In realtà, Platone, spiega il pensatore, dopo aver fatto riferimento al nome, al discorso definitorio, all’immagine e alla scienza, chiama in causa un “quinto”, la cosa stessa cui il pensiero mira. Il filosofo greco afferma: «nel modo più esplicito che “se non si sono colti i primi quattro” […] non si potrà mai conoscere compiutamente il quinto» (p. 13). La “cosa del pensiero”, il contatto di cui ha detto Colli, la si può toccare, in modalità immediata: «sfregando gli uni sugli altri nomi, logoi, visioni e sensazioni e mettendoli alla prova in confutazioni benevole» (p. 13). La sparizione del linguaggio nell’indicibile, sic et simpliciter, esoterico, induce, al contrario, la definitiva perdita della filosofia: «La cosa stessa ha dunque nel linguaggio il suo luogo eminente, anche se il linguaggio non è senz’altro adeguato ad essa» (p. 14). La cosa stessa, l’eidos, non è altro dal reale, non ne rappresenta un duplicato, non è oscuro presupposto del nome e del logos, ma sta: «nel medio stesso della sua conoscibilità, nella pura luce del suo rivelarsi» (p. 16). Il sapere logocentrico ha reso il linguaggio presupponente e oggettivante riducendo la “cosa del pensare” a: «un essere su cui si dice e in un poion, in una qualità e determinazione che di esso si dice» (p. 16).
  • ...
  • La sua reale conoscibilità, in tale prospettiva, è stata smarrita. Platone si limita ad annunciare l’aporia del linguaggio metafisico, con la quale si sta confrontando il pensiero contemporaneo. Il tratto non-linguistico dell’origine può, difatti, essere pensato solo nel linguaggio. La comunicazione filosofica deve venire in aiuto, con la parola, alla Parola stessa. Aristotele, ricorda l’autore, fece subentrare alla “cosa del pensiero”, la sostanza prima, ciò che non si dice su un soggetto, né in un soggetto. La sostanza divenne il presupposto su cui si fonda ogni dire anche se, come individuum, rimase ineffabile. Agamben, per questo, considera Aristotele padre della mistica occidentale. Su tale fondamento il filosofo diviene: «scrivano del pensiero e, attraverso il pensiero, della cosa e dell’essere» (p. 22). Compito della filosofia dell’avvenire sarà quello di restituire alla “cosa del pensiero” un posto conveniente nel linguaggio. In tal senso ha operato Derrida, con il proprio experimentum linguae. Tale esperimento è centrato sul concetto di traccia. Si badi, il francese si riferisce paradossalmente a un non-concetto che mette in discussione la stessa idea di senso sulla quale è fondata la logica occidentale. La traccia è una sorta di scrittura della potenza, scrittura che, di fatto, a dire di Agamben, nessuno ha finora messo in atto, in quanto implica un ripensamento del concetto aristotelico di dynamis, potenza-possibilità.
  • ...
  • È la dynamis il cuore vitale della filosofia di Agamben. Lo si evince dal saggio che dà il titolo al volume, La potenza del pensiero. Pagine illuminanti che chiariscono il duplice tratto della potenza nello Stagirita: possibilità di potere e di non-potere (privazione) in uno. L’atto aristotelico non è che periechein, “ciò che avvolge” momentaneamente nel suo darsi, il prius, la mai normabile dynamis, come comprese Andrea Emo: «La potenza è […] definita essenzialmente dalla possibilità del suo non-esercizio […] L’architetto è potente in quanto può non costruire» (p. 270). La grandezza umana è anfibia, è potenza di non passare all’atto. Solo non-potendo possediamo la nostra più propria potenza, il nostro operare risulta inoperoso (Nancy). Tale situazione testimonia l’impossibilità del soggetto moderno, induce la necessità di una sua decostruzione, alla luce della quale risulterà davvero potente chi, al momento del passaggio all’atto: «non annullerà […] la propria potenza di non […] ma la farà passare integralmente in esso come tale» (p. 278), come accade negli enti della physis intesa quale mixis.
  • ...
  • Agamben porta, inoltre, la sua attenzione esegetica sul libro di Lévinas, Filosofia dell’hitlerismo. In queste pagine si sostiene che l’interesse per la fatticità e il “ci” dell’Esser-ci, da parte del nazionalsocialismo e di Heidegger, il loro muovere dalla vita nuda, sono portato teorico della filosofia europea. Il nazismo non può essere esorcizzato con condanne o apologie comminate a questo o quel filosofo prossimo a tale movimento. Sarebbe, di contro, auspicabile comprendere come il “ci” della condizione umana, non debba essere vissuto e pensato in termini di chiusura, ma in funzione di reale “apertura”, di fattiva esposizione a quell’idea di potenza inoperosa che potrebbe farci superare l’impasse del presente, segnata dal capitalismo computazionale: «Il testo di Lévinas […] può allora offrire l’occasione per prendere coscienza della nostra imbarazzante prossimità con il nazismo» (p. 317), visto il tratto “epidemico”, in senso greco (la definizione è di Emo) assunto dalle democrazie liberali. Agamben mostra, inoltre, come il tema dell’Immemoriale sia presente nella speculazione moderna e come abbia in essa assunto tratto immaginale. In particolare, ciò è avvenuto nell’eterno ritorno di Nietzsche. In tale immagine essere e divenire si danno, anche cronologicamente, in uno, vivono in costante interdipendenza. L’immagine dice di una potenza in fieri che ha in sé i due momenti della dynamis aristotelica, eternamente ritornante e implicante l’oblio. Della cosa, ricorda l’autore, ebbe contezza Dino Campana.
  • ...
  • La potenza del pensiero è libro che meriterebbe trattazione diversa da quella di una recensione. Della qualcosa ci scusiamo con autore e lettori. Ci auguriamo di aver presentato almeno alcun plessi dell’articolata proposta teorica di Agamben.

  • Fabiansson

  • Jünger nelle tempeste d’acciaio
  • Un compendio documentale e fotografico di
  • Nils Fabiansson
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  •  
  • Ernst Jünger è, al di là dei giudizi politici espressi sulla sua opera, uno dei grandi nomi della letteratura europea del Novecento. Un illustre “figlio del secolo XX”, periodo di contraddizioni e tragedie, ricco di slanci ideali. Nella vasta produzione jüngeriana un ruolo di primo piano riveste il libro che lo rese noto al grande pubblico, Nelle tempeste d’acciaio. Un volume dedicato a rievocare, in presa diretta, la partecipazione dello scrittore al Primo conflitto mondiale sul fronte occidentale. È da poco disponibile per il lettore italiano un volume di Nils Fabiansson, Ernst Jünger nelle tempeste d’acciaio della Grande Guerra, comparso nel catalogo di Italia Storica Edizioni, il cui senso è svelato dal sottotitolo, Un compendio documentale e fotografico sull’esperienza di guerra del tenente Ernst Jünger nel Primo conflitto mondiale (pp. 184, euro 25,00). Il volume è curato da Andrea Lombardi, la traduzione è di Vincenzo Valentini. L’autore è uno storico ed archeologo svedese, autore, tra le altre cose, di una guida di viaggio sul fronte occidentale del conflitto che inaugurò il “secolo breve”.
  • ...
  • Per comprendere le intenzioni dello studioso svedese è bene muovere dalle considerazioni di Christopher Tilley, docente di storia materiale, che a proposito del paesaggio ha rilevato che: «i luoghi sono da sempre molto più che punti di localizzazione, perché hanno significati e valori distintivi per le persone» (p.7). Lo stesso Jünger sostenne, a più riprese, di essere magneticamente attratto da alcuni “luoghi”. Per questo motivo, Fabiansson conduce il lettore sui campi di battaglia descritti da Jünger Nelle tempeste d’acciaio, non solo confrontando e fornendo l’esegesi delle molteplici revisioni cui quest’opera fu sottoposta dalla scrittore, ma servendosi di un ricchissimo apparto iconografico contenete fotografie tratte da archivi pubblici e privati (particolarmente suggestive e rievocative dell’“atmosfera”, del “clima spirituale” allora aleggiante sulle trincee, risultano essere quelle in bianco e nero), di pagine dei diari dello scrittore tedesco, di mappe da lui disegnate su taccuini e immagini dei luoghi delle battaglie come appaiono oggi. Fabiansson, si badi, non mira a realizzare una sorta di turismo bellico-letterario, che Jünger non avrebbe apprezzato, ma resta fedele allo sguardo stereoscopico e glaciale dello scrittore. I testi inerenti la guerra del tedesco sono stati costruiti su quelli che Jünger definì “speciali poteri percettivi”, che gli consentirono di osservare dolore e morte con sguardo privo: «di sentimentalismi, con asciuttezza e fredda precisione» (p. 9).
  • ...
  • Il narrato si articola in cinque capitoli che analizzano le fasi del conflitto a muovere dall’agosto del 1914 per giungere ai tragici eventi del novembre 1918, momenti al cui centro si staglia la figura dell’uomo Jünger e si conclude in un Epilogo, nel quale l’autore presenta le numerosissime traduzioni all’estero di Nelle tempeste d’acciaio. Troppo spesso si è sostenuto che Nelle tempeste d’acciaio sia stato, sic et simpliciter, testimonianza dell’eroismo mostrato in combattimento dall’autore. In realtà, la lettura di Fabiansson ci restituisce uno Jünger a tutto tondo, umano troppo umano, che in molti plessi del libro racconta che: «in diverse occasioni avesse (aveva) lasciato i suoi commilitoni in balia del nemico» (p. 9). Il fatto che citi tali esempi di fallimento personale è fatto rilevante. Lo scrittore tedesco seppe affrontare, in molte circostanze, come emerge da questo studio, con sprezzo del pericolo, il rischio della morte. Patì ferite alle gambe e alla testa (conservò il suo elmetto con il foro del proiettile che lo aveva trapassato) e, per questo, fu insignito delle più alte onorificenze militari al merito. Nonostante ciò, nel 1972 affermò che: «i ricordi dei suoi giorni di scolaro erano più vividi di quelli di combattente di guerra» (p. 10). Si lagnava, infatti, anche alla luce della sua nuova visione della vita, ben rilevata dalla esegesi del suo pensiero da Evola, che i lettori si intrattenessero, a molti decenni di distanza dalla loro pubblicazione, sui suoi scritti di guerra definiti ormai «Vecchio Testamento» (p. 10).
  • ...
  • Non fu solo il “cuore avventuroso” a indurre Jünger ad arruolarsi volontario, ma anche la precisa volontà di meravigliarsi e di comprendere in profondità il senso della guerra; si chiese se essa celasse ancora, di là dai massacri che la “guerra dei materiali” imponeva, per chi la viveva in prima persona, una possibilità realizzativa. La sua risposta fu positiva. Il combattimento determina il superamento della routine borghese, ponendo l’uomo di fronte alla potestas che lo anima e che aleggia in tutta la natura. La guerra distruttiva pare travolgere tutto. Le descrizioni dei campi di battaglia dello scrittore tedesco, ci fa entrare nelle vive cose del paesaggio bellico, attraversando e confrontandosi con l’eterna metamorfosi ciclica che lì costituisce. Jünger seppe, come colse il filosofo Karl Löwith, che il permanente e lo stabile nella vita umana è dato solo dalla “trascendenza” della natura. Durante il Secondo conflitto mondiale, rilevò che la Piccardia: «con le sue dolci ondulazioni, i villaggi incastonati nei frutteti, i pascoli, attorno ai quali si allineano i filari di alti pioppi […]» (p. 22), lo avevano fatto fremere dalla gioia. Non casualmente, durante il periodo trascorso a Monchy e a Douchy, di cui dice in Giardini e strade, si dette nelle trincee, alla “caccia sottile” degli insetti. Quindi, neppure nelle circostanze drammatiche della guerra, in Jünger venne meno la passione entomologica, nella convinzione che nel “particolare” si dia il principio, l’universale.  Catalogò ben 143 tipologie di insetti.
  • ...
  • Anche il potere di Eros non fu obliato dal senso della morte incombente, in quanto, grecamente, Eros e Thanatas si dicono in uno. Così, il 5 giugno 1916, annota laconicamente: «Jeanne a Combrai» (p. 25), a testimoniare un fugace amore di trincea. Così come non furono tacitati in lui gli affetti più cari. Significativa è la narrazione di Fabiansson degli incontri con il fratello Friedrich Georg, durante i quali i due goderono degli effetti rilassanti del vino di Borgogna e delle fumate, in pipe di sepiolite, del tabacco Navy cut inglese (a causa delle ferite riportate, il pensatore durante la Prima guerra, sperimentò anche l’etere e altre sostanze psicotrope). Commovente, inoltre, il ricordo che Jünger ci ha lasciato dei suoi camerati, siano essi ufficiali o fedeli attendenti che, per lui, sacrificarono la vita.
  • ...
  • Il libro dello studioso svedese, non è quindi, un semplice “compendio” per leggere Nelle tempeste d’acciaio, ma volume di rilevo per l’esegesi dell’intera opera di Ernst Jünger.

  • IL TRAMONTO DELLA SPD
  • di 
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Il pessimo risultato della SPD alle recenti elezioni tedesche è “il peggior risultato nell’ultimo secolo di esistenza di questo partito” (è stata così indicato negli articoli che ho letto), induce due considerazioni congiunte tra loro.
  • ...
  • La prima, che qui non ripeto, perché spesso ci sono tornato, è che è venuta meno l’opposizione principale nel “secolo breve” cioè quella tra proletariato e borghesia, a seguito del crollo del “socialismo reale”; onde viene meno anche la necessità di quei partiti che della suddetta opposizione erano la conseguenza e l’espressione (politica e organizzativa).
  • ...
  • La seconda: di quella opposizione la SPD era il caso (e il prodotto) più importante. Quale espressione dell’evoluzione e dei travagli a un tempo del movimento operaio, del socialismo e della sinistra in genere da circa un secolo e mezzo.  Il partito ispirato a Marx, Engelss e Lassalle, nato nel 1875, che aveva visto al proprio vertice Bebel, Kautsky, Bernstein fino a Willy Brandt e ai dirigenti successivi alla II guerra mondiale; il partito che è stato oggetto di studio anche di pensatori non proprio socialisti come Spengler e Michels è ridotto ai minimi termini. Spengler ne notava il carattere disciplinato (prussiano/comunitario) contrapposto allo spirito disordinato e individualista (francese e inglese). Mentre Michels vi trovava conferma della regolarità (Miglio) della classe politica e della ferrea legge delle oligarchie che dominavano anche in un movimento teso ad una prospettiva di liberazione totale (la società senza classi).  In effetti Spengler scriveva che “in quella classe operaia forgiata da Bebel in un potente esercito, nella sua disciplina e fedeltà, nel suo cameratismo, nella sua disponibilità ai più estremi sacrifici, sopravviveva quell’antico stile prussiano”.; e che un socialismo tedesco o meglio prussiano significa che questo si conforma alla convinzione generale (istinto/guida) che il potere appartiene alla comunità mentre in quello inglese appartiene all’individuo e in quella francese a nessuno. Combinandosi col socialismo questa convinzione (notata da altri come di derivazione luterana) genera un socialismo gerarchico-comunitario, in sostanza autoritario.
  • ...
  • Nel secondo dopo guerra Kirchheimer coniava il termine di “partito pigliatutto” ispirandosi (anche) all’evoluzione dell’SPD; connotati salienti del “partito pigliatutto” erano (rispetto al “partito di classe” che l’aveva preceduto) di fare riferimento a un insieme di gruppi sociali e una evidente de-ideologizzazione.  A seguito del crollo del comunismo, della perdita dell’opposizione borghese-proletario e dell’emergere di una nuova frattura decisiva (globalizzazione-sovranpopulismo), anche un partito esemplare e glorioso come la SPD pare giunto ai minimi termini come i suoi analoghi di sinistra (e spesso anche di destra).  Né l’insediamento sociale, né l’aver governato per decenni, né la tradizione più che centenaria hanno retto alla neutralizzazione dell’opposizione che li ha generati e all’indebolimento dei fattori d’integrazione.  Una lezione per l’avvenire.

 

  • Girdini

  • Giardini fantastici ed esoterici d’Italia
  • Un saggio di
  • Lorenzo Sartorio
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • Da tempo ci occupiamo di giardini. In particolare di filosofia del giardino. Per questo abbiamo avvertito la necessità, dopo averlo letto, di parlare di un recente libro in tema. Ci riferiamo al volume di Lorenzo Sartorio, studioso milanese e viaggiatore appassionato, Giardini fantastici ed esoterici d’Italia, nelle librerie per Edizioni Polistampa (per ordini: info@leonardolibri.com, 055/73787, pp. 208, euro 30,00). Si tratta di un saggio aperto dalla contestualizzante prefazione di Paola Maresca, corredato da un ricco e prezioso apparto iconografico (foto scattate nei luoghi descritti, da Sartorio stesso). La prosa affabulatoria dell’autore rende gradevole la lettura e mira a far compiere al lettore accorto un viaggio nei giardini fantastici ed esoterici italiani: viaggio nel tempo e nello spazio ma, soprattutto, iter da compiersi in interiore homine.
  • ...
  • Qualsivoglia “passeggiatore solitario” (la definizione è di Rousseau) abbia la ventura di accedere in uno di questi luoghi pregni di meraviglia, percepisce un “atmosfera”(fuzei, in lingua giapponese), sottraendosi, in tal modo, ai processi di “fattorizzazione” propri della conoscenza concettuale e logocentrica.  Il giardino è, lo sostenne, il filosofo Merleau-Ponty, “un campo d’esperienza” nel quale si acquisisce contezza della coincidenza oppositorun, dell’essere gli opposti in un rapporto di relazione non-escludente. In tal senso, si vada alle pagine che, nello Zibaldone, Leopardi dedicò al giardino. In esse il poeta-filosofo sostiene che nel momento del fulgore primaverile-estivo della vegetazione, nell’erompere dei profumi e dei colori dei fiori, è possibile presagire inscritta in essi, la loro fine, l’inverno della vita. L’esegesi di Sartorio muove dai giardini italiani del Rinascimento, spingendosi fino ai Parchi realizzati nel tardo Ottocento: in essi, gli architetti-giardinieri dell’Umanesimo, a seguito del recupero neoplatonico del sapere ermetico, trascrissero le tappe di veri e propri percorsi iniziatici. Durante la Rinascenza «Un ruolo fondamentale per questa rinnovata concezione del giardino la ebbe la pubblicazione, nel 1499, del libro Hypnerotomachia Poliphili» di Francesco Colonna (p. 16).
  • ...
  • Sartorio accompagna il lettore, con persuasività di accenti e fondato sapere ermeneutico-simbolico, in diciotto giardini e parchi di grande rilevanza. Non si limita a descrivere e interpretare senso e significato riposto di questi luoghi, ma si sofferma sulle originali personalità dei loro ideatori. Entriamo, con la dovuta cautela, in alcuni di essi. Muoviamo dal Parco mediceo di Pratolino, voluto da Francesco I (1541-1587). Il progetto ebbe inizio nel 1568. Allo scopo, furono deviate le acque del Monte Senario che andarono ad animare le spettacolari fontane e gli automi del giardino, dando vita a un gioco d’acque assai suggestivo. L’ingresso, in origine collocato a Nord, conduceva alla fontana di Giove: «da cui si sviluppava un complesso percorso alchemico-filosofico» (p. 23). L’iter del “risveglio” era ben simbolizzato dal labirinto, metafora: «del cammino tortuoso da dover effettuare per raggiungere il Centro» (p. 24).  Il genius loci a Pratolino è incarnato dalla statua dell’Appennino del Giambologna. In sintesi, il giardino mette in scena, in una serie di grotte, i tre momenti della trasformazione alchemica, nigredo, albedo e rubedo, al culmine della quale l’adepto consegue uno stato di sublimazione permeato da Eros, idendificandosi con l’Uno-Tutto. Non dissimile è il Sacro Bosco di Bomarzo, posto in essere da Vicino Orsini quale tempio, fantasticamente adorno di statue e figure mostruose, per la cui decodificazione rinviamo all’esemplare esegesi di Elémire Zolla. Quando il neo-paganesimo umanistico fu sopraffatto dalla montante marea controriformista, divenne, una sorta di “reclusorio” per quegli spiriti che avevano serbato una sensibilità iniziatico-pagana.
  • ...
  • Altrettanto rilevante è il Parco Durazzo Pallavicini, di Pegli, nel quale il percorso esoterico si snoda: «in una vera e propria recita teatrale suddivisa in atti, nelle quali il visitatore diventa […] il protagonista principale» (p. 96) di una metamorfosi realizzata all’interno di un paesaggio panico, mediterraneo-solare. Il merito di questa costruzione va attribuito ad Alessandro Pallavicini e allo scenografo Michele Canzio, entrambi prossimi alla visione del mondo massonica. Nell’esodo finale del tragitto teatrale, si realizza la trasformazione della “pietra grezza” della personalità in “pietra levigata”.  I giochi d’acqua, con la loro trasparente sonorità, esercitano un ruolo di primo piano. Medesima considerazione può valere per lo Storico Giardino Garzoni di Collodi, sorto nei pressi del “Parco di Pinocchio” (personaggio la cui vicenda esoterica incuriosì lo psicanalista Emilio Servadio, sodale di Evola).  In esso, l’originario percorso mistico-allegorico conducente al Romitorio, divenne effettivo iter realizzativo.  Il Bosco Isabella, ubicato nel territorio di Radicofani e voluto da Odoardo Luchini, massone ed influente uomo politico, fu da questi dedicato a sua moglie Isabella.  È esempio di sincretismo culturale, sintesi di suggestioni romantiche e di simbologia massonica. Attualmente versa in stato di degrado a causa di prolungata incuria. Bisogna entrare in questo spazio: «tenendo conto che la Massoneria si è spesso ispirata, per le sue costruzioni, al Tempio di Salomone di Gerusalemme […] e ad Harim, il suo architetto ideatore» (p. 131).
  • ...
  • Non si può tacere, in questo contesto, il lascito dell’architetto Tomaso Buzzi, noto con il nome di La Scarzuola, nel cuore dell’Umbria. È una città-giardino fantastica, eretta nel luogo in cui S. Francesco costruì una capanna di “scurza”, pianta locale che dà il nome alla creazione di Buzzi. La “Scarzuola” può essere interpretata: «come vero e proprio viaggio di iniziazione […] in cui il visitatore-novizio si trova per prima cosa a lasciare la Città sacra per poi intraprendere la strada dell’Amore» (p. 142) e farvi ritorno da “risvegliato”. Significativa risulta essere, per la simbologia in essa presente, anche Villa Giulia di Palermo. Fu voluta dai Borbone, Goethe la definì: «il più bell’angolo della terra» (p. 146).  Concludiamo le nostre riflessioni, soffermandoci sul labirinto della Fondazione Cini all’isola S. Giorgio di Venezia, intitolato allo scrittore Borges. Si tratta di un labirinto “letterario”, di recente tracciato. Il suo rigore geometrico: «nasconde sempre qualcosa di enigmatico che non permette mai di classificarlo in toto» (p. 171). Si sottrae alle definizioni, rendendo edotto il visitatore che nei giardini, l’io si smarrisce e dalle sue ceneri sorge il Sé. In questi luoghi Prometeo e Orfeo sono conciliati, gli opposti si danno in uno. Mirabile e tragica coincidentia oppositorum, sulla quale alita dynamis, libertà-potenza sempre all’opera nella physis. Chi sappia attraversare consapevolmente i giardini di Sartorio, incontrerà, per dirla con Zolla, «verità segrete esposte in evidenza».

  • AVANTI IL PROSSIMO  (2.0)   
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Faccio seguito ad un mio articolo con lo stesso titolo per aggiungervi qualcosa, ma anche per analizzare alcune delle reazioni al discorso di Vance e le prime mosse di Trump sulle trattative per far cessare la guerra in Ucraina.  Particolarmente interessanti sono quelle dei guerrafondai italiani (e non solo) delusi. Non potendo schierarsi contro il tentativo di Trump di trattare la pace, sostengono (soprattutto) due tesi.
  • ...
  • La prima che occorre rispettare il diritto internazionale: l’aggressore (criminale) va sempre punito. A certe anime belle (quanto ipocrite) va ripetuto che la storia trabocca di aggressioni finite con accordi di pace che riconoscevano (le ragioni e) le conquiste (in parte e talvolta in tutto) degli aggressori. La guerra è nomogenetica: genera un ordine nuovo che è la base e la conseguenza della pace raggiunta.   A non prendere atto della realtà la pace non si fa mai.
  • Come del pari, spesso è polemogenetico il diritto: sempre la storia (e non solo) è gravida di guerre nate per pretese giuridiche – alcune fondate, altre no – invocate a sostegno del perseguimento di interessi dei belligeranti.  Peraltro nel conflitto russo-ucraino è tutt’altro che insostenibile che la mancata attuazione degli accordi di Minsk e la guerra strisciante contro le minoranze russofone costituissero valide ragioni per l’“operazione militare speciale” di Putin.  Resta il fatto che, se non si tratta per un nuovo ordine, la conseguenza non può essere che la prosecuzione della guerra, contrariamente a quanto le teste – hegelianamente gonfie di vento – di chi vorrebbe il ritorno allo statu quo ante, come condizione per la pace.  Ossia la sconfitta dell’aggressore.
  • ...
  • La seconda tesi è surreale: si sostiene che non si può far la pace con Putin perché è un nemico. A parte l’ovvia replica che per far cessare (lo stato di) guerra occorre trattare la pace con il nemico, giacché non si è mai vista una trattativa con un non belligerante, per assenza di oggetto, occorre comunque considerare che, atteso lo stato di potenziale inimicizia in cui si trovano i soggetti di diritto internazionale per natura, non sia opportuno che la pace coinvolga (anche) qualche non belligerante, i cui interessi possono essere compromessi da una guerra.  Ma questo non esclude che essenziale della pace è che la trattativa abbia come soggetti gli Stati nemici e in guerra. Nemici reali e attuali, non potenziali.
  • ...
  • In terzo luogo, e come conseguenza ventilata e implicita: trattare e non dettare è il miglior sistema per concludere una pace durevole. Il che significa farsi carico anche degli interessi e delle aspettative del nemico. Un pessimo esempio dell’inverso fu il “trattato” di Versailles, non negoziato con la Germania, ma imposto e per questo denominato “dettato”.  E di cui Papa Benedetto XV disse che il di esso effetto sarebbe stata una nuova guerra tra vent’anni (previsione esatta anche nei tempi).
  • ...
  • Quarto: rispettare il diritto internazionale restituendo le terre occupate ante bellum dicono i buoni. E l’attuale situazione di fatto? Questo è proprio il contrario della situazione al fronte: dove Putin ha occupato praticamente tutta l’area russofona dell’Ucraina, per cui non è chiaro perché dovrebbe restituirla, ma d’altra parte sarebbe suo interesse evitare una pace troppo dura per l’Ucraina.
  • ...
  • Quinto: non insistere tanto, al contrario di quanto fanno i guerrafondai in servizio permanente effettivo, sulla criminalizzazione di Putin, per una serie di ottime ragioni. La prima delle quali è ch’è decisamente strano trattare con un criminale. E non distinguere questo dal nemico, come già nel diritto romano “‘Hostes’ hi sunt, qui nobis aut quibus nos publice bellum decrevimus: ceteri ‘latrones’ aut ‘praedones’ sunt”. Distinzione che è passata nel diritto internazionale (westfaliano); il suo tramonto (parziale) ha connotato le guerre “assolute” del XX secolo (le due mondiali e quelle di decolonizzazione).
  • ...
  • Su “L’Opinione delle libertà” Savarese, Sola e Holmes hanno ricordato le incongruenze, le falsificazioni della realtà, le omissioni di una propaganda anti-russa che ha raggiunto (e talvolta sorpassato) i limiti del ridicolo, ora stigmatizzata della nuova amministrazione Trump.   Holmes ha più diffusamente di quanto da me fatto (v. il “Primo della classe”) sottolineato la corrispondenza tra le prime mosse di Trump e i consigli di Machiavelli; in particolare ai governanti innovatori, di stare accorti perché toccano interessi consolidati. Segnatamente le mosse del nuovo Presidente, come il discorso di Vance, denotano la consapevolezza dei governanti americani di essere, il cambiamento in atto,  più un passaggio d’epoca che una sostituzione di un governo con uno di segno opposto.
  • ...
  • Mentre termino di scrivere queste righe si è votato in Germania. Nell’articolo “Avanti il prossimo” mi riferivo (nell’immediato) proprio a Scholz, puntualmente defenestrato dai suoi elettori, secondo un copione che va avanti in occidente da diversi anni, invariato.  I partiti anti establishment aumentano sempre e spesso vanno al governo. Quando non ci riescono i governi messi su sono instabili, come notato da Vance.  Come invariate sono le reazioni (e le veline mainstream conseguenti) delle élite europee (in lista di sbarco).
  • ...
  • Non so se sia ormai troppo tardi per loro organizzare una contrapposizione all’offensiva politica trumpiana, ma occorre aggiungere che il carattere “nuovo” di questa impone non una reazione come quella già in atto, che i Trump-sovran-populisti rompono l’unità europea (fanno il gioco degli USA, sono i maggiordomi del nuovo padrone, ecc. ecc.), giacché come difensori dell’indipendenza europea le élite non sono in condizioni di dare lezioni a nessuno, ma ancor più, perché l’unità europea, come gli ha (implicitamente ed esplicitamente) ricordato Vance, l’hanno liquidata loro.
  • ...
  • Se ai costruttori dell’Europa (da Adenauer a Monnet, da Spaak a Martino) era evidente che l’Europa occidentale (democratica e liberale) non era altro che la creazione del cristianesimo occidentale, a loro questa ovvietà è ostica, al punto di aver rifiutato le radici giudaico-cristiane (e aggiungiamo greco-romane) che hanno tenuto uniti i popoli malgrado organizzati in diverse sintesi politiche, da ultimo gli Stati nazionali.  Alla divisione verticale in Stati, che i loro predecessori volevano (e speravano) gestire hanno sostituito quella orizzontale tra élite e popoli, oltretutto coltivandola, sia per inconsapevolezza, sia per miope interesse, così facendola diventare prevalente e decisiva.

  • Notturno europeojpg

  • "Serate sull’orlo della catastrofe"
  • Le notti di Evola nelle capitali d’Europa
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • Nell’anno da poco concluso, il 2024, cinquantenario della morte di Julius Evola, sono stati pubblicati diversi libri sul pensatore tradizionalista e nuove edizioni di sue opere. Ci occupiamo qui dell’ultima uscita, la silloge di articoli evoliani intitolata, Notturno europeo. Serate sull’orlo della catastrofe, comparsa nel catalogo di Altaforte Edizioni per la cura di Andrea Scarabelli e Adriano Scianca (pp. 156, euro 16,00).
  • ...
  • Il libro è aperto da una Nota della Fondazione Evola. L’introduzione è firmata da Scarabelli, la postfazione da Scianca. Il volume raccoglie una serie di reportage del filosofo risalenti agli anni Trenta (solo due degli articoli antologizzati sono del 1929). In essi l’autore si mostra attento osservatore della “vita notturna” delle principali capitali europee. I testi sono tratti da diverse testate alle quali il pensatore collaborava: innanzitutto da Il Regime Fascista di Farinacci, per il quale Evola fu, dal 1937, “corrispondente estero”, ma anche dal Tevere, dal Corriere Padano e dal Roma. Il volume è chiuso da un’Appendice che raccoglie due lettere del tradizionalista al pittore de Pisis e testimonianze varie sulla frequentazione evoliana dei locali notturni.
  • ...
  • A qualche lettore, questo interesse del pensatore, questa sua attività poco nota, potrebbe sembrare atipica o, addirittura, impensabile. In realtà, non è così. Comprendere le ragioni che indussero Evola a frequentare i tabarins fino all’alba, e non solo i chiostri dei Cistercensi o le alte vette innevate, consente di acquisire piena contezza della sua personalità, centrata sulla volontà di mettersi costantemente alla prova.
  • ...
  • Nelle capitali europee egli si recò per intervistare insigni rappresentati del mondo della politica e della cultura del tempo, in particolare il milieu rivoluzionario-conservatore tedesco e austriaco, esplicitando, in tal modo, le sue intenzioni metapolitiche che, come nota Scarabelli, ebbero: «la rivoluzione conservatrice come ascissa “orizzontale” e il tradizionalismo integrale come ordinata “verticale”» (pp. 12-13). La “vita notturna” è osservata dal filosofo con attenzione e distanza interiore propria di un “convitato di pietra”. Per capire il senso profondo della silloge è bene tenere in considerazione il fatto che Evola scrisse questi pezzi sull’orlo della catastrofe europea, nell’imminenza dell’esito esiziale del Secondo Conflitto. Può valere da introduzione, quanto il filosofo nota in Momenti dell’Europa notturna: «”Vita notturna” è […] un concetto borghese. Alla concezione borghese […] si deve […] l’opposizione fra la vita normale diurna, più o meno addomesticata […] e la “vita notturna, intesa come […] compensazione […] con caratteri di cosa proibita […] peccaminosa» (p. 26).
  • ...
  • La capitale asburgica è descritta da Evola con queste parole: «Non sei più la Vienna regale e imperiale […] la monumentalità tutta e perenne della tua anima di pietra» (p. 50) appartiene ormai al passato. La vita dei viennesi è dominata dall’agitazione perpetua, senza centro e senso, dilaga l’odio per grandezza e aristocrazia. La Vienna descritta da Evola è “città senza qualità”. A Budapest il sentore della trascorsa grandezza è risvegliato in lui dai violini zigani: questa musica, dal tratto magico, è atta a indurre, sullo sfondo della notte danubiana, sentori di una visione del mondo al momento solo sopita. Bellissimo e suggestivo, rileva Scarabelli, il racconto della sua cavalcata notturna nei dintorni della città ungherese, durante la quale il filosofo apprezzò l’illimitatezza e la dolcezza del cielo stellato di fronte al quale: «ciò che era soltanto sentimento si libera e si illumina, e la nostalgia umana dà luogo a una nostalgia più vera e virile, alla nostalgia verso l’infinito» (p. 93). A Belgrado l’acquavite, sorbita nei locali notturni, induce in Evola stati evocatori durante i quali: «sembra che le impressioni delle cose […] ci giungano […] come in una naturale, calma rivelazione» (p. 42).
  • ...
  • Non diverse furono le esperienze e le impressioni che il filosofo visse a Capri, “isola pagana”, prima che, a muovere dagli anni Trenta, divenisse luogo dell’invasione turistica perpetrata da barbari moderni insensibili alla voce del Mediterraneo metafisico. A Capri, Evola ebbe contezza che la vita dionisiaca metamorfizza la realtà, mostrando che l’uno si dà nella physis, nella molteplicità tragica e abbagliante della natura solare. Evola si confrontò con l’invisibile, con il principio che muove il mondo, anche durante i soggiorni sulle Alpi, nel castello, infestato di presenze, dei Tauferes a Campo Tures.
  • ...
  • Scianca, nello scritto che chiude il libro, mette in atto un inusitato e interessante confronto tra la descrittiva “notturna” di Evola e quella dei situazionisti. A dire dello studioso, Evola, al pari del primo Debord, in questi scritti ha realizzato un esercizio di psicogeografia: «Non si tratta di immaginare “sintesi” pasticciate tra Evola e il situazionismo, semmai di leggere Evola attraverso il situazionismo» (p. 137). Evola e i situazionisti hanno sviluppato, infatti, una radicale “critica della vita quotidiana” indotta dall’urbanesimo moderno con i suoi determinismi sottaciuti, ma capaci di agire in profondità sull’immaginario collettivo. Per destrutturare il “meccanicismo” della vita moderna, il vagabondaggio urbano, anche notturno, gli incontri casuali nei tabarins hanno svolto, per il tradizionalista e i situazionisti (non casualmente sensibili al mito), ruolo dirimente. Evola, dunque, quale flâneur baudelairiano, latore di una “metafisica dell’episodico” (chi scrive preferisce l’espressione “filosofia del singolare”).
  • ...
  • Nei locali notturni il filosofo mise alla prova se stesso, l’idea di individuo assoluto, proteso alla conquista della libertà in un processo iperbolico sempre in fieri. È il riferimento a Dioniso a differenziare Evola da Debord. La deriva “etilica” del tradizionalista mira a un: «Io potenziato che integra in sé elementi dionisiaci incardinati in una lucidità superiore, che sa davvero far parlare Dioniso con la voce di Apollo» (p. 150).  Il suo dionisismo non è semplice via di fuga dalla vita borghese in funzione compensativa. Il filosofo ha contezza dell’eterna presenza della potestas dionisiaca, dell’origine. I limiti del situazionismo sono superati, nella sua visione, dalla categoria di tradizione (con la “t” minuscola”, come egli la scrisse fino al 1934): lo spettacolo della tradizione, con i suoi miti e riti, è l’antidoto alla società dello spettacolo contemporanea, in quanto radica l’uomo in una comunità di destino.
  • ...
  • Sappia il lettore che questi articoli di Evola sono rari cammei letterari. La prosa è godibilissima, in alcuni momenti lirica e poetica. Il filosofo ha il tratto tipico dell’“uomo difficile” hofmannsthaliano.  Appartenne a quella genia umana che seppe vivere a proprio agio nei locali notturni o sulle vette montane, esemplare rappresentante dell’aristocrazia dello spirito di cui ha detto Péter Esterházy in Harmonia caelestis.  Con buona pace della vulgata “evolomane” e dei suoi dogmi.

  • Cop. KLITSCHE ter

  • "LA  LOTTA  CONTRO  IL  DIRITTO"
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • recensione di
  • Giovanni Sessa
  • Teodoro Klitsche De La Grange è giurista e tributarista di vaglia, editore e direttore della rivista di cultura politica e di diritto pubblico «Behemoth», nonché autore di un numero assai rilevante di saggi giuridico-politici. È nelle librerie la sua ultima fatica, La lotta contro il diritto, comparsa nel catalogo di Oaks editrice (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 111, euro 12,00). Il titolo del volume, richiama, invertendolo di segno, uno scritto di grande importanza di Rudolf von Jhering, La lotta per il diritto. La ragione di tale scelta è da individuarsi in una constatazione storica non smentibile: la legislazione italiana, in particolare a muovere dalla “Seconda Repubblica” e dagli anni Novanta del secolo scorso, ha, in molti casi, reso praticamente impossibile l’esercizio dell’azione in giudizio dei privati e, con essa, l’attuazione degli stessi provvedimenti giudiziari.
  • ...
  • De La Grange, nell’incipit del testo, nello sviluppare la sua critica allo stato presente delle cose in Italia (ma non solo), muove proprio dalle tesi di Jhering. Questi sostenne il diritto essere un’attività pratica che vive, pertanto, esclusivamente nella sua concreta attuazione. Il diritto possiede, inoltre, tratto conflittuale, centrato com’é sulla distinzione/opposizione tra lecito ed illecito. Vi sono un diritto obbiettivo e un diritto subbiettivo. Il primo si incardina nell’ordinamento giuridico della vita, nei principi generali mirati alla preservazione dell’ordine, il secondo consta, al contrario, del suo inverarsi verso il basso: «il discendere dalla regola astratta sino ad investire la persona di un diritto in modo concreto» (p. 7). Il diritto privato statuisce la possibilità dell’individuo di agire per realizzare i propri diritti lesi, e la sua azione dà vita, fa essere, realizza il diritto obbiettivo. Agire in tal senso ha, lo riconobbe lo stesso Croce, tratto etico, in quanto contribuisce a mantenere saldo l’ordinamento giuridico vigente che, a sua volta, è condicio sine qua non, di un’ordinata vita comunitaria. A ciò contribuiscono, in modalità differente, tanto la legge ordinaria e costituzionale, quanto la sua “fonte”, il diritto consuetudinario, sedimento della storia e dell’ethos di un dato popolo.
  • ...
  • Ricorda il nostro autore che, posizione non dissimile in tema, fu sostenuta da Hauriou. Il grande giurista riteneva che ambedue le forme giuridiche, istituzionale e comune, fossero indispensabili a mantenere la pace sociale, essendo questa il risultato di un equilibrio tra “comando” dei governanti e “risposta” accettata da parte dei governati. La legislazione italiana, elefantiaca e contraddittoria, ha creato, nel corso degli ultimi decenni, una situazione di evidente squilibrio che grava, in toto, sulle spalle dei secondi, a tutto vantaggio della Pubblica Amministrazione. Tale: «posizione d’ineguaglianza deriva da una serie di “privilegi” e “disparità” del potere pubblico» (p. 12). In particolare, esistono differenze evidenti e crescenti tra il diritto applicato ai rapporti privati e quello tra PP.AA. e privati. Temi (la giustizia tra diseguali) e Dike (la giustizia tra eguali) sono oggi assai distanti tra loro, chiosa De La Grange.
  • ...
  • La minorità giuridica dei cittadini è il risultato, ci ricorda l’autore, di un serie di concause,  stratificatesi nel tempo. La situazione attuale, in estrema sintesi, mostra una serie di problematicità: 1) L’azione giudiziaria civile è sempre più difficoltosa e costosa; 2) Tutto mira alla tutela della PP.AA. a scapito dei diritti dei singoli cittadini; 3) Anziché “realizzare” il diritto, in Italia si è pensato (senza successo) a ridurre il costo della giurisdizione, facendo ricorso, perfino, a processi-specchietto (Berlusconi) presentati quali esempio di “lotta” per il bene comune; 4) I problemi della giustizia non sono stati risolti in quanto si è ritenuto che essi fossero prodotti da una falsa causa: la litigiosità degli italiani. Una condizione, quella dell’Italia contemporanea, in cui il cittadino vive in uno stato di subordinazione e passività rispetto alle istituzioni. Per questa ragione, il libro di De La Grange è di grande attualità: invita il lettore a lottare per il diritto, unica strada percorribile per riacquistare il rispetto di sé e l’effettiva sovranità politica che, in democrazia, dovrebbe spettare al popolo.
  • ...
  • In questo senso, sarebbe necessario tornare a guardare con interesse al discorso di Callicle, così come trascritto da Platone nel Gorgia. Questi sostenne, contrapponendosi a Socrate, che l’uomo dabbene dovrebbe reagire all’ingiustizia subita, senza porgere l’altra guancia. In questo modo, provvedendo a difendere se stesso, compirebbe, in egual modo: «un dovere verso la comunanza» (p. 79). D’altra parte, gli attuali reggitori della cosa pubblica, dovrebbero tornare ad ascoltare il consiglio che Emone, figlio di Creonte, re di Tebe, dette al padre nell’Antigone. Emone richiamò il genitore al giusto equilibrio, suggerendogli di tener nel dovuto conto il diritto consuetudinario e tradizionale. In solitudine, infatti, si può regnare solo su una terra deserta, desolata, in quanto il “politico” è, per essenza, fondato sul conflitto tra la molteplicità delle parti. Di tale contesto ebbe contezza Machiavelli, ricorda il nostro autore, il quale, per tale ragione, si prodigò a sollecitare il Principe a un’aurea sovranità: ogni governante dovrebbe tenere sempre in seria considerazione il sentimento e l’umore del popolo del quale è guida e tutore.
  • ...
  • L’attuale élite di potere sembra aver obliato simili considerazioni. Il nostro ordinamento giuridico, connotato da una fiscalità predatoria e solo astrattamente orientato alla difesa dei diritti, in realtà è lo strumento che sta gradualmente trasformando i cittadini in sudditi, incapaci di chiedere e ottenere per sé giustizia. Lo Stato dovrebbe proteggere, lo rilevò Hobbes, i governati. Per cui, nella situazione attuale: «non c’è alcuna ragione per ubbidire a chi non protegge» (p. 92) e, il più delle volte, è incapace di riconoscere le proprie colpe. Non resta, al fine di un possibile riavvicinamento di governati e governanti che lottare, come suggerisce De La Grange, per il diritto. Una battaglia per la libertà e la sovranità popolare. Cosa non da poco, nel pieno dispiegarsi dell’età della governance.

  • Susanetti

  • "Quei discorsi d’amore"
  • Il grecista Susanetti a confronto con il
  • Simposio di Platone
  •  rec. di
  • Giovanni Sessa

  • Colli ha sostenuto che il Simposio di Platone é testo sul quale aleggia, prepotente, il “fiore della gioventù”, nel quadro di una visione della vita protesa alla ricerca dell’“intero” attraverso  la singolarità corporale.  A ricordarlo è Davide Susanetti, grecista dell’Università di Padova, nel suo ultimo libro, Quei discorsi d’amore. Leggendo il Simposio di Platone, nelle librerie per Carocci editore (pp. 183, euro 20,00).
  • ...
  • Non si tratta, sic et simpliciter, di un volume mirato alla mera ricostruzione storico-filologica di un testo capitale del pensiero europeo, ma di uno scritto cruciale.    Le sue pagine pongono il lettore al cospetto del quesito che già fu di Eliot: è possibile: «re-incantare l’orizzonte di una terra desolata?» (p. 8), di un mondo, quello post-moderno, in cui si pensa, per dirla con Badiou, dalla fine?  Susanetti, se abbiamo ben inteso, risponde affermativamente alla domanda.  È la parresia, il bisogno di affermare il vero, in una dinamica esistenziale animata da nóstos, a consentirci il confronto, qui e ora, con un desiderio assoluto, atto a scioglierci dai condizionamenti dell’Io cosale, che ci fa pervenire all’intero, all’identità con l’origine che da sempre siamo.
  • ...
  • Lungo tale iter, il Simposio è viatico essenziale. La prosa di Susanetti è “viva”, fluente, mirata, come quella dei dialoghi platonici, a una teatrale messa in scena della “verità”.  Da essa si evince  che il principio, nella vita, é intrecciato all’“errore”. La modalità scrittoria del grecista è “parola” che dice la: «ripetibile irripetibilità» (p. 11) dell’origine, del principio.  Lo attesta la sua esegesi del dialogo, compiuta e organica.  Da essa si deduce che, nell’autore, la competenza filologica non é mai disgiunta da un approccio empatico nei confronti delle tematiche trattate.  L’ermeneutica di Susanetti è autenticamente filo-sofica, dice l’“unizione” di particolare e  universale che: «si danno insieme, trasformandosi l’uno nell’altro» (p. 30).  La lettura muove dal prologo del Simposio, inteso quale rinvio ad un “prima” apparentemente perso: «Era il 416 e Agatone […] si era aggiudicato il primo posto alla festa delle Grandi Dionisie» (p. 14). Il poeta tragico invitò i comites ad un simposio, presso la propria abitazione. Il 416 è data di rilievo: soglia che separa un “prima” e un “poi” nelle vite dei convitati, aristocratici che presto sarebbero stati travolti dagli eventi successivi alla conquista ellenica della Sicilia. Socrate si reca verso casa di Agatone in compagnia di Aristodemo, ma poco prima di giungervi, si appartò com’era sua consuetudine.  Per andare a “caccia” dell’ arché  è necessario che l’anima “si raccolga”, si isoli dal corpo e dal mondo.
  • ...
  • «Tó sophón […] è qualcosa che ognuno deve raggiungere da sé in quel medesimo stato di raccolta concentrazione» (p. 27). Socrate è uomo “eccentrico”, è atopos. Il suo comportamento allude a un “altrove” che, in realtà, è sempre in noi. Superando la soglia d’ingresso della magione cui è stato invitato, il filosofo testimonia simbolicamente la possibilità di aver accesso al principio. Susanetti ricostruisce con maestria e forza persuasiva, lo sviluppo del dibattito tra i convitati, rilevandone il tratto rituale: «a cui partecipano gli dèi con la loro […] potenza» (p. 31).   La capacità evocativa dall’autore, è prossima a quella del “cosmico monacense” Alfred Schuler nella sua presentazione della Caena romana. Susanetti afferma, infatti, che nel sacro banchetto: «Mentre i doni congiunti di Dioniso e delle Muse esercitano l’incanto che è loro […] un’altra forza si rende presente e opera tra i simposiasti: la potenza del dio Eros» (p. 33).  In tema, Fedro, che prese per primo la parola, si richiamò a Esiodo. Questi, aveva concesso a Eros la possibilità di determinare il transito dal caos primigenio alla genesi del cosmo. Un Eros omerico, avente a cuore il mondo eroico e l’areté, sigillo della “perfezione” che si conquista nell’azione, in una: «sfida sempre rinnovata con la morte» (p. 43).
  • ...
  • Pausania intrattenne i convitati sulla duplicità del reale, sostenendo la necessità di cogliere, in tale  relatività sofistica, ciò che è “corretto”. Neppure Eros è “uno”, si accompagna ad Afrodite. La stessa genealogia della dea è duplice: a fianco di Afrodite “Urania” vi è sempre Afrodite “Pandemia”, dea anagogica e catagogica in uno.  Lo spudaios guarda alla prima.  L’Eros celeste: «si scioglie nel nitore dell’ areté e della sophía» (p. 56). 
  • ...
  • Il medico Erissimaco, di contro, rileva la presenza di Eros in tutto ciò che vive, non solo negli uomini. Da qui la duplicità di “salute” e “malattia”. Nei corpi va assecondato ciò che è “buono”, equilibrante, in termini empedoclei e nel senso della sacra medicina di Asclepio, e allontanato ciò che “divide”, “dissolve”: «Metabolé è “ingenerar amore” ove è conflitto» (p. 63), a seconda delle diverse circostanze, servendosi di musiche appropriate, come aveva insegnato Damone. A questi ribatté Aristofane che spiegò l’attrazione erotica, etero e omosessuale, rammemorando il mito dell’Androgine e della sua divisione perpetrata da Zeus. Da allora, il magnetismo erotico induce il superamento dei limiti di un presente segnato da: «una profonda disforia e da una mancanza» (p. 71). Eros è potenza unitiva: i bei corpi suscitano il desiderio della completezza. Al contrario, dall’intervento di Agatone si evince la verità tragica di Eros. Questi esercita: «una signoria straziata e straziante, […] un imperio universale che si intreccia immancabilmente alle derive della […] distruzione» (p. 85).
  • ...
  • La via alla liberazione erotica, al risveglio, emerge, in piena chiarezza, solo nel discorso di Socrate, che riassume i colloqui da questi intrattenuti con Diotima. Si tratta del sapere misterico-iniziatico che richiede un processo di purificazione. Eros è demone posto nel metaxú, tra umano e divino, è traghettatore nel tempo, in chronos, in un “attimo immenso”, di aion.  La nascita e il parto che esso propizia hanno a che fare, tanto con il corpo, quanto con l’anima. La verità dell’amore sta nel perseguire l’a-mors, il senza-morte, che non è dei corpi ma del principio che li anima.  Per giungere alla visione finale è necessario attenersi a una prassi ritualizzata, in cui i “discorsi” aprono il processo ma non lo chiudono.  Si tratta di un “contatto”, di una: «visione senza contenuto, senza immagine» (p. 107).   L’origine è non-ente, non concettualizzabile dal lógos.   La parola e la scrittura possono, al massimo, suscitare nostalgia e, attraverso l’anamnesi, sospingere lungo la Via.  Questo il senso del Simposio e del libro di Susanetti.
  • ...
  • La Via è: «Possibilità di una seconda nascita in cui si sente e si vive che l’oltre non è un altrove e in un altro tempo, ma è il medesimo del qui e dell’ora nell’intensità di una dimensione interna ad esso» (pp. 108-109).  L’origine e la tradizione non sono passato, ma sono il sempre della vita, la pratica erotico-iniziatica lo mostra in tutta evidenza. Susanetti, con queste pagine, si pone in sequela di coloro che, pur nella mestizia del presente, hanno mostrato la possibilità del tradere, la possibilità di guardare il mondo con sguardo assoluto: il suo lascito è un possibile nuovo incantesimo della vita.

  • "AVANTI IL PROSSIMO"  
  • di 
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Ha ottenuto una risonanza planetaria il discorso da Monaco di J. D. Vance in cui ha rampognato le classi dirigenti europee. Le reazioni di quella italiana (di centrosinistra) e della stampa mainstream sono state le solite. Chi, riferendosi all’incontro di Vance con i leaders di AFD l’ha ricondotta alla consueta reductio ad hitlerum; i più a una interferenza (ovviamente inammissibile perché non sollecitata da loro); altri al tentativo di far dimenticare analoghi errori della politica USA, e qua siamo al focherello, perché prassi simili sono state poste in essere dalle amministrazioni di Biden ed Obama (salvo altri).
  • ...
  • A me preme di notare che in quanto affermato da Vance siano enunciate idee che da millenni, o da secoli fanno parte del pensiero politico realista, quello parafrasando Machiavelli, che prende in considerazione la realtà dei fatti e non l’immaginazione degli stessi.    Due in particolare.
  • ...
  • La prima è che l’Europa è in crisi, e che questa è per così dire endogena.  Dice Vance: “L’Europa deve affrontare molte sfide, ma la crisi che questo continente sta affrontando in questo momento, la crisi che credo stiamo affrontando tutti insieme, è una crisi che abbiamo creato noi stessi” Questa è dovuta a “come molti di voi in questa sala sapranno, la Guerra Fredda ha schierato i difensori della democrazia contro forze molto più tiranniche in questo continente. E considerate la parte in quella lotta che censurava i dissidenti, che chiudeva le chiese, che annullava le elezioni. Erano i buoni? Certamente no. E grazie a Dio hanno perso la Guerra Fredda. Hanno perso perché non hanno valorizzato né rispettato tutte le straordinarie benedizioni della libertà. La libertà di sorprendere, di sbagliare, di inventare, di costruire, poiché a quanto pare non si può imporre l’innovazione o la creatività, così come non si può costringere le persone a pensare, a sentire o a credere a qualcosa, e noi crediamo che queste cose siano certamente collegate. E purtroppo, quando guardo all’Europa di oggi, a volte non è così chiaro cosa sia successo ad alcuni dei vincitori della Guerra Fredda”. In altre parole l’Europa decade perché non crede essa stessa nei propri valori. A chiosare quanto affermato dal vice presidente USA, perché ha oscurato le radici giudaico-cristiane, cioè il fondamento della democrazia liberale, in particolare nella “variante” della dottrina del diritto divino provvidenziale. Nei due capisaldi fondamentali: il rispetto per le decisioni e convinzioni della comunità e la tutela dei diritti di ciascuno, comunque quello di manifestazione della libertà del pensiero. Per cui, sempre a leggere Vance, alla luce di Machiavelli, farebbero molto bene i governi europei a “ritornar al principio”, cioè ai fondamenti dell’ordine politico democratico-liberale e non all’(ipocrita) camuffamento del medesimo.
  • ...
  • La seconda. Vance ha poi posto un problema di potenza politica. Infatti dice: “Se avete paura dei vostri stessi elettori, non c’è niente che l’America possa fare per voi, né, del resto, c’è niente che voi possiate fare per il popolo americano che ha eletto me e ha eletto il presidente Trump. Avete bisogno di mandati democratici per realizzare qualcosa di valore nei prossimi anni. Non abbiamo imparato nulla dal fatto che mandati deboli producono risultati instabili, ma c’è così tanto valore che può essere realizzato con il tipo di mandato democratico che penso verrà dall’essere più reattivi alle voci dei vostri cittadini.  Se volete godere di economie competitive, se volete godere di energia a prezzi accessibili e catene di approvvigionamento sicure, allora avete bisogno di mandati per governare perché dovete fare scelte difficili per godere di tutte queste cose e, ovviamente, lo sappiamo molto bene in America”.  E qua Vance ha posto un tema fondamentale del pensiero politico ossia, a sintetizzarlo al massimo, quello dell’obbedienza (del consenso, della legittimità) e del rapporto con la potenza dell’istituzione politica (o nelle “varianti” dei governanti, delle comunità). È intuitivo che un comando che non ottiene obbedienza non è comando reale; quello che la ottiene, ma soltanto con la coazione, dura poco (è instabile). Quindi l’ideale è che il comando sia sempre corrisposto da un certo grado di obbedienza (anche se non perinde ac cadaver). Meno intuitivo è che un governo, poco confortato dal consenso degli elettori (pour richiamandosi alla democrazia) è un governo debole.
  • ...
  • Scriveva Spinoza: “Il diritto dello Stato, infatti, è determinato dalla potenza della massa, che si conduce come se avesse una sola mente. Ma questa unione degli animi non sarebbe in alcun modo concepibile, se lo Stato non avesse appunto soprattutto di mira ciò che la sana ragione insegna essere utile a tutti gli uomini” e che “non è il modo di obbedire, ma l’obbedienza stessa, che fa per il suddito”; ciò, malgrado non ammettesse un dovere d’obbedienza assoluta, Anche se un monarca come Federico II di Prussia enunciava come fattori di potenza e di sicurezza di uno Stato: esercito, tesoro, fortezze, alleanze” (omettendo così il consenso/obbedienza) è sicuro che senza questa, il potere del governante è ridotto ai minimi termini. L’ordine e la coesione sociale e politica che ne consegue – al contrario - facilitano sia l’esecuzione delle obbligazioni, anche internazionali come, del pari, rendono vane – o limitano – la possibilità di speculare dall’esterno sulle rivalità e conflitti tra i governati e soprattutto sui gruppi in cui si dividono. E pluribus unum non è solo il motto degli USA: è il compito e lo scopo di ogni unità politica vitale.
  • ...
  • Ma se, al contrario, tale unità degli animi non si realizza, anzi si sviluppano nuove contrapposizioni, a farne le spese è, in primo luogo, la potenza (in senso weberiano) dell’istituzione statale, che vede nullificata o radicalmente ridotta la possibilità che la propria volontà possa essere fatta valere. Il parametro sul quale giudicare la potenza dello Stato è esistenziale e non normativo. La scelta virtuosa, dice Vance, è abbracciare “ciò che il vostro popolo vi dice, anche quando è sorprendente, anche quando non siete d’accordo. E se lo fate, potete affrontare il futuro con certezza e fiducia, sapendo che la nazione è al fianco di ognuno di voi, e questa per me è la grande magia della democrazia… Credere nella democrazia significa capire che ogni cittadino ha la propria saggezza e la propria voce, e se ci rifiutiamo di ascoltare quella voce, anche le nostre battaglie più riuscite otterranno ben poco…. Non dovremmo avere paura del nostro popolo, anche quando esprime opinioni in disaccordo con la propria leadership”. Mentre nelle istituzioni europee a molti “non piace l’idea che qualcuno con un punto di vista alternativo possa esprimere un’opinione diversa o, Dio non voglia, votare in modo diverso o, peggio ancora, vincere un’elezione”.   E in ciò Vance non ha fatto altro che seguire non solo il pensiero politico realistico, ma anche la prassi del diritto internazionale (sia classico che post-vestfaliano) per cui soggetto di diritto internazionale, o comunque interlocutore è chi ha il potere, in una comunità; chi lo aveva, anche se titolare legale, ma non ce l’ha più, lo perde. Chi è in “lista di sbarco” come gran parte ella classe dirigente europea, è un interlocutore debole e quindi inutile. Dato che, negli ultimi anni, la gran parte dei paesi dell’U.E. ha visto cambi di governo a favore di sovranisti (lato sensu) e, laddove non è successo, gli stessi sono cresciuti, di guisa che perfino la stabilissima quinta repubblica francese è diventata bastabile, è chiaro che i suddetti governanti non sono ritenuti interlocutori reali. A meno che – quanto meno improbabile – non recuperino il favore popolare. Ma se ciò non avviene non resta che aspettare le elezioni: avanti il prossimo.

 

  • Bosincujpg

  • "Stranieri in terra straniera"
  • Un saggio di
  • Mario Bosincu
  •  rec. di
  • Giovanni Sessa
  • Mario Bosincu, germanista dell’Universitàdi Sassari, in precedenti lavori aveva messo in luce di essere studioso di livello. La lettura della sua ultima fatica, ha confermato in noi questa impressione. Ci riferiamo al volume, Stranieri in terra straniera. Dal Romanticismo a Nietzsche, nelle librerie per la casa editrice Le Lettere (pp. 377, euro 25,00). Si tratta di un saggio informato, costruito su analisi filologicamente inappuntabili, che non rendono, si badi, il gesto scrittorio e ricostruttivo dell’autore mera esercitazione erudita. La scrittura è, infatti, viva, fluente e, per certi tratti, evidenzia il vivo interesse di Bosincu per le tematiche affrontate, senza che ciò pregiudichi il tratto scientifico del saggio. Il libro, rileva il germanista: «intende far luce su alcune figure esemplari dell’alterità, comparse in ambito filosofico-letterario tra la fine del Settecento e la Seconda Guerra mondiale […] perlopiù, della cultura tedesca» (p. VII). Si tratta di un excursus nel quale, muovendo dalla Romantik, Bosincu compie l’esegesi della proposta filosofico-esistenziale di Nietzsche per approdare, infine, all’interpretazione dello scritto di Friedrich Georg Jünger, Apollo, Pan, Dioniso del 1943.
  • ...
  • Chi sono i pensatori interrogati da Bosincu? Filosofi e scrittori della Kulturkritik, degli “antimoderni”. La definizione rinvia a una assai vasta congerie di autori che scorsero nella modernità, inaugurata dall’illuminismo, un depauperamento della vita. Questi intellettuali sviluppano: «una modalità di riflessione che fa emergere i tratti patologici della modernità, […] guarda al passato premoderno […] e tratteggia l’ideale antitetico dell’uomo totale» (p. 3). Tra essi va, preliminarmente, ricordato Schiller. Questi coglie, nell’età a lui contemporanea, l’indebolirsi delle facoltà umane a esclusivo vantaggio dell’intelletto analitico, scientifico e strumentale, posto al servizio del Gestell e della ricerca dell’utile economico. L’età moderna è esperita quale epoca del ritorno dei Titani, centrata sulla “potenza” della dismisura e obliante le qualità proprie della persona, dell’individuo persuaso e conciliato con le potestates animanti il cosmo. Al medesimo tempo, gli “antimoderni” scoprono, in forza del lascito illuminista, la nostra storicità, comprendendo che l’uomo dimidiato, l’uomo a una sola dimensione della modernità, ha tratto contingente e può essere superato. Non casualmente, Nietzsche  rileva che: «“il poter essere diverso” […] rientra fra gli attributi della “grandezza”» (p. 5).
  • ...
  • Lo avevano mostrato proprio gli illuministi che, con i loro scritti, avevano realizzato una “colonizzazione dell’immaginario” modernizzante. Sarebbe risultato necessario realizzare un “contro-movimento” mirato alla creazione di una “soggettività” altra, diversa, che rintracciasse i propri paradigmi, i propri exempla nel passato medievale o nella visione del mondo ellenica. Quest’uomo utopico, giammai “utopistico” (i due termini, per chi scrive, hanno valenza non conciliabile) sarebbe stato latore della Kultur (Spengler) in contrapposizione alla decadente Zivilisation. La Romantik e tutti gli autori indagati da Bosincu, sono, per dirlo con Löwy e Sayre, latori di una visione anticapitalista ed esteticizzante, portatori di un codice esistenziale alternativo, come riconobbe Sombart, all’identità borghese. L’uomo nuovo doveva essere costruito: «per mezzo di pratiche orientate verso l’interiorità quali l’esperienza della natura e la lettura, una tecnologia del sé» (p. 13), atta a porre in essere una: «resistenza ethopoietica alla modernità» (p. 14). In tal senso agì, tra gli altri, Baudelaire, con il riferirsi al dandy, individuo capace di fare della propria esistenza un’opera d’arte, per differenziarsi dalle masse e dagli idola introdotti dalla ratio calcolante. Esempio diverso, ma non dissimile, di tale ribellione, è rintracciabile anche negli scritti e nella vita di Thoreau, nel suo ritorno alla wilderness.
  • ...
  • Gli antimoderni di genio sono uomini soli, stranieri in terra straniera che, nell’isolamento necessario alla pratica filosofica, realizzano la metanoia, il “cambio di cuore”. Le loro opere sono “comunicazione d’esistenza” che, come sostenne Kierkegaard, non volevano rivolgersi al lettore di “Gazzette”, ma avrebbero teso a “prenderlo per il collo”, animate com’erano dall’urgenza di fargli conquistare uno sguardo epistrofico ed assoluto sulla vita. La letteratura interrogata da Bosincu è, da un lato sermo propheticus (la produzione fichtiana è in tal senso esemplare), dall’altro sermo mysticus che, stante la lezione di Maestro Eckhart, persegue lo “svuotamento” del singolo in un iter  di conversione “iniziatica”, che giunge al “risveglio”, al tertium datur della coincidentia oppositorum.
  • ...
  • Modelli di tale modalità scrittoria, riferisce l’autore, possono essere rintracciati in Marco Aurelio e Petrarca. Gli exempla sono quelli tramandati da Tacito, poi testimoniati dagli Eroi di Carlyle. Gli antimoderni, quindi, si configurano quali parresiasti, intellettuali che affermano il vero nell’età del suo oblio, nell’età in cui, per dirla con Badiou, si pensa dalla fine: «Il piacere della distruzione (del moderno) è, al contempo, un piacere creativo!» (p. 103). Nietzsche, del cui pensiero viene ricostruita dettagliatamente ogni fase, sulla scorta di Feuerbach, è convinto che demolire: «l’idea di Dio […] significa […] spezzare il sortilegio che deruba del suo valore l’al di qua» (p. 103), al fine di  rinnovare la “fedeltà alla terra”.
  • ...
  • Ciò che non condividiamo della dotta ermeneutica di Bosincu è il suo giudizio sul contro-movimento degli autori indagati, che viene inscritto nella stessa logica che sorreggerebbe le tesi neo-gnostiche puritane ed illuministe (Voegelin). A nostro giudizio, gli autori di Bosincu, almeno quelli che guardano alla physis ellenica quale unica trascendenza, lo fanno nella convinzione che solo in essa (Bruno) si dia il principio, l’origine: pertanto, sono alieni da qualsivoglia prospettiva dualista e gnostica. È al dualismo cristiano che si può, di contro, imputare di covare in sé germi gnostici, chiarissimi nella svalutazione della natura e del mondo a beneficio del Perfetto, di Dio. Centrale per la comprensione di tale assunto, risulta l’ultimo capitolo del volume dedicato all’opera di Friedrich Georg Jünger. Quello jüngeriano è un “paganesimo dello spirito”, centrato sulla “fraterna antitesi” di Apollo, Pan e Dioniso. Friedrich Georg mostra di aderire a una prospettiva mitica: ritiene che in ogni ente, nell’interiorità dell’uomo e nelle sue attività, agisca un dio. Il divino è palpitante, si fa esperienza, lontano da ogni esito “wotanista”.   
  • ...
  • Per sottrarsi al dominio reificante del moderno, l’uomo deve recuperare la dimensione immaginale: solo in essa è possibile rintracciare l’alito degli dèi, l’eterna metamorfosi animica della physis. A medesime conclusioni giunsero nell’Italian Thought del Novecento Evola, Emo, Diano e Colli. Chi scrive si sente oggi straniero in terra straniera, pur essendo abbagliato, come i pensatori ricordati, dal thauma, dalla meraviglia tragica della vita.

  • ANCORA SU POLITICA E GIUSTIZIA
  • di 
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Sono imbarazzato nel proporre ai miei lettori un concetto già esposto pochi mesi orsono (v. “Salvini e Montesquieu” e “Processare il politico”) relativo al carattere degli ultimi contrasti tra uffici giudiziari e potere governativo: di concernere materia oggettivamente politica. A differenza di gran parte dei processi a governanti nell’ultimo trentennio, dove li si accusava per lo più di reati a carattere non politico (furto, appropriazione indebita, violenza carnale, evasione fiscale, ecc. ecc.).  Invece nei casi di rilevanza mediatica degli ultimi mesi il connotato comune è che la materia è squisitamente politica. Si tratta cioè della sicurezza dei cittadini e della difesa del territorio dello Stato. Come scriveva Montresquieu:  “In ogni stato ci sono tre tipi di poteri quello legislativo, il potere d’esecuzione delle cose dipendenti dal diritto delle genti, il potere esecutivo di quelle che dipendono dal diritto civile…
  • ...
  • Per il secondo (di questi) fa la pace e la guerra, nomina e riceve ambasciatori, mantiene la sicurezza, previene le invasioni. Per la terza, punisce i crimini, e giudica le liti dei sudditi (particuliers)”.  Ossia è attività che da secoli  se non da millenni è considerata di competenza del potere esecutivo. E V.E. Orlando notava che la differenza di “natura” o di “materia” era soprattutto differenza di scopo: si operavano deroghe e talvolta rotture dell’ordinamento, al fine di soddisfare una necessità pubblica.  A differenza dell’attività giudiziaria il cui nocciuolo fondamentale è accertare la conformità di una condotta ad una regola onde è essenziale la correttezza del giudizio e l’imparzialità del giudice (almeno se si vuole una giustizia reale). E la cui conformità allo scopo (cioè l’opportunità) è poco o per nulla rilevante.
  • ...
  • Tali funzioni e attività vantano dei brocardi latini che le sintetizzano. Per la prima questa è salus rei publicae suprema lex esto, ossia lo scopo prevale sulla regola, l’esistente sul normativo e il criterio principe per valutarla è il risultato; dell’altro fiat iustitia, pereat mundus, per cui il diritto dev’essere applicato, anche se provoca danni e il criterio è la conformità della decisione giudiziaria alla norma applicanda.  La conseguenza è che se da una applicazione esatta della legislazione derivano gravi danni è corretto sopportarli. Ad esempio qualche migliaio di morti affogati nel mediterraneo, problemi interni di sicurezza, miliardi di euro per l’accoglienza cedono rispetto al gradino alto dei valori costituito dalla giustizia, (qua) intesa come conformità al diritto.  Al contrario se si pone sul gradino superiore l’altro brocardo, è il contrario.  Ma tenuto conto come anche nell’ordinamento giuridico l’esistenza precede la regolamentazione (si può regolare ciò che non esiste? È una pratica inutile) la risposta non può essere che suprema lex prevale. E questo dovrebbe dirsi la sinistra che, a quanto pare, è tutta propensa al  pereat mundus (verso il quale ha una  certa propensione). Ma finché col non dirlo o appesantendo il proprio argomentare con clausole e cavilli si distoglie l’attenzione dall’essenziale, va tutto bene.

 

 

Fairy Legends


  • Fairy Legends
  • La raccolta di racconti di fate e tradizioni irlandesi
  • di
  • T. Crofton Croker
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • È nelle librerie un volume prezioso, aureo. Le sue pagine restituiscono al lettore il corpus dei racconti di fate, anima profonda e vivificatrice della cultura irlandese. Ci riferiamo a Fairy legends. Racconti di fate e tradizioni irlandesi di Thomas Crofton Croker, libro che arricchisce il catalogo di Neri Pozza, impeccabilmente curato da Francesca Diano (pp. 735, euro 30,00). Nel 1999 la stessa curatrice si adoperò perché vedesse la luce, anche in traduzione italiana, il volume, Fairy Legends and Traditions of the South of Ireland che Crofton Croker dette alle stampe nel 1825 in forma anonima per i tipi del prestigioso editore Murray. Si trattava della  prima raccolta di leggende orali irlandesi pubblicata nelle Isole Britanniche. La nuova edizione italiana che presentiamo, alla quale la curatrice ha lavorato per due decenni, rappresenta un’importante novità editoriale in quanto, alla ricordata edizione del 1825, aggiunge  la “Seconda parte” e la “Terza parte”, realizzando, pertanto, l’intenzione di Croker stesso di editare un volume unico delle tradizioni dell’“isola di smeraldo”.        
  • ...
  • Il libro contiene, inoltre, lo scritto dei fratelli Grimm, con i quali Croker intrattenne una fitta corrispondenza, Saggio sugli Esseri Fatati, finora inedito in italiano, nonché un trattato sul folklore e le tradizioni gallesi, Mabinogion e le leggende di fate gallesi.
  • ...
  • La lettura di queste pagine è rasserenante. Pone di fronte alla viva sorgente della kultur celtico-druidica. L’autore, nella trascrizione dei racconti appresi dalla viva voce dei contadini d’Irlanda, ha mostrato la qualità poetica della sua prosa: è riuscito a non tradire il flusso della vita metamorfizzante, delle potestates animanti la natura, così come erano state preservate nella tradizione orale. Le incisioni che compaiono nel libro, opera di Croker, di W. H. Brooke e del pittore Daniel Maclise, trasmettono, con la lievità del loro tratto grafico, l’innocenza, a volte tragica, del Principio che è sotteso al vivente e che anima, quale evento, avrebbe chiosato Carlo Diano, insigne genitore di Francesca, ogni atto, ogni ente della natura.
  • ...
  • Ma chi era Croker? Nacque da famiglia anglo-irlandese nel 1798 a Cork. Animato da curiositas classica, fin dall’adolescenza vagabondò nelle campagne del Munster alla ricerca delle tradizioni popolari, raccogliendo una straordinaria quantità di materiale. Fu: «uomo dagli interessi […] eclettici: poeta, pittore, incisore, musicista, si dedicò a sperimentare la tecnica allora nuovissima della stampa litografica» (pp. 21-22). Il primo incontro con la cultura e la lingua gaelica (che presto studiò) avvenne quando ebbe modo di assistere a un pattern, festa del santo patrono, e al pellegrinaggio a esso connesso, la notte fra il 23 e il 24 giugno 1813 presso le sponde del lago di Gougane Barra, ubicato nei pressi della sua città natale. Da allora, i suoi interessi si focalizzarono sui contenuti della tradizione orale irlandese.
  • ...
  • Si convinse, assieme ai fratelli Grimm, che: «il folklore europeo […] derivi da un’unica radice comune», rileva la curatrice (p. 17). Tale idea ha assonanza con quanto sostento da Jung a proposito dell’inconscio collettivo, nota Diano. A noi sembra che ciò possa rinviare anche all’idea di Tradizione primordiale. La sua eco era viva nelle leggende orali, non ancora del tutto silenziata dall’irrompere della ratio moderna e dall’avanzare impetuoso e devastante della rivoluzione industriale. Dalle storie raccolte nel volume si evincono: «l’arcaica reverenza e timore nei confronti del divino, dell’invisibile, delle potenze superiori. Ovunque alita il temibile respiro del Sacro» (p. 33). Si badi, la formazione di Croker fu di stampo razionalista, pertanto non condivise le superstizioni ma: «le rispetta(ò) al punto di riportarle inalterate» (p. 28). Le sue intenzioni furono anche politiche (a più riprese, l’autore negò tale valenza ai suoi studi): tentò di dar voce a coloro cui era stata sottratta, agli ultimi, ai poveri contadini irlandesi, che la Grande Carestia e il colonialismo inglese avevano tacitato. Si mantenne, comunque, lontano dagli eccessi del nazionalismo irlandese. Si sentì, di contro, prossimo alle posizioni di Daniel O’Connell: cercò di far incontrare irlandesi e inglesi nel nome della reciproca conoscenza delle loro culture.
  • ...
  • Il “Buon Popolo” o “Piccolo Popolo”, le fate, gli elfi, gli gnomi sono protagonisti indiscussi di queste leggende. In una di esse, La leggenda di Knocksheogowna, si legge: «Il Buon Popolo era indignato per il fatto che la scena dei loro giochi scanzonati e briosi fosse stata invasa dal brutale scalpiccio di tori e vacche» (p. 57). La regina delle fate decise, pertanto, di allontanare l’azione invasiva degli uomini dalla collina sulla cui sommità le sue consorelle si dilettavano. Il coraggio di Laurence la convinse a desistere e la indusse ad esclamare: «finché pascolerai il bestiame su questa collina, non sarai più molestato da me e dai miei» (p. 61). Esempio di conciliazione dell’uomo e dell’invisibile. La cantina stregata mostra come l’arroganza e la potenza puramente mondana non siano ben tollerate dal “Piccolo Popolo”. Vero protagonista del racconto è uno gnomo capace di stregare la cantina di un maniero: «indossava un berretto da notte rosso, davanti aveva un corto grembiule di cuoio […] le scarpe erano ornate da fibbie d’argento e il tacco era alto […] il naso di un bel rosso cremisi» (p. 151). Quando il nobile proprietario scese in cantina senza protervia, a differenza del suo servitore,  i fenomeni cessarono.
  • ...
  • La leggenda che ci ha maggiormente colpito è, Il cavaliere senza testa. Narra le vicende di Charley, cavaliere senza paura, che in una notte tempestosa, di vento e pioggia battente, incontrò sulla sua strada un cavaliere senza testa. Quest’ultimo, da principio, sembrò ricusare in malo modo le domande del primo. Si trattava di uno spirito errante, la cui vita e quella del suo destriero (anch’esso decapitato) avevano avuto termine cento anni prima a causa di un caduta in prossimità della collina di Kilkummer. Il coraggio di Charley durante la pericolosa galoppata notturna fece dire allo spirito del cavaliere che, da quel momento, avrebbe sempre protetto, stando invisibilmente al loro fianco, il suo rivale e la giumenta che montava. La leggenda esplicita la continuità di vita e morte. Medesima concezione, alla metà dell’Ottocento, sarà propria di un grande “eretico” del pensiero europeo, G. T. Fechner.  La morte per i Celti non era che soglia verso uno stato dell’essere Altro rispetto a quello terreno. Chiarisce Diano: «Privati della loro vita, gli irlandesi hanno trasformato in arte la sola cosa che era stata loro lasciata: la morte» (p. 44).   Nel mondo contemporaneo, lo hanno insegnato in modalità diversa Elias Canetti e Martin Heidegger, la morte viene elusa, obliata, rifiutata.
  • ...
  • Le pagine di Fairy Legends, anche per questo, sono lettura disvelativa e rasserenante. Esse conducono il lettore in boschi incantati, in città meravigliose sommerse dalle acque di laghi blu, in antichi castelli animati dalla presenza del “Buon Popolo”, luoghi nei quali si apprende la magia della vita, la possibilità dell’impossibile.   Non è cosa da poco.

  • Il iano solo

  • Il Piano Solo
  • Golpe sì, ma rosso
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • È da poco stato pubblicato un volume importante ai fini della comprensione della storia italiana dell’ultimo cinquantennio. Ci riferiamo al libro di Francesco Bigazzi e Dario Fertilio, Il Piano Solo. Golpe sì, ma rosso, comparso nel catalogo di Mario Pagliai Editore, con una nota introduttiva di Mario Segni (per ordini: info@leonardolibri.com, pp. 151, euro 12,00). Bigazzi, noto saggista, è considerato tra i massimi esperti di storia e cultura russa, Fertilio, giornalista e docente presso l’Università degli Studi di Milano, è uno dei promotori del Memento Gulag, giornata della memoria per le vittime del comunismo. Si tratta di un testo organico, articolato in due parti, che presenta e discute un’ampia documentazione relativa a uno degli eventi più controversi della storia italiana contemporanea: il Piano Solo e il presunto golpe ordito dal Sifar presieduto dal Comandante dell’Arma dei Carabinieri Giovanni de Lorenzo in combutta con il Presidente della Repubblica Antonio Segni. La tesi centrale sostenuta dai due autori è che se golpe ci fu, si trattò di un tentativo di destabilizzazione politica messo in atto attraverso la regia occulta del’Unione Sovietica e dagli uomini del Kgb. Altro che golpe nero! Questi i fatti.
  • ...
  • Fertilio ricostruisce, con dovizia di particolari, gli eventi a muovere dalla pubblicazione, il 10 luglio del 1967, di un articolo di Lino Jannuzzi sul settimanale «L’Espresso»,  nel quale il giornalista, con toni concitati, denunciava un tentativo di colpo di Stato ordito nel 1964 dai massimi vertici dello Stato, al fine di determinare una svolta reazionaria in Italia mirata a fermare l’ascesa delle sinistre e le “riforme strutturali” volute dal PSI. Inutile sottolineare che, fin dall’inizio, l’articolo suscitò grande clamore: le istituzione democratiche correvano un serio rischio involutivo, si diceva e, per questo, andavano difese con forza. Clamore amplificato, subito dopo, da successivi scritti in tema del direttore del periodico di Via Po, Eugenio Scalfari, ripresi dalla gran cassa mediatica della “stampa democratica”.
  • ...
  • Segni, che aveva lasciato il Quirinale tre anni prima a causa di una trombosi cerebrale, non ebbe la possibilità di difendersi in prima persona ed ecco che, nello stato di confusione innescato dalla notizia, il Presidente in carica, Giuseppe Saragat, dichiarò la propria convinzione: «di essere stato danneggiato […] al momento della elezione al Quirinale, da alcune manovre condotte a suo danno dal Sifar» (p. 16), accreditando, in tal modo, la tesi del golpe. Il tratto umano e la posizione politica degasperiana di Segni, nonché la fedeltà all’onore militare di de Lorenzo, resero plausibile, presso l’opinione pubblica, il loro possibile coinvolgimento negli eventi loro imputati.
  • ...
  • Si susseguirono: «tre processi, tre inchieste amministrative e un’indagine parlamentare» (p. 17):   Segni e De Lorenzo furono prosciolti e i due giornalisti condannati (si salvarono dal carcere grazie all’immunità, in quanto, nel frattempo, erano stati eletti in Parlamento).
  • ...
  • Le rivelazioni dell’inchiesta Mitrokhin, nel 2002, chiarirono il coinvolgimento di Mosca nell’inscenare la trama golpista, ma furono, di fatto, silenziate. Quegli eventi, rilevano Fertilio e Bigazzi, furono innescati occultamente dal Kgb, che mise in atto un’azione di “spionaggio totale”. Tale intervento ebbe per protagonista il colonnello Leonid Kolosov, uomo del servizio segreto sovietico in Italia. Questi operò al fine di realizzare nel nostro paese, anello geopolitico di grande rilievo per l’alleanza atlantica ma instabile politicamente, con governi di centrosinistra in evidente difficoltà, un piano di “disinformazione” ben congeniato. Dopo il crollo dell’Urss, Kolosov, pur tra ritrattazioni e ambiguità, come si evince dalla seconda parte del volume (firmata da Bigazzi) in cui è stato tradotto per la prima volta in italiano il suo scritto Arrivederci Roma, sosterrà di aver  “costruito” le “prove” del Piano Solo, grazie alla collaborazione dell’avvocato e già parlamentare socialista, vicino a Jannuzzi e Scalfari, Pasquale Schiano. Questi fece da intermediario con «L’Espresso»: «Conoscevo l’uomo […] con i suoi suggerimenti ha evitato che si lasciassero tracce. Siamo stati abili, veramente bravi» (p. 61), scrisse Kolosov. Nel giugno del 1969, inoltre, era stato spedito, in forma anonima, a giornalisti e parlamentari un “diario segreto” intitolato Luglio 1964. Si trattava della trascrizione delle relazioni di un agente del Kgb inviate periodicamente a Mosca negli anni del presunto golpe, che fu pubblicato a puntate sul settimanale «Il Borghese». Le responsabilità sovietiche erano chiare, eppure, ancora una volta, le rivelazioni non sortirono alcun effetto sull’immaginario politico collettivo a proposito del Piano Solo. Il “diario” venne derubricato a spy-story, frutto di mera invenzione letteraria. La gran cassa mediatica ha fatto sì che, da allora, l’Italia si sia ulteriormente indebolita politicamente. Da quel lontano 1967 il pericolo fascista e golpista ha paralizzato la nostra vita politica, in particolare tra anni Settanta e Ottanta, connotatati dalla vulgata della “strategia della tensione”.
  • ...
  • Il Piano Solo, costruito ad arte dal Kgb e la propaganda disinformativa a esso connessa, hanno destrutturato, innanzitutto, i nostri servizi che, nei decenni successivi, non seppero far fronte agli “anni di piombo” e al terrorismo rosso. L’operazione dette la possibilità al Pci di accreditarsi quale partito dell’“ordine democratico e costituzionale”: il partito di Berlinguer divenne, in tal modo, perno dei governi di “solidarietà nazionale”, primo passo verso il “compromesso storico”.
  • ...
  • Il volume di cui trattiamo ristabilisce, una volta per tutte, la verità dei fatti. Il golpe fu rosso. Forse qualcuno, sulla sponda politica opposta, pensò di poter sfruttare (vanamente)  possibili “aiuti” della Cia. Il piano Solo, ci dicono gli autori, è stato storicamente una partita di biliardo, con molti protagonisti, nella quale, comunque, la prima palla è stata mossa e decisa a Mosca. Ancora oggi i mass-media continuano a svolgere un ruolo politico disinformativo, in questo frangente a vantaggio della “religione dei diritti” che, stante la lezione di Del Noce, è il risultato della “borghesizzazione” del marxismo. Il modello di riferimento resta quello di Jannuzzi (successivamente “convertitosi” a Forza Italia) e di Scalfari: disinformare per coprire la verità dei fatti e agevolare le “sinistre”.

  • E un enigma

  • "È un enigma, questo"
  • Massimo Donà e la filosofia di Moby Dick
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • Il filosofo Massimo Donà ha definito, da tempo, la propria visione del mondo. La via donaiana si è costituita in uno stringente confronto teoretico con i fondamenti del pensiero europeo, dei quali ha svelato la costitutiva aporeticità.  Donà, come notò Mario Perniola, ha contezza che l’aporia non è data, nelle nostre esistenze, dall’inciampo della morte, ma è inscritta nella vita stessa, nell’origine che la anima, vale a dire in un principio nel quale negativo e positivo si dicono in uno.     L’autentico filo-sofare ha, secondo Donà, tratto poietico.  L’arte, a differenza del concetto distinguente, ci pone di fronte all’aporeticità del principio. La bellezza, a ben vedere, mette in scena l’infondatezza, la non entificabilità dell’arché. Tale assunto lo si evince anche dall’ ultima fatica di Donà, È un enigma, questo. La filosofia di Moby Dick, nelle librerie per le Edizioni ETS (pp. 161, euro 16,50). Nelle sue pagine il pensatore veneziano analizza il capolavoro di Melville, pubblicato nel 1851. Molteplici sono le interpretazioni di quest’opera che, il più delle volte, viene derubricata al genere del romanzo d’avventura. In realtà, lo scrittore americano in essa si confronta con la dimensione erratica della conoscenza.
  • ...
  • La narrazione di Melville si snoda attorno all’ossessiva caccia alla balena bianca perpetrata da Achab, capitano del Pequod, grazie all’aiuto di un equipaggio costituito da personaggi di varia umanità: «a partire da Ismaele (che avrà poi il compito di raccontare la demoniaca caccia)» (p. 7). Tra gli uomini dell’equipaggio si distinguono Queequeg, nipote di un Gran Sacerdote polinesiano,  Nantucket: «Un Quacchero […] razionale e cauto» (p. 7),  il collezionista di pipe Stubb e Flask, il meno sensibile tra loro al fascino del mare. Donà discute le posizioni sostenute dagli esegeti di Moby Dick soffermandosi, tra le altre, sulle tesi di Fernanda Pivano, Cesare Pavese, Carl Schmitt e Italo Calvino. Con quest’ultimo, è convinto che la storia di Melville sia: «una grande epopea in chiave simbolica con risvolti metafisici» (p. 9). I nomi dei protagonisti della cerca in questione rinviano a fonti bibliche, discusse con persuasività ermeneutica dall’autore. Ismaele rimanda: «al grande personaggio biblico, figlio di Abramo e Agar […] Così come rinvia a un personaggio biblico anche […] Achab» (p. 11). Pavese colse nel segno nel sostenere che a una  lettura accorta Moby Dick: «si svelerà […] per un vero e proprio poema sacro» (p. 12). Ismaele è un esiliato dalla modernità. Nella città dei traffici commerciali e mercantili egli vive: «un umido e tedioso novembre dell’anima» (p. 13). Sulla terra, dove tutto è misurabile, calcolabile, egli vive da straniero: «condannato a un’inautenticità da cui non gli resta che fuggire» (p. 12) verso lo sconfinato mare.   L’ignoto lo chiama a sé.
  • ...
  • Navigando sull’oceano: «non si potrà fare a meno di teorizzare il principio primo» (p. 14), venendo, in qualche modo, reclamati da Dio. Tutti i protagonisti di Moby Dick, pur scegliendo di veleggiare verso le acque aperte, sono consapevoli, come lo stesso Achab, di essere sovrastati da un ineluttabile destino. È la tensione all’infinito a condurli tra le onde. La stessa balena bianca, del resto, ricorda i biblici Leviatano e Behemoth, mostri acquatici di fronte alla cui potenza caotica, insensata, l’uomo, come Giobbe: «non può far altro che riconoscere la goffaggine e la meschinità della conoscenza» logocentrica (p. 17). L’esistente, infatti, rileva Donà: «rimarrà sempre libero; mai lasciandosi catturare […] dalle categorie o dagli a-priori capaci di decidere solo del volto fenomenico del reale» (p. 18). Davanti alle determinazioni escludenti, ogni volta, torniamo a fare esodo, a non sentirci a casa. I protagonisti del romanzo melvilliano sono protesi verso l’infinito, che agita le stesse forme date, come riconobbe Leopardi.  La conversione di Giona lo insegna. Essa prevede: «lo sprofondamento nel ventre del grande pesce […] reclama un’esperienza dell’inabissamento» (p. 22). La cifra del Leviatano (e di Moby Dick) è: «emblema di una  inritraibile e irrappresentabile differenza assoluta, a sua volta assolutamente differente […] dalla necessariamente naufragante, perché impotente, volontà di verità incarnata dall’ossessione furiosa di Achab» (p. 27)   Non è la ferita fisica infertagli dalla balena a spingere il capitano all’impresa, ma il vuoto procuratogli da una ferita esistenziale inguaribile, provata di fronte al mutismo della Natura. L’intrepido marinaio vuole ferire la balena per dividere in essa il bene dal male: «ma volendo questo, Achab vuole l’impossibile» (p. 31), dividendoli, infatti, finirebbe per determinarli. Combatte, in tal modo, l’assolutamente altro della sua finitezza. Lo provano, anche le fonti mitiche cui Melville si richiama.
  • ...
  • Achab-Melville è paradigma del melanconico: nell’arte marinaresca, nel silenzio notturno degli oceani, ritrova quel nulla che solo l’essere può sperimentare. Infatti, dice il capitano: «nell’infinita continuità del mare […] vi investe un sublime nulla, non sentite notizie, non leggete gazzette» (p. 45). La malinconia induce la nostalgia per l’indefinito, per quel nulla che in tutto, emianamente, vive. L’acqua, come mostra il mito di Narciso, ci attira irresistibilmente. Essa riflette l’infinitudine che alberga nel finito, del quale restituisce il “niente”. Proprio come avviene quando ci confrontiamo con la bellezza, porta regale che attraversa il visibile e conduce all’invisibile e che dice il più remoto essere, di fatto, il più prossimo. Narciso andò incontro alla medesima sorte di Dioniso: il dio nello specchio non sapeva di vedere se stesso. L’ombra riflessa è la nostra più profonda realtà. Sotto la superficie acquatica si aggira Moby Dick: «lì sotto si nasconde la distinzione assoluta» (p. 134). La balena è, non casualmente, bianca: in quanto il bianco allude a un vuoto immane che è massima pienezza, annullamento di ogni colore e: «fusione di tutti i toni dello spettro luminoso» (p. 139). Moby Dick testimonia il misterium vitae costituito da un’opposizione assoluta.
  • ...
  • La sua apparizione è epifania celeste. La dicotomia melvilliana pone ai poli opposti Achab e la balena: «per questo è assolutamente impossibile de-cidere chi dei due sia l’incarnazione del bene e del male» (p. 142). Nella nostra esperienza, infatti, abbiamo sempre a che fare con la con-fusione degli opposti.  Il cuore del reale è detto dal bianco della balena, mentre: «il volto mutevole del medesimo va invece ricondotto ad un uniforme […] grigiore» (p. 146). La balena albina, con la sua spettralità, allude alla: «radicale messa in scacco del logos filosofico e delle sue millenarie pretese» (p. 150). I colori testimoniano l’inganno della molteplicità, la bianca Moby Dick simboleggia quel: «vero principio di luce che tutto riesce a distinguere conformemente alla determinatezza che, sola, avrebbe potuto distinguere ogni cosa da ogni altra, ma che, in se stesso, non è distinto da nulla e dunque nemmeno “fondato”» (pp. 153-154). Quella di Melville è visione tragica, in cui la vita è dominata dal “caso”: il principio è affermazione e negazione in uno, come nelle corde della filosofia di Donà. 

  • copertina La lotta contro il diritto

  • "La lotta contro il diritto"
  • di 
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • (Oaks Editrice, 2024, pp. 111, € 12,00)
  • rec. di
  • Luca di Felice

  • Da parecchi anni, nel dibattito sulla giustizia, la contrapposizione assolutamente prevalente, frutto evidente di una generalizzata naïveté, è tra cd. giustizialisti e cd. garantisti. Questo saggio (sulla giustizia civile ed amministrativa) ha un taglio del tutto diverso (e originale) che include il rapporto giustizia/garanzie. L’autore si ispira, mutuandone e mutandone ai propri fini argomentativi il titolo, ad una celebre opera di Jhering “La lotta per il diritto” nella quale il grande giurista tedesco sostiene che senza la lotta per il diritto soggettivo degli individui lesi, cioè l’esercizio dell’azione da parte di questi (nei sistemi dispositivi), il diritto oggettivo viene meno, ritenendo così essenziale per l’ordine sociale l’apporto dei singoli soggetti che lottando per il proprio diritto rendono effettivo e vivente quello oggettivo.
  • ...
  • Scrive Klitsche de la Grange che la legislazione “italiana, nella Seconda Repubblica, ha reso più difficile, lento, costoso e defatigante l’esercizio dell’azione in giudizio e conseguentemente l’attuazione dei provvedimenti giudiziari”. A tal riguardo l’autore afferma che sono proliferate leggi e anche comportamenti volti a rendere più difficile, costosa, lunga la realizzazione della pretesa giudiziale. Il tutto nonostante la riforma (1999) dell’art. 111 della Costituzione volta ad aumentare le garanzie dei cittadini, prima e dopo ripetutamente contraddetta dalle fonti normative sottostanti.
  • ...
  • Klitsche de la Grange ritiene che il connotato ricorrente di quella che appare una legislazione dilatoria sia di favorire la parte pubblica aumentando le disparità tra le parti del rapporto (processuale e sostanziale). Ricorda a tal proposito la tesi di Maurice Hauriou secondo la quale ogni Stato ha due diritti (istituzionale e comune) e due giustizie (tra parti uguali e non) che egli chiamava Temi (non paritaria) e Dike (paritaria).  La Seconda Repubblica, per l’autore, pare aver fatto crescere il peso di Temi senza che con ciò ne derivasse alcun beneficio per la giustizia in generale, finendo anzi per determinare la scarsa efficienza dell’insieme. Il corollario di quanto precede, se si considerano ad esempio le pretese pecuniarie avanzate dal privato nei confronti dello Stato, è stata la produzione di norme orientate non a salvare i creditori dallo Stato quanto piuttosto lo Stato dai suoi creditori. Klitsche de la Grange riportando un passaggio dell’opera di Jhering così scrive “La lotta per il diritto è un dovere della persona verso se stesso. Affermare la propria esistenza è legge suprema di tutto il creato vivente, perché rispetto al debitore è per me un dovere sostenere il diritto mio, non importa cosa possa costare. E se non lo faccio, non metto solo allo sbaraglio questo diritto, ma il Diritto.
  • ...
  • Parole quelle di Jhering che ancora oggi risuonano con immutato vigore. In fondo, secondo il racconto di Eschilo, da Temi nacque il testardo Prometeo che non si sottrasse ai tanti patimenti cui fu sottoposto per via di quella sua smania di far del bene agli umani.
  • ...
  • Nel complesso “La lotta contro il diritto”, che ricollega la situazione odierna alle conclusioni della migliore dottrina dello Stato e del diritto, appare una lettura non appannaggio esclusivo dei tecnici o degli esperti rivolgendosi anzi a qualunque uomo che non rinunci ad invocare il Diritto per far valere le proprie pretese.

  • Diaoghi sgradevoli

  • Dialoghi sgradevoli
  • Un volume di Gianfranco de Turris 
  • rec. di
  • Giovanni  Sessa
  •  

  • La storia dei libri è ben stana. Quella del volume di Gianfranco de Turris che stiamo per discutere, Dialoghi sgradevoli. Candide conversazioni tra Simplicio e Filarete per servire la storia italiana del XXI secolo, lo mostra in tutta evidenza. La cartella contenente il testo sparì dal PC dell’autore, per riapparire all’inizio dell’estate del 2023.  Un segno del destino! De Turris si rese immediatamente conto che le tematiche in esso dibattute, presentavano ancora una straordinaria attualità, vero e proprio controcanto ai “tic e tabù” culturali e politici del nostro tempo.  Da tale constatazione l’idea di riproporlo, subito accolta da Idrovolante Edizioni che, da poco, ha mandato in libreria Dialoghi sgradevoli che raccoglie diciassette dialoghi, originariamente usciti su Il Borghese e Area tra il 2008 e il 2013, ora aggiornati da ulteriori informazioni. (per ordini: idrovolante.edizioni@gmail.com, pp. 219, euro 17,00). Il libro è aperto dalla contestualizzante Presentazione di Guido Andrea Pautasso.
  • ...
  • Va innanzitutto rilevato che, in queste pagine, de Turris mostra la propria versatilità intellettuale: fin dagli esordi della sua carriera di giornalista e saggista evidenziò un interesse non comune tanto per la cultura alta (è curatore dell’opera omnia di Julius Evola), quanto per la cultura sbrigativamente definita bassa (fumetto e fantascienza). Tale significativa duplicità della sua formazione la si evince anche nei Dialoghi. La scelta della modalità dialogica, strumento platonicamente finalizzato alla constatazione  della “verità dei fatti”, mostra, a un tempo, la natura aperta al confronto intellettuale del nostro studioso, quanto la verve polemica che non gli è mai mancata. Deuteragonisti sono il dogmatico Simplicio, personaggio del galileiano, Dialogo sovra i due massimi sistemi del mondo, e Filarete, amante della virtù e del coraggio, alter ego dell’autore. Il dibattito tra i due si sviluppa, sotto il profilo letterario, in modo fluido. Si tratta di “un botta e  risposta” tra posizioni diverse nel quale viene corretto l’errore ermeneutico di Simplicio, legato alla vulgata del “politicamente  corretto”, dominante la scena pubblica da qualche decennio.
  • ...
  • Al centro della discussione vi sono politici, statisti, italiani e stranieri, giornalisti e intellettuali, di destra e di sinistra. Alcuni di loro sono ancora su piazza, altri scomparsi. Al termine della lettura si possono trarre due conclusioni: da un lato si comprende, con Tomasi di Lampedusa che: «in questa nazione tutto cambia perché nulla cambi» (p. 23), dall’altro de Turris riesce a rafforzare nel lettore la vis intellettuale atta a spronarlo alla battaglia culturale contro gli idola della società liquida. Tra questi riveste un ruolo centrale il rifiuto della storia italiana ed europea, del nostro passato, atteggiamento messo alla berlina nel dialogo, Della stele e della statua, scritto in occasione della restituzione della Venere di Cirene a Gheddafi e della stele di Axum all’Etiopia. Scelte scriteriate, dettate da mere ragioni di opportunismo politico da parte della “falsa destra” berlusconiana: «In tal modo la destra italica non avrebbe più dovuto sentire le accuse di “fascismo” e di “colonialismo”» (p. 33). Le restituzioni rappresentarono il preludio dell’ideologia Woke, mirata a cancellare qualsivoglia identità storica e tradizionale dell’“uomo europeo”, ritenuto colpevole di misfatti inenarrabili.  La “destra finiana”, rileva Filarete-de Turris nel dialogo successivo, scelse scientemente di rinnegare se stessa, la propria storia, mostrandosi: «Perfettamente in linea con il “politicamente corretto”» (p. 36). Tale scelta tagliò le gambe a quanti avrebbero voluto pervenire a giudizi documentati, oggettivi, sia sul fascismo che sul colonialismo, senza dover assistere a sterili ritrattazioni acritiche (da “Mussolini più grande statista del secolo XX” all’accettazione, di fatto, dell’antifascismo).  In realtà, da allora, la “guerra civile” strisciante è rimasta tale in Italia e non si è prodotta alcuna “pacificazione nazionale”.
  • ...
  • In, Della libertà di espressione, Filarete rileva come tutto ciò abbia notevolmente ridotto la libertà di espressione, sancita a parole, dalla nostra Costituzione. Chi sostenga opinioni contrarie a quelle proprie della casta che regge il potere culturale corre il rischio di sottoporsi: «al linciaggio mediatico, di essere colpito da sanzioni amministrative e penali» (p. 81), di essere ridotto alla marginalizzazione sociale. Bernard-Henri Lévy giunse a chiedere, in un articolo apparso sul Corriere della Sera nel 2008, una legge che proibisse il “negazionismo storico”.  Nota, di contro, de Turris, che alle tesi “negazioniste” si sarebbe dovuto rispondere semplicemente documentando posizioni contrarie e non imponendo, sic et simpliciter, la tacitazione dell’avversario. Infatti: «per censurabili che possano essere delle affermazioni, tali rimangono» (p. 85).  Nessuno ricorda, tra le altre cose, che l’antisemitismo fu praticato anche dai sovietici e si è trasformato oggi in alibi atto a silenziare chi si opponga al senso comune dominante. Un vero “democratico” dovrebbe tollerare le posizioni diverse, non colpirle per via legale. La società occidentale contemporanea è eterodiretta da una élite progressista che ha imposto: «un pazzesco conformismo» (p. 95), attraverso l’esercizio di un’egemonia culturale liberticida che ha, nella “polizia verbale”, il proprio strumento principe.
  • ...
  • La democrazia liberale, come sostenne il filosofo Andrea Emo, ha assunto tratto epidemico, i suoi istituti si sovrappongono alla sovranità e alla cultura dei popoli. La “guerra delle parole” ha stravolto il nostro linguaggio: negro (da niger) è diventato “nero”, miope “visivamente svantaggiato”, portatore di handicap “diversamente abile” e guai a chi si sottrae a quella che Guy Hermet chiamò la “lingua macedonia”. Noi tutti, inoltre, viviamo “sotto controllo”, perfino sotto il profilo fiscale. Ogni atto della nostra vita è sorvegliato dall’orwelliano “Grande fratello”. De Turris, pertanto, si confronta in presa diretta con la realtà esistenziale contemporanea: discute i rapporti uomo-donna, la pervasività di Internet e della “religione dei diritti” nella quale il marxismo, sconfitto dalla storia, ha trasfuso il proprio afflato rivoluzionario, divenendo quinta colonna della Forma-Capitale.
  • ...
  • Le responsabilità della sinistra e della “falsa destra” sono poste sotto accusa dall’analisi dell’autore. I suoi dialoghi sono sgradevoli e candidi al medesimo tempo. Indicano la via d’uscita dallo stato presente delle cose, individuata in una diversa visione del mondo, quella tradizionale.  L’intera vita e le opere di de Turris, intellettuale che non è mai venuto a compromesso con il potere, a tale idee sono state dedicate.  Per questo, egli può parlare candidamente ai lettori, da innocente, da uomo che non si è sporcato le mani con i falsi dèi della società liquida.

 


 

  • "IL PRIMO DELLA CLASSE"
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Dopo l’insediamento di Trump, ci è sembrato doveroso ritornare a chiedere lumi a Machiavelli, il quale come sempre ci ha cortesemente ricevuto.
  • ...
  • Trump ha vinto nonostante da quattro anni ci garantivano che era finito e prossimo ad andare in galera. Che ne pensa?
  • Che non hanno capito nulla, Cominciamo che, ai tempi miei, e per la maggior parte della storia umana certe cose si fanno nell’ombra. Si usava il denaro, e spesso il veleno o il pugnale. Ma pretendere di condannare politicamente qualcuno con Tribunali, Giudici clamore e tanta… pubblicità è un’arma che spesso si ritorce a carico di chi mette in scena tale rappresentazione.  Soprattutto quando il pubblico è, in larga parte, a favore dell’accusato, anzi lo sostiene apertamente. Ancor più quando l’accusato è stato il capo di quella città. Come scriveva Lorenzo un tempo mio signore.  E quel che fa il signor fanno poi  molti/che nel signor sono tutti gli occhi volti.
  • ...
  • Gli avversari di Trump avevano denunciato atti illegali a cominciare dall’assalto a Capitol Hill…
  • La carnascialata, come l’avevo chiamata qualche anno fa denominata come un golpe, ma in effetti un tumulto, senza alcuna conseguenza rilevante. Se non quella sua… repressione, importante e forse decisiva a sostenere la seconda volata del biondo; avrebbero fatto meglio a fare una bella amnistia almeno non avrebbero agevolato l’opera del nemico.  Inoltre “perché lo accusare uno potente a otto giudici in una repubblica non basta; bisogna che i giudici siano assai, perché i pochi sempre fanno a modo de’ pochi” (Discorsi, I, VII). Assai meglio in una città, che siano tutti a decidere con un giudizio essenzialmente politico.
  • ...
  • Trump ha confermato la volontà di rendere gli U.S.A. di nuovo grandi, di voler realizzare l’interesse nazionale, senza prospettare fini ideali.
  • E ha fatto benissimo: se un governante ha un dovere (che è anche un suo interesse) è di accrescere la sicurezza e potenza dello Stato, e così della comunità. Il “bene essere loro dei popoli”, come ho scritto del governo del Valentino è concreto: significa poter vivere decentemente e in sicurezza. Ma se invece di dare protezione – perciò pretendere obbedienza – al popolo, il Principe si mette a recitare paternostri proponendosi quale nobile paladino di diritti e fini, spesso anche dell’umanità e non solo dei propri sudditi, i quali non hanno alcun interesse acché siano conseguiti, commette peccato mortale; riconducibile a quello fondamentale di non andar dietro alla verità effettuale delle cose, ma all’immaginazione di essa. E di volerne convincere e così ingannare i (propri) sudditi.
  • ...
  • Tornando a leggi e conflitti, non pensa che l’effetto di non applicare la legge incentivi i conflitti?
  • Qualche volta, ma occorre che il fine del legislatore e del governante sia di decidere il conflitto scegliendo i mezzi più opportuni. Ma se scopo del principe è quello di dividere il popolo al fine di indebolirlo e conservare il potere per sé e per i suoi, castigando i contrari, il risultato è spesso opposto. La legge, come diceva Trasimaco, è in tal caso l’utile di chi governa e come tale si palesa. Il popolo è meno bue di quanto credono, se ne accorge e il conflitto se ne alimenta. Dia retta a me: ho sempre sostenuto che i conflitti, anche interni, sono insopprimibili, e che spesso sono la causa di grandi imprese, come quelle di Roma. Occorre capire che ciò che fa la differenza è la capacità di risolverli.
  • ...
  • A tale proposito che ne pensa del fatto che sia Biden che Trump abbiano preso provvedimenti di “grazia” preventiva o successiva dei loro seguaci?
  • Che hanno fatto bene. Quanto a quelli di Biden, essendo stato conseguito l’obiettivo principale di sostituire il governo del loro partito, ha pochissimo senso processarne gli aiutanti. Anzi sembra (ed è) una vendetta, foriera di nuovi conflitti e comunque fascina per attizzarli.  Del pari è inutile tenere in galera i seguaci di Trump: hanno vinto e nulla aggiunge o cambia che stiano al fresco. Se li tenesse in carcere il biondo farebbe solo una pessima figura: un danno per sé, senza alcun beneficio a nessuno. Non è così grullo!
  • ...
  • E per i violatori della legge internazionale? Non vale punire i violatori?
  • Come scriveva quel filosofo – che non mi apprezzava molto - Immanuel Kant -  è inerente ad ogni accordo di pace la “clausola d’amnistia”, cioè di non punire i reati commessi in guerra.  Pretendere di fare la pace processando i sudditi altrui e facendo processare i propri significa proseguire la guerra con altri mezzi e non conciliare le comunità.
  • ...
  • Pensa che Trump sia un fenomeno passeggero, come il Valentino per l’Italia sua contemporanea?
  • No. Si capisce che non lo era prima e ancor più adesso. Passando ai fatti: a) è la seconda volta che vince b) hanno fatto di tutto per impedirlo c) ha vinto in modo più netto che in passato. L’intervallo di tempo e il perseguimento giudiziario rendono più evidente la sua vittoria.  Il che significa, come scriveva quell’altro filosofo – che mi apprezzava di più – cioè Hegel, che è montato sul cavallo dello Spirito del mondo. Cioè in una situazione che io, seguace della fortuna, ritengo avere il vento in poppa. Il che non essere disattenti o fiduciosi, perché la fortuna è come le donne, va battuta un po’.  Vedremo: di quello che ha fatto finora è tra i vostri contemporanei, uno dei miei allievi migliori.   Spero che lo rimanga in futuro.


  • Rivolta La prima edizione di

  • "Rivolta contro il mondo moderno"
  • Libro imprescindibile di Evola
  • rec. di
  • Giacomo Rossi

  • Evola ha considerato Rivolta contro il mondo moderno libro imprescindibile per la comprensione del suo pensiero. È noto che questo volume, uscito in prima edizione in Italia nel 1934, ha subito, nel corso del tempo, due significative revisioni. Esse furono realizzate dall’autore attraverso tagli e aggiunte di rilievo, in occasione della seconda edizione, uscita per Bocca nel 1951 e della terza,  nelle librerie per i tipi delle Edizioni Mediterranee nel 1969. In occasione dei novant’anni dalla prima uscita e a cinquant’anni dalla morte di Evola, la prima edizione di Rivolta, ormai di difficile reperibilità, torna a essere disponibile grazie alle Mediterranee, in edizione anastatica. In essa è riprodotta anche la sovraccoperta originale, disegnata da Evola e rintracciata, di recente, da Guido Andrea Pautasso. I saggi introduttivi sono di Andrea Scarabelli e Giovanni Sessa (per ordini: 06/3235433, ordinipvdizionimediterranee.net, pp. 495, euro 38,50).
  • ...
  • Evola modificò la prima edizione per adeguarla ai lettori delle generazioni successive a quella degli anni Trenta. Nel 1951, l’edizione Bocca tornò a proporre la visione del mondo del tradizionalista ai giovani che “fecero in tempo a perdere la guerra”, nel 1969, al contrario, la terza edizione parlò alla generazione che era stata lambita dalla “contestazione”. Scarabelli intrattiene il lettore sulle traversie che Evola dovette superare per veder pubblicata la sua opera capitale. Dapprima proposta a Laterza, dopo il diniego di quest’ultimo fu inviata all’editore Bocca. Successivamente, la scheda del volume finì nella redazione di Emiliano degli Orfini, presso la casa editrice genovese fondata da Emanuele Gazzo. Per ragioni contrattuali, non se ne fece nulla. Evola, allora, pensò perfino di fare uscire il libro, nell’attesa di trovare un editore italiano, in Germania. L’incertezza fu superata quando il filosofo propose Rivolta a Ulrico Hoepli, come si evince dall’epistolario intrattenuto con l’editore milanese, custodito presso il Fondo Apice dell’Università degli Studi del capoluogo lombardo, il 4 marzo 1933. L’opera, si badi, era quasi ultimata fin dal 1931. Dopo non pochi tentennamenti, Hoepli decise di dare alle stampa Rivolta: ricevette il testo il 4 luglio del 1933. Il 27 novembre il filosofo scrive a Ulrico che, per una richiesta giunta “dall’alto”, avrebbe dovuto portare le bozze all’Ufficio Stampa del Capo del Governo. Non si dimentichi che Evola era stato già diffidato dal regime a seguito della chiusura del periodico, La Torre.
  • ...
  • Il clima di diffidenza, se non di vera e propria chiusura nei confronti di Evola, da parte delle gerarchie fasciste, compromise, peraltro, la diffusione del volume dopo la sua pubblicazione.  Da un rapporto dell’Ovra stilato da Italo Tavolato, ricorda Scarabelli, si evince che fu dato ordine alla stampa di non parlare di Rivolta, per i suoi contenuti anti cristiani. In ogni caso, il volume era quasi esaurito quattro anni dopo la sua uscita. Pertanto, nel 1939, Carlo Hoepli, subentrato a Ulrico, propose a Evola una seconda edizione. Per l’occasione, il filosofo predispose un pieghevole (riprodotto nella anastatica che qui presentiamo, con il commento di Giovanni Sessa) in cui compariva la sinossi del testo, accompagnata da brani delle recensioni uscite in Germania (tradotti dallo stesso Evola) a seguito dell’uscita, nel 1935, della sua traduzione tedesca, Erhebung wider die moderne Welt. L’iniziativa non andò in porto per le resistenze degli ambienti fascisti, preoccupati dai contenuti non “ortodossi” del lavoro di Evola mirato a “rettificare”, in senso tradizionale, il fascismo. Il pieghevole fu inserito, pertanto, nell’edizione del 1951.  
  • ...
  • Sessa rileva che in Italia, con Rivolta, il filosofo avrebbe voluto creare una corrente tradizionalista dotata di concreta forza rivoluzionaria. Il suo tentativo fallì, in quanto la proposta evoliana risultò indigeribile alla classe dirigente del fascismo. Diversa, l’accoglienza che fu riservata a questo capolavoro in Germania. Ad occuparsene, su giornali e periodici, furono gli intellettuali afferenti agli ambienti rivoluzionario-conservatori, in particolare gli Jungkonservativen.  Emblematica, a riguardo, risulta la recensione di Gottfiried Benn: questi lesse la Tradizione evoliana quale “immagine” evocativa, una sorta di Weltbilb, di “immagine-mondo” atta a indurre un Nuovo Inizio della storia europea. I rivoluzionario-conservatori tedeschi, con i quali Evola aveva stretto, da tempo, relazioni proficue, utilizzarono, quale Weltbild, il mitologema della “Germania segreta”.  Evola, in Rivolta e in molti scritti comparsi su Diorama filosofico che, non casualmente, iniziò le proprie pubblicazioni nel febbraio del 1934, individuò la propria immagine-mondo nella Tradizione romana e nell’Imperium (tale parallelismo è stato fatto rilevare, in un suo scritto, da Renato Del Ponte). Un mitologema che, pur nella apparente assenza dalla storia, vige, in quanto origine, sempre in essa, in attesa dell’azione atta a farlo nuovamente evenire.
  • ...
  • La lettura di questa prima edizione di Rivolta, che fa seguito all’edizione critica del 1998, ricca di approfondimenti, bibliografie e di un vasto apparato di note, permette di comprendere come la visione tradizionalista evoliana, rimasta identica nel suo asse portante, abbia comunque subito variazioni di rilievo nel corso del tempo.  Il lettore troverà nelle sue pagine, prima di ogni altra cosa, la freschezza della prosa giovanile di Evola, connotata da una non comune potenza trascinante. Quest’aspetto risulta stemperato, calmierato, nelle edizioni successive.  Sotto il profilo dei contenuti, questa anastatica chiarisce in modo compiuto e meglio delle altre edizioni, il cuore vitale di quest’ opera.  Rivolta sorse, come ha sostenuto Scarabelli, dall’incontro tra: «il tradizionalismo di Guénon, il “nordismo” di Wirth e lo schema evolutivo di Bachofen (benché invertito di segno) […] Evola approda (in queste pagine) a un punto decisivo della propria evoluzione intellettuale».  Nella realtà contemporanea, liquida, post-moderna, la prosa e i contenuti di questa prima edizione paiono provenire da distanza siderale, confliggono con il senso comune del nostro tempo e ci costringono  a fare i conti con le “potenze” della vita, gli “dèi” ormai esiliati.  Pagine, come riconobbe Benn, dalle quali si esce cambiati, “trasformati”…

  • Lincanto del mondo

  • "L’incanto del mondo"
  • Un saggio di
  • Mauro Barberis 
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • Salvatore Natoli in un libro molto noto, I nuovi pagani, sostenne essere in atto nel mondo contemporaneo un ritorno alla visione del mondo classica. Lo psicanalista e filosofo James Hillman, in tutta la sua opera, ha rilevato come gli dèi greci, scacciati dal mondo a seguito dell’irruzione monoteista, abbiano trovato ricovero nella nostra psiche, animandola conflittualmente. È nelle librerie, per i tipi di Meltemi, un volume del filosofo del diritto Mauro Barberis, L’incanto del mondo. Un’introduzione al pluralismo (per ordini: 02/22471892, redazione@meltemieditore.it, pp. 257, euro 20,00), le cui pagine, se abbiamo ben inteso, propongono una valorizzazione del “pluralismo politeista” in sequela de, Il genio del paganesimo di Marc Augé, anche se l’autore non cita questo testo. In premessa, Barberis precisa: «Il pluralismo costituisce solo l’ultima parte, normativa e vagamente donchisciottesca, della teoria/filosofia del diritto che propongo da anni» (p. 11).
  • ...
  • Ne L’incanto del mondo, il teorico del diritto sviluppa, alla luce di vasta documentazione e con persuasività argomentativa, in cinque capitoli rispettivamente dedicati alla discussione storico-critica dei concetti di “Giustizia”, “Democrazia”, “Diritti”, “Libertà”, “Pluralismo”, le proprie tesi in merito. Egli muove da due conferenze di Max Weber, tenute a Monaco nel 1917 e nel 1919, inerenti il “politeismo dei valori”. In esse, il sociologo tedesco: «metteva in guardia  contro la fede cieca nella verità scientifica […] che poi ha ispirato a Isaiah Berlin il pluralismo dei valori» (p. 10). Essenziale, al fine di comprendere l’esegesi di Barberis, risulta il riferimento al pluralismo di questo pensatore di origini ebraiche, in quanto visione chiarificatrice implicante, comunque, il rinvio al pluralismo politico e a quello culturale. Di grande rilievo sono anche le interpretazioni del soggettivismo e del relativismo proposte dall’autore:  vengono indagati, al pari del pluralismo e con medesimo metodo, distinguendo in essi un momento conoscitivo, uno normativo e uno analitico.  Fondatore del pluralismo di primo genere è da considerasi Nietzsche, che lesse nella kultur ellenica tanto l’anima apollinea, latrice del successivo monismo armonico, quanto l’anima dionisiaca, antenata del pluralismo. Il politeismo mirò a divinizzare l’esistente e la vita di là da qualsivoglia intenzione moralistica. Per questo: «valori morali o giuridici quali bontà o giustizia […] sono solo una parte del  Pantheon prima greco e poi romano; accanto a essi ve ne sono infiniti altri» (p. 221).  
  • ...
  • La vita in quel frangente storico era esperita polemologicamente e tragicamente: lo testimonia Antigone nella tragedia sofoclea, che visse il conflitto tra gli dèi della città e quelli della famiglia. Tale tensione vitale venne normata dal concetto socratico-platonico e, successivamente, dal monoteismo cristiano. Il pluralismo normativo fu, invece, messo a tema da Weber nelle due conferenze ricordate, Scienza come professione e La politica come professione.  Lo studioso lesse le coppie dei valori in conflitto (sacro-profano, bello-brutto, buono-cattivo, vero-falso) come incommensurabili e, quindi, oggetto di scelta non razionale ma radicale, con la quale gli uomini devono, in ogni contesto, confrontarsi. A dire di Weber, pertanto, non sarebbe possibile porsi al servizio, in uno, degli dèi della morale privata e di quella pubblica. Berlin è stato, di contro, il sostenitore del pluralismo analitico la cui novità più importante è da vedersi tanto nella conflittualità dei valori, quanto nella loro possibile componibilità. La tesi di Berlin rifugge, si badi, dal riferimento utopistico a una definitiva e armonica tacitazione del polemos, ritenendo che la scelta dei valori comporti: «sempre una perdita tragica, […] nel senso dei tragici greci» (p. 225).  Per questo, dirimere tra pluralismo e monismo nel suo sistema di pensiero resta sempre decisione sospesa, aperta (come la storia che letta tragicamente si sottrae a ogni determinismo di stampo tanto progressista quanto reazionario). Chiosa Barberis: «Fra pluralismo e monismo, forse, occorre cercare una conciliazione, se non in teoria almeno in pratica» (p. 226). Bisogna porsi sulla strada di un tertium datur, oltre le logiche dicotomiche dell’identità, e rintracciare un possibile bilanciamento. Compito a cui i giuristi, a muovere dalla metà del Novecento, sono stati chiamati dalla realtà storica.
  • ...
  • Allo scopo è dirimente portarsi oltre la semplificazione radicale cui è pervenuto Riccardo Guastini, in quanto elemento centrale del bilanciamento deve essere una: «prassi applicativo/interpretativa costitutivamente pluralista» (p. 230). Il bilanciamento reale è contemperamento, consiste nel conciliare diritti, principi e valori in misure diverse da caso a caso. Per questa ragione, L’incanto del mondo, sviluppa una genealogia del concetto di libertà, partendo dall’analisi del liberalismo e delle sue classificazioni e procede nell’esegesi dei vincoli del diritto, quali costituzione e costituzionalismo. La storia dell’uomo ha attraversato l’età dell’oralità, durante la quale nelle poleis greche gli dèi-valori divennero oggetto di culto. Tale certezza fu scalfita dal sorgere del lógos che espose la classicità all’irruzione monoteista. La scrittura, seconda fase della storia comunicativa dell’umanità, impose l’Unico ebreo-cristiano-islamico. Oggi viviamo in una terza età, segnata da Internet, che ha destituito la credibilità della parola scritta. La nostra è epoca idolatrica, della post-verità secondo Bernard Stiegler, in cui si assiste a una profonda frammentazione dell’Io e della realtà.  Per ritracciare l’uscita di sicurezza da essa è fuorviante guardare a soluzioni perfettiste o armonizzati, quale quella proposta da François Jullien in quanto: «gli dèi-valori devono restare divisivi e conflittuali, conservando quella dimensione tragica che hanno sempre avuto. Anche in questo, dopotutto, deve consistere il re-incanto del mondo» (p. 236).
  • ...
  • La via conciliativa suggerita da Barberis non ha tratto profetico, non predice il futuro, si limita a considerare la realtà contemporanea nel suo essere gravata dal rischio costante e crescente della complessità e dell’entropia. Da essa non si può e non si deve fuggire, va affrontata con sagacia pratico-giuridica. Ogni cosa, nel reale, allude al “pluralismo politeista”, il cui tratto conflittuale può, al più, essere posto in forma, bilanciato, in tentativi esposti alla possibile confutazione. Tale tesi è condivisibile anche da quanti, come chi scrive, ritengano il principio-infondato del cosmo essere la libertà. 

  • Carrino Le ragioni di Creonte

  • "Le ragioni di Creonte
  • Un saggio del giurista
  • Agostino Carrino
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • Usciamo da poco dalla lettura di un testo di grande rilevanza teorica che si confronta con la crisi del Politico nel mondo contemporaneo. Ci riferiamo al saggio di Agostino Carrino, giurista e teorico del diritto, Le ragioni di Creonte. Sul moralismo politico, edito da La nave di Teseo (pp. 242, euro 20,00). L’autore presenta, attraverso la discussione di una bibliografia vastissima, lo stato presente delle cose. Carrino è dotato di una non comune capacità scrittoria che rende godibile il volume: la sua prosa introduce anche i non specialisti all’interno delle problematiche giuridiche e filosofiche di cui tratta. Il suo argomentare, articolato in una contestualizzante introduzione e in cinque capitoli, muove dalla constatazione aristotelica: l’uomo è “animale politico”. Il concetto di politico, ricorda lo studioso, è connesso al termine greco polis e, per certi versi,  rinvia a quello di polemos. Il conflitto, stante la lezione di Eraclito, è il sovrano della storia.
  • ...
  • Oggi, la concretezza del reale è negata, in quanto: «Ciò che vale sono solo le astrazioni, i principi universali» (p. 16), nonostante Schmitt e Freund abbiamo rilevato che polemos: «è inerente, consostanziale a ogni società» (p. 17). La categoria del Politico ha prodotto i concetti di Stato, di ordine giuridico e di sovranità. A Roma e ad Atene la polis faceva riferimento al popolo, era espressione di una cultura, di una storia, di un territorio. Tale dimensione è stata sostituita, in un complesso percorso storico, dal riferimento alla morale e, successivamente, dall’ipermorale (Gehlen), una morale astratta e frammentata, la “religione dei diritti” dell’individualismo neoliberale. Tale sviluppo è stato anticipato, tanto da Schmitt quanto da Karl Polany ne, La grande trasformazione. A partire dal 1814, con la sconfitta di Napoleone, la talassocrazia inglese impose l’autonomia dell’economico. La dimensione economica non fu più intesa come una delle componenti del sociale, ma rivendicò: «la propria indipendenza e soprattutto il proprio primato» (p. 21).
  • ...
  • Il moralismo che, ab origine, accompagnò la dottrina del mercato autoregolato non poteva, si badi, negare del tutto il reale. Lasciò, quasi inconsciamente, sopravvivere scorie del Politico, la contrapposizione di “destra” e  “sinistra” che, ancora oggi, pare animare la storia contemporanea. Non poteva essere diversamente: il primato dell’economico è, esso stesso, di natura politica e cela interessi concreti. Il Politico si definisce nella contrapposizione amico/nemico, è potere che si afferma. Le istituzioni contemporanee, tra esse l’Unione Europea, non sono più neppure democratiche: mancano di kratos, potenza, comando, capacità direttiva. Lo Stato è deprivato della sua essenza costitutiva, l’autorità: «la quale è un aspetto fondamentale dell’eticità come prodotto dell’esperienza giuridica e politica del passato, del presente e futuro di un popolo» (p. 27). Lo Stato è, in quanto tale, produttore di leggi, testimonianti le “consuetudini” consolidate di una comunità. Carrino, con persuasività d’accenti e in modalità organica, chiarisce, in tutta evidenza, la relazione che lega regola generale ed eccezione: «L’eccezione serve perché la validità della regola sia validità concreta e possibile» (p. 31). Non è necessario, in tema, essere decisionisti. Perfino Kelsen, teorico del normativismo, ebbe contezza che l’eccezione è deroga dalla legge, non sua nullificazione. Schmitt precisò che la regola è comprensibile solo muovendo dall’eccezione. Non casualmente, il filosofo e giurista tedesco, discusse in Sociologia del concetto di sovranità e teologia politica, il comma 2 dell’art. 48 della costituzione di Weimar, che riconosceva i principi dello Stato di diritto e le competenze eccezionali del monarca. Tale costituzione, al pari di quella austriaca del 1920, non fece che trascrivere ambiguamente la crisi della borghesia giunta all’apice del proprio sviluppo e la sua contrapposizione ai nuovi ceti emergenti. In letteratura, ricorda l’autore, tale crisi è testimoniata da I Buddenbrook di Thomas Mann. Quella di Weimar fu una Costituzione “postuma”, una “sala d’attesa”, la definirà Joseph Roth, sospesa tra due Reich. Per tale ragione la sua storia fu: «una lotta per l’appropriazione della costituzione da parte di questa o quella forza politica» (p.73), priva di qualsivoglia vita e fondamento, testo “incompiuto” che realizzò una “policrazia”, incerta tra diritti sociali e liberali. Solo questi ultimi, nei fatti, risultarono vincolanti. L’incertezza generale, così generata, favorì l’ascesa di Hitler. Al termine del conflitto mondiale, l’idea del diritto “moralizzato” si concretizzò nell’Unione Europea: «Un ordinamento giuridico senza Stato» (p. 104).
  • ...
  • Un organismo senza popolo e senza potere politico, autoreferenziale e dominato dalla Corte di Giustizia. Tale istituzione ha indotto a considerare Stato e nazione forme associative superate e pericolose per l’affermazione, contro il Sein, l’Essere storico-consuetudinario, del Sollen, il dover-essere utopistico della “religione dei diritti”.  Sull’altare del Sollen, declinato nel senso della cultura gender e Woke, si sacrificano oggi gli interessi dei cittadini europei. In tal senso, la Corte di Giustizia si propone quale: «guardiano dei valori inseriti e considerati innati […] nel testo costituzionale» (p. 111), diritti puramente astratti. L’ordinamento europeo è, pertanto, omogeneo all’universalismo morale della modernità. Di fronte al divampare del conflitto russo-ucraino, l’UE si è posta quale paladina della “sovranità” del popolo dell’Ucraina contro Putin, personificazione del male, recuperando, paradossalmente pro domo sua, il principio della “sovranità”. Solo il ritorno a una costituzione “assoluta”, che tenga conto dell’ordine multipolare del mondo fondato sui grandi “spazi regionali” può essere in grado di fermare il processo di crisi dell’Europa: «Il concetto di sovranità va dunque ripreso all’altezza di una rivisitazione geopolitica aggiornata» (p. 127), che tenga conto del pluralismo delle culture. 
  • ...
  • In siffatta congerie, l’inter-soggettività comunicativa evocata dall’europeista Habermas, non può giocare alcun ruolo: la comunità esiste a prescindere dagli individui atomizzati della società contemporanea. La dimensione pubblica è prodotto della storia. L’etica procedurale non può tacitare il conflitto: «delle morali concretamente e storicamente differenti» (p. 146). Dirimente, nota Carrino, è leggere criticamente il rapporto Antigone-Creonte, messo in scena da Sofocle. Le due figure tragiche, non alludono a diritti differenti, ma a diverse esegesi del diritto. Antigone è simbolo della politica della fede, dei diritti astratti dell’individuo che, a parole, inneggia alla libertà che, in realtà, nega; Creonte rappresenta, di contro, la politica dello scetticismo. Antigone è l’altra parte di Creonte. Il tiranno sbaglia nell’agire ciecamente: i suoi atti avrebbero dovuto essere “prudenti” e farsi carico dell’“irrazionalità” di Antigone.  Il contrasto va ricomposto: l’assolutezza morale e individuale di Antigone e quella altrettanto assoluta, ma pubblica, di Creonte, dovrebbero tornare a convivere, di là da qualsivoglia bilanciamento, in una politica “prudente”, da spoudaios avrebbe chiosato Platone.

  •  
  • Ciò che non resta

  • "Ciò che non resta, di Dio"
  • Massimo Donà
  • a confronto con la teologia di Jean-Luc Marion
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • Massimo Donà, filosofo dell’Università degli Studi «Vita-Salute San Raffaele» di Milano, nel suo ultimo libro, "Ciò che non resta, di Dio. Con Jean-Luc Marion, in prossimità di un 'impensabile' altrove", nelle librerie per i tipi di InSchibboleth, dialoga criticamente con le tesi teologiche del filosofo francese Marion (per ordini: info@inschibbolethedizioni.com, pp. 85, euro 15,00). In particolare, si intrattiene sul volume del pensatore transalpino, Da altrove, la rivelazione. Contributo a una storia critica e a un concetto fenomenico di rivelazione. Al centro del dibattito tra i due sta il rapporto tra visibile e invisibile, la figura trinitaria del Figlio. Rileva Donà: «Se è certo che invisibile e visibile, in Gesù, si incontrano, resta fermo che per Marion essi rimangono altresì abissalmente distanti» (p. 10). Tale distanza induce l’uomo a porsi in cammino, sospingendoci verso l’altrove abitato dal Padre: «ogni distanza reclama infatti il proprio attraversamento», nota Donà (p. 11).
  • ...
  • In realtà, nel Figlio si mostra perfettamente, rileva il pensatore veneziano, il Padre: «senza offuscare alcun tratto della sua assolutezza» (p. 11). Chi riesca a vedere nel Cristo, nel Dio mortale, trionfante e sofferente, la rischiarante presenta del principio, è sospinto a guardare al mondo con occhi da poietes, scoprendo in esso la “negazione” che lo anima: «che, […] come non oscura né vela nulla “del Padre”, neppure vela o cancella qualcosa di ciò che il Figlio lascia vedere, di sé medesimo» (p. 12). Insomma, a dire di Donà, il Padre, nel “dinamico” trinitarismo cristiano, non è affatto diverso dal Figlio, non sussiste in un altrove dal mondo, come sembra pensare Marion, pur presentandosi quale sua “negazione”. Visibile e invisibile, tempo ed eternità, esistenza ed essenza si danno in uno, non designano affatto un’opposizione in quanto, perfino nelle relazioni che si costituiscono come assolute viene chiamato in causa ciò che non distingue gli opposti, ciò che essi condividono: «quanto meno il fatto di essere assolutamente opposti […] il loro stesso opporsi reciproco sarà, proprio esso, l’identico» (p. 22).
  • ...
  • Nelle cose del mondo prosegue il pensatore italiano: «a costituirsi come identità di differenti è un atto escludente che […] non coincide con il soggetto di questo stesso atto» (p. 25), che dice solo quel che nei differenti non è identico. L’intelletto determinante  impedisce di rilevare, nello stesso tempo e nello stesso luogo, l’esser rosso o l’esser bianco di un dato oggetto. Al contrario, non risulta contraddittorio sostenere in una prospettiva trinitaria: «che la stessa Persona […] sia Diversa proprio là dove è Identica alle altre» (p. 28). Qui l’identità sta a dire l’“invisibile” proprio del dinamismo trinitario. Tommaso affermò che il Figlio non è diverso, pur essendo “altro” dal Padre. I volti del trinitarismo non sono, pertanto, “diversi” nel senso nel quale lo sono gli enti: non si escludono reciprocamente. Dicono l’esclusione: «disdicendola» (p. 30), smentendola. Il dinamismo delle Tre persone non è estroflesso, in esso nessun altrove si palesa: «Facendosi vedere, l’invisibile manifesta la propria invisibilità […] rende visibile proprio ciò di cui siamo chiamati a riconoscere, in uno, il non essere visibile» (pp. 31-32).
  • ...
  • Donà giunge a mettere in questione l’opposizione assoluta di visibile e invisibile, di positivo e di negativo. Invita a leggere: «il “non” di ogni determinatezza» quale suo «semplicissimo “essere”» (p. 37). Il visibile è “altro” solo rispetto a diversi visibili, ma non si differenzia dall’invisibile: «Per questo nessuno di noi potrà mai vedere l’invisibile – in quanto da sempre risolto […] nella visibilità del visibile; quale sua “non determinabile” negazione» (p. 41). Per questo, a differenza di Marion, Donà invita a rapportarsi al misterium vitae senza farsi affabulare dall’abisso, dal “fondo oscuro” o dall’altrove. Il suo non è un Dio, sic et simpliciter, trascendente le forme visibili, come nelle corde della teologia ebraica e del neoplatonismo emanazionista, in quanto, in questo caso, l’invisibilità divina si costituirebbe in modalità solo temporanea e potrebbe essere superata. Oltre ogni riduzionismo ontoteologico (dio quale ente) è necessario acquisire uno sguardo centrato sull’enigma della Trinità che: «impone  di guardare al conoscibile, ma anche di lasciarci toccare da un dono che nulla di determinato potrà offrirci» (p. 45). Marion riduce la “nuova logica”, cui allude nelle sue pagine, al modello della “comunione”, atto a supportare i limiti del lógos: «una condivisione in grado di non presupporre alcuna unicità precedente i tre: e dunque toto caelo affidata al loro specifico modo di unirsi “in comunione”» (p. 47).
  • ...
  • Il problema sta nel fatto, rileva Donà, che il modello dell’unità divina di Marion rinvia a un essente sempre e solamente identico a sé medesimo. Dio vive, per Marion, in un altrove, in quanto “altro” dagli enti. Per questo, il pensatore francese si fa latore di una visione rigidamente monoteista del Cristianesimo: «quando nel Dio del Cristianesimo c’è invece […] una realissima pluralità» (p. 52). Solo negando senza escludere, come insegna il trinitarismo correttamente inteso, sarà possibile uscire dallo logica dell’aut-aut centrata sull’astratta contrapposizione di unità e molteplicità, di Dio e mondo. L’eternità divina, grazie al Figlio, entra nella storia, senza che ciò possa rinviare a un indecifrabile mistero come crede il filosofo francese, a un altrove rispetto a sé stesso. È l’infinità di Dio a mettere in discussione la lettura di Marion: l’altrove è nel principio stesso, la sua assolutezza non consente di pensare a uno “spazio esterno”. La Trinità immanente e “senza resto” cui guarda il transalpino si risolve, a ben guardare, nell’autosufficienza della storia di hegeliana memoria: «Solo il Geist, avrebbe detto Hegel, guida il cammino di chi non può sapere dove si debba andare» (p. 64). Un visione  quella di Marion a-metodica e provvidenzialistica.
  • ...
  • Donà invita a ricostruire, al contrario: «la verticalità dello Spirito sul piano orizzontale» (p. 66), atta a far comprendere il senso reale della “negazione”. Alla luce di ciò l’Icona cristica, come nelle corde di Giovanni Damasceno e Basilio, ospita l’invisibile Padre senza alcuno scarto, in forza della gratuità del dono dello Spirito che si irradia sul volto del Figlio. Il “non” che vive nella Trinità immanente è la stessa originaria verità dell’essere. Pensare la Trinità, consente di comprendere che i principi della non-contraddizione e della contraddizione, non possono essere contrapposti l’uno all’altro, come vorrebbe Marion, in quanto in Dio vivono in uno. Ci si salva - prosegue Donà richiamando una tesi di Andrea Emo - rinunciando alla salvezza,“perdendosi” nel tempo della vita che dice l’eterno. Un tempo senza durata che: «non consente di guardare a nessun al di là rispetto al suo inemendabile ni-ente» (p. 81). 

Raaga banda


  • Evola: Raâga Blanda
  • Composizioni poetiche 1916-1922
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • In occasione del cinquantenario della morte di Julius Evola sono state date alle stampe un numero considerevole di opere del filosofo o a lui dedicate. Di seguito, ci occupiamo della raccolta di composizioni poetiche di Evola, Raâga Blanda, da poco nelle librerie per i tipi delle Edizioni Mediterranee (per ordini: 06/3235433, ordinipvdizionimediterranee.net, pp.79, euro 14,50). Il libro, con saggio introduttivo di Giorgio Calcara, è chiuso dalla postfazione di Giovanni Canonico, patròn delle Mediterranee, oltre che da una breve biografia del pensatore. L’editore rievoca, con evidente partecipazione emotiva, il suo incontro con Evola, autore che ha svolto un ruolo di rilevante importanza nella storia della coraggiosa casa editrice romana. Si sofferma, in particolare, sulla storia della copertina del volume che stiamo presentando, riproposta in questa nuova edizione anastatica, esattamente come fu disegnata e voluta dal filosofo.
  • ...
  • Calcara, nel saggio introduttivo, presenta, organicamente e con persuasività d’accenti, senso e significato della produzione poetica evoliana. Essa è momento centrale della produzione artistica, futur-dadaista, del tradizionalista e ne rappresenta un momento di grande rilevanza. La prima edizione di Raâga Blanda uscì nel 1969, grazie alla straordinaria sensibilità editoriale di Vanni Scheiwiller. La stagione poetica di Evola, contemporanea a quella pittorica, di fatto si chiuse attorno al 1922. I suoi bagliori poetici, hanno atteso cinquant’anni per essere editati nella loro completezza, grazie all’insistenza dell’autore che considerava quelle esperienze “giovanili” centrali nel suo iter speculativo-realizzativo. I componimenti di Raâga Blanda testimoniano, come si legge nella Nota predisposta dalla Fondazione: «profonda unitarietà di un filosofo ancora capace di pensare da artista e di un artista che […]  non smise mai di fare filosofia» (p. X).  Il termine Raâga compare per la prima volta in Evola nel 1920, nella poesia I sogni, inserita in Arte astratta, testo capitale della teorica astrattista europea. Calcara sostiene che essa evoca: «una misteriosa presenza che si manifesta come astratta espressione fonica» (p. XIV). Tale lemma assume forma definita nel poema La parole obscure, divenendo uno dei quattro “elementari” di  questo componimento, Monsieur Raâga.
  • ...
  • Questi svolge funzione registrativa, trascrive: «i meccanismi del paesaggio interiore azionati dai precedenti tre elementari» (p. XIV), Lilian, Ngara, Hhah. Grazie allo studio di Elisabetta Valento del 1989, centrato sull’epistolario che l’artista-filosofo intrattenne con il dadaista Tzara, sappiamo che, fin dal 1919, Evola pensava al suo libro poetico, completato probabilmente entro la fine del 1920. Il libro non uscì in quel frangente storico a causa di dissidi sorti con Marinetti e i futuristi e, pertanto, alcune composizioni confluirono nel saggio teorico, Arte astratta, testo, per molti aspetti, già dadaista.  Enrico Crispolti, critico d’arte di vaglia, alla fine degli anni Cinquanta, riscoprì la crucialità della produzione artistica di Evola e realizzò a Roma, nel 1963, una mostra delle sue opere pittoriche presso la Galleria di Claudio Bruni. Per questo, come ricordato, Schewiller aderì con entusiasmo alla proposta di Evola, come mostra il carteggio tra i due, conservato presso il Fondo Apice dell’Università degli Studi di Milano.
  • ...
  • Per cogliere il senso di questi componimenti è necessario far riferimento al significato che il termine râga aveva nel buddhismo delle origini. Esso è traducibile con “attaccamento”, “desiderio” e allude a ciò che appesantisce lo spirito, relegandolo nella mera dimensione “cosale”, “sensoriale”.  In sanscrito tale parola può venir tradotta con “colore”, “macchia scura”, segno d’impurità della condizione umana generante: «sofferenza e l’impossibilità di raggiungere lo stato finale della grande liberazione» (p. XVII). L’aggettivo blanda mira, di contro, a edulcorare tale condizione di stasi esistenziale, alludendo a un suo possibile superamento. Le poesie di Evola, per questo, hanno tratto di: «misteriose astrazioni verbali, descrivono paesaggi interiori […]  che inneggiano ora ad acidi territori molli e galoppate ferine, poi d’improvviso si calano in buie profondità abissali per finire scagliati in gelide orbite stellari» (p. XIX).  Attraverso l’esperienza del vuoto, i componimenti evoliani, alludono al superamento del limite, che pur ci caratterizza, scoprendo, alchemicamente, la nostra natura divina.
  • ...
  • La parola poetica evoliana è mantra, rebus fonologico, che svincola il dire dalla dimensione della significatività, è Parola magica che ha in sé l’incipit vita nova, tanto riguardo all’Io che al  mondo, come nelle corde della prospettiva filosofica dell’idealismo magico.  Raâga blanda testimonia l’irruzione dello spirituale nell’arte. L’arte autentica, infatti, è orfica, s-determina gli atti, mettendo in luce l’essere sempre all’opera del principio.  Allo scopo, la parola deve liberarsi del rapporto univoco nei confronti delle cose ma, altresì, dal suo stesso uso metaforico: solo in questo caso diviene porta regale spalancata sul divino. Delle trenta composizioni raccolte nel volume, otto sono tratte da Arte astratta, sia pur riviste. Alcuni testi sono esplicitamente dadaisti. Tra essi “A” dice: Luce nel quale è evocato il serpente Ea, tipico dell’immaginario ermetico evoliano. Le poesie del primo periodo fanno riferimento, a partire dal 1916, alla fase pittorica dell’“idealismo sensoriale”: «Colpisce […] il loro ricorrere ossessivo all’aggiunta dei colori» (p. XXII).  Lo si evince, in particolare in, Schizzi. Si segnalano, inoltre, le poesie composte nel periodo in cui Evola partecipò al Primo conflitto mondiale. In esse: «a essere raffigurata è la conseguenza dell’azione: il puntamento, lo sparo […] e l’esplosione» (p. XXII).
  • ...
  • Va fatto rilevare che, trasversalmente, in molti componimenti fa mostra di sé un’evidente valorizzazione del “femminile”, si pensi, soprattutto, a Ballata in rosso.  La nuova edizione di Raâga blanda consente al lettore di cogliere appieno il valore della poesia evoliana, momento saliente del suo percorso ideale e realizzativo. 

  • Del Ninno

  • "La vedova nera"
  • Un giallo (ma non solo) di
  • Giuseppe Del Ninno
  • rec.di
  • Giovanni Sessa

  • Avevamo contezza che Giuseppe Del Ninno, autore che leggiamo da anni, avesse capacità scrittorie non comuni. Esse si mostrano, in tutta evidenza, nelle pagine della sua ultima fatica, La vedova nera. La prima indagine di Ernesto Di Gianni, nelle librerie per Bietti (pp. 197, euro 18,00). Si tratta di un romanzo “giallo” di grande pregio. Condividiamo quanto, nell’Introduzione, ha scritto Stenio Solinas: «Il giallo è […] soprattutto una questione d’atmosfera […] di stile […] quello che resta non è il delitto […] ma ciò che ci rimane dei dialoghi, delle descrizioni, della storia nel suo dipanarsi» (p. 10). Tali tratti connotano il volume di Del Ninno. Se ne era accorto, un decina di anni fa, Raffaele La Capria che lesse il manoscritto e in una lettera all’autore, raccolta ora nell’Appendice del libro, scrisse: «È un poliziesco scritto bene, soprattutto quando si ferma sui personaggi resi realisticamente, coi sudori, gli odori, la parlata […] Poi c’è Roma […] quella realistica e non convenzionale» (p. 197).
  • ...
  • Lo scritto è stato lungamente pensato, rivisto. La prosa, intervallata dal pensare ad alta voce del protagonista, l’investigatore privato Ernesto Di Gianni, irpino trapiantato a Roma, è accattivante, fluida, capace di coinvolgere il lettore nelle complesse vicende che costituiscono la trama. Ernesto, scapolo solitario e trasandato nell’abbigliamento, vive in un mini appartamento che diviene, nei momenti del bisogno, rifugio sicuro per le sue meditazioni. A nostro parere, se abbiamo ben inteso, ha dei precedenti letterari di tutto rilevo. Da un lato ha ravvivato nella nostra memoria la figura del commissario-filosofo Francesco Ingravalle, prodotto della creatività di Gadda e protagonista indiscusso di  Quer pasticciaccio brutto de via Merulana. Questi era aduso guardare, proprio come Di Gianni, oltre i dati meramente empirici del reale, mirando a ciò che, in realtà, muove le nostre vite. Le vicende de La vedova nera, peraltro, trovano sviluppo a Grottaferrata, nei Castelli romani, proprio come quelle che videro coinvolto Ingravalle. D’altro lato, l’investigatore dell’agenzia Italmondo, i cui uffici sono ubicati nel cuore di Roma, a Via Frattina è un flâneur benjaminiano che vaga oziosamente, a piedi o sulla sua Giulietta, per le strade assolate della Capitale sul finire degli anni Sessanta. L’ incanto di Roma non era stato ancora del tutto deturpato dall’avvento della civiltà dei consumi: «La città è ancora intorpidita nella controra e le strade sono poco trafficate, sotto la canicola; dai finestrini entra aria bollente» (p. 19). Ernesto ha tratti, quindi, non dissimili dal Maigret di Simenon, ma anziché intrattenersi con gli avventori delle brasseries della rive gauche e fumare la pipa, colloquia con i frequentatori dei bar o delle vinerie, sorseggiando caffè o calici di Frascati fresco, con una Nazionale tra le labbra.
  • ...
  • L’incipit del volume ha un altro antecedente letterario, ci pare, ne L’orologio di Carlo Levi.   Ernesto rompe l’orologio dopo aver sbattuto il polso sul tavolo sul quale aveva perso l’ennesimo partita a “scopetta” con Vittorio, figlio del titolare dell’agenzia investigativa. Il patròn, la cui descrizione sembra rinviare a un personaggio realmente esistito, Tom Ponzi, oltre ad altre riviste, collezionava “il Borghese”. La Roma descritta da Del Ninno manca del tratto malinconico che le dette Levi: ne L’orologio questi testimoniò la propria disillusione per la fine degli ideali della Resistenza. È di certo una Roma popolana, quella che emerge nella pagine del libro di cui ci occupiamo, ma ancora poetica e suggestiva: «un cagnetto randagio si è acquattato in un brandello d’ombra fra due macchine in sosta» (p. 43). I suoi palazzi mostrano l’eleganza signorile di un tempo: «balaustre e colonne di marmo, statue nelle nicchie, lampadari su ogni pianerottolo, guide rosse e corrimano di legno scuro» (p. 51). Una Roma abitata da personaggi “vivi” quali “Mister Ok” (anch’egli realmente esistito) “venditore di telline” di origini francesi, promanante acre olezzo di  pesce che, in occasione del Capodanno, si gettava nelle acque del Tevere.
  • ...
  • Del Ninno descrive questo mondo in modalità sinestetica, ricorrendo all’ausilio di tutti i sensi. Lo fa, in particolare, nella descrizione del risveglio del protagonista nel letto di Marisa, che svolgeva il “lavoro più antico del mondo”. Quel risveglio è totalità di vita: «gli risalgono per le narici […] il sentore acido delle cicche spente nel portacenere sul comodino […] lo sguardo scivola dai capelli animati da qualche riflesso ramato giù verso la schiena nuda […] il tatto riattivato mentre la donna si rigira nel dormiveglia […] il gusto: un bacio a labbra semiaperte sulla nuca» (p. 97-98). L’incontro con il “femminile” è davvero essenziale in questo testo: Ernesto sa che la donna, anche la prostituta, o l’impiegata del Il Messaggero, Giulia, affondano la loro sensibilità nell’humus profondo dell’esistenza. Lo chiarisce la dolente figura della vecchia Patalano, residente in una Napoli eterna, città di origine della famiglia Del Ninno. L’anziana: «Sembra pattinar leggera sul pavimento di mattonelle esagonali nere e vinaccia, tirato a cera» (p. 81). Perfino la vedova nera, figura ambigua, resa tale dalla vita, che affida la ricerca del marito scomparso dieci anni prima all’Italmondo, conserva queste caratteristiche. Sono queste donne ad aiutare l’investigatore a districare la matassa di un caso complicato.
  • ...
  • Per quanto attiene alla trama “gialla” vera e propria, il lettore sappia che si tratta di una spy story ben congeniata: la scomparsa di Mario Carosi, marito della vedova, nasconde omicidi, un tentativo di avvelenamento con arsenico perpetrato da sua moglie, il coinvolgimento di servizi segreti italiani e stranieri, che tentano di intimidire Di Gianni, avvenimenti posti tutti sullo sfondo della guerra fredda. Lasciamo al lettore il gusto di scoprirne i particolari. Qual è la scoperta più importante dell’investigatore-filosofo Ernesto? Questi scopre: «L’ennesima prova […] che l’essere umano preferisce le cattive notizie a conferma di sospetti insopportabili, piuttosto che vivere nel dubbio» (p. 139).  Al contrario dei più, Di Gianni vive, nonostante la sua esistenza materialmente misera, sempre nel dubbio. Come tutti gli uomini pensanti conduce la vita in solitudine e sa che le vite umane, anche quelle di chi delinque, sono appese all’irrompere del possibile che, a seconda dei casi, meraviglia o atterrisce. Egli guarda agli uomini con compassione, senza giudicare moralmente i loro atti.
  • ...
  • Del Ninno, rileva Solinas, scrive per puro “piacere”. Il piacere, ci ha insegnato un amico ormai scomparso, Fausto Gianfranceschi, è antidoto alla degenerazione e volgarizzazione della vita cui assistiamo. Dona serenità. Per questo, il lettore accorto de, La vedova nera, esce rasserenato dalle sue pagine.

  • cover VOLTO DIONISO MELCHIONDA FOND EVOLA 500px

  • "Il volto di Dioniso"
  • L’edizione integrale del libro di
  • Melchionda su filosofia e arte in Evola
  • rec. di
  • Giacomo Rossi
  •  
  • Roberto Melchionda (1927-2020), aderì, sedicenne, alla RSI. Fu esponente di primo piano, nel dopoguerra, del giornalismo d’area in quanto fornì il proprio contributo critico all’“inchiostro dei vinti”.   Affiancò Enzo Erra nell’animare la corrente evoliana del MSI, i “Figli del Sole”.  Nel 1956 fondò la rivista Tabula Rasa e, dieci anni dopo, con Barna Occhini e Sigfrido Bartolini, dette vita al quindicinale fiorentino, Totalità.  Nel 1984 pubblicò il volume, Il volto di Dioniso. Filosofia e arte in Julius Evola. Questo volume, che ancora oggi rappresenta una pietra miliare, per esaustività e profondità ermeneutica, per l’esegesi della filosofia e della produzione artistica del pensatore romano, è ora nelle librerie, per i tipi dell’editore L’Arco e la Corte, nella sua versione integrale, a cura di Andrea Scarabelli e Giovanni Sessa (per ordini: info@arcoelacorte, pp 299, euro 24,00) Nel 1984, per ragioni editoriali, il testo fu emendato di alcune sue parti, in forza di un accordo intercorso tra l’autore e l’editore. Mauro Melchionda, fratello dello studioso, ha donato alla Fondazione Evola un faldone di scritti di Roberto nel quale compaiono anche le parti cassate dalla prima edizione.  Giovanni Damiano le ha raccolte nell’Appendice che chiude il volume che qui presentiamo. Il libro è, inoltre, impreziosito dalla postfazione del filosofo Massimo Donà, uno dei massimi interpreti della teoresi di Evola, nonché dal saggio introduttivo dello stesso Damiano, e dall'originaria introduzione di Giano Accame.
  • ...
  • Le intenzioni di Melchionda si evincono fin dall’ incipit del testo: «In questo libro si trova un resoconto della filosofia di Evola o, con più precisione, di quella sua parte che tratta “del superamento” della filosofia, che spiega il passaggio dalla teoria alla prassi». L’autore rileva, con pertinenza argomentativa, che solo attraverso la reale comprensione del momento teoretico del pensatore romano è, di fatto, possibile, essere immessi, senza fraintendimenti, nelle fasi successive del suo iter. Dalle pagine del libro, infatti, emerge la figura di un filosofo di primo piano del panorama europeo, conscio che la filosofia è sapere “all’opera”, non mero esercizio intellettualistico ma “farsi” inesausto che esige sbocchi pratici, quali quelli testimoniati dall’avanguardia artistica e dalla tradizione ermetica. L’idealismo magico, spiega il Nostro interprete, ha quale punto d’appoggio un “io” situato al di là del pensiero. Esso è origine, scaturigine, incondizionatezza anche rispetto a sé stesso. Lungo tale percorso Evola recupera problematiche emerse già nei Misteri antichi e in un filone carsico del pensiero europeo, avente al proprio centro l’Essere come possibilità, il principio come assoluta libertà-potenza. Una proposta di straordinaria attualità, capace di rispondere ai problemi del presente.
  • ...
  • Sappia il lettore che Il volto di Dioniso non è una ricognizione in un blocco teoretico monolitico ma un viaggio compiuto attraverso le varie edizioni dell’opera filosofica evoliana, un esercizio comparativo che legge nelle varianti bibliografiche l’evoluzione di un pensiero perennemente in divenire, in cui un ruolo preminente è attribuito alla prima edizione di Teoria dell’ individuo assoluto. Melchionda, non solo immette il lettore nei plessi teorici più complessi dell’idealismo magico, ma sviluppa confronti e comparazioni, di grande rilievo, con pensatori di epoche diverse, tra gli altri, Stirner, Nietzsche (intense, empatiche e belle le pagine dedicate a quest’ultimo) e Gentile. Mostra, in particolare, come Evola, a torto ritenuto, sic et simpliciter, avversario del filosofo di Castelvetrano, in realtà muove dagli assunti teorici, esclusivamente gnoseologici e intellettualistici, cui era pervenuto l’attualismo, al fine di superarli, facendo riferimento a un “Io di potenza”.  È la dimensione concreta e singolare dell’Io, assieme alle sue realizzazioni nella prassi,  centrate su un’azione “magica” e  trasformativa della realtà, a interessare realmente Evola. L’intera filosofia evoliana, rileva Melchionda, è intessuta attorno alla trascendenza-immanente del principio, un uno (al minuscolo), la dynamis, libertà-potenza, che si dice solo nei molti, negli enti della physis-natura, grecamente intesa, scossa dal pyr eracliteo e dionisiaco perennemente in fieri.
  • ...
  • All’arte (Evola attraversò da esponente di primo piano le avanguardie primo novecentesche) il pensatore attribuì la capacità di s-determinare, dalla determinazione cosale, l’uomo e gli enti tutti, oltre qualsivoglia dualismo indotto dalle staticizzazioni del logocentrismo. Il principio, la libertà: «dovrà possedere questi requisiti: in quanto concetto comprendere dialetticamente il suo opposto; in quanto propriamente libertà, porsi al di qua di ogni concetto». La filosofia evoliana, suggerisce Melchionda, è il cuore pulsante dell’intero suo sistema di pensiero – e non è un caso che ve ne sia traccia anche in opere non direttamente legate alla filosofia, come L’uomo come potenza, del 1926, ma anche negli scritti usciti su Ur e Krur nei tre anni successivi. Una “contaminazione” che altri autori “tradizionalisti”, ritenendola “moderna”, non gli perdonarono – valgano come esempio Arturo Reghini e René Guénon – e che fa di lui un intellettuale che, di fatto, non smise mai di essere filosofo, nel senso antico e nobile del termine. Nel tentativo d’inveramento degli esiti meramente gnoseologici dell’attualismo, Evola si fa latore, a dire di Melchionda, di una proposta che tende a rinsaldare in unità sintetica Essere e pensiero, idea e natura, teoria e prassi, in nome di un recupero della totalità vivente della persona e della physis.
  • ...
  • Nel pensatore romano la libertà è un “potere” originario e, per questo, sempre presente nella natura e nella storia – è, in ultima istanza, il sempre possibile. Solo corrispondendo a tale principio, l’individuo può porsi oltre la dimensione meramente rappresentativa, facendosi assoluto, sciolto, svincolato perfino da sé nell’attimo immenso della libertà-origine. Così procedendo, di fatto Evola anticipò vari aspetti significativi del pensiero del secondo Novecento europeo. Il volto di Dioniso, nella sua versione integrale, è volume essenziale al fine di liberare Evola dalle interpretazioni agiografiche e/o pregiudiziali che impediscono di comprendere la crucialità del suo insegnamento. Va rilevato, infine, come con questo testo, uscito  nel cinquantenario della morte del pensatore, la Fondazione Evola confermi di operare attenendosi alla correttezza filologico-critica, mossa dall’intento di far circolare le idee del filosofo di cui porta il nome.

SE 2023 prova 1 page 0001


Le attività della Fondazione Evola a cinquant’anni dalla morte del filosofo   

"STUDI EVOLIANI 2023"

rec. di

Giovanni Sessa


 

 

  • Anche quest’anno, con la consueta puntualità, è tornato nelle librerie l’Annuario della Fondazione Evola, Studi Evoliani 2023. Il testo è uscito per i tipi di Fondazione Evola-Ritter edizioni, per la cura di Gianfranco de Turris, Andrea Scarabelli e di chi scrive (per ordini: info@ritteredizioni.com, pp. 308, euro 25,00). Il 2024 è stato un anno che ha visto la Fondazione impegnata su più fronti, al fine di celebrare degnamente il Cinquantenario della morte del filosofo. Allo scopo la Fondazione ha lavorato alacremente alla silloge di inediti e rari evoliani intitolata alchemicamente, Fuoco segreto, comparsa nel catalogo delle Edizioni Mediterranee; Andrea Scarabelli ha pubblicato per Bietti una monumentale e informatissima biografia intellettuale del pensatore, Vita avventurosa di Julius Evola, di cui molto si è discusso; Gianfranco de Turris ha dato alle stampe, per Mursia, la quarta edizione, aggiornata e ampliata di, Julius Evola. Un filosofo in guerra 1943-1945.
  • ...
  • Sono stati organizzati una serie di Convegni di studio che hanno visto la partecipazione di insigni studiosi del tradizionalista, a partire da quello tenutosi a Milano il 4 maggio in cui si è discusso il seguente tema, Evola 1974-2024: un pensiero per l’Europa, che ha visto tra i relatori Alain de Benoist. L’11 giugno, data della scomparsa di Evola, a Roma si è tenuta la presentazione, cui ha partecipato un folto pubblico, dei tre libri su menzionati e del video di Guido Calcara dedicato alla produzione artistica di Evola; il 23 novembre, infine, sempre a Roma si è tenuto il Convegno, Evola cinquant’anni dopo in cui i relatori hanno dibattuto dei vari momenti dell’iter evoliano. Nello stesso mese le Edizioni Mediterranee hanno dato alle stampe l’anastatica della prima edizione, ormai introvabile e molto diversa dalle successive di Rivolta contro il mondo moderno, oltre all’anastatica di Raâga Blanda.  Infine, Studi Evoliani 2023, la cui lettura vivamente si consiglia ai lettori.
  • ...
  • Nella sezione Atti, sono raccolte le relazione tenute nel Convegno romano dedicato al tema, A Ottant’anni dell’uscita de “La dottrina del Risveglio” (nella stessa data a Milano si è svolto, sempre organizzato dalla Fondazione, l’incontro di studi, A Sessant’anni dell’ uscita de “Il cammino del cinabro”). Tutti i relatori, pur muovendo da prospettive diverse, hanno rilevato l’originalità della esegesi evoliana del buddhismo, discutendola e analizzandola in ogni suo aspetto. Segnaliamo, in tema, che Giovanni Monastra, durante il Convegno, ha presentato e discusso un’importante recensione firmata da Isaline Blew Horner, finora non nota, che chiarisce, una volta di più, la positiva accoglienza dell’opera evoliana sul buddhismo delle origini presso la Pāli Text Society.  Tra i Saggi compare il contributo di Marco Zagni nel quale vengono analizzati i rapporti intercorsi tra il pensatore e l’Ahnenerbe; lo scritto di Andrea Scarabelli inerente le relazioni tra Evola e i Sevizi tedeschi in tema di massoneria e Società segrete; il saggio di Sacha Cepparulo dedicato all’analisi della crisi della famiglia e alla sua unità eroica nel mondo tradizionale; infine, il pezzo di Nazzareno Mollicone nel quale si analizza la presenza di Evola nel volume, assai informato, di Enrica Garzilli, Mussolini e Oriente, incentrato sulla figura dell’orientalista Tucci, con il quale il filosofo collaborò.
  • ...
  • Nella sezione, Inediti e rari, compare uno scritto di Giorgio De Santillana, l’autore del Mulino d’Amleto, dedicato all’Umanesimo, presentato da Nuccio D’Anna e il contributo di Paolo Ricci incentrato sui rapporti tra il tradizionalista e Junio Valerio Borghese, autore della prefazione a Gli uomini e le rovine. Viene, inoltre, discussa da Emanuele La Rosa, in Paganesimo mediterraneo o nordico? la recensione in due parti uscita in Germania, a firma di Anton Hilckman, subito dopo la pubblicazione di Hednischer Imperialismus. In Cronache e polemiche, uno scritto firmato Fondazione Evola, mette in luce gli errori marchiani cui è andata incontro, per partito preso, Mirella Serri in suo libro definito, per questo, romanzo di fantascemenza. Alla luce di riferimenti bibliografici puntuali e documentati, le tesi della “storica” vengono privati di qualsivoglia credibilità. Guido Andrea Pautasso chiarisce, al contrario, i momenti salienti della produzione artistica di Evola, compreso quello futurista. In Rassegne, sezione che raccoglie recensioni di tema evoliano e tradizionale, si segnalano gli scritti di Adriano Scianca e Stenio Solinas.
  • ...
  • Studi Evoliani 2023 chiarisce, una volta di più, come l’azione esegetica e divulgativa messa in atto, da decenni, dalla Fondazione che porta il nome del filosofo, non sia affatto approssimativa, raffazzonata, ma miri a perpetrare nel presente il magistero del pensatore in modalità oggettiva, mettendo a disposizione dei lettori e degli studiosi, scritti informati e attendibili che possano, finalmente, liberare il suo pensiero dal “ghetto” in cui è stato rinchiuso da critici malevoli e preconcetti e dagli stessi “evolomani”.  Ragione ulteriore per leggere l’Annuario che abbiamo brevemente presentato.

  •                                                  
  • Stein

  • Edith Stein
  • Pensatrice della vita
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • È da poco apparso nelle librerie un numero monografico della rivista «Humanitas», curato da Francesco Alfieri, intitolato, Edith Stein. Teresa Benedetta della Croce Dottore della Chiesa, edito da Morcelliana (per ordini: 030446451, redazione@morcelliana.it, pp. 459, euro 28,00).   Si tratta di un volume nel quale, curatore e autori,  riflettono sulla “eminente dottrina” che si evince dalla lettura delle opere della pensatrice e religiosa tedesca.  L’Ordine dei Carmelitani, infatti, ha avanzato, di recente, in Vaticano la proposta di elevare la Stein al rango di Dottore della Chiesa. La filosofa e teologa, il cui iter intellettuale è strettamente connesso al dato esistenziale e alle tragiche vicende che la condussero a incontrare la morte ad Auschwitz, è una delle più alte testimoni di autenticità speculativa del Novecento.
  • ...
  • La Stein, in ambito teorico, mosse i primi passi al fianco di Husserl, padre indiscusso della fenomenologia, partecipando alle attività messe in essere dal movimento fenomenologico a Gottinga e Friburgo. Padre H. L van Breda, provò in tutti i modi a far trasferire la Stein a Loviano, perché lo coadiuvasse nella trascrizione dei manoscritti husserliani, ma la giovane preferì rimanere nel Carmelo nel quale era entrata in seguito alla meditata e sofferta “conversione” al cristianesimo. Nata ebrea, nel drammatico frangente storico degli anni Trenta, ebbe contezza che, con il montare della politica razziale e antisemita del nazismo, avrebbe rischiato grosso. D’altro lato, la sua adesione convinta al cattolicesimo, la indusse a sviluppare una filosofia, come nota il curatore, mirata alla: «fondazione di  un’antropologia in continuo dialogo con la teologia» (p. 6).  In tale iter, apprese che la vita umana è inesausta tensione verso l’infinito, auto-trascendimento. Nell’orizzonte ideale della Stein, giocarono un ruolo significativo le riflessioni sul pensiero, tra gli altri, di Agostino, Tommaso e Duns Scoto.
  • ...
  • Questo volume presenta, è necessario farlo rilevare, saggi dei più illustri studiosi del pensiero steiniano. Lo scritto di Rainer Schmidt chiarisce un dato biografico di grande rilievo. Fino ad ora si era erroneamente creduto che la pensatrice fosse morta ad Auschwitz, assieme a sua sorella Rosa, il 9 agosto del 1942. Nuova documentazione d’archivio (il diario della Hillesum, in particolare la pagina scritta il 20 settembre 1942) induce a pensare, al contrario, che la  religiosa sia deceduta, dopo aver sopportato atroci patimenti, un anno dopo, nel 1943. Il sacrificio della Stein fu atto di coraggio. La studiosa, di fatto, avrebbe voluto consegnarsi alla Gestapo per non creare problemi alle consorelle del Carmelo di Colonia. Il 31 dicembre del 1938 si trasferì nel monastero di Echt, in Olanda. Le opere teoretiche della filosofa, centrate sull’analisi della struttura dell’essere umano, nonché sui: «suoi vissuti e il modo in cui questi si strutturano in una comunità» (p. 11), furono un tentativo di esercitare, nei confronti delle nuove generazioni tedesche, un’azione pedagogica, formativa, finalizzata a liberarle dagli idola imposti dal nazismo. Il suo sacrificio può simbolicamente essere letto come un “abbraccio” empatico e caritatevole nei confronti del popolo germanico. Si sentì sempre, come racconta nella sua autobiografia, prussiano-tedesca. Più che di una “conversione” al cristianesimo, il suo, nota Alfieri, fu un “transito” alla nuova fede. La sua restò, fino alla fine, una “doppia appartenenza”, profondamente sentita e vissuta fino al tragico epilogo.
  • ...
  • Il volume affronta, attraverso un numero di contributi di rilievo storico-teorico, ogni aspetto della filosofia steiniana che, essenzialmente, è via che conduce a fare esperienza di Dio.  Dio, a dire della Stein, vive in noi, in tutto ciò che è. Per questo, le sue opere, ma anche questo volume imprescindibile per che voglia avvicinarne il pensiero, possono essere letti con profitto anche da chi si senta “uomo di fede”.  Lo si evince, con tutta evidenza, dal saggio di Bénédicte Bouillot mirato a rintracciare la prossimità teorica tra le posizioni della Stein e quelle di Bergson. Il francese concesse alla tedesca di portarsi oltre l’intellettualismo della fenomenologia husserliana in forza di posizioni anti-intellettualistiche, per giungere a una fenomenologia: «più attenta ad onorare la dimensione affettiva della soggettività» (p. 295).  Le due filosofie integrano la metafisica classica con esplicito riferimento all’esperienza e si concludono in una filosofia della mistica. Si tratta di un oltrepassamento della metafisica logocentrica, concettuale, sostanziata dal ritorno alle cose, implicante l’abbandono della matrice idealista kantiana e post-kantiana che, di fatto, aveva statuito nuova distanza tra la realtà e il principio che la anima.
  • ...
  • La valorizzazione del dato esperienziale mistico conduce Stein e Bergson ad interessarsi del vissuto (vissutezza la chiamerà Colli) proprio dell’esperienza conoscitiva dell’assoluto, di ciò che è s-determinato e libero, il principio.  Si tratta di  esperire fenomenologicamente “Dio in sé e in noi” che, se abbiamo ben inteso, può prescindere perfino dalla Grazia. La filosofia si compie mediante la teologia non come teologia. I dati rivelati assumono, in questo caso, il tratto della possibilità di senso (di grande rilevanza, in tema, lo scritto steiniano, Potenza e atto).  La mistica concede la certezza della presenza del divino in noi che va oltre la oscura certezza della fede. È: «“Scienza dei Santi” che corrisponde al sapere più elevato che l‘uomo possa raggiungere» (p. 299). La mistica, così intesa, attesta in re la possibilità dell’amore per l’altro che spinge ad amare perfino il nemico, il carnefice.  Non rinvia a un futuro escatologico storico e mondano ma è un domani che: «eccede i limiti del mondo» (p. 299) destrutturando la falsa opposizione tra deterministi e sostenitori del libero arbitrio, finendo per concepire in termini plotiniani, la libertà quale emanazione.
  • ...
  • La mistica rompe il “guscio” dell’io, degli atti aristotelici, per s-velare il “nocciolo” dell’anima che vivifica gli enti: «L’"Io profondo” non può essere afferrato con l’intelligenza, ma unicamente secondo un’intenzionalità affettiva per la Stein o un’intuizione per Bergson» (p. 301). La mistica, al pari della creatività poietica dell’arte, in quanto presuppone un atto libero al pari del principio, si fonda su: «ricettività e attività, necessità e creatività, docilità e fatica» ( p. 301).  È annuncio di vita gioiosa e persuasa, non corsa per omnibus. Via per tutti e per nessuno, esemplarmente testimoniata, come mostrano le pagine coinvolgenti del volume che abbiamo rapsodicamente presentato, dal pensiero e dalla tragica ma serena esistenza della Stein.

  • Eros antico

  • Eros Antico
  • Un saggio di
  • Franco Trabattoni
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • Franco Trabattoni, noto studioso di Platone, è docente di Storia della filosofia antica alla Statale di Milano. È nelle librerie, per i tipi di Carocci, un suo studio davvero rilevante. Ci riferiamo a, Eros antico. Un percorso filosofico e letterario (pp. 154, euro 16,00). Ne consigliamo vivamente la lettura in quanto l’autore, nelle sue pagine, entra con pertinenza argomentativa, analizzando criticamente una messe di testimonianze filosofico-letterarie assai vasta, il senso che all’eros fu attribuito nel mondo antico, in particolare in Grecia. Scopo del saggio è: «squadernare, dipanare e sviluppare, seguendo la traccia di alcuni autori antichi, le potenzialità dirompenti celate nella nozione di eros» (p. 13). La potenza erotica, infatti, è destabilizzante, s-determina, proprio come l’arte autentica, le identità costituite. Ne ebbe contezza in epoca moderna, nota Trabattoni, Leopardi, che fu, non casualmente, accorto lettore di Platone. Il grande recanatese comprese riflettendo sugli innamoramenti da lui stesso vissuti in prima persona, che la forza dell’amore pone in relazione, in modalità a volte ambigua, particolare e universale, uno e molti, la nuda esistenza e  il suo bisogno d’assoluto, sempre vago e indeterminato.
  • ...
  • L’incipit del volume ha al proprio centro alcune figure omeriche e accentra l’attenzione su Paride ed Elena, soggiogati dall’amore. Nel primo, se abbiamo ben compreso, l’autore individua una chiara messa in discussione dell’etica areteica, fondata sui valori virili propri dei guerrieri e dell’aristocrazia ellenica cantata da Omero nell’Iliade. Elena, felicemente coniugata con Menelao,   incarnazione di tale visione del mondo: «lo ha lasciato per unirsi con un uomo (Paride) che non è un uomo» (p. 25). Paride, infatti, è un uomo che si sottrae al conflitto, alla battaglia. L’etica areteica per lui è mera finzione. Egli, e la stessa Elena, sono latori di una bellezza divina, ammaliante, la quale, sensibilmente, attraverso gli occhi e la vista, affascina.  Paride si sottrae al giudizio degli anziani consiglieri di Priamo, ieraticamente assisi presso le porte Scee. Questi sanno che: «la divina bellezza di Elena è potente e meravigliosa e al tempo stesso terrificante, minacciosa, pericolosa» (p. 28). Il nostro anti-eroe, nonostante ciò, non vuole combattere, il valore virile al tempo condiviso dai suoi pari di rango, non fa presa sul suo cuore, è messo in discussione da eros, da cui è perdutamente preso. Non conosce la vergogna del disonore: «non conosce il coraggio e dunque non sa che cos’è la virtù» (p. 42). La  sua è una diversa concezione della vita, non espressa a parole, ma manifestata dai sui atti condizionati dalla potenza erotica. Il suo dire, nel colloquiare con il fratello Ettore, trasforma il desiderio del piacere erotico nel suo contrario, nello sfogo di un dolore. Il suo è un modo di rapportarsi alla vita di tipo femmineo, per questo è biasimato. Di contro, come sosterrà Gorgia, Elena in quanto donna, è per natura soggetta alla volubilità e, per questo, è innocente. Il sentimento in lei travolge il nous.
  • ...
  • All’amore, del resto, soggiacciono gli stessi dèi. Eros scioglie le membra, è abbandono all’altro,   mancamento corporeo, che tanto assomiglia al venir meno del corpo al momento della morte.  È mania, a volte violenta. Nell’eros avviene: «un incontro immediato di causa ed effetto […] tra un elemento fisico esterno […] e un elemento psichico/interno» (p. 58), che tutto travolge. All’amore è consustanziale l’idea di pharmakon che, al medesimo tempo, ferisce, fa “ammalare”, ma può anche guarire, trasformarsi in medicina. É potenza riconnetteva che ci ri-conduce all’uno. Platone ha colto in modalità paradigmatica l’ambiguità di eros. Gli amanti, nel Simposio, spiega Trabattoni, paiono aver contezza che l’appagamento sessuale allude: «sempre a una dimensione ulteriore che va al di là della pura sessualità, a una pienezza che la completa e la ingloba» (p. 93), all’androgine, all’eidos. Ogni esistenza si è generata dalla scomposizione dell’unità originaria, per cui: «il moto a ritroso che tende a recuperare l’unità perduta […] sembra non solo del tutto naturale, ma in linea di principio anche sempre possibile» (p. 95). Ciò significa che al centro del desiderio d’amore non vi è un oggetto esterno ma: «una parte del nostro stesso essere che ora ci manca» (p. 96). Siamo esseri divisi, sessuati, che, a differenza dei nostri progenitori asessuati, veniamo sospinti da una tensione, proprio dell’intera physis, che ci induce a sopravvivere, individuando nell’atto sessuale uno strumento di perpetuazione di noi stessi.  Una coazione inerziale a tenere in vita la vita, attraverso l’amore.
  • ...
  • A ben guardare, nel Simposio, il discorso di Diotima configura due possibilità, l’una afferente ai “Piccoli misteri”, l’altra riguardante i “Grandi misteri”. Nei primi, l’eros si presenta quale desiderio d’immortalità, in un contesto nel quale Platone sembra non far riferimento all’immortalità dell’anima. La tensione erotica ha qui funzione meramente surrogativa. I secondi, invece, pongono l’accento sulla “qualità” dell’oggetto erotico, in un graduale processo di elevazione spirituale: «ciò che più si avvicina a conseguire lo scopo del’eros sarà quella cosa […] che più e meglio “profuma” di eterno […] l’immortalità ideale generata dalla procreazione dei figli e dal ricordo che gli uomini possono lasciare di sé con le loro opere» (p. 121). Dalla bellezza dei corpi, alla fine del discorso di Diotima, si passa alla bellezza in sé, all’universale. Solo quando si sia giunti a tanto, i “Piccoli misteri” possono venir messi da parte. Diversa la situazione del Fedro, dialogo nel quale Platone reintroduce il tema dell’immortalità dell’anima. Nel secondo discorso di Socrate: «al posto dell’astratta staticità di una contemplazione […] Platone non esita a ricavare le conseguenze implicite nel fatto che eros è desiderio di possedere le cose per sempre» (p. 134). L’unica soluzione sta nell’immortalità dell’anima e nella metempsicosi, in particolare dei filosofi, capaci, attraverso l’anamnesi, di conseguire il ritorno epistrofico al Bene-Bello. A questa via auspicabile, ma non garantita, Platone affianca una via secondaria, surrogatoria, che guarda, comunque, al modello androginico, paradigma regolativo dell’agire umano: può anch’essa indurre felicità. La dimensione eidetica è garanzia del “successo” della seconda via, che muove dal molteplice della physis, proprio come, in ambito politico, la Repubblica ideale deve fungere da guida per la costruzione degli Stati reali.
  • ...
  • Eros antico è testo da tenere in seria considerazione poiché immette il lettore nelle vive cose della cultura ellenica.

  • MACRON E LA VOLONTÁ POPOLARE
  • di 
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • La crisi francese, dopo l’approvazione della mozione di censura da parte di una maggioranza non omogenea della rappresentanza parlamentare (quindi non decisa a sostituire il governo con un altro espressione di una diversa maggioranza) pone una serie di problemi tutti siti sulla linea di confine tra politica e diritto pubblico.  Il tutto rifacendosi al giudizio espresso da Lincoln che il governo democratico è quello dal popolo, per il popolo, del popolo. Se questo non succede o lo è solo in parte, la democrazia è zoppa. Anche se l’ordinamento è democraticamente ineccepibile, occorre che i comportamenti dei governanti siano ligi allo “spirito” del regime politico e alla funzione di organi ed istituzioni.  Le vicende del 2024 dimostrano come i comportamenti di Macron non siano stati coerenti con lo spirito democratico.
  • ...
  • Vediamo come tutto è iniziato quando, come previsto, le elezioni europee hanno assicurato un grande successo sia alla Le Pen che a Mélenchon, che sommati insieme riportavano più del 40% dei voti espressi. Con i “minori” (Zemmour soprattutto) sfioravano il 50%. A questo punto Macron prendeva una decisione inaspettata, anche se democraticamente corretta: scioglieva l’assemblea nazionale per l’evidente difformità della volontà popolare rispetto alla “composizione” di tale organo. A tale proposito è bene ricordare che l’istituto dello scioglimento parlamentare - da più di un secolo, dopo la diversa funzione che aveva nelle monarchie costituzionali - è usato per risolvere le crisi politiche (e costituzionali). In particolare quando l’orientamento politico dei massimi organi dello Stato (parlamento/governo) è conflittuale o almeno grandemente divergente.  In questi casi, oltre che consentire di superare la crisi e di riavviare il funzionamento del sistema, assume il significato di un appello al popolo, chiamato a decidere tra i due orientamenti. Allorquando (è successo tre volte nella quinta repubblica) l’elettorato (anche quando il Parlamento non era sciolto) sceglieva una maggioranza contraria al Presidente, questo nominava un capo del governo proveniente da quella, dando luogo così alla cohabitation. Ciò in ossequio al principio e alla legittimità democratica. Nei tre periodi di cohabitation non si verificarono così particolari turbative del funzionamento istituzionale: la costituzione della V repubblica dà comunque al governo i poteri necessari a governare. Ancor più con un parlamento a maggioranza omogenea allo stesso.  Nel corso del 2024 con lo scioglimento dell’Assemblea nazionale – e i conseguenti accordi elettorali di desistenza tra sinistra e centro – la funzione dello scioglimento è stata ribaltata (forse più nei fatti che nelle intenzioni): la desistenza non ha assicurato una maggioranza, dato che l’assemblea è ripartita in tre schieramenti di proporzioni non molto diverse.
  • ...
  • Dopo l’approvazione della mozione di censura al governo senza maggioranza di Macron, questi ha avvertito qual era la logica conseguenza dell’intera vicenda: le sue dimissioni. Anche perché se ad essere censurato era il governo, la responsabilità politica di averlo nominato era tutta di Macron. E infatti Macron ha subito detto nel messaggio di giovedì u.s. che sarebbe rimasto al suo posto fino alla scadenza del mandato presidenziale.
  • ...
  • Nel caso, come in altre vicende di altri paesi, si pone il problema di come possa governarsi una democrazia (ancor più che altre forme politiche) a dispetto della volontà popolare (ripetutamente) manifestata. Nel caso che Macron sia un Presidente di minoranza – oltretutto che deperisce – risulta da tutte le elezioni svoltesi in Francia quest’anno che hanno visto la coalizione macroniana sempre minoritaria e lontanissima dai dati delle presidenziali del 2022 (circa il 58% di voti a Macron). Scriveva Schmitt che (in generale) «la parola volontà indica – in contrapposizione ad ogni dipendenza ad una giustezza normativa o astratta – l’esistenziale oggettivo di questo fondamento di validità» (il corsivo è mio). Cosa che, almeno per il conflitto tra organi rappresentativi, con la prassi della cohabitation era stata costituzionalizzata nel sistema francese.
  • ...
  • E così, a quanto pare – Macron non ha intenzione, per la verità pare neppure la possibilità – di adeguarvisi. Sembra, da alcune mosse, che cerchi di allargare la maggioranza sul versante di sinistra. Se riesce, a sinistra o a destra - si avrà così una demi-cohabitation che ricorda un po’ le alchimie italiane dell’ultimo trentennio (ma non solo): con governi né legittimi né stabili (ricordatevi dell’Ulivo), né coerenti nell’indirizzo politico.
  • ...
  • Sembra un po’ ingeneroso paragonare quanto fa Macron all’esempio del fondatore della Quinta repubblica, De Gaulle. Il quale aveva, dal 1958 in poi, riportato consensi plebiscitari nelle diverse votazioni. Da ultimo, nelle elezioni  parlamentari del 1968, la maggioranza gaullista conseguì circa ¾ dei seggi all’assemblea nazionale. Ciò nonostante quando l’anno successivo perse per pochi voti il referendum sui poteri del Senato, il generale si ritirò a vita privata. È chiaro in quel gesto che a determinarlo (o co-determinarlo) fu la convinzione che la sintonia tra paese legale e paese reale è fondamento della vitalità istituzionale del regime politico, ancor più se democratico. Cosa che Macron non ha appreso; e che nell’Europa (e nell’occidente) del XX secolo, il Presidente è in una grande – anche se decrescente – compagnia.

 

  • DAnnunzio

  • "D’Annunzio custode del disordine"
  • Un saggio di
  • Claudio Siniscalchi
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • Claudio Siniscalchi, storico del cinema e saggista da sempre attento alla cultura dei non-conformisti del Novecento, con la sua ultima fatica porta l’attenzione dei lettori sulla figura di Gabriele D’Annunzio, protagonista indiscusso della storia italiana ed europea nonché delle patrie lettere. Ci riferiamo al volume, D’Annunzio custode del disordine, nelle librerie per Oaks editrice (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 121, euro 15,00). Il libro è snello, ma come riconosce nella prefazione Marcello Veneziani, risulta “incisivo” rispetto al tema trattato. L’intento dichiarato di questo pagine va individuato nel rintracciare, non solo nel mondo valoriale del poeta-Vate, ma perfino nel suo vissuto, l’humus esistenziale, intellettuale e politico proprio di quella congerie di autori che dettero vita all’“ideologia italiana” (la definizione è di Bobbio), dai tratti “rivoluzionario-conservatori”.  Al termine della lettura è possibile asserire che Siniscalchi ha realizzato, in modo compiuto, le  esplicite intenzioni ermeneutiche.
  • ...
  • Per comprendere senso e intenti della rivoluzione conservatrice italiana che, si badi, fu momento di quella europea, tale fenomeno va contestualizzato storicamente e teoricamente. Per farlo, l’autore richiama le posizioni di Ernst Nolte e, soprattutto, di Augusto Del Noce.  Quest’ultimo comprese che la storia del secolo XX poteva essere interpretata esclusivamente in un approccio transpolitico, in quanto in essa, a farsi mondo, è la filosofia moderna, esito dell’immanentizzazione del fine della storia cristiano.  I rivoluzionario-conservatori, stante la lezione di Armin Mohler e di Giorgio Locchi, diedero vita a un “contro-movimento” culturale e politico, anti egualitario, mirato a cogliere i limiti della democrazia parlamentare e a superarla, senza alcuna nostalgia passatista. Al contrario, il superamento del presente avrebbe dovuto prendere avvio dalla modernità stessa, addirittura dalla sua accelerazione. La vita e l’opera di D’Annunzio, la loro originalità e centralità, risultano comprensibili solo se inseriti nel panorama intellettuale di tale ossimorico e attualissimo tentativo. Il titolo del volume allude allo scritto di Malaparte, I custodi del disordine: «Definizione che ben si adatta al “D’Annunzio politico”. Un “custode”(“conservatore”) del “disordine” (“rivoluzionario”)» (p. 25).
  • ...
  • Siniscalchi ricostruisce con acribia metodologica, attraverso una messe documentale ampia e significativa e in forza della conoscenza della più significativa bibliografia critica in tema (come dovrebbe fare ogni storico serio), le vicende biografiche nelle quali il Poeta-armato venne coinvolto. Dagli studi a Roma agli esordi nel mondo giornalistico della Capitale. Presenta e analizza le frequentazioni intellettuali, politiche, si intrattiene sulle numerose liaisons sentimentali di D’Annunzio. Si badi, Siniscalchi non si occupa, sic et simpliciter, del momento politico dannunziano ma discute, nei capitoli in cui il libro è articolato, con pertinenza argomentativa e persuasività d’accenti, la produzione letteraria, la tensione all’azione dell’ “esteta decadente” e, successivamente, del “poeta-condottiero” durante l’avventura fiumana, per giungere al “Vate degli italiani”. Il D’Annunzio letterato, a muovere da Il piacere, risulta essere, con Giovanni Verga, l’iniziatore della letteratura italiana del Novecento: «Il contributo dannunziano si manifesta in varie direzioni: il simbolismo narrativo; l’innovativo utilizzo dello spazio e del tempo; la rappresentazione dei personaggi» (p. 32). La fonte cui lo scrittore, in prevalenza, si ispirò, fu la cultura francese. Da essa trasse l’insegnamento, proprio di Drieu, che scrivere di sé e della propria epoca, malata e decadente, implica non solo l’uso dell’inchiostro, ma del “sangue”, vivo pathos esistenziale. In Le vergini delle rocce , il Nostro mise in scena: «tutto il disprezzo per la democrazia rappresentativa» (p. 37) che lo indusse, proprio come Wagner, alla ricerca di “un’opera d’arte totale”, finalizzata all’affermazione di un nuovo ceto dominante di “Eroi” dal profilo alla Carlyle.
  • ...
  • Mosso da tale concezione, il confronto con la realtà socio-politica per D’Annunzio risultò sconfortante. Da qui la necessità dell’azione. Fu eletto in Parlamento nelle file della destra, ma ben presto passò a sinistra. Andò, sostenne: «verso la vita» (46), animato dalla ricerca della coincidentia oppositorum in politica. Fu protagonista di primo piano nelle “radiose giornate” di maggio dell’interventismo, che videro sulla stessa barricata nazionalisti, socialisti massimalisti e sindacalisti rivoluzionari e, alla fine del conflitto, dette vita, quale risposta alla “vittoria mutilata”, all’impresa fiumana. Era il 12 settembre 1919. Nella città istriana, D’Annunzio realizzò l’“opera d’arte totale”. La fantasia, in quelle turbinose giornate, giunse davvero al potere. Tutte le restrizioni furono bandite: religiose, sessuali, politiche. Si celebrò la “festa” della Rivoluzione: Guido Keller e Giovanni Comisso animarono il gruppo fiumano-esoterico Yoga, mentre: «Harukichi Shimoi fu il “Samurai di Fiume”». Con il “Natale di sangue” e la fine della Reggenza la parabola politica di D’Annunzio, di fatto, si concluse.
  • ...
  • Fin dai mesi precedenti, Mussolini, stratega politico, realista scettico e non poietes puro come il pescarese, stava ponendosi quale nuovo punto di aggregazione per quanti erano intenzionati a costruire un’Italia nuova, rispetto all’Italietta giolittiana che, paradossalmente, sembrava poter risorgere dalle macerie del conflitto. A seguito della Marcia su Roma, Il Vate visse nella “prigione dorata” del Vittoriale, riverito dal nuovo regime. Mussolini, ricorda Siniscalchi, gli rese visita. L’ultima parte del saggio affronta i rapporti tra i due. A riguardo, Veneziani commenta: «non si tratta di stabilire se D’Annunzio sia stato o no fascista, ma di riconoscere che il fascismo è stato dannunziano» (p. 9). Merito maggiore di, D’Annunzio custode del disordine, è da cogliersi nell’esegesi delle gesta e delle opere di un grande italiano, in modalità altra dalla vulgata storiografica diffusasi al termine del Secondo conflitto, che ha decretato per D’Annunzio la condanna ad escludendum riservata a tutte le “intelligenze scomode” del secolo XX.
  • ...
  • La rivoluzione-conservatrice poietica del pescarese è lascito cui tornare a guardare in un momento storico nel quale, oltre la guerra guerreggiata, in Europa divampa, come colto dal filosofo Stiegler, la guerra estetica.  L’“opera totale” dannunziana può essere strumento atto a liberare l’immaginario contemporaneo dalla colonizzazione mercatista realizzata dalla Forma-Capitale, oggi dominante.

  • manifesto capitalista copertina

  • Johan Norberg,
  • Il manifesto capitalista,
  • (Liberilibri 2024, € 20,00, pp. 324)
  • rec. di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • È difficile, ora più che allora, contestare quanto già scrivevano Marx ed Engels nel Manifesto del partito comunista, che il capitalismo aveva creato prosperità e innovazione in misura superiore a tutta la storia umana precedente. Tuttavia a correzione di ciò si aggiunge che la globalizzazione degli ultimi trent’anni ha generato disuguaglianze, con i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, peggiorato l’emergenza climatica e si aggiunge che nei paesi sviluppati ha provocato stagnazione economica e impoverimento dei ceti medi e di quelli popolari. Spesso esponendoli alla concorrenza salariale di manodopera immigrata. Di qui populismo, sovranismi, ecologismi.
  • ...
  • Norberg demolisce – o ridimensiona – tali argomentazioni. Più che analizzare le sue diffuse repliche è bene ricordare che il tutto fa parte di un dibattito che dura da oltre due secoli e le soluzioni date – o che se ne possono dare – sono legate (e condizionate) alle situazioni storiche ed economiche, ovviamente variabili. Ma vi sono delle regolarità costanti che non mutano, o le quali cambiano poco, e che connotano tutti i periodi storici. Ad esempio: De Bonald sosteneva all’incirca un trentennio prima che Marx ed Engels scrivessero il Manifesto, che un capitalismo mobiliare tende ad un’appropriazione illimitata “e lo stesso affarista può far commercio di tutto il mondo”. Ragion per cui la limitazione dei commerci (e talvolta della stessa proprietà immobiliare) è stata una costante preoccupazione del Principe (specie se “idraulico”), volto a depotenziare qualsiasi potere come concorrente (v. Wittfogel). O, facendo un altro esempio, quel che scriveva List sulla distinzione tra economia cosmopolitica (di Quesnay, Adam Smith, ecc.) e politica (di cui si occupava lui): “Quesnay tratta evidentemente dell’economia cosmopolitica, cioè di quella scienza che insegna come tutto il genere umano può raggiungere il benessere, mentre per contro l’economia politica ed altre scienze si limitano ad insegnare come solo una data nazione possa raggiungere il benessere… Adam Smith diede alla sua dottrina la medesima estensione, ponendosi il compito di giustificare l’idea cosmopolitica dell’assoluta libertà del commercio mondiale… Adam Smith non si pose il compito di trattare dell’oggetto dell’economia politica, vale a dire della politica che ogni paese deve seguire per fare dei progressi nelle sue condizioni economiche” (il corsivo è mio); mentre l’economia  politica (nel senso dell’economista tedesco) parte dal “concetto e dalla natura della nazione e di dimostrare quali cambiamenti essenziali l’economia del genere umano deve subire per il solo fatto che il genere umano è suddiviso in nazionalità distinte, formanti un fascio di forze e di interesse, e poste, nella loro libertà naturale, di fronte ad altre società simili a loro”.
  • ...
  • Questa seconda distinzione politica/cosmopolitica ha come criterio l’interesse: quello dell’umanità o delle singole nazioni A seconda del quale sono giudicati i risultati. Sempre per continuare nell’esempio se a livello globale è indubbio che l’economia ha garantito un’ulteriore crescita, beneficiari della quale sono state le nazioni meno sviluppate, è altrettanto vero che di tale sviluppo hanno profittato poco o niente le comunità più ricche. Quando poi pensiamo all’Italia della seconda repubblica, che di queste è il fanalino di coda, il giudizio è pessimo.
  • ...
  • Il libro si conclude con un giudizio “originale”: che il capitalismo è etico.
  • ...
  • Come scrive Bellardini nell’introduzione “la lettura di Elon Musk è corretta: quest’opera spiega che il capitalismo è fondamentalmente etico, perché consente di vivere secondo la versione migliore di se stessi”; questo perché, come conclude Norberg «La parola più importante nell’espressione “libertà economica” non è l’aggettivo, ma il sostantivo: siamo tutti diversi, con esigenze diverse; sicché la possibilità di trovare relazioni, comunità, lavoro e consumi che ci piacciono aumenta se siamo liberi di scegliere».
  • ...
  • Anche perché si può aggiungere – ed è determinante – mentre nel mercato, almeno finché funziona senza perturbazioni (monopoli, embarghi, squilibri), ogni accordo nasce dal consenso tra volontà paritarie, in politica è naturale e insopprimibile che le volontà debbano non essere pari, ma una o (o talune) debbono comandare alle altre che devono obbedire. Ed è per questo che, finché funziona, la libertà economica e il mercato sono così appetibili e devono essere garantiti dal potere.

  • Romualdi

  • Su
  • Adriano Romualdi
  • di
  • GIOVANNI DAMIANO
  • Grazie alle attente cure di Alberto Lombardo, uno dei maggiori studiosi dell’opera di Adriano Romualdi, le edizioni Arya di Genova hanno di recente dato alle stampe la silloge Scritti ritrovati, un testo indispensabile per avere una immagine la più completa possibile dello studioso forlivese.  Si tratta infatti della raccolta di una serie di scritti romualdiani che vanno dal 1957 al 1973, alcuni dei quali del tutto inediti, usciti su varie testate, ossia Le corna del diavolo (un mensile studentesco edito a Roma), Il Conciliatore, L’Italia che scrive, Pagine libere, Il Cavour, La Torre, La Destra, per finire con L’Italiano.
  • ...
  • Per entrare in argomento, credo che Lombardo, nel suo ampio saggio introduttivo, abbia ragione nell’indicare in Romualdi un pensatore dell’origine (p. 19), ossia un autore che si è posto con forza, in un momento storico-culturale dominato da ben altre idee ed atteggiamenti, oscillanti per lo più tra il nostalgismo e l’attivismo politico di corto respiro, il problema di andare alla ‘cerca’ delle origini del nostro continente; da qui l’interesse fondamentale per il mondo indoeuropeo; da qui, ancora, lo studio di due filosofi apparentemente poco conciliabili tra loro, vale a dire Platone e Nietzsche, ma accomunati proprio da una decisiva interrogazione sui momenti ‘aurorali’ della nostra storia; da qui, infine, la frequentazione di Evola, non a torto ritenuto l’unico autore davvero ‘consonante’, per vicende personali, postura esistenziale e temi trattati.
  • ...
  • Ora, sempre Lombardo (p. 20) nota come vi siano anche molte assonanze tra il pensiero di Romualdi e quello di Giorgio Locchi, in relazione a una pluralità di argomenti, a partire proprio da quello dell’origine indoeuropea. E d’altronde, una esplicita concordanza di vedute con la ricerca di Romualdi è stata riconosciuta dallo stesso Locchi, in un suo testo pubblicato in Definizioni. Si tratta di un punto a mio parere dirimente, e dunque assolutamente da non trascurare, visto che scoprire queste affinità è la dimostrazione di come certe tematiche, quale quella dell’origine innanzitutto, mantengano una loro essenzialità al punto da legare pensatori tra loro molto diversi, per storia personale e lontananza geografica.
  • ...
  • Ma tra gli argomenti che emergono dagli “scritti ritrovati”, ve ne sono altri di particolare importanza, che rendono questa silloge un documento prezioso, sia per meglio illuminare il percorso di Romualdi, sia per comprendere il contesto storico nel quale tali scritti sono ‘calati’.  Ad esempio, in una serie di “Appunti per una morfologia del fascismo”, pubblicati su L’Italiano nel 1969, vien fuori una immagine del fascismo che ben potrebbe essere definita archeofuturista, seguendo le suggestioni di Guillaume Faye, là dove Romualdi scrive (p. 262) che il fascismo è una “sintesi di antico e nuovo”, ovvero un “rischioso tentativo di perpetuare lo spirito, il mito, i simboli di una tradizione primordiale in una armatura di vetro e d’acciaio”.
  • ...
  • Articolo che spicca tra gli altri, e che tratta temi assolutamente cruciali per Romualdi, è quello intitolato Occidente e occidentalismo, uscito nel 1967 su Pagine libere.  Innanzitutto, Romualdi distingue tra Europa e Occidente, ponendo appunto il nostro continente come “piano d’azione politico e ideale” (p. 183) in vista di una futura, piena sovranità europea di contro ai due blocchi contrapposti, individuando, fra l’altro, la genesi dell’Occidente proprio nella catastrofe europea dovuta alla seconda guerra mondiale. Il punto però è che l’analisi romualdiana, lucida e disincantata, non cede a vuoti slogan o a massimalismi irrealizzabili; da qui, la feroce critica al progetto europeo di Thiriart, definito “il patetico occhialaio di Bruxelles” (p. 184), che, auspicando la lotta contemporanea contro sovietici e americani, avrebbe prodotto come unico, reale, risultato quello di consegnare l’intera Europa al comunismo. Ecco perché Romualdi, pur rifiutando l’Occidente “nella sua versione liberal-democratica”, si riconosce in un “Occidente-schieramento” in grado di dar vita a “un fronte comune europeo e americano” che appunto avesse la capacità d’impedire “l’assorbimento della piccola Europa nello smisurato Lebensraum dell’Impero Sovietico” (p. 185), tanto da arrivare ad affermare che “il cardine di ogni politica europea” non potrà non essere “l’alleanza con gli Stati Uniti” (p. 189). Per cui, contro ogni “antiamericanismo patologico” (p. 194), e consapevole del fatto che “non si tratta di essere ‘occidentalisti’ o filoamericani” ma di capire che la liberazione dell’Europa poteva attuarsi, nel contesto segnato dalla guerra fredda e dalla logica dei blocchi, solo “sui presupposti della responsabilità e del realismo politico” (p. 194), Romualdi riconosce la necessità, pena l’evasione dalla storia (p. 192), di non inimicarsi gli Stati Uniti, in modo che persino una futura “Europa forte” potesse trovare con loro “una onorevole partnership” (p. 193). Interessante, al riguardo, è poi il richiamo di Romualdi all’operato di Cavour, che appunto muovendosi spregiudicatamente nel gioco delle grandi potenze europee, seppe garantire all’Italia la sua unità nazionale, andando anche contro le “anime belle” con la partecipazione all’impopolare (per l’opinione pubblica piemontese e nazionale) guerra di Crimea; da qui l’interrogativo, indubbiamente scandaloso per tanto radicalismo ‘di destra’: “chi sa se un Cavour dei nostri giorni, per strappare l’Europa dall’angolo morto in cui si trova, non manderebbe truppe europee nel Viet-Nam?” (p. 193).
  • ...
  • Per chiudere, uno dei punti deboli dell’analisi romualdiana va però individuato proprio nel come lo studioso forlivese abbia pensato l’Europa del futuro, ossia come Nazione-Europa (pp. 237 e 262), ovvero, “come superamento dei vecchi nazionalismi in un nazionalismo di proporzioni continentali” (p. 183). Ora, a me pare che parlare di Nazione-Europa significhi, ieri come oggi, sacrificare le differenze che da sempre compongono il nostro continente sull’altare di un’astrazione. D’altronde, anche Evola, nelle pagine finali de Gli uomini e le rovine, aveva rigettato quest’idea senza tentennamenti: “non ci si può dire ‘europei’ in base ad un sentimento di tipo analogo a quello per cui ci si sente italiani, prussiani, baschi, finlandesi, scozzesi, ungheresi e via dicendo, e pensare che un unico sentimento di ugual natura possa stabilirsi, cancellando e livellando queste differenze e sostituendosi ad esse, in una ‘nazione Europa’”.

                                                                                                                                  

  • Colli

  • Interiorità ed Espressione
  • Una silloge di inediti di
  • Giorgio Colli
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • Giorgio Colli, filologo e filosofo di grande spessore del nostro Novecento, continua a patire un inspiegabile silenzio da parte del mondo accademico. Noto come curatore dell’opera di Nietzsche e per la sua intensa attività editoriale, la sua proposta teoretica è stata, purtroppo, poco studiata. Negli ultimi anni sono state pubblicate alcune opere del e sul pensatore torinese, dalle quali è possibile cogliere la sua grandezza speculativa e il suo rigore filologico.   La cerca colliana è animata da pathos, centrata com’è sul dato esistenziale, sul coinvolgimento dell’uomo Colli.  Lo mostra, con tutta evidenza, un volume che raccoglie suoi scritti giovanili, Interiorità ed espressione, nelle librerie per i tipi di Neri Pozza (pp. 222, euro 24,00). Il volume è aperto da uno scritto di Giorgio Agamben, dalla prefazione di Luca Torrente e dalla nota di Maicol Cutrì, entrambi curatori della silloge.
  • ...
  • Agamben rileva che, a tutta prima, la scrittura colliana può apparire “scostante”. Il pensatore rinunciò: «a tradurre i suoi concetti nella terminologia della filosofia occidentale» (p. 8). La proposta di Colli è, infatti, un unicum nel panorama filosofico europeo, votata al recupero della dimensione sapienziale e centrata sulla certezza che il filosofo: «è  uomo che […] rinuncia a […] farsi capire e, come Eraclito, dà per scontato che “neppure una goccia della sua grande ricchezza sarà usufruita”» (p. 8).  Le parole possono, al più, rappresentare il mondo, ma solo il pensiero è in grado di esprimerlo. Conoscere implica vivere una immediatezza extra-rappresentativa, un’intuizione mistica, un contatto, patrimonio esclusivo di chi lo sperimenta. La via colliana è lontana da qualsivoglia logo-centrismo, essendosi sostanziata, come chiarito da Ludovica Boi, da un confronto serrato con il pensiero indiano, Bruno e la mistica di Böhme.  Il libro di cui scriviamo conferma tale esegesi. Si tratta di un volume composito, distinto in tre sezioni: A, B, C. Scrive Cutrì: «La nostra raccolta intende completare il progetto iniziato più di dieci anni fa da Enrico Colli, mantenendone l’impronta editoriale di suddividere i materiali (inediti) in scritti compiuti, frammenti di interesse filosofico e appunti personali» (p. 15). Al “piano” del figlio di Giorgio, in questa raccolta, sono stati aggiunti altri inediti di rilievo.
  • ...
  • La lettura del testo consente di entrare nei meandri del laboratorio teoretico-filologico giovanile del pensatore e, altresì, di rilevare il tratto umano che lo connotò in profondità, sorto nel confronto con il dolore e con le contingenze storiche in cui egli ebbe in sorte di vivere.  Nel 1936-1937, all’età di diciannove anni, il giovane Colli, lo ricorda Torrente, aveva già individuato il plesso centrale della sua visione del mondo: «la vita nella sua concretezza è originaria e sempre più importante del pensiero astratto» (p. 11). La vita, la physis, in cui si dà il Principio, è la custode di ciò che cerchiamo.  La filosofia di Colli è pensiero dell’origine in quanto: «la vissutezza è originaria» (p. 11). In un appunto del 1946 la vita stessa viene definita quale: «coincidenza di soggetto e oggetto» (p. 12), il che implica che non può venir conosciuta attraverso le distinzioni concettuali, identitarie. Lo si evince, inoltre, dallo scritto che inaugura la Sezione A, Abbozzo di un sistema filosofico 1936-37, testo organico ed esaustivo, in cui l’individuo è considerato parte necessaria del mondo: «la sostanza del mondo trova la sua realizzazione più o meno perfetta nell’individuo che è quindi parte viva di questo tutto» (p. 27). L’individuo, conoscendo se stesso, la propria interiorità, conosce l’Uno-Tutto. La vita-origine non dà luogo solo alle cose, ai fenomeni, ma è scaturigine del pensiero. Fenomeno e noumeno dicono il medesimo.
  • ...
  • Colli ha dedotto tale visione dall’esegesi dei Sapienti, da Empedocle, sul quale intrattiene il lettore nello scritto ricordato. Amore e Odio, archai cui guardare, non hanno valore meramente astratto, metafisico, ma si originano dall’interiorità dei Filosofi sovrumani. Le stesse categorie logiche di Necessità e Contingenza, nel vissuto di questi ultimi, erano trascrizione di Gioco e Violenza, della dimensione ludica, eraclitea e dionisiaca della vita. Il logos può recuperare tale dimensione in un iter a ritroso: a essa si può solo alludere in quanto si mostra tra nascosto e manifesto, è fremente e, in uno, immobile. Vengono meno, in tale prospettiva, le distinzioni di tempo ed eternità, di essenza ed esistenza. Negli scritti giovanili, Colli si confronta con il tema de l’organismo e giunge a una sua provvisoria definizione: grumo di rappresentazioni unite dalla comune appartenenza a una stessa interiorità.  In ciò è da individuarsi una differenza rispetto alle posizioni mature del pensatore, alla luce delle quali l’organismo si presentava quale: «insieme di rappresentazioni che si raggruppano intorno a un fuoco secondo la sola struttura della rappresentazione» (p. 13). L’espressione, per Colli è: «il modo in cui l’interiorità nella sua totalità […] stabilisce nell’apparenza una sua singola determinazione, facendola valere e ponendola su uno stesso piano di rapporto con la restante realtà» (p. 61).
  • ...
  • Altrettanto rilevante il testo, L’idea di giustizia per i Pitagorici.  Da esso si comprende che, in questa Scuola: «la giustizia venne intesa come principio di distribuzione proporzionale, principio prettamente aristocratico», in quanto la divina dike doveva realizzarsi nella vita giuridica, nel consesso civile. L’intera Sezione C, in particolare i Taccuini dall’esilio svizzero del 1944, gettano nuova luce sulla modalità in cui Colli guardava alla relazione individuo-storia.   Il pensatore fu costretto dal fascismo al volontario esilio per sottrarsi alla chiamata alle armi, ritenendo ingiusta la guerra allora in corso.
  • ...
  • Queste pagine sono attraversate dal sentimento della malinconia, a volte espresso liricamente, indotto dal dolore per il distacco dai suoi cari, soprattutto per la lontananza dall’amata noú (la moglie Anna Maria) ma anche per la tragedia bellica in atto. In questi scritti intimi, personali, rapsodici e aforistici, emergono considerazioni che pongono Colli ben oltre i limiti interpretativi della storiografia allora dominante rispetto al dramma in corso. L’attenzione di Colli per la politica ha tratto originale, strettamente connessa alla sua lezione filosofica. Scrive Agamben: «Non si tratta […] di realizzare nella prassi idee e programmi […] ma di mantenere a contatto il pensiero e il mondo» (p. 9). Lezione attualissima: non è casuale che il filosofo Bernard Stiegler abbia definito l’attuale frangente storico, epoca della post-verità.  Il pensiero sembra essersi eclissato. Colli, di contro, ha invitato alla pratica della parresia, sollecitando, come testimonia questa silloge, la pratica del “coraggio della verità”.

  

  • INTERVISTA 
  • su 
  • WAGNER
  • a
  • GIOVANNI SESSA
  • a cura della redazione della 
  • testata turca 
  • erenyesilyurt.com  
  • che  l'ha pubblicata in turco, inglese e italiano
  • Può presentarsi a noi?
  • Sono nato a Milano nel 1957, attualmente vivo a Frascati (RM). Ho insegnato filosofia nei Licei e ho collaborato, all’Università «Sapienza» di Roma, con il prof. Gian Franco Lami, indimenticato amico e maestro. Sono stato, inoltre, docente a contratto  di “Storia delle idee” presso l’Università di Cassino. Miei scritti sono comparsi su riviste, quotidiani, in volumi collettanei e Atti di Convegni di studio. Ho curato, tradotto e prefato decine di volumi. Tra le mie ultime pubblicazioni, Oltre la Persuasione. Saggio su Carlo Michelstaedter (Roma, 2008); La meraviglia del nulla. Vita e filosofia di Andrea Emo (Milano, 2014); Julius Evola e l’utopia della Tradizione, (Sesto S. Giovanni, Mi, 2019); L’eco della Germania segreta. “Si fa di nuovo primavera”, (Sesto S. Giovanni, Mi, 2021); Azzurre lontananze. Tradizione on the road, (Sesto S. Giovanni, Mi, 2022); Icone del possibile. Giardino, bosco, montagna (Sesto S. Giovanni, Mi, 2023). Per quanto attiene a Wagner ho curato, R. Wagner, Religione  e arte (Sesto S. Giovanni, Mi, 2021); E. Schuré, Richard Wagner, (Sesto S. Giovanni, Mi, 2021); R. Wagner, L’ideale di Bayreuth (Sesto S. Giovanni, Mi, 2024). Sono Segretario della Fondazione Julius Evola.  
  • Conosciamo l'importanza di Kant e Hegel nel pensiero tedesco, ma qual è l'importanza di Wagner per la Germania? È possibile parlare di una “gioventù wagneriana” come quella di Goethe e perché la Germania non ha scelto di fondare un Istituto Wagner invece dell'Istituto Goethe?
  • Richard Wagner ha fornito, non solo alla Germania, ma all’Europa, un contributo teorico e artistico a un tempo, dal valore inestimabile. L’humus ideale del suo percorso, era sostanziato dal pensiero tedesco a lui contemporaneo. Tale iter creativo e speculativo è stato, lo si tenga in conto, molto complesso e articolato. Ha conosciuto, infatti, diverse fasi di sviluppo. Karl Löwith ha mostrato in modalità inoppugnabile nel suo, Da Hegel a Nietzsche, che l’esperienza musicale e teoretica del wagnersimo si lega al mondo ideale della Sinistra hegeliana, al vasto movimento culturale che, di fatto, ebbe il suo momento apicale in Nietzsche, filosofo che concluse la “dissoluzione dell’hegelismo”. Nella seconda fase della produzione wagneriana, maturata durante il soggiorno zurighese e a Dresda, il grande artista era soggiogato dallo spirito rivoluzionario di Feuerbach. A tale fase sono ascrivibili la composizione del Tannhäuser, del Lohengrin e la stesura poetica della Tetralogia. Con tali opere, il grande musicista cercò, con poderosa energia, d’identificare arte e vita, tentò di dare vita a un’arte “rivoluzionaria”, atta a ricongiungere ciò che il soggettivismo moderno aveva diviso. La produzione del Meister ha avuto, da allora, al proprio centro il tema, tipicamente tedesco e schopenhaueriano della Regenerationslehe, della rigenerazione spirituale del popolo tedesco e dei popoli europei. Tale appello alla Ri-nascita, a un Nuovo Inizio della storia, coinvolse giovani e non giovani in tutte le nazioni del nostro continente. L’erezione del nuovo teatro di Bayreuth fu portata a termine grazie ai contributi (anche economici) forniti da appassionati wagneriani, aderenti alle Associazioni che portavano il nome del compositore. I “giovani” fedeli a Wagner non fecero altro che rendere esplicito ciò che era implicito nell’etimo di Bayreuth: Reut, infatti, allude a un “suolo conquistato alla selvaggia foresta e reso fertile”, produttore di un avvenire avente la propria radice in un passato incompiuto, “inespresso” lo avrebbe definito Walter Benjamin. Il lascito wagneriano si è perpetuato fino agli autori della Rivoluzione Conservatrice, tanto in quelli che non aderirono al nazionalsocialismo, quanto in quelli che confluirono in tale movimento. Pertanto, è certamente esistita, al pari di quella “goethiana”, una “gioventù wagneriana”. Per comprendere per quali ragioni non è stato istituito in Germania un “Istituto Wagner”, è bene ricordare quanto accadde alla fine del Secondo conflitto mondiale. I tedeschi furono sottoposti a un vero e proprio “lavaggio del cervello”, mirato a cancellare la loro memoria storica e quella degli Europei. L’esercitò americano occupò il teatro di Bayreuth e vi fece rappresentare music-hall.  Poco prima, il generale Patton fece urinare i soldati del battaglione che comandava nel fiume Reno, centrale nella mitologia wagneriana. Fu un gesto desacralizzante e provocatorio nei confronti del musicista e della Kultur tedesca ed europea.

  • Perché Wagner si interessava al Medioevo, mentre molti intellettuali si rivolgevano all'antica Grecia e a Roma ai suoi tempi?
  • L’interesse di Wagner per il Medioevo è stato ben spiegato dal germanista Marino Freschi che, in proposito, ha scritto: «Wagner tornò a un’esperienza laterale del cristianesimo: a quella del Graal, il grande mistero cristico che animò l’intero Medioevo cristiano-germanico […] Il messaggio recuperato da Wagner è quello di un salvatore che elude la consunzione della critica materialistica avanzando verso un sentiero appena accennato che in quegli anni venne riproposto dalla Teosofia e soprattutto da Rudolf Steiner (in Italia da Evola e Massimo Scaligero)» (Wagner e l’arte sublime che salva la religione, in «il Giornale» del 02/04/2021). Di contro, va ricordato che il primo Wagner guardò con interesse al mondo pre-cristiano e alla Grecia: lo mostra, con tutta evidenza, la grammatica musicale del Tristano e Isotta. In questa partitura wagneriana tornò a mostrarsi, come tra i primi sostenne Giorgio Locchi, la visione aperta della storia centrata sulla concezione tridimensionale e sferica del tempo, visione rinviante alla potestas dionisiaca. Qui la musica di Wagner è latrice di una visione del mondo anti-egualitaria atta a sviluppare la sfida alla modernità e alla post-modernità, non in termini meramente reazionari, mossa dal rimpianto nostalgico per un tempo che non è più, ma in termini attivi, nella convinzione che l’origine non sia un dato retroflesso, posto definitivamente alle nostre spalle, ma per definizione sempre possibile, come chiarito da Klossowski. L’illustre musicologo Paolo Isotta, nella splendida prefazione al libro di Locchi, ha ricordato come la musica, venuta a predominare in Occidente all’avvento del cristianesimo, fosse monodica in senso assolutistico. Solo nel tardo Medioevo si manifestò l’emergere di tendenze polifoniche che, nel mondo antico, nonostante le incertezze storico-filologiche in tema, erano state registrate nel Somnium Scipionis da Cicerone. Nelle pagine di quest’opera, citando le fonti platoniche (Resp. X, 616-617; Tim., 34b-40d) si dice: «della risonanza simultanea di suoni differenti, accordati da una mente divina».  In tal senso la polifonia medievale fu una ri-scoperta delle genti del Nord Europa: essa pose in musica i sedimenti spirituali giacenti nel loro inconscio collettivo, a seguito dell’erompere della visione giudeo-cristiana della vita. Commenta Isotta: «La musica moderna dell’Europa Occidentale, come la tragedia greca, nasce dal popolo». Per Locchi il sentimento armonico tonale, polifonico, era innato nei popoli nordici e, dopo il Medioevo, esplose dapprima nella scuola polifonica fiamminga, anche se la sua fioritura si registrò nel sedicesimo secolo in Italia e, da lì, trovò ulteriore slancio nella musica che da Bach giunge a Wagner.  L’elemento più rilevante dell’esegesi locchiana della musica tonale va individuato nel fatto che essa tradusse in partitura la concezione del tempo propria dell’uomo dell’età classica. Le altre tipologie musicali sono centrate sulla concezione lineare, futuro-centrica, della temporalità. Canto gregoriano incluso. In esse: «ogni nota è un punto isolato nello spazio sonoro, preceduta e seguita da un altro punto […] Ma in qualunque brano di musica tonale, la nota (l’istante) non significa di per sé». Ogni nota contiene le note (istanti) precedenti che l’hanno determinata, ma contiene, a sua volta, quelle successive che, da essa, saranno indotte: «Ogni nota (ogni istante), in quanto presente, contiene dunque in sé il passato e l’avvenire». La Fuga e la Sonata sono distese nel tempo tridimensionale e sono, su di esso, strutturate. La musica può diventare il paradigma di una  concezione non deterministica della storia, aliena dalla secolarizzazione della visione cristiana del tempo, e quindi altra rispetto alle varie declinazioni che la filosofia della storia ha assunto dal secolo XIX ad oggi. Se il mondo post-moderno è il risultato ultimo dell’immanentizzazione del fine della storia cristiano, è necessario tornare a guardare alla physis classica, al fine di sottrarsi alle lusinghe della speranza e della disperazione. La storia, come la musica tonale, non ha un fine, né una fine, è sempre “aperta”, appesa al fondamento-infondato della libertà.  Con Wagner il sentimento del mondo implicito nella musica tonale divenne proclamazione mitica. Per Locchi e Isotta: «il complesso di opere che va dal Tristano al Parsifal è il più alto monumento che l’umanità abbia eretto in tutta la sua storia», per di più, per chi sappia ascoltare e leggere, caratterizzato da ineguagliabile coerenza. Il mito, infatti, è centrato sull’unità dei contrari, ma tale comprensione può essere rilevata solo dall’ascoltatore o dal lettore che sia atto a partecipare del disvelamento mitico: «A chi resta fuori, il mito offre sempre un’ultima ambiguità». Riteniamo corrispondente al vero il fatto che Wagner, soprattutto nel Tristano, si sia fatto latore della visione tridimensionale del tempo e della concezione sovraumanista, che le fa da correlato, ma pensiamo che successivamente Wagner sia venuto meno ai presupposti di partenza, come compresero Nietzsche ed Evola. Ciò avvenne, tanto sotto il profilo musicale, quanto dal punto di vista filosofico e politico, come attesta il volume Religione e arte  del Meister.    Riteniamo, comunque, che in sequela con il primo Wagner, la musica europea, abbia proseguito il proprio cammino verso la Nuova Essenzialità e verso la costruzione di un’arte davvero dionisiaca, con Gustav Mahler.  Tale tendenza si manifestò, in particolare, nella Terza Sinfonia del grande compositore austriaco.
  •  
  • Qual è il rapporto tra rivoluzione e arte nel pensiero di Wagner? Intendeva sostituire la religione e l'arte?
  • Per rispondere alla sua domanda è necessario far riferimento al volume citato, Religione e arte. Si tratta di una silloge di scritti che Wagner scrisse nel medesimo periodo in cui era intento alla composizione del Parsifal. Più precisamente, i saggi che costituiscono questa raccolta sono sette, accompagnati dalle conclusive Annotazioni, nelle quali vengono presentati e commentati alcuni brani di colui che il musicista non si stancava di definire: «il nostro grande filosofo», Arthur Schopenhauer. Con questi scritti l’artista-pensatore si preoccupò, nell’ultimo periodo della sua esistenza terrena, di lasciare al mondo un messaggio positivo, relativo alla possibile Regenerationslehre, Rigenerazione spirituale e sociale, centrata sulla dottrina della Mitleid, della compassione schopenhaueriana.  Si tratta del primo albeggiare, nella cultura tedesca, di un tema che per tutto il Novecento (in particolare nella sua prima metà) sarà al centro degli interessi della filosofia e dell’arte. Si pensi, tra i tanti possibili nomi, a Stefan Geroge, Ernst Jünger, Martin Heidegger, Moeller van den Bruck.  O anche a chi lambì, sia pure in modo critico, l’annuncio di un possibile Nuovo Inizio dell’uomo europeo.  Mi riferisco a Walter Benjamin che, richiamandosi a Karl Kraus, pensò, nelle sue Tesi di filosofia della storia, l’origine quale meta cui tendere.  Nella pagine di Religione ed arte, la Rigenerazione avrebbe dovuto realizzarsi sia in Germania che a livello europeo, e fondarsi sulla critica della concezione utilitarista, economicista della vita che, allora, andava affermandosi attraverso il trionfo politico del liberalismo. Le tesi fondamentali di tale dottrina erano state presentate dal compositore solo al ristretto circolo dei suoi allievi e discepoli, animati da fedeltà indiscutibile verso la concezione della vita del Maestro e falangi di una radicale periagoghé, di un cambio di cuore, cui avrebbe dovuto far seguito una diversa visione del mondo che l’arte e, soprattutto, la musica, avrebbero annunciato. Il libro doveva, nelle intenzioni di Wagner, essere il manifesto programmatico del Nuovo Inizio.   Lo scritto che dà il titolo al volume è quello inaugurale.  L’ incipit rappresenta la sintesi delle posizioni dell’artista e contiene in embrione la risposta alla sua domanda: «Si potrebbe dire che, là dove la religione diviene artificiosa, sia riservato all’arte di salvarne il nucleo sostanziale».  Da sempre, l’arte autentica, mediante la rappresentazione ideale dell’immagine simbolica, ha contribuito: «alla comprensione della sua intima sostanza (della religione), cioè della verità divina inesprimibile».  La grandezza del cristianesimo è da ravvisarsi, stando a Wagner, nel fatto che il nucleo fondante la sua verità era destinato, ab initio, anche ai poveri in spirito, mentre altre religioni, in primis il brahmanesimo, che pur il Maestro apprezzava, rivolgevano il proprio messaggio ai ricchi in spirito, a coloro che camminavano di già sulla strada della conoscenza.  Per cui, in India, la filosofia divenne l’ancella della religione nello spiegare metafisicamente il mondo, mentre nell’insegnamento del Cristo si chiedeva che i poveri in spirito non chiudessero i loro cuori alla consapevolezza della sofferenza. Eppure, presto il cristianesimo si era trasformato in una: «religione di stato per imperatori romani e carnefici di eretici».  Sostanzialmente, il cristianesimo schopenhaueriano di Wagner si costituisce quale capovolgimento della volontà di vita. Questo mondo in cui domina l’imperativo: «Io voglio», venne considerato fallace,  atto semplicemente a rinviare gli uomini al vero Regno, quello di Dio.  La corruzione dell’originale messaggio cristico avvenne con: «con il collegamento, imposto con tirannica violenza, di questa divinità in croce con il Creatore del cielo e della terra ebraico […] il quale sembrò avere maggiore fortuna del misericordioso Salvatore dei poveri». Solo gli artisti ripudiarono il suo dominio e la negazione del mondo fu testimoniata nella rappresentazione del miracolo della maternità. Si pensi alla Madonna Sistina di Raffaello che, tenendo sollevato dalle sue braccia il figlio, mostra l’adempimento del miracolo divino. La Madonna, chiosa Wagner, non è più intoccabile, come si rileva dalla rappresentazioni scultoree di Artemide a causa della severa castità, ma in quanto espressione del miracolo scaturito dell’amore divino. La raffigurazione greca della natura, per dirla con Schopenhauer, rinviava ad un ideale cui la physis stessa non era giunta, era idealizzazione del naturale, mentre l’artista cristiano rivela il “segreto” del dogma religioso. La medesima tensione al disvelamento del vero, propria di Raffaello, è riscontrabile anche nel Giudizio universale di Michelangelo che: «rappresentò […] Dio che porta a compimento il suo terribile compito». A differenza della pittura, la poesia fu indotta a rimanere prossima a concetti fissati canonicamente: «Soltanto nella musica la lirica cristiana assurse a vera e propria arte […] scioglieva e diluiva le parole, insieme con i loro concetti, fino a cancellarne l’intelligibilità».  Dissolta la parola concettuale, la musica determina la constatazione della nullità del mondo fenomenico, in quanto ogni immagine sonora è cosa altra dal mondo delle apparenze.  La musica, per il Meister, risentì in modo devastante della progressiva mondanizzazione della Chiesa, per cui solo la separazione dalla decadenza ecclesiastica riuscì a preservare il suono, quale pura eredità ancestrale. Il nucleo originario del cristianesimo secondo Wagner fu contaminato dall’influenza dogmatica dell’ebraismo che, innanzitutto, si manifestò nel rendere meramente formale il detto cristico: «cibatevi solo di questo d’ora in poi, nel ricordo di me», vale a dire cibatevi di pane e di vino, dei beni spontaneamente concessi dalla terra. Tale indicazione discendeva dalla medesima intuizione brahmanica e pitagorica che tutto nel cosmo è uno: «quando il brahmano di fronte alla sterminata molteplicità delle forme del mondo vivente esclamava: “Questo sei Tu!”, si risvegliava subito nell’ascoltatore la consapevolezza della verità». Per Wagner Gesù è, in fondo, l’eroe dell’ultima cena, che invitava i discepoli a sentirsi fratelli, non solo dei propri simili, ma di tutto ciò che vive.  Da tale intuizione, discende la strenua difesa wagneriana della pratica alimentare vegetariana. La Chiesa ha obliato tale insegnamento, in quanto fece ricorso all’ebraismo per la creazione dei propri dogmi: «da ciò tuttavia la Chiesa trasse la sua potenza e signoria».  Con il che si è mostrato che, per Wagner, l’arte nell’epoca moderna doveva assumere tratto “religioso”, doveva divenire “Opera totale e definitiva”.  In tale prospettiva, il musicista venne meno alla visione tragica, pre-cristiana, che aveva animato la partitura del Tristano.  Il ritorno al “pensare greco” ha, pertanto, per chi scrive, tratto dimidiato.
  •  
  • Perché i rivoluzionari conservatori mostrarono tanto interesse per Wagner? In che modo Wagner influenzò i rivoluzionari conservatori?
  • I rivoluzionari conservatori che miravano a superare la contemporaneità sorta dopo il naufragio indotto dal Primo conflitto mondiale e intendevano portarsi oltre le derive meramente reazionarie, oltre la mera dimensione della nostalgia politica, non potevano che guardare a Wagner quale profeta di un Nuovo Inizio dell’Europa. In particolare, la poetica di Stefan George ha in Wagner e nella sua teoria dell’arte un precedente d’eccellenza. L’animatore del Kreis fu attorniato da uno stuolo di discepoli ammirati dal suo tentativo di ri-sacralizzazione poetica della vita. Il problema che si posero gli intellettuali del mileu rivoluzionario conservatore rispetto alle tematiche proposte dall’opera del musicista fu il seguente: a quale Wagner è necessario guardare, per rintracciarvi linfa vitale per il progetto politico-esistenziale rivoluzionario e conservatore?  George, Klages, Schuler, in parte i fratelli Jünger, guardarono al primo Wagner, latore, attraverso la musica tonale, di una visione “aperta” della storia e, pertanto, solo inizialmente si fecero abbagliare dagli idola del nazismo e successivamente vissero ai margini del regime hitleriano. Altri, sensibili alla teleologia e al messianesimo wagneriani, alla sua pretesa di aver realizzato con l’ “Opera totale” la “fine” dell’arte, aderirono all’etnocentrismo dell’ideologia nazionalsocialista che, per chi scrive, memore in tema della lezione di Alain de Benoist, non è affatto “pagana” ma monocratica e chiusa: “Un capo, un impero, un popolo”.
  •  

  • La divergenza tra Nietzsche e Wagner era un conflitto personale o una divergenza tra le due Germanie (Weimar e Terzo Reich)?
  • La divergenza tra i due fu determinata da una motivazione “ideale”, non riguardante  i valori incarnati dal II e dal III Reich. La divergenza si riferiva alla visone della vita e dell’arte del musicista e del filosofo. Nietzsche rimase fedele al tragico. Wagner, avendo aderito a una concezione salvifica della musica e della storia, sposò una rassicurante posizione finalistia. Divenne un ennesimo “filosofo e musicista della storia”. Al contrario, l’arte tragica ha sviluppo iperbolico, mai concluso, è sempre all’opera, come il principio animante ciò che vive, che si dà esclusivamente nella physis. L’approccio tragico è sempre aperto e contrasta con quello spirito filisteo che anche Wagner avrebbe voluto combattere. Fu proprio il “filisteismo” inconfessato di Wagner ad allontanare dal Maestro l’amico Nietzsche. A proposito delle prime rappresentazioni che si tennero a Bayreuth, il filosofo dell’eterno ritorno scrisse a Mathilde Maier, il 15 luglio 1878: «Nell’estate di Bayreuth divenni pienamente consapevole di tutto ciò; scappai via, dopo le prime rappresentazioni cui ebbi assistito, lontano sui monti». Insomma, per dirla ancora con Nietzsche: «Wagner passo passo aveva accondisceso a tutto ciò che io disprezzo… Perfino all’antisemitismo […] Wagner […] piombò improvvisamente, come un derelitto e affranto, ai piedi della croce cristiana».  Tali considerazioni non impedirono a Nietzsche di scrivere, in una missiva indirizzata a Franz Overbeck del 7 aprile 1884, nella quale si legge: «per parecchi rispetti sarò l’erede di Wagner», riconoscendo così la grandezza del genio del musicista, ma anche la sua alterità rispetto al compositore, data da la sua autentica fedeltà al “pensare greco”.
  •  
  • Quale posizione assunse Richard Wagner nei confronti dell'opera italiana? Che ruolo ha avuto questo rapporto nel plasmare il dramma musicale e nel glorificare la tradizione musicale mitteleuropea?
  • Il compositore amava molto l'Italia: in diverse città trovò ispirazione e pace per comporre.  A Venezia (dove morirà) scrisse parte del Tristano, a La Spezia ebbe in sogno l'ispirazione per il preludio della Tetralogia, a Ravello e nel Duomo di Siena immaginò scene del Parsifal, che portò a termine a  Palermo.  Nel 1859 simpatizzò per il Piemonte contro l'Austria, in occasione della Seconda guerra d'indipendenza.  Il 1º novembre 1871 venne eseguita la prima del Lohengrin al Teatro Comunale di Bologna, prima rappresentazione in assoluto di un'opera di Wagner in Italia.  A una delle repliche assistette Giuseppe Verdi che, dopo la prima dell’Aida, venne ingiustamente accusato dalla critica di essere un wagneriano e di aver, pertanto, tradito i canoni compositivi ed orchestrali dell’opera italiana. Questo fatto rende edotti sui rapporti intercorsi tra il tedesco e l’opera italiana. Rapporti controversi, attraversati da odio-amore, attrazione-repulsione. Wagner, nel suo tentativo di ricostruire una storia del pathos teatrale, nei saggi contenuti in L’ideale di Bayreuth, attribuisce agli italiani la primazia nell’aver riscoperto il valore del teatro classico. Ciò  avrebbe indotto la nostra cultura a mettere da parte il dramma recitato, per provare a ricostruire il dramma antico nel campo della lirica musicale. Tale tentativo avrebbe dato luogo, infine, alla nascita dell’opera italiana.  Il modello al quale, in realtà, Wagner guarda per definire i tratti dell’Opera d’arte totale non è ravvisabile, a mio parere, sic et simpliciter, nell’opera italiana, ma nel teatro di Shakespeare, con la sua valorizzazione del mimo. Peraltro, tale opera totale richiedeva, ai fini della rappresentazione, un ambiente ben diverso da quello della sala teatrale italo-francese. Pertanto, è possibile asserire che, effettivamente, il genio di Bayreuth guardò all’opera italiana, ma non certo come suo modello di riferimento privilegiato. A parere di chi scrive, il confronto di Wagner con la musica e il teatro delle età precedenti e con quelli prevalenti nell’epoca in cui visse, fu a tutto tondo. In tale approccio è da individuarsi lo strumento con il quale egli tentò di ri-vitalizzare la tradizione musicale europea.

  •  
  •  .
  • Tizianojpg

  • Massimo Donà e la pittura di Tiziano Vecellio
  • Tre donne, tre misteri. Tiziano e le aporie della perfezione 
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • Il filosofo Massimo Donà si è confrontato con le problematiche dell’arte in molti scritti. Nella sua ultima fatica si occupa della pittura di Tiziano Vecellio. Ci riferiamo al volume, Tre donne, tre misteri. Tiziano Vecellio e le aporie della perfezione, nelle librerie per Mimesis (per ordini: mimesis@mimesisedizioni.it, pp. 76, euro 10,00). Il grande artista nacque a Pieve di Cadore alla fine del Quattrocento e giunse a Venezia nel 1508. Svolse Il suo apprendistato, dapprima presso la bottega di Sebastiano Zuccato e, in seguito, in quella dei fratelli Bellini. Questi lo introdussero alla tecnica “tonale”, connotata da un’evidente compenetrazione tra colori accesi e: «sottili trapassi dall’ombra alla luce» (p. 49). Subì, in profondità, l’influenza di Albrecht Dürer, giunto nella città lagunare nel 1506, in quanto il noto incisore: «Descriveva la vita nella sua brutale realtà» (p. 50). Tiziano, inoltre, collaborò con Giorgione, giungendo, grazie a questi Maestri, alla maturità creativa.
  • ...
  • Le opere del Vecellio discusse da Donà sono, Amor sacro e Amor profano e la Pala dell’Assunta conservata nella Basilica dei Frari. La prima opera ha, da sempre, rappresentato per i critici un caso “enigmatico”. Fu realizzata intorno al 1515 e i suoi esegeti, nel corso del tempo, le hanno attribuito diverse titolazioni, rilevandone la complessità strutturale ed interpretativa. Attualmente, la critica più accreditata ritiene che le due donne rappresentate nel dipinto, una vestita e l’altra senza abiti, siano entrambe raffigurazioni di una stessa persona: la figlia di Bertuccio Bagarotto, giurista padovano fatto giustiziare con ignominia dalla Serenissima per un tradimento in realtà mai perpetrato. Con, Amor sacro e Amor profano, la Città dei Dogi volle restituire dignità al Bagarotto, in occasione del matrimonio di Niccolò Aurelio, probabile committente dell’opera, con la figlia del giurista, ritratta nelle due figure femminili. La lettura di Donà discute la vasta bibliografia critica, soffermandosi, in particolare, sull’esegesi neoplatonica dei warburghiani, Edgar Wind e Panofsky. In realtà, il filosofo, con pertinenza  e sagacia argomentativa, destruttura le letture armoniche, rassicuranti proprie dei sodali di Aby Warburg.
  • ...
  • A dire di Wind e Panfsky, le due donne rappresenterebbero: «due “momenti” di unico percorso iniziatico di purificazione: alludendo entrambe a “un amore superiore al ‘profano’, perché il loro dialogo si innalza a quei ‘casti misteri amorosi di Platone’ che ammettono solo una forma di amore castigato» (p. 22). All’ombra dell’Uno neoplatonico tutto si concilia e trova sintesi nell’eidos, nell’idea. Tale lettura, sostiene Donà, svuota il capolavoro di Tiziano: «da ogni potenza contrastiva e quindi vivificante» (p. 24). Al contrario, il Vecellio, che ben conosceva le tribolazioni umane troppo umane, aveva contezza: «che il cercare è […] spesso vano» (p. 25), in quanto l’opposizione assoluta che anima l’esistere, non è normabile da alcuna episteme, neppure da quella emanazionista. Il principio cui guarda Tiziano non è rassicurante.   Ammalia colui che si volge alle cose del mondo, ma vive del polemos eracliteo, si dà solo nei molti, nelle singolarità. Nelle creazioni del pittore della “Serenissima”: «La scultorea possanza dell’antico s’era ormai liquefatta […] a favore di un inedito colorismo resosi sempre più autonomo dal disegno […] e capace di consegnare gli opposti assoluti alla loro naturale “indeterminabilità”» (pp. 29-30). Il dipinto in questione dice, di fatto, che: «non v’è alcun significato […] oltre quello che si mostra» (p. 31). Le due donne rinviano a una stessa persona, che guarda anche il suo stesso guardare. La donna guardata si nasconde perfino a se stessa. La maschera che la tutela è candida, bianca, colore che contiene in sé tutti i colori possibili: «un biancore che, solo, può alludere alla perfetta innocenza» (pp. 34-35). La dolcezza, con la quale la donna nuda si volge a quella vestita, dice la sua potenza seduttiva incondizionata. L’incontro delle due donne è “acqua purificatrice”, simile a quella che sgorga dal centro della lastra presente nella scena. “Acqua di vita” che nasce dall’ambivalenza degli opposti e rende possibile la continua rigenerazione delle cose. A dire di Donà, l’Amore, differentemente dalla concezione neoplatonica, non risolve definitivamente, staticizzandole, le opposizioni, in quanto: «l’unica sintesi possibile è quella resa manifesta da un contrasto che mai potrà risolversi o allentare la tensione» (p. 37).
  • ...
  • Nelle due donne, nel loro contrasto, si dice il principio, vale a dire il medesimo.  Esso si palesa anche nel paesaggio attraverso un sapiente gioco dei colori.
  • Tiziano mette in scena il mondo, in cui gli opposti si mescolano in ogni cosa.  Un mondo tragico, eracliteo, nel quale il visibile dice l’invisibile. La Rinascenza del Nostro è un “altro Rinascimento”, diverso da quello armonico che il neoplatonismo avrebbe voluto disegnare. Ciò è immediatamente leggibile nella Pala dell’Assunta della Basilica dei Frari,  portata a termine nel 1518. In essa a dirsi è la sintesi della sapienza architettonica e della vocazione: «luministica che contraddistingueva buona parte della grande arte veneziana» (p. 55). La Pala è costruita sul gioco di luce e ombra, sul contrasto coloristico. La fonte luminosa sovrastante è da individuarsi in Dio che, in quanto principio, sembra “stare”. Il resto del dipinto, le figure di Maria e degli Angeli, sono attraversate da un dinamismo moderno irrefrenabile. Anzi: «La musica emanata dalle […] forme produce una danza composita […] tendente a sforare ogni limite prestabilito» (p. 59). Tutto è inquieto, in movimento verso un principio inattingibile.
  • ...
  • A ben vedere, rileva l’autore, anche il principio “non-sta”; non vive l’indifferenza dell’Uno neoplatonico. È un Dio che liberamente crea, nella consapevolezza che all’uomo spetti di agire trasfigurando se stesso e le cose nell’inusitata fedeltà all’incipit vita nova. Tiziano mostra che: «il possibile, da noi, non viene mai esaurito» (p. 63). Un Dio trionfante, certo, ma sofferente, esposto, come gli uomini, alla possibilità del fallimento. La Madonna, nella sua Assunzione, testimonia l’unità tendenziale, solo tendenziale, di divino e umano. La luminosità di Tiziano, nota Donà, è umbratile, commista all’abisso da cui sgorga la vita, in un processo di ascesa nient’affatto circolare e conchiuso. Tale compiutezza fu propria della grande arte del Quattrocento, ma è estranea a Tiziano.  Il suo  lucore conosce la ferita, la singolarità libera e, per questo, tragica.  L’altro Rinascimento e la pittura del Vecellio misero nuovamente in scena la cadenza ritmica della vita, aporia della perfezione. 

  • Ordine multipolare

  • Ordine multipolare.
  • Geopolitica e cultura della crisi
  • Una raccolta di saggi a cura del
  • GRECE Italia
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • Una serie di eventi politico-economici degli ultimi anni, non ultima l’elezione plebiscitaria di Trump negli Usa, sembrano confermare che stiamo vivendo un’epoca di cambiamenti profondi. A essere messo in discussione è l’ordine mondiale occidentalista e unipolare affermatosi dopo il crollo del Muro di Berlino e dell’URSS, eventi che posero fine alla “guerra fredda” e agli assetti bipolari. In un clima di generale incertezza sembra oggi affermarsi una configurazione del mondo multipolare.  Questo, in estrema sintesi, il contenuto di un volume comparso nelle librerie per i tipi di Diana edizioni, Ordine multipolare. Geopolitica e cultura della crisi (pp. 309, euro 20,00). Si tratta di una raccolta di saggi, di noti studiosi di geopolitica, ma anche di filosofi e politologi, italiani e stranieri, voluta dal GRECE Italia a seguito di una serie di conferenze organizzate in tema.
  • ...
  • Francesco Marotta, nell’incipit del libro, scrive: «Il nostro obiettivo è quello di accendere la curiosità dei lettori» (p. 15). Al termine della lettura è possibile affermare che l’intento è stato pienamente conseguito. Chi scrive non è certo un esperto di geopolitica, eppure queste pagine, ricche di informazioni politiche, economiche, sociologiche ma, ci permettiamo di farlo rilevare,   anche geo-filosofiche, ci paiono imprescindibili per una comprensione effettiva del nostro tempo. Soffermiamoci, pertanto, tra gli altri, su alcuni dei saggi che ci hanno maggiormente colpito. Innanzitutto, i due scritti di Alain de Benoist. Il pensatore francese muove dall’assunto che stiamo assistendo, a partire dall’attentato alle Torri Gemelle, al riemergere della problematica, tipicamente politica, della pluralità. Sul campo si stanno confrontando, di fatto, tre schieramenti: l’Occidente a trazione Usa, unipolarista, gli Stati nazionali e il fronte, per usare un’espressione schmittiana, degli “Stati Civiltà”.
  • ...
  • Gli Stati nazionali paiono a de Benoist deboli di fronte al processo di globalizzazione, in quanto guardano al mondo dalla prospettiva di un solo popolo. L’occidentalismo sta tentando, servendosi di ogni mezzo, perfino della guerra aperta, il caso ucraino è, in tal senso, emblematico, di imporre la visione del mondo neoliberale, centrata sulla “religione dei diritti”, la cui fase estrema è rappresentata dalla Woke Culture e dal gender, mirati a destrutturare qualsivoglia identità e appartenenza. Al contrario, il fronte composito degli “Stati Civiltà” si va rafforzando in forza delle de-dollarizzazione in atto negli scambi internazionali. Tali Stati sono: «potenze regionali la cui influenza si estende al di là delle loro frontiere e che concepiscono il “Nomos della Terra” come […] multipolare» (p. 26). Ciascun insieme di civiltà, infatti, ha un’identità culturale e politica distinta (lo mostra, a chiare lettere, il saggio di Andrea Virga dedicato alla Sinosfera). L’identità russa, tra le altre, si fonda sulla “Noità”, su una concezione comunitaria centrata sul sacro testimoniato dalla tradizione ortodossa.
  • ...
  • In Giappone, ricorda il filosofo transalpino, fin dagli anni Quaranta del secolo scorso, la Scuola di Kyoto teorizzò il multipolarismo, richiamandosi a Herder e von Ranke. Tale Scuola pensò a: «sfere di co-prosperità della più  grande  Asia Orientale» (p. 29). Posizioni non dissimili in Cina sono proprie della Scuola Tianxia, sostenitrice di un ”socialismo nazionale” di stampo organicista-tradizionale. Dati tali presupposti teorici, gli “Stati Civiltà” si muovono in una logica dei grandi spazi che: «non ha portata universalista» (p. 31). Marotta guarda, in questo senso, con interesse, allo spazio dell’Eurasia, oltre le prospettive meramente escatologiche e teologiche, in quanto l’Eurasia per definizione è un pluriverso.
  • ...
  • Andrea Zhok, dopo aver ricordato le fondamentali differenze che distinguono l’imperialismo talassocratico USA, dagli Imperi tellurici, individua il momento saliente dei processi di occidentalizzazione del mondo nell’uscita degli USA dall’accordo di Bretton Woods nel 1971, che svincolò l’emissione del dollaro dalla sua convertibilità in oro. Da allora la globalizzazione divenne un processo: «con un centro di comando e un’ideologia guida, entrambi statunitensi, e un destinatario: il resto del mondo» (p 38). Eserciti, FMI e l’informatizzazione propria del capitalismo cognitivo hanno messo in atto tale processo. Il “tele-imperialismo” ha mostrato la sua debolezza durante la crisi del 2008.  Il rafforzamento della Cina e l’ampliamento del fronte dei paesi BRICS, con la volontà di creare la Nuova Banca di Sviluppo, stanno rendendo il mondo multipolare una realtà di fatto. Non è ancora chiaro in qual senso la crisi evolverà (lo mostra lo scritto di Augusto Grandi), ma l’universalismo astorico neoliberale è in fase terminale.
  • ...
  • Eduardo Zarelli muove dalle tesi di Schmitt e distingue: «le potenze basate sul primato della funzione politica e potenze basate sul primato della funzione tecno-economica» (p. 60). La posta in gioco è la salvaguarda della “radice terrena dell’uomo”, oltre il mercatismo della dismisura. Allo scopo, si tratta di ripensare l’idea di Imperium, il principio di sussidiarietà che la sostiene, per rendere i confini non ciò che, sic et simpliciter, divide, ma ciò che unisce per complementarietà, al fine di costruire un universale delle differenze: «di contro all’universalismo che disintegra ogni appartenenza» (p. 64). Solo un approccio di tal fatta, non meramente geopolitico ma geofilosofico, potrebbe essere in grado di riaprire la storia.
  • ...
  • Coutau-Bégarie, in un saggio contenuto in Appendice (gli scritti di questa sezione sono, per lo più, degli anni Novanta) ricorda, infatti, il tratto deterministico della geopolitica. Tale disciplina vive, ancora oggi, un’incertezza teorica: deve, pertanto, essere, a parere di chi scrive, integrata dall’approccio filosofico.
  • ...
  • Del resto, come ricorda in uno scritto di grande suggestione, Michel Marmin, l’Europa  si è sempre ritrovata sul piano delle arti e della cultura. Lo testimonia l’opera-ballet di Campra del 1697, che  riduceva a uno: «l’incostanza e la vanità dei francesi, la fedeltà mistica degli spagnoli, la gelosia e la ferocia degli italiani e anche il machismo ombroso dei turchi» (p. 279). L’“Europa galante” è ontologicamente polifonica. Tornò a farsi ascoltare nella musica di Roland de Lassus, di Jacques Callot, perfino nel Viaggio a Reims di Rossini, rappresentato a Parigi nel 1825: «È la creazione estetica che fonda l’europeo» (p. 283). L’affermazione ha straordinaria attualità, a nostro parere, in quanto viviamo, per dirla con Stiegler, nell’epoca della estrema miseria simbolica. La battaglia va portata sul piano dell’immaginario, decolonizzandolo dagli pseudo valori inoculati dalla Forma-Capitale.
  • ...
  • Chi scrive ritiene cha, allo scopo, anche la tradizione regionalista, il cui valore è ricordato nello scritto di Didier Patte, possa svolgere ruolo significativo. Si tratta di ripensare, in rapporto sussidiario, i valori locali, nazionali e imperiali.  Un’ Europa possibile…

  • Boi

  • Giorgio Colli e il misticismo 
  • "L'AURORA INAPPARENTE"
  • A proposito di un saggio di
  • Ludovica Boi   
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • La giovane Ludovica Boi si sta affermando come esegeta di primo piano della filosofia di Giorgio Colli. Il nostro giudizio esce rafforzato dalle lettura del suo ultimo lavoro, L’aurora  inapparente. Upanishad, Bruno e Böhme nella metafisica giovanile di Giorgio Colli, nelle librerie per Orthotes, con prefazione di Francesco Cattaneo (pp. 225, euro 23,00). Si tratta di un testo non solo storico-filosofico, ma connotato da significative implicazioni teoretiche. L’autrice presenta e discute criticamente le fonti attraverso le quali il filosofo torinese, negli anni della formazione, sviluppò l’interpretazione mistica dei Presocratici. Più in particolare, dal volume si evince che Colli consolidò tale esegesi  in uno sforzo di comparazione fenomenologica, nel senso in cui tale termine è stato esperito da studiosi quali van der Leeuw, Eliade, Kerény, W. F. Otto, oltre i riduzionismi di qualsivoglia approccio storicista. Inoltre, Boi sottolinea come tale lettura abbia giocato un ruolo centrale anche nelle opere mature del pensatore, financo in Filosofia dell’espressione. Ricorda  come l’esergo di questo testo: «Questo è quello», sia tratto dalle Upanishad (p. 22).
  • ...
  • Per Colli, scrive il prefatore, l’eccezionalità dei Presocratici: «sta nella fonte mistica della loro esperienza di pensiero, che li rende testimoni della vita nascente […] della physis» (p. 12). Tale esperienza era centrata sull’apertura della loro interiorità ai ritmi cosmico-naturali, palpitanti nella loro stessa corporeità, nel loro sentire. I Sapienti testimoniarono, con le loro vite e con il loro pensiero allusivo, l’abisso squarciato nella rappresentazione fenomenica, fondata sulla dicotomia soggetto-oggetto, dalla visione dionisiaca. Un’intuizione sintonica alla mistica del cristianesimo eterodosso del XIV secolo, all’identità Brahman-Âtman delle Upanishad, alla visione di Bruno, Böhme e  Cusano. Tale concezione non è, al contrario, conciliabile con le mistiche della Grazia.
  • ...
  • Il libro è diviso in due sezioni. Nella prima, Boi attraversa, con acume ermeneutico, l’esegesi colliana dell’esperienza presocratica: «imperniata sulla conoscenza ultrafenomenica in cui l’individuo giunge a identificarsi con il dio» (p. 20). Tale interpretazione è debitrice nei confronti delle teorie di Paul Deussen, Karl Joël e Erwin Rohde. Il primo fu traduttore e interprete delle Upanishad, il secondo  pubblicò un’opera nella quale il vitalismo romantico e la Naturphilosophie sono letti in sequela alle intuizioni della Grecia originaria, di Bruno e Böhme. A Rodhe si deve una significativa lettura della psyché, integrata da Colli con gli assunti cui giunse, a proposito di Empedocle, Bignone, al quale va attribuito il merito di aver superato la contrapposizione di materia e spirito. Anche l’apporto di Macchioro, in tal senso, è stato, per il filosofo torinese, di grande rilievo.
  • ...
  • Nella seconda sezione, l’autrice presenta la prossimità che lega la visione colliana alle Upanishad, alla filosofia del Nolano e a Böhme. La posizione di Colli si sviluppa nella distinzione tra interiorità ed espressione: «tra la dimensione inapparente al fondo di ogni vita e quanto di essa si traduce nel fenomeno» (p. 21). Una gnoseologia che fa aggio su sentimento e intuizione e che resterà tale anche dopo gli studi colliani dedicati a Kant e Aristotele. Tale gnosi gli ha consentito di portarsi oltre l’ottica parziale della “psicologia analitica”, per giungere a: «una descrizione organicistica e non meccanicista dell’anima» (p. 25). Nelle Upanishad, il pensatore torinese valorizza la cosmogonia:   il mondo e il molteplice si sono sviluppati dal sacrificio dell’essere originario Prajâpati. Il suo sacrificio è suscitato dal desiderio della moltiplicazione, di infrangere l’unità, a cui gli enti, superando l’errore gnoseologico della rappresentazione modernamente intesa, tendono a tornare soteriologicamente. La filosofia, chiosa Colli, è qui pratica terapeutica, esattamente come in Grecia. Il politeismo induista interpreta le divinità quali: «modi in cui l’Uno-Brahman si dà nelle forme» (p. 87) e: «Al di fuori dell’Âtman, identificato con il Brahman, non vi è alcun soggetto né oggetto» (p. 89). Si tratta di una visione monista conseguibile in un attimo di vissutezza, cui la parola può solo cennare. Al realizzato vedantino manca il tratto “filologico”, la volontà di esprimere tale vissutezza, che al contrario fu proprio degli Elleni, in cui convissero il momento mistico e quello politico.  
  • ...
  • Per quanto attiene a Bruno, Colli si pone oltre l’interpretazione intellettualistica, propria di Gentile, del misticismo del Nolano, sostenendo che il filosofo degli Eroici furori non distinse spirito e materia, propugnando un’evidente continuità tra anima, mondo e dio, esperita nella: «identificazione del proprio fondamento vitale con il principio animante il mondo nella sua totalità», in un istante unificante (p. 121). A ciò Bruno giunse negli Eroici furori. Al contrario, nel De umbris idearum, si era arenato in una contemplazione priva di tensione. Fu l’idea di Vita-Materia, di materia animata, cui pervenne in De la causa, a liberarlo dalla stasi contemplativa, facendogli intuire la vicissitudine: «la stessa fonte e causa propulsiva degli eventi», la physis (p.126). L’Eros diviene per il Nolano forza unificante, vincolo che, simpateticamente, tiene assieme il cosmo, potenza gnosica. Atteone è simbolo di tale conoscenza: «si rende conto di essere lui stesso l’originario oggetto dei propri pensieri, la preda cui dava la caccia» (p.152). Per Colli, Bruno sarebbe venuto meno all’intento politico-civile dei pensatori aurorali, in quanto non si sarebbe servito efficacemente della dimensione del simbolo.
  • ...
  • Aurora di Böhme, a dire di Colli, fu la trascrizione di esperienze vissute dal teosofo che, come scroscio di pioggia, lo costrinsero all’espressione. La scrittura dell’opera denota la tensione interna che pervase il tedesco, convinto che mai la parola può essere trascrizione fedele del vissuto. Per questo, la filosofia di Böhme si configura quale pensiero simbolico-immaginale: «L’immagine serve come strumento […] che tenta di suscitare nel lettore l’immaginazione di un’esperienza simile a quella cui si vuole alludere» (p. 164). Una prosa dionisiaca, simile a quella eraclitea, che conduce a intuire ciò che precede ogni separazione rappresentativa. Colli mostra particolare interesse per metafisica e cosmologia in Böhme. La realtà, per il tedesco, è risultato del processo di autorivelazione dell’Ungrund, principio infondato che trascende il piano stesso dell’essere come ciò che, nella sua più propria essenza, non è alcuna essenza.  L’Ungrund non è quiete e trascendenza, ma brama.  L’autorivelazione consta di sette determinazioni, che nella maggior parte dei casi sono corrispondenti a un elemento alchemico. Il cosmo è costituito da questo settenario e dall’inesausta azione ritmica di Amore-Odio. Tale ritmica fa capo all’unità divina, dal tratto corporale.  Proprio come per i Sapienti, il Geist si dà nel Leib
  • ...
  • La filosofia di Colli, per queste ragioni, può aprire scenari inusitati nel panorama contemporaneo.

  • A scuola di declino

  • "A scuola di declino"
  • di
  • Atzeni, Bassani, Lottieri
  • Un saggio sulla deriva ideologica dell’istruzione in Italia
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  •  
  • Della crisi della scuola italiana si dibatte da tempo. Sull’argomento è nelle librerie un volume scritto da tre docenti, uno di liceo e due universitari, Andrea Atzeni, Luigi Marco Bassani e Carlo Lottieri, A scuola di declino. La mentalità anticapitalista nei manuali scolastici, apparso nel catalogo dell’editore Liberilibri (pp. 156, euro 16,00).
  • ...
  • Gli autori individuano quelli che, a loro dire, sono i “mali” che affliggono, da diversi decenni, il sistema educativo del nostro paese. Il libro: «è il frutto di un piccolo viaggio attraverso i libri di testo che hanno formato […] quanti vivono e lavorano in Italia» (p. 9). Sono stati sottoposti a minuzioso scandaglio, in particolare, i manuali di storia, filosofia, geografa e diritto, adottati nelle nostre scuole, a muovere dal 1989. Si badi, non si tratta della ormai obsoleta polemica sui libri di testo di storia: al centro delle analisi che il volume presenta sta la concreta situazione nella quale ci troviamo a vivere, connotata da un innegabile: «divario tecnologico e produttivo fra l’Italia e gli altri paesi sviluppati»(p. 15), condizione indotta dall’inadeguatezza della nostra scuola.
  • ...
  • Fin dagli anni Settanta, infatti, attraverso un’azione capillare e pervasiva, gli studiosi di formazione marxista, hanno influenzato, con i propri scritti scolastici e non, la didattica e la programmazione curricolare delle nostre scuole, condizionando la formazione degli studenti. Tali capolavori di “obiettività” erano caratterizzati da omissioni di ogni tipo, mirate a giustificare i  misfatti del comunismo (eclatante il silenzio sulle foibe, che ha suscitato tanto clamore). I nostri autori rilevano che, negli anni dell’immediato dopoguerra, mentre gli ex-fascisti furono ghettizzati e costretti a fare i conti con la loro visione del mondo, gli intellettuali: «comunisti più che i conti si sono fatti sconti» (p. 14), in merito al loro passato e alle tragedia storica rappresentata dal “socialismo reale”. A muovere dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, i contenuti dei manuali scolastici sono passati dall’esplicita ideologizzazione di impianto marxista, a una forma più subdola e meno diretta di “lavaggio del cervello”, centrata sulla critica del mercato e della cultura d’impresa. Inutile dire, come mostrano i risultati di questo testo, che tale scelta pedagogica si è nutrita della cultura green, sistemica e falsamente ecologista, alibi ideologico delle politiche di “sostenibilità” in stile “Lega Ambiente”.
  • ...
  • Gli estensori di tali manuali non vengono citati nel libro, in quanto Atzeni, Bassani e Lottieri, da liberali, non hanno alcuna intenzione censoria nei loro confronti. Ciò che a loro preme è mostrare come la cultura diffusa nelle nostre aule abbia, nel corso del tempo, costruito la mentalità oggi dominante, le cui coordinate generali vanno rintracciate in una sorta di anticapitalismo preconcetto e generalizzato, responsabile della sopravvalutazione del ruolo “regolativo” dello Stato. Tesi tipicamente liberale che conduce gli autori di, A scuola di declino, a individuare nelle tre “i” di berlusconiana memoria (inglese, impresa, informatica) gli strumenti atti a restituire credibilità ai nostri istituti educativi e a formare  “quadri” capaci di recuperare il gap tecnologico italiano. Rilevano, inoltre, le radici antiche della statolatria italica: perfino il notabilato liberale del Risorgimento non riuscì a comprendere, fino in fondo, che lo “Stato onnipotente” rappresentava un ostacolo sulla strada della libertà, in quanto se ne servirono, per ragioni contingenti, al fine di combattere i privilegi di cui godeva la Chiesa. Con la marcia su Roma e la conquista del potere da parte di Mussolini, la statolatria, sostengono, divenne dato di fatto.
  • ...
  • La centralità dello Stato non venne meno neppure nell’Italia repubblicana in quanto, ben presto, le Sinistre si fecero latrici di un civismo pedagogico e di politiche economiche, condivise con la DC, di stampo keynesiano, tendenti alla realizzazione dell’Welfare state. I “chierici” italiani, nella seconda metà del secolo XX, si sono posti al servizio di tale progetto politico. La loro critica del mercato e del liberismo muove, ritengono gli autori del volume, da un’analisi a senso unico della rivoluzione industriale. Di tale evento epocale, i nostri manuali mettono in rilievo esclusivamente gli aspetti critici e problematici, in forza di una lettura storica che valorizza l’esegesi di Marx. Con la rivoluzione industriale e l’affermarsi del capitalismo sulla terra si sarebbe palesato l’ “inferno”: alienazione operaia, sfruttamento e devastazione della natura. Con il crollo del muro di Berlino e con il venir meno del sogno rivoluzionario, alla “religione politica comunista”, gli intellettuali di casa nostra hanno sostituito la nuova “religioni dei diritti”: ecologismo sistemico, terzomondismo, diritti, gender.
  • ...
  • Ci pare che l’analisi di Atzeni, Bassani e Lottieri sia condivisibile relativamente al tratto ideologico, a senso unico, della manualistica scolastica. Non, di contro, la tesi generale, tipicamente liberale, sulla quale è costruito il volume: meno Stato, più individuo, più mercato, anche nella stessa istituzione scolastica.  Impresa, inglese, informatica possono svolgere un ruolo positivo negli istituti miranti alla formazione tecnica e immediatamente professionalizzante. La polemica anti-marxista che emerge dal libro è, peraltro, fuori tempo massimo. In questa fase storica, la “religione dei diritti”, nella quale il marxismo si è inverato, come comprese Augusto Del Noce (citato nel volume), rappresenta il “nemico principale”. È essa a definire la forma mentis e spirituale dell’uomo contemporaneo, residuato e dimidiato, prodotto del capitalismo computazionale o cognitivo. Vi è, quindi, un nesso evidente tra la dismisura perpetrata in ogni ambito dal capitalismo e la realtà antropologica ed educativa contemporanea.  La”religione dei diritti”, le politiche di sostenibilità, criticate dai nostri autori, rappresentano la “sostanza” del capitalismo dell’età della post-verità.  Il marxismo inveratosi nella “religione dei diritti” è al servizio della Forma-Capitale.
  • ...
  • La scuola potrà tornare a formare uomini e cittadini liberi, atti a partecipare attivamente alla vita comunitaria, solo attraverso una proposta culturale centrata sugli aspetti sostanziali e non meramente formali (come finora è accaduto) del mondo classico. Quella civiltà ha insegnato al mondo che il pensiero è vampa capace di animare la vita: rende liberi.   

  • De Benoist

  • "L’esilio interiore"
  • Quaderni
  • di
  • Alain de Benoist
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • Alain de Benoist è intellettuale europeo di primo piano. Lo si ricorda, in genere, quale padre della Nouvelle Droite,  definizione che ha sempre sentito come riduttiva. Ha animato, fin dalla giovinezza, cenacoli intellettuali, riviste di grande spessore. Bibliofilo e lettore compulsivo fin dall’infanzia: la sua biblioteca, la maggior biblioteca privata di Francia se non d’Europa, custodisce 200.000 volumi. Ha firmato oltre cento volumi e migliaia di articoli e saggi, è  tradotto in tutto il mondo e ha influenzato pensatori di diversi paesi. Il suo iter teorico, lungo, articolato e, è il caso di farlo rilevare, intensamente sofferto, è connotato da un’innegabile vis filosofica. Al centro delle sue opere non stanno affermazioni apodittiche ma tesi che, al lettore attento, appaiono sostenute dal dubbio, quint’essenza della cerca filosofica autentica. Ha patito e patisce tuttora, come molti pensatori controcorrente, l’ostracismo del potere culturale vigente, che ha mirato, attraverso la reductio ad hitlerum, a tacitarne la voce libera e aperta al contraddittorio.
  • ...
  • Tale situazione ha prodotto in lui il sentimento psicologico ed esistenziale dell’esilio interiore, testimoniato in modo mirabile da un recente volume nelle librerie per Bietti, L’esilio interiore. Quaderni (per ordini: 02/29528929,pp. 333, euro 24,00). Il volume raccoglie riflessioni brevi, aforistiche, scritte in momenti diversi: un diario intimo di grande qualità letteraria. In queste pagine, la sua memoria viva, non è rivolta, sic et simpliciter, al suo percorso ideale, ma è innescata da un confronto a tutto campo tra la sua condizione di uomo in cerca e lo stato attuale delle cose. Quelli di de Benoist sono soliloqui che rinviano a una tradizione letteraria e speculativa di cui, non esageriamo, egli è, a buon diritto, erede: quella che muove da Marco Aurelio e giunge a Montaigne e ai moralisti francesi. Il lettore troverà ne, L’esilio interiore, la “dipintura dell’io” del pensatore che, certamente è segnata dal trascorrere del tempo, ma non cede mai alla mera dimensione nostalgica, in quanto il cuore vitale del suo atteggiamento e del suo pensiero è da rintracciarsi nella convinta adesione alla visione tragica della vita. Scrive, infatti, realisticamente: «non c’è mai stata un’epoca felice», definitivamente armonica e pacificata nella storia dell’uomo. Il libro è ben tradotto da Andrea Scarabelli ed è impreziosito dall’introduzione contestualizzante di Giuseppe Del Ninno, tra i primi traduttori ed esegeti, assieme a Marco Tarchi, dei libri di de Benoist in Italia, e dalla postfazione di François Bousquet, “compagno di viaggio” del filosofo francese.
  • ...
  • Dalla lettura si evincono i nomi degli “autori”, molto diversi per provenienza ideale e formazione, che hanno segnato la via di Alain: Sorel e Proudhon, Varlin e i comunardi, Lasch e Orwell, Pasolini e Benjamin, per citarne alcuni tra i tanti. De Benoist è uomo con: «Idee di sinistra, valori di destra», per questo è  uno dei critici più radicali della Forma-Capitale e della modernità. ...
  • Gli devo molto, la lettura dl suo, Come si può essere pagani, mi ha insegnato, durante l’ adolescenza, che la via all’antico ha tratto filosofico, che la filosofia, intesa nel suo significato greco e originario, può essere strumento epistrofico. Pertanto, ben al di là del parodismo di certo neopaganesimo contemporaneo e delle letture in senso stretto tradizionaliste, il pensatore francese sostiene: «Tutti vogliono trasmettere o prolungare (la Tradizione)», ma subito dopo precisa: «Io invece voglio un Nuovo Inizio». Tale affermazione chiarisce il suo debito nei confronti di Heidegger, esplicitato fin dalle pagine de  L’Eclisse del sacro. Si badi, spesso si è sostenuto che il pensatore francese ha corretto il suo iniziale nietzschianesimo attraverso la lettura del pensatore di Essere e tempo. Se questo è vero, va anche precisato che la sua esegesi di Heidegger è pensata in termini nietzschiani, in quanto la sua critica del conservatorismo e dei limiti teorici delle destre nasce, come nota Del Ninno, quale: «contestazione del reale nel nome del possibile», nel nome del recupero dell’utopia classica, giammai dell’utopismo moderno, in ciò memore della lezione evoliana di Cavalcare la tigre. La filosofia di de Benoist ha tratto, per questo, antideterminista, la storia è aperta, non ha sviluppo lineare progressivo né ciclico, come per Locchi.
  • ...
  • Un pensatore siffatto non può che sentirsi esiliato in patria, in Francia come nell’Europa contemporanea, in cui l’origine e le radici sono obliate. All’inizio del volume campeggia, infatti, una frase di Edgar Quinet: «Il vero esilio non è essere strappati al proprio Paese, ma viverci e non trovarvi più nulla di quanto ce lo faceva amare». Solo: «il cosmopolita si sente ovunque a casa propria, l’esiliato non si sente a casa da nessuna parte». Tutto sembra uguale a se stesso nelle nostre città, perfino i quartieri dell’amata Parigi, ma tutto è devitalizzato: «Prima la desacralizzazione, poi la secolarizzazione, infine il disincanto. Tutto comincia quando San Paolo rimprovera ai Greci di essere “troppo religiosi”». La nostalgia in de Benoist non induce alla rinuncia, anzi lo sprona alla battaglia metapoliltica: «Non basta avere ricordi, bisogna anche renderli attivi». Il suo non è pessimismo, ma realismo storico. È convinto, con Drieu, che: «Dopo la Grande Sera, ci sarà l’Alba […] noi ci interessiamo a questa Alba».
  • ...
  • L’esilio interiore del Nostro è dato, inoltre, da una convinzione intellettuale antitetica a quella del senso comune contemporaneo: «La mente capace di pensare secondo diversi punti di vista – il contrario della mente partigiana – è sempre votata all’infelicità». Tale esperire ha contezza che in termini “pagani”: «Né l’essenza precede l’esistenza, né l’esistenza precede l’essenza – è che sono una sola e medesima cosa». Il principio è infranaturale. L’esilio interiore è mitigato dal profondo senso dell’ amicizia di de Benoist, che lo induce a scrivere: «Non provo il bisogno di vedere spesso le persone a cui mi sento più vicino. Mi basta sapere che esistono». Le “anime belle” si pensano e si sentano, nonostante la distanza spaziale che le divide. Ai sodali, il filosofo, in una poesia del 1982, dedica questi versi: «Gli dèi in fuga cedono il posto ai titani./ Per quanto tempo ancora ci sarà da montar la guardia/ Sotto l’occhio freddo d’un Sole che, da lontano, ci guarda?».
  • ...
  • È quesito questo che si pongono quanti, con de Benoist, si siano realmente spinti nella terra di nessuno. Nell’attesa pensiamo, viviamo e agiamo…

 

Romualdi

 


  • "Scritti ritrovati"
  • Una raccolta di articoli e saggi di
  • Adriano Romualdi
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • Adriano Romualdi è uno dei nomi più significativi della destra culturale italiana. Figlio di Pino, protagonista di primo piano del fascismo e del neofascismo, conobbe, fin da adolescente, il dibattito che animava dall’interno la vita del MSI. Attivo nella Giovane Italia e nel FUAN romano, dette vita a diversi circoli giovanili, tra essi al “Gruppo del Solstizio”. Alla metà degli anni Sessanta si laureò, discutendo, in modalità semiclandestina di domenica mattina, una tesi sugli autori della Rivoluzione Conservatrice tedesca alla “Sapienza”, relatore e correlatore furono Renzo De Felice e Rosario Romeo. Da sempre vicino a Evola, che frequentò nell'abitazione di Corso Vittorio Emanuele, è considerato unico e vero discepolo del “Maestro che non voleva discepoli”. Fu assistente di Giuseppe Tricoli, storico contemporaneista, all’Università di Palermo. Ebbe la ventura, come chi è “caro agli dèi”, di incontrare la morte a soli trentatre anni, il 12 agosto 1973, a causa di un incidente automobilistico. A testimoniare la sua profonda cultura, restano i suoi libri. Tra questi, la prima biografia di Evola.
  • ...
  • È nelle librerie, per Arya edizioni, una silloge di suoi articoli e saggi (67 in tutto, comparsi su riviste tra il 1957 e il 1973), intitolata, Scritti ritrovati. Il volume raccoglie la premessa di Gianfranco de Turris, amico personale di Adriano, oltre alla introduzione contestualizzante del curatore, Alberto Lombardo, uno dei massimi esegeti dell’opera romualdiana (per ordini: info@edizioniarya.it, pp. 312, euro 29,00).
  • ...
  • Il testo è corredato da un significativo e ampio apparato fotografico e concluso da un’Appendice che presenta un’intervista rilasciata a de Turris per Intervento e altri due articoli del giovane studioso.  I primi articoli uscirono sul periodico studentesco romano, Le corna del diavolo diretto da Franco Pintore. Questi fu contrattista presso l’Università di Pavia. Si occupava di Filologia egeo-anatolica e coltivava un profondo interesse per l’esoterismo e la Tradizione. Tali ambiti di ricerca lo legarono al giovane Romualdi. Gli articoli di quest’ultimo, alcuni firmati con il proprio nome, altri con pseudonimi,  affrontano argomenti disparati: da Thomas Mann a Spengler, dall’ Ulisse di Joyce, alla recensione di un volume di Oswald Mosley .
  • ...
  • Tra i più importanti, sotto il profilo teorico, i quattro scritti intitolati,  Prospettive.  In essi  viene discussa la Tradizione europea che, per il Nostro, si articola in quattro momenti: gli Arii, l’Ellade, Roma, il Medioevo quale meriggio della civiltà europea. Temi, che, come rileva Lombardo, saranno un: «vero e proprio “work in progress” per tutta la vita di Adriano, perché risulta che nel biennio 1965-1966 questo lavoro confluì in tre ciclostilati del FUAN-Caravella dal titolo, "Documenti per una visione del mondo"» (p. 31). Su due numeri della rivista compaiono, in prima pagina, dei disegni che potrebbero, quantomeno, essere stati ispirati dalle idee di Romualdi, in particolare quello dell’aprile 1961, che richiama Cavalcare la tigre di Evola, uscito quell’anno. Cinque sono, invece, gli scritti che Adriano pubblicò su Il Conciliatore di Milano, gloriosa testata fondata nel 1818 da Pellico e Berchet, fatta rivivere da Carlo Peverelli nel 1952. Tre degli scritti romualdiani: «vertono sulla Seconda guerra mondiale […] uno sull’edizione critica di Nietzsche, un altro sulla seconda edizione di Cavalcare la tigre» (p. 34).
  • ...
  • Più corposa risulta la collaborazione a L’Italia che scrive, testata fondata nel 1918 da Angelo Fortunato Formiggini. É costituita da scritti relativi alla filosofia di Nietzsche, da recensioni a volumi di Huizinga, Cantimori e Gibbon, oltre al lungo testo, I settant’anni di Julius Evola. Impostazione chiaramente evoliana ha anche l’articolo dedicato a Wagner: il musicista viene criticato, infatti, in termini nietzschiani ed evoliani. Interessante la segnalazione della monografia fotografica del Touring Club Italiano, dedicata al paesaggio del Lazio, che  Adriano riteneva animato in profondità, come già aveva colto Bachofen, dalle antiche potestates divine. Altrettanto di rilievo sono i saggi usciti su Pagine Libere, rivista diretta da Vito Panunzio ed editata da Volpe. Sulle sue colonne comparve lo scritto, Idee per una cultura di Destra.  Romualdi prendeva le distanze dal nostalgismo patriottardo del MSI.  In Appendice, il lettore troverà la decisa presa di distanza della direzione del periodico, dalle posizioni espresse in tema da Adriano, a conferma della gretta chiusura culturale della classe dirigente del MSI, distante anni luce dalle tesi di Evola e Romualdi. Centrale, al fine di comprendere la visione del mondo di Adriano è Occidente e occidentalismo. Con tale scritto lo studioso mostrava di aver contezza della necessità di risvegliare gli Europei, affinché riscoprissero le sacre radici del Continente.
  • ...
  • Va fatto rilevare che Romualdi era, a differenza di Thiriart e di Jeune Europe, animato da realismo politico, per cui riteneva: «pura velleità pensare di affrancarsi […] dalla difesa armata americana» (p. 39), in quanto ciò l’avrebbe resa imbelle di fronte all’avanzante comunismo. Anche in tale ambito, Adriano sposa le posizioni evoliane. Nel libro sono raccolti anche gli scritti romuadiani del Cavour (due di carattere storico), de La Torre (tre, compreso uno postumo) e de La Destra (tre articoli significativi, in particolare quello inerente le correnti politiche tedesche dal 1918 all’avvento del nazismo), nonché quelli de L’Italiano, tribuna libera della destra culturale. Segnaliamo, in particolare, gli scritti relativi alla contestazione studentesca dai quali si evince come il Nostro avesse compreso che la “carnevalata sessantottesca” mirava alla tacitazione della Tradizione.
  • ...
  • Scritti ritrovati permette di ricostruire il breve ma intenso iter romualdiano. Adriano, ricorda Lombardo, al pari di Locchi, si portò oltre i limiti del “tradizionalismo”, ritenendo che il pensiero dovesse assumersi l’onere del confronto con il moderno. Questo il momento maggiormente rilevante del suo lascito. Il richiamo all’Europa Nazione, sia pur mitigato da realismo politico, resta a nostro parere, il momento più debole della sua proposta. L’Europa è, ontologicamente, plurale. Per dirla con Andrea Emo, essa è davvero “terra del tramonto”, laboratorio sempre in corso d’opera di sperimentazione. In essa, qualsiasi staticizzazione politica o messa in forma del mondo, in quanto esposta al tragico, quint’essenza della vita, deve essere oltrepassata nell’ incipit vita nova, in un Nuovo Inizio. 

  • TRUMP E L’ONDA LUNGA DELLA STORIA   
  • di   
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Ho letto tanti commenti sulla vittoria del Presidente Trump e si possono – grosso modo – suddividere in gruppi, a seconda della causa, indicata del successo del Tycoon poco annunziata dalla comunicazione mainstream un po’ perché temuta, di più ancora perché di danno alla candidatura della Harris.
  • ...
  • Prima causa: il popolo si è sbagliato. Ciò capita a tutti, anche a governanti che, in quanto uomini, non sono infallibili, tranne il Papa, che ha però il supporto dello Spirito Santo (scusate se è poco) almeno quando parla ex cathedra.  Il retropensiero (neppure tanto retro) di tale argomento è invece che (oltre al Papa) sono infallibili i “tecnici”, le élite, alcune televisioni e certi giornali (la maggioranza) ecc. ecc. Questo perché i suddetti infallibili giudicano applicando fatti, norme, principi, protocolli, griglie di valori corretti. Che la congruità delle proposte si valuti in base ai risultati conseguiti più che alla conformità alle regole è un criterio loro del tutto estraneo. Che alla base del successo di Trump ci fosse il giudizio positivo degli americani su 4 anni di presidenza Trump, fossero i buoni risultati economici e forse ancora di più il fatto che, contrariamente a tutti i suoi predecessori nella carica (a partire dagli anni ’90) a) non avesse fatto guerre b) anzi ne ha chiusa una, non era considerato dal commentatori ZTL.
  • ...
  • Seconda causa: le nostre idee, i nostri sogni sono più belli di quelli di Trump il quale ha ingannato abilmente il popolo facendogli credere che i suoi siano preferibili. Anche tale argomento è facilmente contestabile: da un lato perché gli elettori valutano più i risultati (mediocri) dei governanti che i loro (buoni) propositi elettorali. In secondo luogo perché la sinistra, soprattutto quella comunista, ha sempre manifestato un abisso tra le mete radiose proposte (le società senza classi, la pace universale, l’uguaglianza, la prosperità… e via sognando) e le (modeste) realizzazioni conseguite (causa principale del crollo planetario del “socialismo reale”).
  • Onde a questo genere di argomenti i popoli sono abituati, e sostituire le società senza classi con la crisi climatica non li rende più credibili.
  • ...
  • Terza causa: gli errori e le ingenuità commessi nella campagna dagli spin-doctor incompetenti, dal cattivo uso della rete, fino alle stars inutili e talvolta controproducenti. Carattere comune di tali argomentazioni è di considerare tutti aspetti e figure accessorie. Ossia il cibo è buono, ma presentato e cucinato maldestramente. Anche qui pare piuttosto un tentativo di far “volare gli stracci” per salvare direttore d’orchestra e spartito.
  • ...
  • E si potrebbe continuare a lungo: ma siccome tutti tali argomenti hanno il connotato comune di essere frutto – totale o parziale – di fantasia, e a questa non c’è limite (mentre alla realtà, sì) preferisco continuare con gli argomenti contrari: cioè perché Trump, secondo me, ha vinto. Partendo, ovviamente, dai dati di fatto.
  • ...
  • In primo luogo: la vittoria dei partiti anti-establishment (detti anche populisti, sovranisti, ecc. ecc.) non è un fenomeno statunitense, ma quasi planetario, almeno nell’occidente. Ovviamente tra gli uni e gli altri movimenti ci sono differenze, ma una spiegazione non può prescindere dai connotati comuni che, accanto alle diversità nazionali, tali soggetti politici (e i di essi elettori) hanno.  Come scrivo da parecchi anni, se fino al crollo per implosione del comunismo, il raggruppamento amico-nemico coincideva (principalmente) con quello economico borghesi/proletari, è stato sostituito dal nuovo globalisti/populisti (establishment contro anti-establishment). Tale contrapposizione si articola in tutta una serie di caratteri comuni (e contrapposti).  
  • ...
  • In primis della differenza del sentire comune, come già scriveva trent’anni fa Cristopher Lasch: le élite globaliste e i governati hanno “tavole di valori” differenti e spesso opposti. L’idem sentire de re publica si atrofizza e si sviluppa la differenza etica, che, secondo Hegel, è alla base della discriminante amico/nemico.
  • ...
  • In secondo luogo (ma forse le spetta il primo) si sviluppa la differenza d’interessi tra classe dirigente e governati a sua volta suddividentesi in più aspetti, a cominciare dal dilatarsi della “forbice” della differenza dei redditi, ma del pari visibile dall’imposizione/elusione tributaria (i “paradisi” fiscali) dalla delocalizzazione (e non solo).
  • ...
  • In terzo luogo alle rivendicazioni identitarie. Anche qua si potrebbe continuare a lungo: resta il fatto che argomenti “etici”, “identitati” ed “economici” sono comuni a tutti i movimenti anti-establishment: dai gilet-jaunes alla rust-belt, dai leghisti ai seguaci di Orban.
  • ...
  • Per cui continuo a pensare che la vittoria di Trump, così come quella delle forze anti-establishment nel resto del mondo sia dovuta ad un cambiamento epocale della politica. Come scriveva Schmitt nell’età moderna il criterio del politico è cambiato a seconda dei periodi seguendo lo Zentralgebiet (dal teologico al morale, da questo all’economia): ora siamo in una fase nuova, un nuovo Zentralgebiet. E Trump, come Orban, Le Pen, la nostra Meloni sono l’effetto e non la causa del cambiamento.

 

Cop. BURNHAM MACHIAVELLI def


  • Nel nome di Machiavelli
  • I difensori della libertà
  • Un saggio di
  • James Burnham
  • rec.di
  • Giovanni Sessa

  •  
  • James Burnaham, teorico della “rivoluzione manageriale” apprezzato da Evola, è un pensatore statunitense nato nel 1905 e deceduto nel 1987. Un figlio del secolo XX, frangente storico caratterizzato da spinte ideali rilevantissime ma anche da eclatanti contraddizioni. Le medesime che, almeno apparentemente, attraversano l’ opera di Burnham, scienziato e filosofo della politica. Questi si formò all’università di Princeton e, qualche anno dopo, a Oxford ebbe per docente Tolkien. È stato professore di Filosofia alla New York University. Negli anni giovanili fu attratto dal marxismo e dal neopositivismo, divenendo, ben presto, seguace di Trotskij e della “rivoluzione permanente”. Nel catalogo di Oaks editrice è di recente apparso uno dei suoi libri più interessanti, Nel nome di Machiavelli. I difensori della libertà (per ordini: info@oakseditrice, pp. 276, euro 28.00). Il volume è impreziosito dalla introduzione contestualizzante di Francesco Ingravalle. Le tesi espresse in queste pagine da Burnham consentono di ricostruire il suo iter teorico-politico.
  • ...
  • All’inizio del secondo conflitto mondiale lo studioso mise fine alla militanza socialista, convinto che il mondo capitalista non stesse affatto evolvendo verso la società senza classi, ma in direzione della società manageriale. Tale nuovo assetto socio-economico era il risultato della separazione sopravvenuta tra proprietà delle imprese e loro gestione, a tutto vantaggio di quest’ultima. Tale situazione inedita si era palesata durante la Prima guerra mondiale e, successivamente, a ridosso della crisi del 1929, con l’adozione delle politiche del New Deal. Il cambiamento era in atto in tutto il mondo, a causa del tratto globalizzante del capitalismo. Si trattava, nota Ingravalle, di: «una nuova società di classe strutturata sul potere dei manager» (p. XXI). Burnham legge il fascismo, il nazionalsocialismo e il comunismo quali ideologie manageriali. Il nuovo assetto avrebbe portato al superamento degli Stati nazionali, che sarebbero stati surrogati da istituzioni più ampie, sovranazionali, le quali avrebbero potuto condurre allo “Stato mondale” preconizzato da Jünger. Nel 1943, con la pubblicazione de I difensori della libertà, lo studioso individuava nella tradizione elitistica, rappresentata da Mosca e Pareto, una possibile via mirante alla “difesa della libertà” nel contesto della “società manageriale”.
  • ...
  • Con la parola libertà lo statunitense si riferisce alla: «possibilità dell’individuo di difendersi “dall’esercizio arbitrario e irresponsabile del potere personale”» (p. XXV). Si badi, a suo dire, la terra della libertà è luogo del conflitto, dello “stato di natura”, nel quale si svolge il confronto fra più interessi che si pongono come comuni ma, in realtà, non lo sono affatto. Il volume è diviso in sei parti. In esse, l‘autore discute il pensiero politico di Dante, Pareto, Machiavelli, Mosca, Sorel e Michels. Il De Monarchia di Dante solo formalmente è, secondo Burnham, teoria politica ma, sostanzialmente, in quanto ideologia tesa a difendere la nobiltà declinante, ha tratto impolitico. In Machiavelli, al contrario, al centro della teoria politica “scientifica”, non sta più “l’uomo” in generale, ma l’ “uomo politico”. Tale distinzione è introduttiva rispetto a quella che vede contrapposti “tipo dirigente” e “tipo dominato”, essenziale per comprendere la funzione cruciale dei “Capi”. La lettura delle opere del Segretario fiorentino, al fine di risultare fruttuosa, deve tener in debito conto i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio. Da essa, si evince che, per il teorico del Principe, il miglior governo è quello “misto”: «ove vi è un continuo bilanciamento delle forze sociali e, quindi, vi è libertà» (p. XXVII). Il ruolo del principe si lega allo stato “d’eccezione”, all’epoca del Machiavelli rappresentato dalla possibile unificazione d’Italia.
  • ...
  • Anche la lettura di Mosca chiarisce la necessità di rigettare qualsivoglia teoria monocausale dei fatti storici. Dirimente, nella sua visione, è la distinzione tra la minoranza dei governanti e la maggioranza dei governati: «Quali che siano le forme sociali e politiche, questa è la distinzione basilare» (p. XXVII). La Scienza politica, pertanto, deve avere quale oggetto d’analisi le classi dirigenti. In esse agiscono, all’unisono, una tendenza liberale e una aristocratica che, per poter funzionare efficacemente, devono esser poste nel giusto equilibrio. In tale contesto teorico ha grande rilevanza la posizione di Sorel. Il mito, l’immagine mobilitante le masse, è trascrizione   vitale del conflitto di classe. Lo stesso Michels mostra un chiaro debito nei confronti dell’idea di conflitto individuata da Machiavelli, in quanto rileva, nella società primo novecentesca, l’indubitabile presenza di una lotta senza quartiere tra la tendenza oligarchica e quella liberale, definita “sostanza della democrazia”. Pareto, infine, conferma tale situazione polemologica: gli uomini, il più delle volte, agiscono non-logicamente, sotto la spinta dei sentimenti e degli impulsi, ai quali si sforzano di dare parvenza razionale, logicizzando i motivi non razionali del loro agire in società.
  • ...
  • È naturale, quindi, che le classi dirigenti declinanti siano sostituite da quelle emergenti. Burnham era fermamente convinto che la democrazia liberale si stesse trasformando in una sorta di potere bonapartista, epidemico, lo avrebbe definito il filosofo Andrea Emo. Per questo, sarebbe risultato dirimente, a suo dire, lottare per: «affermare il principio della “difesa giuridica”(teorizzato da Gaetano Mosca) che difende l’individuo dall’esercizio arbitrario e irresponsabile del potere personale» (p. XXX). Perché tale difesa possa realizzarsi oggi, nel mondo della governance, le classi dirigenti e i popoli dovrebbero liberarsi del tarlo che li logora da decenni: vale a dire il rigetto preconcetto della storia europea e dei suoi valori di riferimento. Bisogna liberarsi della religione dei “diritti”, dalla denigrazione della nostra Kultur, imposta dal pensiero unico per ristabilire, sia pur precariamente, l’equilibrio formale delle forze in campo. Come in natura, anche nella storia tutto è perpetuamente in fieri


  • Massimo Pamio

  • SENSIBILI ALLE FORME
  • Un saggio di
  • Massimo Pamio
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • Massimo Pamio è poeta e saggista. Dirige a Torrevecchia Teatina, paese d’Abruzzo, il Museo, originalissimo, della Lettera d’Amore. Ha dato alle stampe numerose opere. Suo interesse prevalente è l’arte, nella sua accezione più ampia. Tra le sue pubblicazioni ci occuperemo qui di, Sensibili alle forme. Che cos’è l’arte, nelle librerie per Mimesis (per ordini: 02/24861657, mimesis@mimesisedizioni.it, pp. 167, euro 18,00). Il volume è arricchito da un saggio introduttivo di Arnaldo Colasanti e da un bellissimo e assai ampio, apparato iconologico riproducente pitture ed opere di artisti italiani contemporanei di grande valore.  In copertina, del resto, campeggia il dipinto di Nicola Samori, In principio era la fine, che simbolicamente sintetizza il senso del libro Sensibili alle forme.
  • ...
  • Sotto il profilo metodologico, il lavoro di Pamio è estremamente rigoroso. Questi, infatti, si adopera a rispondere alla vexata quaestio inerente il che cos’è dell’arte, con acribia scientifica, non sottovalutando, oltre l’ermeneutica teoretico-estetica, neppure l’approccio antropologico-sociologico. Tale metodo integrato consente allo studioso-poietes di pervenire a posizioni davvero originali, oltre che radicali, come nota Colasanti.  A chi scrive,  se abbiamo ben inteso, Pamio appare come un teorico dell’arte che fa, seriamente, i conti con quella che il filosofo francese Bernard Stiegler ha definito l’età della post-verità, epoca nella quale il pensiero è silenziato dagli idola del senso comune computazionale contemporaneo. Pensa, quindi, il Nostro autore, per dirla con Alain Badiou, “dalla fine” del pensiero europeo e, paradossalmente, proprio per questo, è indotto a guardare all’origine: «Il pensiero - scrive -  è […] la fonte più visionaria che la storia della rappresentazione naturale sia riuscita a elaborare. Una forma che comprende forme. Una metaforma […] un’immagine che ha fatto di sé stessa […] un’idea». Per comprende tutto ciò e, in particolare il legame che unisce la produzione artistica a quella della physis, bisogna far riferimento all’indifferenza della natura leopardiana, che crea e distrugge nella totale indifferenza e che, pertanto, da sempre ha, in uno, ammaliato e terrificato gli uomini.
  • ...
  • Chiosa l’autore: «Il mio studio si ripromette di contribuire a fornire elementi per la nascita di una logica nuova, naturalistica, che desti l’uomo dal torpore agonico in cui versa», nell’età del pieno dispiegarsi dell’Antropocene. Allo scopo, conduce il lettore, con sapienza argomentativa e documentazione vastissima, nel mondo sensoriale dei primi umanoidi della preistoria. Questi erano guidati da un esperire carico di pathos. Solo quando si cominciò, in quelle fasi aurorali della vita umana, ad associare la vista a un’emozione e a un piacere, l’uomo avrebbe intrapreso il cammino che, attraverso la memoria, madre delle Muse per gli Elleni, lo avrebbe condotto all’arte. Quaranta milioni di anni fa, l’Aegyptopithecus, vispa scimmietta, viveva nelle foreste con un atteggiamento esistenziale di partecipazione piena e grata alla esistenza del Tutto, in sintonia, insomma, con l’Anima boschiva. La foresta fu, con i suoi suoni, il primo teatro sonoro, luogo nel quale, per la prima volta, questi primi esseri percepirono il darsi di ciò che Marius Schneider ha definito suono originario, il fluidico e ritmico dirompere dell’origine. Per questo, il “fare” della physis che l’arte autentica riproduce è, innanzitutto mixis, tentativo di s-determinare gli enti rappresentati dalla loro immediata valenza meramente fenomenica, per restituirli al principio animante che li vivifica, la dynamis, libertà-potenza sempre all’opera. Non potrebbe essere diversamente, in natura, come ricordò Anassagora, “tutto è in tutto” e ogni cosa in relazione con l’altra e, pertanto, non semplicemente “diversa”, come vorrebbe l’approccio analitico e logo-centrico, prevalso in Europa.
  • ...
  • Non solo il mondo animale, ma anche il regno vegetale vive di relazioni, pensieri ed emozioni. Gli apparati radicali delle piante stabiliscono in un bosco relazioni impensate, atte a favorire, perfino, la vita delle sopravvenienti arborescenze. Pamio, ricorda con Stefano Mancuso, che: «Un bosco ha una complessità superiore a quella di un cervello umano», in quanto tutti gli enti di natura, nessuno escluso, sono dotati di una memoria distribuita, diffusa non solo nel cervello, ma perfino nei corpi interagenti. È quello che si evince durante la pratica, tra le altre, della “Danza profonda”, della Contact dance, come mostrato dal danzatore-filosofo Romano Gasparotti. Gli enti di natura si sono trasformati gradualmente, hanno acquisito forma in tre fasi essenziali: 1) morfogenesi, quando la creatura assunse caratteri che la resero  distinguibile dalle altre; 2) morfognosia, quando apprese a riconoscere la sua forma e quanto le occorreva per sopravvivere; 3) morfoestesia, quando sorse il primordiale gusto e piacere per la forma: «La vita della Forma è Misteriosa Chiave d’ogni Alchimia». La vita non è semplicemente lotta zoologica per la sopravvivenza, ma un riconoscersi grazie ai richiami sensibili delle forme: «è interrelazione che unisce ogni elemento, è, soprattutto emanazione dall’Uno di forme mai identiche che magicamente assecondano e violano […] un codice segreto […] in vista di una glorificazione di una Matrice Originaria».  La physis è “gemmazione di sé”, ma anche tensione riconnettiva, eros, tensione-verso l’origine.
  • ...
  • Lo stesso, come riconobbe Andrea Emo, avviene nelle produzioni autenticamente poietiche. Le forme naturali e artistiche non sono cheimmagini figurali che, emianamente, si generano dal rogo di altre immagini, come nel caso dell’araba fenice. L’arte s-determina gli atti aristotelici sottraendoli al loro destino di “prigionieri” della mera oggettualità. Oltre iltheorein metafisico-scientifico, ma senza escluderlo, Pamio rinvia a nuovo sguardo sul mondo, la visione orfica propria delpoiein. Su questo punto concordiamo pienamente. Il problema è che, nelle sue pagine, ci pare di aver rintracciato il richiamo a Uno trascendente. Chi scrive è, al contrario, in sequela di Bruno e dei pensatori aurorali della Grecia, convinto che il principio siainfranaturale. Nonostante ciò, il volume che abbiamo presentato, nel silenzio assordante dell’attuale dibattito estetico, può svolgere un ruolo di rilievo, proprio perché le sue pagine permettono di rilevare come la coscienzasingolare coincida, comunque, con quella vigente nellaphysis.


  • PROCESSARE IL  “POLITICO”,   
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • La contemporaneità dell’udienza del processo al Ministro Salvini e dell’annullamento giudiziario della “destinazione” in Albania di un gruppetto di migranti hanno un connotato comune: riproporre l’(eterno) problema del rapporto tra politica e giustizia e, quale presupposto di questo, di determinare cos’è “politico”.
  • ...
  • Infatti il potere di giudicare ha carattere generale (anche ritenere di non avere il potere di giudicare, è un giudicare). Lo stesso può affermarsi del politico, perché anche quando una sfera di attività umana è libera e garantita dall’intromissione di poteri pubblici e quindi (anche e soprattutto) politici, ossia privata, ciò è frutto di una distinzione (e decisione) essenzialmente e squisitamente politica: quella tra pubblico e privato.
  • ...
  • Data la generalità, politica e giurisdizione possono entrare in contrasto specialmente negli Stati borghesi di diritto, dove le garanzie giudiziarie sono particolarmente penetranti onde hanno indotto alla limitazione costituzionale del potere giudiziario, laddove si debbono giudicate i titolari di certi organi e comunque di decisioni che incidono su funzioni politiche. Ed è un problema che si poneva già agli albori dello Stato borghese moderno, sia nelle leggi delle assemblee francesi rivoluzionarie, che nelle riflessioni dei primi teorici come Benjamin Constant.
  • ...
  • La responsabilità (e il processo) penale (e le di esso limitazioni) non è che uno degli aspetti del problema. Pochi italiani sanno che l’ordinamento francese esclude che siano justiciables, cioè annullabili dal Consiglio di Stato gli acts de gouvernement, e che tale soluzione fu fatta propria in Italia nell’istituire la IV Sezione del Consiglio di Stato e poi sempre ripetuta: l’art. 31 t.u. 26 giugno 1924 n. 1054, sul Consiglio di Stato (sostanzialmente ripetitivo dell’art. 24 del precedente t.u. 2 giugno 1889 n. 6166), prevede l’inammissibilità del ricorso al Consiglio di Stato per impugnare atti “emanati dal Governo nell’esercizio del potere politico”. È penetrante il giudizio di Barile che l’attività politica non può venire “definita unicamente un’attività libera, ma un’attività libera perché politica” e che gli atti espressione della funzione di governo sono “istituzionalmente sottratti ad ogni sindacato giurisdizionale. Essi sono sottratti per natura”. Da ultimo tale esclusione è stata confermata nel vigente codice di procedura amministrativa, pubblicato nel 2010 (in pieno fragore mediatico giustizialista).
  • ...
  • Il problema degli acts de gouvernement è discriminarli da quelli che non lo sono: la giurisprudenza francese ricondusse ad una liste jurisprudentielle tali atti, includendoci in particolare gli atti relastivi ai rapporti internazionali, quelli relativi a rapporti tra organi costituzionali, poi anche le misure eccezionali di cui all’art. 16 della Costituzione della V Repubblica. In realtà passando da un tentativo di definizione denotativa, come la liste jurisprudentielle, ad una connotativa, emergono quali criteri distintivi degli atti politici da un lato lo scopo per cui sono presi tali atti: la difesa della comunità dai nemici, la sicurezza dell’insieme, la tutela (almeno) dei diritti dei cittadini alla vita e ad un’esistenza ordinata. In altre parole coincidono, in larga parte, con quelli che costituiscono il fine della politica (e di riflesso, dello Stato).
  • ...
  • Carl Schmitt ritiene a tale proposito che nel diritto francese si era «tentato di instaurare un concetto di motivo politico (mobile politique) con l’aiuto del quale distinguere gli atti di governo “politici” (acts de gouvernement) dagli atti amministrativi “non politici” e sottrarre quindi i primi al controllo della giurisdizione amministrativa»; una definizione, assai interessante per il concetto del politico che ne trae, è la seguente: «Ciò che costituisce l’atto di governo è il fine che si propone  l’autore. L’atto che ha per fine la difesa della società presa in sé stessa o personificata nel governo, contro i suoi nemici esterni o interni, palesi o nascosti, presenti o futuri: ecco l’atto di governo». E in effetti tale considerazione – enfatizzata dal rapporto amicus-hostis - è assai prossima a quello che avrebbe poi scritto Freund.
  • ...
  • Ritiene Freund, citando Aristotele, che ogni attività umana persegue  un fine specifico: quello della politica è il bene comune (così definito dalla teologia cristiana). Questo si può ripartire nella sicurezza (esterna ed interna) e nel mantenimento dell’ordine cioè della pace e della prosperità della comunità. E in effetti una delle caratteristiche degli organi politici, in particolare di quello superiorem non recognoscens, è di essere sottratto ad ogni giurisdizione. The King can do no wrong: il Re non può far torto è un’antica massima del diritto inglese. Se nei due casi in esame, l’esercizio dell’azione penale nei confronti di Salvini era stata regolarmente autorizzata dal Senato, e la possibilità di giudicare la legittimità della procedura di “delocalizzazione” dei migranti non è soggetta al limite dell’atto politico (come la cognizione del giudice amministrativo), costituisce comunque un problema. Il quale non si pone nella quasi totalità dei casi alla ribalta delle cronache, concernenti o pure e semplice ruberie, abusi ecc. ecc. di funzionari compiuti a benefici, proprio del politico e dei di esso seguaci ovvero a questioni di carattere strettamente privato (come lo sbandieratismo/i processo/i a carico di Berlusconi per le “olgettine”). Qui invece ad essere giudicati sono atti politici presi nell’esercizio di un potere politico per fini politici come la sicurezza e l’ordine pubblico. Cioè per un’attività politica per la natura della cosa, come scriveva Barile. E su questo e sulle conseguenze c’è tanto da pensare.

  • Appercezione e noesi

  • Appercezione  e  Noesi
  • Le tesi di
  • Massimo Donà e Carmelo Meazza
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • La vivacità del pensiero italiano contemporaneo è comprovata da un recente volume nel quale, due nostri filosofi, si confrontano su tematiche teoretiche di grande rilevo. Ci riferiamo al libro di Massimo Donà e Carmelo Meazza, Appercezione e noesi, nelle librerie per InSchibboleth, (per ordini: info@inschibbolethedizioni.com, pp. 129, euro 16.00).
  • ...
  • Donà nel saggio, Di una indifferente “determinazione”. Calogero lettore di Aristotele, muove dalla constatazione che la domanda originaria della filosofia europea, impostasi con Socrate, “che cos’è”, sia una domanda s-viante che ha condizionato, fino a oggi, il nostro modo di rapportarci alle “cose” e alla vita. La filosofia donaniana è, tra le altre cose, una filosofia della singolarità. Il pensatore rileva che la domanda socratica: «sembra destinata ad allontanarci dall’immagine di quella singolarità (testimoniata da ogni “cosa”), per condurci da ultimo alla determinazione di un’universalità» (p. 15). Alla domanda in questione, la filosofia ha risposto, in genere, con la ricerca del “significato”, attraverso la chiamata in causa di una “forma universale”, nella quale la “determinazione singolare” viene tacitata.  Tale atteggiamento gnoseologico è conseguenza di una lettura consolidata della logica aristotelica, della quale è stata valorizzata la dimensione dianoetica a scapito di quella noetica.
  • ...
  • Guido Calogero, tra i pochi, si è distinto da tale esegesi dell’aristotelismo nelle opere da lui dedicate alla logica antica. Secondo l’illustre studioso, nota Donà: «la logica aristotelica sarebbe caratterizzata da un’originaria tensione; da un lato […] vi sarebbe il piano dianoetico, atto a concepire  l’attività del pensiero in termini di sdoppiamento predicativo […] dall’altro […] la posizione noetica, fondata sull’unità dell’intuizione intellettuale» (p. 19).  È quest’ultima a risultare fondativa in Aristotele, in quanto centrata sul principio di determinazione. Per tale ragione, i principi di contraddizione e del terzo escluso, propri della logica dianoetica: «si giustificano, al loro livello più profondo, sempre e solamente in base al motivo della determinazione oggettiva del reale di fronte al pensiero» (p. 20). Giudizi e sillogismi, insomma, acquisiscono senso solo nel loro riferirsi alla determinazione noetica. È l’unità appercettiva a connotare di sé la logica dianoetica, in quanto l’attività del Nous è intuizione intellettuale.  La singolarità della “cosa” va affermata “senza sì e senza no”: essa rinvia all’indeterminato come la forma, in Carlo Diano, dice di fatto l’evento: «Da cui una dialettica necessariamente aporetica di “determinato” e “indeterminato”» (p. 22).
  • ...
  • La dianoia implica un’alterazione soggettiva del reale, poiché fa aggio sull’universale, sul concetto e rende, così, determinato e indeterminato due diversi, due “altri” che si escludono. Il limite della singolarità rinvia, certo, a un altro da sé, ma mai a “un questo o a un quello”: «Si tratta di andare oltre ma […] non al di là della determinatezza» (p. 25). Non vi è, infatti, nessun altro, chiosa Donà, in quanto il determinato è tale solo “negandosi”. Il singolare rinvia, senza che si riesca mai a indicarla compiutamente, a una totalità che non ha, si badi, senso meramente quantitativo. In tale prospettiva, la logica noetica può essere intesa certamente come nuova, almeno rispetto alle esegesi scolastiche dell’aristotelismo. Essa rinvia: «a un immaginato oltre il sentito, a un non-ente oltre l’ente» (p. 28), si realizza nell’ atto pratico e può  applicarsi all’affermazione, quanto alla negazione del principium firmissimum. Calogero, rileva Donà, ha compreso che lo stesso Hegel non avrebbe avuto cognizione della «determinazione unitaria del singolo noema» (p. 32), anche se nel suo sistema la tensione delle due logiche è pur vigente. Quel che nel mondo è presente “è e non è” la realtà, in quanto l’oggetto della visione basta a se stesso ma è bisognevole del suo opposto. La posizione di Calogero è maturata in un confronto con l’attualismo, il cui errore capitale sarebbe consistito nella distinzione di logo concreto e logo astratto, mutata dal primato moderno assegnato al cogito cartesiano. In tale visione non c’è memoria del fatto che il logo concreto era presente nello Stagirita. Infatti: «la dianoia […] non è altro che la complicazione linguistica e accidentale della verità del nous» (p. 40). Non casualmente, nel IV libro della Metafisica solo la pianta, incapace di linguaggio argomentativo, avrebbe potuto, con il suo silenzio, mostrare l’aporeticità del principium firmissimum. In tal senso, ciò che si dà nell’appercezione è qualcosa: «che non si contrappone “a”» (p. 43). Calogero mostra che la non-contraddizione è fondata su una struttura aporetica, per la quale determinato e indeterminato non sono il distinguersi che da essi viene a prodursi: «Quando scopriamo questo ab-grund inscritto all’interno del principium firmissimum, scopriamo una dimensione rigorosamente libera dalle catene del sì e del no» (p. 46).
  • ...
  • Carmelo Meazza nel saggio,  La scena dell’ il y a, si sofferma sulla relazione tra io e pensiero. La scena dell’io penso, nella sua analisi, risulta molto più animata di quanto previsto dall’ego cogito cartesiano: «Un penso che abbraccia l’io lo ha già risolto nell’affezione di sé, nell’affezione con cui il pensare sembra toccarsi nel pensare stesso» e ancora: «L’io è il soggetto di un pensiero che si pensa, autopensa, pensando» (p. 65). Tale posizione ha indotto, in particolare nel neo-idealismo, a sostenere che nella visione del pensiero resta sempre sullo sfondo la dimensione dell’impensabile: «Il pensiero si ritrova impensabile nel suo atto pensante» (p. 67). Per rintracciare un nuovo nesso tra l’impensabile e il pensiero è necessario far conto sulla distinzione tra l’ “io del penso” e il “soggetto del pensare”: «L’io del penso è ciò che il soggetto del pensare non pensa» (p. 69).
  • ...
  • La sospensione dell’ io dal soggetto del pensiero è l’appercezione: «quell’avvertire immanente a ogni avvertirsi per il quale esso trova la sua misura immanente» (p. 69). L’appercezione è qui letta quale flessione interna dell’ “avvertirsi”. Il pensiero giunge come un es gibt, sorge dal niente, incapace di risalire al suo inizio. Ciò avviene in quanto il già lì o il y a non ha inizio. La scena dell’ il y a appercettiva: «non si riduce a una modalità riflessiva, ad una riflessione di riflessione» (p. 71) e quel già lì non è però neppure un immediato.  Con la Sache selbst (la Cosa stessa) di Hegel, ricorda Meazza: «La figura soggettiva deve lasciare il posto a un puro stare a vedere […] il soggetto del penso […] deve lasciare il posto a un sguardo che lascia accadere» (p. 73).
  • ...
  • Nella scena-metafora appercettiva dell’il y a, suggerisce Meazza, è inscritta la dimensione della datità. Da un lato, un soggetto che testimonia come io il reale, assieme a un oggetto che si mostra con i tratti del dato a qualsivoglia interprete. Meazza riscrive i rapporti teorici che, finora, hanno opposto, in modalità unilaterale, idealismo e realismo, confrontandosi con il pensiero di Calogero, esponente dell’ Italian Thought.

  • Pitagora xxx

  • Paul Kucharski, 
  •   TETRADE  PITAGORICA  E  TRADIZIONE 
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • Il volume di Paul Kucharski, Studio sulla dottrina pitagorica della Tetrade, nelle librerie per Mimesis (per ordini: mimesis@mimesisedizioni.it, 02/24861657, pp. 335, euro 24,00) è un libro decisivo per comprendere appieno i fondamenti del pitagorismo e il suo stretto legame con la Tradizione. Il volume in questione è composito: raccoglie, oltre allo scritto in questione, il testo di Armand Delatte del 1915, La tetraktys pitagorica, un saggio, ampio e chiarificatore del curatore Moreno Neri, oltre allo scritto, firmato da Stefano Balli, La musicalità della tetractide e alla postfazione di Maurizio Pagella.
  • ...
  • Lo studio di Kucharski uscì, per la prima volta, nel 1952. In esso, lo studioso muove da una testimonianza di Aristotele al fine di riscoprire le fonti della dottrina della tetrade, spiegandone  il profondo significato. Mostra particolare attenzione per quelle testimonianze tarde che hanno permesso la trasmissione del nucleo originario del pitagorismo. In particolare, si occupa di Teone di Smirne al fine di rilevare il tratto “genetico” proprio dei numeri che, per Pitagora, rappresentavano l’arché.
  • ...
  • Neri, nel suo scritto, dirime ogni dubbio in merito alla Tetraktys, evidenziando una conoscenza non comune nel campo della simbolica, sostanziata da rara erudizione. Spiega, preliminarmente, che l’aritmo-geometria pitagorica è cosa altra dalle matematiche quantitative moderne. Le sue verità erano intuitive e non deduttive: «Le figure della geometria e dell’aritmetica pitagoriche, immutate, assumevano il compito di rappresentare l’invarianza nel cambiamento» (p. 152), rinviavano all’essere che si dà nel divenire.  La Tetraktys è paradigma per eccellenza di tali numeri “figurati”. Essa consiste nei primi quattro numeri interi sistemati in un triangolo di dieci punti: «La Tetraktys è un modo di disporre dieci punti […] nella forma di un triangolo equilatero» (p. 152). Nei Versi aurei veniva raccomandato agli adepti di giurare sulla sacra Tetrade, in quanto essa rappresentava l’intera natura del cosmo sotto forma, come avviene nella stessa scala musicale, di un’immagine differenziata dell’unità. Tale simbolo, muove dall’uno e, attraverso quattro livelli di manifestazione, torna, al termine del processo ipostatico, all’origine rappresentata dal numero dieci. In geometria l’Uno rappresenta il punto, Due la linea, Tre la superficie, Quattro la prima forma tridimensionale, il tetraedro. Per questo, la Tetraktys: «rappresenta la continuità che collega il punto senza dimensione con la manifestazione del primo corpo solido» (p. 158).
  • ...
  • Questo simbolo, macrocosmico e microcosmico in uno, contiene in sé la catena dimensionale di unità-lunghezza-larghezza-profondità. Ogni numero-figura che la costituisce corrisponde ad una data virtù. Kucharski e Neri ribadiscono che l’uno, l’incausato e senza tempo, crea il Due, la prima specificazione, attraverso un suo riflesso Tale tesi è presente in tutte le tradizioni: Neri fa specifico riferimento a molte di esse, con pertinenza argomentativa. Si sofferma, in particolare, sul Taoismo e l’I King. Nella tradizione cinese risulta evidente che, come nel pitagorismo, dalla monade procede l’indefinita diade che ha i tratti metafisici dello yang e dello yin. Questi principi corrispondono all’endiadi Limite-Illimitato presente nel pitagorismo e nella filosofia classica, in particolare in Platone. Medesima prospettiva è stata preservata nella tradizione massonica, ricorda il curatore. In tale prospettiva, che individua quale arché il numero, consente di evincere che anche nel cosmo e nell’uomo, è in atto la polarità di pari (illimitato) e impari (limitato). La loro interazione produce armonia (tre) che dà luogo al fluire ordinato dell’universo. Ecco, quindi, il tratto prevalente del mondo manifestato (quattro), costituito dagli stoicheia. Nel manifestato, per i Greci, il peras aveva tratto positivo, negativo l’apeiron.
  • ...
  • A questo punto della trattazione, il curatore chiarisce la corrispondenza sussistente tra il simbolo della Tetraktys e quello della croce in movimento, lo swastika, variante del punto circoscritto in una circonferenza: «Nella Tradizione il valore numerico di un centro o Punto è uno e quello della circonferenza è nove, che simboleggia la totalità degli stati della manifestazione; tale simbolismo suggerisce l’ipotesi che la Decade rappresenti la perfezione relativa allo spazio-tempo circolare […] l’immanenza divina» (p. 173). Non è casuale che Giordano Bruno abbia guardato con interesse alla Tetrade, nel momento in cui comprese che il principio si mostra nel molteplice in termini di quadruplicità. Il riemergere del simbolo pitagorico è analizzato, in queste pagine, in ogni suo aspetto, in un’esegesi nella quale nulla è trascurato.
  • ...
  • I tradizionalisti del Novecento, in particolare Reghini e la sua scuola, guardarono alla antichissima Sapienza italico-pitagorica quale patrimonio da riattualizzare. La Tetraktys, infatti, come: «struttura archetipica trova anche il suo riflesso e la sua incarnazione nelle forme di governo: al primo posto troviamo l’aristocrazia (da intendersi in senso tradizionale)» (p. 217). Per superare il nosos moderno è, pertanto, necessario guardare al senso profondo del pitagorismo e della Tetrade. Nel volume in questione, Balli si occupa della musica pitagorica. Lo studioso chiarisce come musica e cosmo siano per i pitagorici in stretta relazione: «La musica manifesta le leggi matematiche che reggono il cosmo. Si comincia dall’unità per giungere alla totalità […] e viceversa all’unità si ritorna» (p. 260). La musica è scienza della dinamica relazionale dei numeri. L’armonia, in quanto accordo degli opposti, è tale in ambito cosmico quanto in quello musicale. Il suono, inoltre, è rapporto numerico: «a Pitagora si deve la formulazione della “sinfonia”, ovvero “consonanza”, degli intervalli di quarta e ottava» (p. 260). Per i pitagorici il coro delle Muse: «compone l’armonia del cosmo e annuncia i precetti divini» (p. 265), mentre Apollo, dio musico, purifica l’uomo e muove i cieli generando la sinfonia delle sfere celesti. Pitagora seppe udire il suono originario. La Tetraktys è icona dell’Uno-Tutto.
  • ...
  • Studio sulla dottrina pitagorica della Tetrade è libro, per questo, da meditare. Le sue pagine rinviano a un’immagine del mondo che, probabilmente, è stata scartata dalla cultura oggi dominante ma, si badi, essa è sempre vigente nel tempo.