"Scuola Romana di Filosofia politica"

è diretta da

Giovanni Sessa

La S.R.F.P. fondata, a suo tempo, da Gian Franco Lami ed Emiliano Di Terlizzi, docenti alla “Sapienza”, è oggi un forum critico di filosofia e metapolitica.

  • TEOLOGIA POLITICA E DIRITTO

  • Geminello Preterossi
  • Teologia politica e diritto
  • (Editori Laterza Bari 2012, pp. 295, € 25,00).
  • rec. di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • L’espressione “teologia politica” è polisensa. Di solito denota l’influenza della religione nell’ordinamento delle comunità umane; in altri casi la corrispondenza tra rappresentazione dell’ordine metafisico-teologico e quello politico; in altri quello della somiglianza tra concetti della teologia con quelli del diritto pubblico. Il tutto in un’epoca in cui la secolarizzazione appare compiuta, il cielo si è eclissato ed ha lasciato la terra, onde parlare di teologia politica sembra un’attività di archeologia culturale.
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  • L’autore ritiene invece che: “La tesi fondamentale di questo libro è che la teologia politica sia inestinguibile. Anche al tempo della sua negazione, qual è quello presente. L’obiettivo che ci proponiamo è di scavare dentro questa insuperabilità. Sia facendone la genealogia, in modo da illuminare il nucleo teologico-politico della modernità e la costante riemersione di domande di senso in ambito secolare. Sia evidenziando le forme rovesciate che la teologia politica assume nel contesto ideologico neoliberale, cioè come teologia economica e teologia giuridica”. Al posto della teologia politica appaiono quindi quelle economica e giuridica “Ma interpretare quella crisi come tramonto o scomparsa sarebbe ingenuo. Piuttosto, con la teologia economica e quella giuridica si assiste alla riproposizione in forme rovesciate, spesso ostili al primato del “politico”, dei problemi di legittimazione e delle esigenze ordinative che sono alla base del nucleo teologico-politico moderno e del suo lascito paradossale”.
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  • Per teologia economica (il termine è anch’esso polisenso) Preterossi intende in primo luogo “una proposta ermeneutica sul neoliberalismo che non si limiti a sottolinearne gli aspetti ideologici e le conseguenze sociali, ma individui in esso un paradigma di razionalità e di governo basato su altre logiche (e altri “assoluti”) rispetto alla costellazione di senso propria della trascendenza politica sovrana”: il tutto senza alcuna trascendenza (almeno apparentemente). Mentre con la formula “teologia giuridica” si intende sottolineare la tendenza alla moralizzazione della normativa giuridica”. Come la teologica economica è rivolta contro la sovranità degli Stati, ma, non è riuscita ad eliminare quello che Miglio chiamava “regolarità della politica” e, in un diverso discorso, Freund “i presupposti del politico”, e ancor meno le situazioni eccezionali. Che anzi si sono ripresentate in modi (la pandemia) e in teatri (la guerra in Europa) dove sembravano estinte. Segno che i quattro cavalieri dell’apocalisse non sono stati pensionati dalla “fine della storia”. L’inconveniente fondamentale del neo-liberalismo è di andare “in direzione di un modello di società che escluda qualsiasi dimensione di trascendimento simbolico del piano di immanenza… non solo non riesce più a fare ordine, ma per arginare illusoriamente tale ingovernabilità si finisce per revocare… tutti gli elementi costitutivi del “politico”, senza tuttavia la possibilità di istituzionalizzarli, renderli produttivi, travolgendo così anche la funzione della mediazione giuridica e sociale”. Guerra e stati d’eccezione (da anni nell’occidente globalista viviamo per lo più tra l’uno e l’altra) mostrano come “tutti i tentativi di aggirare o rimuovere la teologia politica ne subiscono la nemesi, pagando il prezzo della mancata assunzione delle sfide alle quali essa corrispondeva. Così che, in un quadro disarmante di inefficienza ordinativa, si finisce per replicarla surrettiziamente in forme compensative e politicamente inefficaci”. In effetti caratteristica della modernità “grazie a una serie di passaggi che siamo abituati a denominare “secolarizzazione”, (e che) la politica e la mediazione giuridica si sostituiscono alla religione come forza coesiva mondana. Ma non si tratta di una liberazione del religioso, cioè delle aspettative che in esso erano riposte. Quella sostituzione carica la politica della funzione simbolica istitutiva che era stata propria della religione”, e produttiva di coesione sociale perché esercita la funzione di mediare e decidere i conflitti. Per cui il riemergere del “politico” (e del teologico-politico) ai tempi dell’anti politica, ne prova l’insostituibilità.
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  • La stessa “teologia economica” neoliberale “ è una teologia politica “anti-politica” perché fa dell’immanenza un assoluto, Cioè una forma di trascendenza sacrale che nega se stessa. Infatti il neoliberalismo non è, se si guarda alla sua logica profonda, solo una teoria “economica”, ma una filosofia della spoliticizzazione dell’agire umano”. Analogamente la sua opposizione dialettica, ossia il “populismo”, non rinuncia al “fondo” teologico. Scrive l’autore che “”Ne deriva che o c’è dio o c’è il popolo: nelle società secolarizzate, è inevitabile che la fonte sia quest’ultimo. Il popolo prende il posto di dio come soggetto costituente. Il populismo, evocando il popolo, si ricollegata a questo passaggio decisivo della tradizione democratica moderna, che è un passaggio teologico-politico in senso schmittiano, quindi come sostituzione di una “trascendenza politica” moderna, emergente sul piano dell’immanenza a una trascendenza sacrale, in sé “trascendente””.
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  • Preterossi conclude sostenendo (cosa ormai evidente) che la “teologia economica” alla lunga, non ha funzionato: al deficit di eccedenza politica non ha sostituito alcun surplus ordinante “Ciò ha causato una profonda crisi di legittimazione”, né ha suscitato legami comunitari. La “teologia giuridica” neppure: la tesi dell’autore è che “la saldatura di un diritto sempre meno preoccupato dell’effettività e della certezza con la morale neoliberale sia non solo il segno di una generale crisi del “giuridico”, ma allo stesso tempo il tentativo, disperato e fallimentare, di individuare una sfera legale eticamente immunizzata, che compensi la perdita di auctoritas delle istituzioni e l’inaridimento della sfera pubblica”. La teologia politica è così inestinguibile “in quanto esprime la struttura di fondo della metafisica politica moderna… L’unico modo per tenerla sotto controllo è riconoscerla, non contrapporvisi direttamente, o negarla. Se, come credo, la modernità può essere concepita come una forma di “auto-trascendenza dell’immanenza”, ciò significa che la teologia politica è un movimento interno alla modernità secolare”. Non è necessario che il fondamento sia di natura religiosa “Può essere anche di natura etico-politica, ideale (nella modernità matura è stato prevalentemente tale). Ma il punto è che il “contenuto etico” non può risolversi in compensazione soggettivistica, moralistica del vuoto d’identità collettiva”. Così “La teologia politica si ripropone oggi nella forma del simulacro. Non produce risposte politiche, ma surrogati di verticalità e di sicurezza”.
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  • Resta il dubbio se vi siano forme di soggettività politica collocabili “oltre” la teologia politica, che l’autore ritiene auspicabili... “di visioni politiche ambiziose, che non temano di confrontarsi con le “cose ultime”, abbiamo bisogno. La politica come amministrazione va bene, forse, per tempi tranquilli. Non quando lo spirito torna a calzare gli stivali delle sette leghe”
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  • Un saggio assai interessante ed esauriente, nel solco pensiero di Hobbes, Hegel e Schmitt.  Una notazione del recensore ad un libro così articolato e del quale ho cercato di rendere l’essenziale.  È noto che a partire da de Bonald, continuando per Donoso Cortes e arrivando a Maurice Hauriou la correlazione tra concezioni teologiche e forme politiche (non solo statali) è stato variamente affermato. Così per de Bonald il deismo era la concezione teologica sottesa al costituzionalismo liberale (il re che regna ma non governa), il teismo cattolico allo Stato assoluto; per Donoso Cortes il nocciolo del liberalismo era sempre deista, quello del socialismo ateo. Per Maurice Hauriou lo stato borghese era uno dei possibili esiti della dottrina teologica del diritto divino provvidenziale, mentre lo Stato assoluto lo era del diritto divino soprannaturale; il decano di Tolosa riteneva anche come questo fosse un intervento (intervention) della metafisica sul diritto. Il quale ricopre come un guscio (couche) il fondo (fond) teologico, ma non può sfuggire a questa costante (o regolarità). La quale si manifesta chiaramente quando il diritto viene a mancare, come nel caso dei governi di fatto, fondati sulla “giustificazione teologica” e non sulla legalità delle procedure. Il fond teologico è così creatore di forme giuridiche. Resta da vedere quali forme possa creare il “pilota automatico” (versione tecnocratica della “mano invisibile”) tecno-globalista. Probabilmente nessuna (se coerente); ove apocrifo (e ipocrita) la consegna del destino delle comunità a poteri indiretti ed opachi. Colla prospettiva di avere un governo né visibile né responsabile.

  • SEMPRE PIÚ FITTA...
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Qualche lettore ricorderà che nei primi tempi della guerra in Ucraina notavo che la clausewitziana “nebbia della guerra” era particolarmente densa e fuorviante perché alimentata a piene mani da una comunicazione tutt’altro che imparziale, informata ed esperta: con risultati spesso sconcertanti, a cominciare dal piano logico.
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  • In occasione della controffensiva ucraina si è raggiunto un apice della (cattiva) informazione. Vediamo perché:
  1. a) in primo luogo della controffensiva sappiamo tutto leggendo il giornale o guardando la televisione: luogo (Dombass); entità delle forze ucraine (8 brigate in addestramento); tempo (imminente – ma rimandato già più volte nella sua imminenza perdurante); esiti politici (la caduta di Putin) e così via, vagamente precisando.
  • Ora la nebbia clausewitziana è frutto sia della natura della guerra che delle misure dei comandanti, tutte volte a non far capire al nemico i propri piani e obiettivi. Perché, a conoscerli, è facile prendere le contromisure. Non occorre aver fatto la scuola di guerra: basta ricordare l’Aida, quando Amonasro cerca di carpire, tramite la figlia, i piani di Radames. Nella storia militare vi sono poi dei casi clamorosi di “depistaggio” fornendo false (ma credibili) informazioni. Uno dei quali - così noto che ci è stato realizzato un film – consistente nel confondere i tedeschi sul luogo dove sarebbe avvenuto lo sbarco degli alleati nel 1944. I servizi inglesi lo prepararono così accuratamente da trarre in inganno – anche a sbarco avvenuto in Normandia – Hitler, convinto che ce ne sarebbe stato un secondo a Calais.
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  • La conseguenza logica non è solo che se uno dei contendenti ti dice che attaccherà a Charkiv invece che a Kiev, sicuramente non attaccherà Charkiv, probabilmente neppure Kiev, ma da un’altra parte, dove meno è atteso; ma anche che le informazioni più credibili sono quelle che non sono diffuse. I (falsi) piani dello sbarco in Francia furono messi dagli 007 inglesi sul cadavere di un ufficiale britannico fatto ritrovare agli spagnoli (e quindi dai tedeschi), e non pubblicati sul Times; se li avesse letti sul giornale, Hitler avrebbe creduto ad un espediente dell’Intelligence Service.
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  • C’è da chiedersi per quale ragione la comunicazione mainstream è così lontana da una rappresentazione credibile (e coerente) della situazione. Perché se le notizie fuorvianti sono fornite - come in gran parte sono – dagli uffici dei belligeranti (e dei loro alleati) sarebbe il caso di citarne la fonte (almeno) e, in certi casi di scrivere due righe di commento. Cosa che qualche rara volta avviene, ma quasi sempre no. Escluso che tali mezzi possano trarre in inganno il nemico, per la loro disarmante ingenuità, occorre individuare altri obiettivi.
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  • Un analista attento come Pietro Baroni definisce la “guerra psicologica” come “L’insieme delle operazioni, delle azioni, delle iniziative tendenti a conseguire l’obiettivo di assumere e mantenere il controllo di grandi strati di masse e di pilotarne le opinioni, i giudizi e le conseguenti manifestazioni, agendo sulla ricettività istintiva, sull’emotività e sul processo formativo delle valutazioni”. Nel caso gli obiettivi non sono Putin o Zelensky, ma l’opinione pubblica, occidentale soprattutto. Dalla quale occorre far approvare le misure a favore dell’Ucraina, in modo da attenuare l’onere dei sacrifici e dei rischi che comportano. A tal fine è necessario rappresentare la situazione bellica in modo conforme agli scopi da raggiungere.
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  • E il divario tra ciò che è e ciò che si rappresenta è l’inganno e la simulazione occorrente.

  • Crimini monetari
  • Galloni

  • Crimini monetari ed economia circolare
  • Due studi di
  • Alexander Del Mar e di Antonino Galloni
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
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  • Due pubblicazioni, apparse di recente in libreria, riportano l’attenzione su tematiche economiche di stringente attualità, il “denaro equo” e la necessità di superare il capitalismo in un’economia di tipo circolare.  Il primo tema è ampiamente discusso nel volume di Alexander Del Mar, Storia dei crimini monetari, edito da Mimesis per la cura di Luca Gallesi (per ordini: 02/21100089, mimesis@mimesisedizioni.it, pp.134, euro 12,00).  Il secondo è pietra angolare delle riflessioni che Antonino Galloni, economista allievo di Federico Caffè, sviluppa in, I nuovi Spartani. Superamento del capitalismo, moneta non a debito, economia circolare, pubblicato da Oaks (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 223, euro 18,00), con introduzione di Giacomo Maria Prati.   Partiamo dal primo volume.
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  • Come ricorda il curatore nell’ampia ed esaustiva introduzione, Alexander Del Mar, ingegnere minerario nato a New York nel 1836, si formò accademicamente in Gran Bretagna e successivamente a Madrid.  Seppe tessere una serie di relazioni con il mondo editoriale statunitense che, al suo ritorno in patria, gli permisero di fondare un prestigioso periodico di studi economici, The New York Social Science Review.  Ricoprì importanti incarichi governativi: rappresentò il proprio paese al Congresso internazionale di Torino del 1866 e, successivamente, al Congresso internazionale di Statistica tenutosi a San Pietroburgo.  Fu un economista “eretico” e pertanto, le sue tesi furono accettate tardivamente dall’accademia “economicamente corretta”, in particolare per quanto attiene alle politiche monetarie.  La sua produzione libraria, davvero sterminata, ha nutrito comunque il mondo ideale di esponenti di primo piano della cultura, tra essi, il poeta, altrettanto “eretico” in ambito economico-politico, Ezra Pound.
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  • Del Mar non condivise l’idea, tipicamente liberista, del denaro: «il cui valore, determinato dalla quantità di metallo prezioso di cui era costituito, doveva […] essere messo in relazione con il meccanismo di domanda-offerta», ricorda Gallesi (p. 8).  Tesi errata, perché non tiene in debito conto che il denaro ha, certo, valore in sé, ma determina il valore delle altre merci.  Inoltre, dopo l’introduzione della moneta cartacea, per non dire di quella elettronica: «non si sarebbe più potuto attribuire al denaro un valore intrinseco» (p. 9).  Del Mar è fermamente convinto che solo all’autorità politica spetti il compito di stabilire il valore della moneta e di garantirne la circolazione.  Tale posizione emerge, con tutta evidenza, nel libro di cui discutiamo.  Le argomentazioni dello studioso prendono avvio dalla presentazione della figura di Barbara Villiers, amante di Carlo II, re chiamato a restaurare la monarchia inglese dopo la repubblica di Cromwell.  Alla donna, il sovrano concesse di usufruire delle rendite del signoraggio: da lei i nuovi potenti, orafi e banchieri, ottennero il privilegio dell’emissione di denaro che, fino ad allora, era stata prerogativa della corona.
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  • L’economista presenta la lunga e terribile storia dei “crimini monetari” dovuti alla privatizzazione della facoltà di coniare moneta.  Pound riteneva che momento dirimente lungo tale strada fosse da individuarsi nella fondazione della Banca d’Inghilterra (1694), Del Mar, lo si è visto, lo rintraccia negli anni a cavallo tra Cromwell e la restaurazione monarchica.  Con Storia dei crimini monetari, Del Mar contribuì a fornire una base teorica al movimento politico populista statunitense.  Del resto, alle origini della rivolta anti inglese dei cittadini delle colonie americane al termine del Settecento, vi fu la protesta contro l’imposizione alla Pennsylvania di non stampare la propria carta moneta.  La lotta politica per una “moneta equa” ebbe un momento di impasse con il “Crimine del 1873”, vale a dire con l’introduzione della: «legge che sospende (sospese) ufficialmente la coniazione del dollaro d’argento» (p. 14).  In seguito, durante la crisi che investì gli USA nel 1893, si capì quale fosse ormai la situazione in quel paese: «Da un lato stanno gli interessi […] del denaro, della ricchezza concentrata e del capitale arrogante e spietato […] dall’altro le moltitudini», parole del candidato alla Presidenza Bryan.  Tale contesto da allora non è cambiato, al contrario è divenuto il paradigma sul quale è stato costruito il mondo occidentale!  Il libro di Del Mar fornisce strumenti per comprendere il presente e pensare a un futuro alternativo, in cui l’elemento Lavoro dovrà finalmente prevalere sul dominio indiscusso dell’Oro.
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  • Prospettiva non dissimile anima le pagine de, I nuovi Spartani di Galloni, studioso che, dell’economia “eretica”, è oggi uno dei massimi interpreti.  L’autore traccia, nella prima parte del volume, una mappatura delle cause che, a partire dagli anni Venti del secolo scorso, hanno messo in atto una progressiva trasformazione del capitalismo. Si sofferma, in particolare, su quanto accaduto in ambito economico-produttivo, a muovere dagli anni Quaranta ai Settanta.  Rintraccia nei processi metamorfici che hanno portato all’affermazione del capitalismo cognitivo, un dato inequivocabile: «i contorni di una prospettiva non più eludibile che riguarda il superamento del capitalismo» (p. 15).  Si intrattiene, in questa prospettiva, sul ruolo svolto dagli ecologismi “sistemici” nel reset mondiale in atto, per passare ad occuparsi, nella seconda parte del libro, di temi quali l’inflazione, il debito pubblico e privato e lo squilibrio economico indotto da tali fattori. Infine, nella terza parte del saggio, si interroga attorno a un possibile modello economico alternativo, essenzialmente centrato sulla circolarità.
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  • Come riconosce Prati nell’introduzione: «La prima “sostenibilità”, ci insegna il nostro autore, è data da un’economia che non sia solo fondata sul valore del guadagno facile […] e sull’idea di una finanza/denaro fine a sé stesso, artificiale, alienato, alienante» (p. 13).  Ciò spiega il riferimento a Sparta.  Nella città greca la moneta era costituita da semplici pezzi di ferro: «perché il denaro non divenisse troppo importante […] perché si riducesse il rischio di una sua accumulazione patologica» (p. 11).  La moneta doveva avere esclusiva circolarità sociale, comunitaria, irrorare la città come il sangue il corpo e, per questo, la coniazione era prerogativa dello Stato, politica.  Sparta fu uno Stato-Comunità centrato sull’educazione, in cui anche le donne avevano un ruolo significativo.  Gli Spartani sapevano che l’economia è espressione di una Cultura, di una visione del mondo e, proprio per questo, avevano contezza che: «L’economia non può fondarsi sull’economia» (p. 13).   Pagine di grande attualità, da meditare.

  • Steiner

  • Steiner e la Massoneria
  • La Mystica Aeterna
  • in un saggio di
  • Fabrizio Fiorini
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • Rudolf Steiner è personaggio di rilievo dell’esoterismo primo novecentesco, ma la rilevanza della sua opera va ben oltre i confini dell’occultismo. Il padre dell’antroposofia è teorico della filosofia della libertà, i cui assunti meriterebbero una seria valutazione anche in ambito filosofico. Un recente volume di Fabrizio Fiorini, comparso nel catalogo di Mimesis con presentazione di Claudio Bonvecchio, riporta l’attenzione sull’austriaco (anche se nato in una cittadina che oggi si trova in Croazia). Ci riferiamo a, Rudolf Steiner e la Massoneria. La Mystica Aeterna (per ordini: mimesis@mimesisedizioni.it, pp. 326, euro 26,00). Il libro nel primo capitolo presenta una ricostruzione, organica, documentata e appassionata della personalità spirituale e intellettuale del “Maestro dei Nuovi Tempi”, come ebbe a definirlo Scaligero. Egli, precisa Fiorini: «ha vissuto da uomo […] si è laureato, ha divorziato, si è risposato. Fiutava e masticava tabacco e all’occorrenza non disdegnava la buona tavola» (p. 25). Lontano da eccessi di qualsivoglia natura, non avrebbe di certo apprezzato atteggiamenti idolatrici nei suoi confronti, propri di sedicenti discepoli, né, tantomeno, la sua “divinizzazione”.
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  • Dalla lettura del testo si evince che Steiner, pur provenendo dalla Società Teosofica, della quale aveva apprezzato la funzione di mediazione spirituale tra Oriente ed Occidente, era raffinato e profondo conoscitore della Philosophia perennis, acuto interprete della mistica sveva, dell’alchimia e, soprattutto, del rosicrucianesimo. Una volta compresi i limiti, teorici e realizzativi, del teosofismo, diede vita all’Antroposofia. La sua filosofia della libertà, memore degli insegnamenti di Fichte e di Goethe, suggerisce una via atta a svincolare il pensiero dai condizionamenti sensibili, al fine di realizzare una Scienza che, proprio come la filosofia della natura di Goethe, della quale l’austriaco realizzò una significativa esegesi, fosse in grado di cogliere la coincidentia oppositorum. Lungo tale itinerario egli comprese che la dimensione noumenica e quella fenomenica si danno in uno, nella natura intesa quale “scrittura divina”. Ricorda Bonvecchio che l’experimentum crucis, per chi si ponga sulla Via, deve essere individuato nel superamento della “soglia” conoscitiva centrata, in primis, sulla distinzione di soggetto e oggetto e, in seconda battuta, di uomo e divino. Attraverso la pubblicazione di una serie di conferenze di Steiner, tradotte da Mark Willan e tratte dal volume n. 93 dell’Opera Omnia, alcune inedite in italiano, Fiorini chiarisce, una volta per tutte, l’appartenenza del pensatore austriaco alla Massoneria.
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  • Tale appartenenza fu ammessa dallo stesso esoterista nell’autobiografia e nell’Opera omnia n. 265. Steiner, di fatto, guardava con estremo interesse alla Massoneria “operativa”, non a quella divenuta in età moderna meramente “speculativa”. Per questa ragione, fu sempre diffidente nei confronti della Libera Muratoria anglosassone, creando il “Servizio di Misraim”, detto Mystica Aeterna, all’interno della Massoneria Egizia, Ordine di Memphis e Misraim, di cui era a capo John Yarker, Ordine in Germania retto da Theodore Reuss. La Mystica Aeterna si rese totalmente indipendente da tali organizzazioni a partire dal 1914. Essa sopravvisse a Steiner, grazie alla sagace azione del suo fedele discepolo Alexander von Bernus, noto medico “spagirico”, animato da spirito filantropico. La Mystica restò sempre separata dalla Società Antroposofica, della quale lo stesso von Bernus, per suggerimento di Steiner, non entrò a far parte. A dire dell’antroposofo, l’Ordine di Misraim aveva preservato rilevanti segreti iniziatici, in quanto la Massoneria Egizia era stata fondata dal principe di Sansevero, Raimondo di Sangro. Questi fu, a sua volta, iniziato dal conte di Saint-Germain, connesso con entità indicate con l’appellativo Hiram Abiff. Tale entità, nel 1910, a dire di Steiner, era incarnata in un corpo fisico! Per questo, egli: «desiderava immettere nell’Istituzione Massonica dei germi rivitalizzanti che ne promuovessero uno sviluppo essenzialmente in senso spirituale e trascendente» (p. 24), cosa già tentata, a suo tempo, da Cagliostro. Steiner invitava a studiare la spiritualità egizia, in quanto: «l’attuale periodo di civiltà […] sarebbe una sorta di ripetizione del III periodo post-atlantico (egizio-caldaico-babilonese)» (p. 26).
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  • Massoneria e Antroposofia, per Fiorini sono Sistemi sinergici e: «convergenti verso un unico punto: l’elevazione intellettuale, morale e spirituale dell’essere umano e l’Una può potenziare l’Altra» (p. 27). Alla Mystrica Aeterna furono ammesse anche le donne e ciò in forza del fatto che la Libera Muratoria cui guardava Steiner era Rosicruciana, atta a realizzare la: «la riunificazione tra impulso abelita-sacerdotale-femminile e impulso cainita-scientifico-maschile […] armonica fusione dei tre pilastri della Saggezza […] Bellezza […] e Forza» (p. 82). Per tali motivazioni, un esoterista e scrittore di vaglia quale Gustav Meyrink si avvicinò alla Mystica aeterna. Al contrario, essa non ebbe nulla a che fare con la magia sexualis di Aleister Crowley. Tale sodalizio iniziatico è articolato: «in nove gradi consecutivi dove la conoscenza superiore viene progressivamente trasmessa» (p. 92). I primi tre gradi fanno realizzare all’adepto la conoscenza immaginativa. I gradi 4,5,6 mettono in atto il conoscere “ispirativo”, mentre gli ultimi tre consentono il pieno sviluppo della coscienza intuitiva. L’autore, inoltre, fa rilevare i nessi che legherebbero in uno la Massoneria, il Martinismo e l’Antroposofia, mentre si sofferma su alcuni dei momenti più rilevanti del proprio iter spirituale, tra gli altri il rapporto diretto con Massimo Scaligero. Da Scaligero, nato a Veroli come l’autore del volume, questi ha appreso l’importanza della pratica e della Concentrazione.
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  • In una prima fase, racconta, è necessario prendere coscienza del respiro: ciò induce un generale rilassamento. Successivamente, ci si concentra su oggetti, non sensibilmente rappresentati, ma evocati immaginalmente, così da allontanare qualsiasi altro pensiero. In terza battuta, si evoca la Forza-Pensiero, il pensiero nell’atto che precede la sua definizione, accompagnato da fermezza interiore. Solo con la quarta fase si giunge al silenzio mentale, simbolo del silenzio dell’origine. In queste pagine, Fiorini chiarisce la missione di Steiner.
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  • A chi scrive non è possibile condividere in toto ciò che l’antroposofo ha sostenuto: diversi sono i nostri riferimenti culturali e spirituali.  Per noi è la misteriosofia ellenica a rappresentare il paradigma cui rivolgersi. Pensiamo che la libertà-potenza sia principio-infondato della physis, come sapeva l’Evola idealista magico. Nonostante ciò, Rudolf Steiner e la Massoneria, è libro da leggere, lo consigliamo vivamente.

  • Susanetti

  • L’altrove della tragedia greca
  • Un saggio del grecista
  • Davide Susanetti
  • rec.di
  • Giovanni Sessa
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  • È nelle librerie un nuovo saggio di Davide Susanetti, grecista dell’Università di Padova, nel quale lo studioso si interroga sulla “inattuale attualità” della tragedia attica. Ci riferiamo al volume, L’altrove della tragedia greca. Scene, parole e immagini, edito da Carocci (pp. 187, euro 20). Non si tratta della consueta ricostruzione storico-erudita del teatro tragico: «quanto […] dell’incontro meditante con una serie di immagini e di parole che dalle scene tragiche risuonano» (p. 10) e la cui eco dissonante giunge fino a noi.
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  • Susanetti introduce il lettore agli snodi più rilevanti che il teatro, per antonomasia “gioco di Dioniso”, ha prodotto in Grecia. Si sofferma, tra gli altri, sui temi dell’identità, del dolore, della polis, del corpo, del maschile e femminile, della tradizione. La lettura del testo è coinvolgente e godibile per la fluidità della prosa, che ben corrisponde al metamorfismo dionisiaco messo in scena dal tragico. L’incipit del volume ci conduce sul proscenio delle Baccanti di Euripide, da cui emerge prepotente la figura di Penteo, re di Tebe. In città è giunto Dioniso: le donne lo hanno seguito sul monte, inebriate da tale conturbante presenza.
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  • Il re ordina la cattura del dio, che viene così condotto a palazzo. Alle parole di Dioniso che destabilizzano il falso sapere e le certezze apodittiche di Penteo, questi non sa rispondere se non ribadendo, con orgoglio, la propria identità e i propri nobili natali. Dioniso sorprende: improvvisamente scuote la reggia con un movimento sismico. Il re perde il controllo, diviene, in qualche modo, servo del dio che conduce il gioco, mirato a mostrare l’inanità di qualsivoglia identità. Egli spinge Penteo su: «un cammino in cui, passo dopo passo, ogni attributo di quella così convinta identità […] va(nno) in frantumi, trasformandosi nel loro esatto opposto» (p. 13). Da uomo d’ordine, egli si trasforma in baccante sfrenata e viene, infine, sbranato da sue consimili, tra cui la madre. Il suo corpo é fatto a pezzi. Solo in quel momento, Penteo prende coscienza del senso profondo del proprio nome, la cui etimologia rinvia al “dolore”. La frase sferzante del dio indica la condizione in cui giace il suo deuteragonista: «Non sai quel che stai vivendo, non sai che cosa vedi, non sai nemmeno chi sei» (p. 15). La potestas divina mette in discussione le distinzioni fallaci prodotte dall’approccio meramente concettuale al reale, le indicazioni epistemiche del lógos e tutte le opinioni e le scelte che da tale identità discendono: indica, nella tragedia - lo aveva intuito Nietzsche - un “oltre” del quale i più non hanno contezza, un’“unità essenziale” (Ur-eine) della physis, che si dice nel molteplice.
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  • Dalla rappresentazione tragica si evince che Dioniso scioglie i legami, le identità falsamente ossificate, rinnovando lo sguardo sul mondo. La catarsi tragica è: «purificazione dalla pervicace ostinazione del sé che è propria di ciascuno» (p. 18). Nella tragedia, nota Susanetti, la discesa agli Inferi, a differenza di quanto avviene nei Misteri, non trasmuta in vita nova. Il dire tragico è attraversamento del dolore, che suggerisce allo spettatore, anche contemporaneo, l’:«eccedenza di un altrove che resta da completare e da percorrere» (p. 19). L’eccedenza indicata nel Coro degli Anziani di Argo dell’Agamennone di Eschilo, che fanno appello alla Sapienza che, stante la lezione di Eraclito: «accetta e insieme ricusa di avvolgersi in un singolo nome. Unità di tutti gli opposti […] è tó sophón: principio di tutte le determinazioni, ognuna delle quali rinvia a esso e lo nomina, senza coincidervi» (p. 27). La tragedia è trascrizione scenica della prima locuzione di Anassimandro e del tratto polemologico del reale, letto quale somma di “determinati”: «ciascuna cosa si afferma esercitando il proprio diritto di essere contro il diritto di un’altra […] da cui deriva nel contrasto reciproca “ingiustizia” di cui devono pagare il fio» (p. 30). È necessario, di contro, non pensarsi indipendenti dal tutto, non chiudersi nell’eracliteo “pensiero privato”, ma propiziare in sé l’intuizione dell’Uno-Tutto, di cui gli enti sono “espressione” (per usare un vocabolo di conio colliano).
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  • Le Supplici di Eschilo ci pongono, ricorda l’autore, di fronte al tema della “possibile” salvezza. Il dubbio che coglie il re Pelasgo, relativamente alla richiesta delle cinquanta figlie di Danao di essere salvate dai loro persecutori, è risolto facendo ricorso a peithó (persuasione) e túche (sorte): «le uniche due risorse cui affidarsi, non per trovare salvezza, ma per essere uniti e concordi in ciò che si deve fare» (p. 40). È la dimensione comunitaria, politica a emergere, grazie alla scoperta della: «Memoria comune che tange un tempo assoluto al di là delle differenze che si colgono nel presente» (p. 35). Ci si riferisce, in questo caso, alle vicende del mito fondante di Io, che accomuna le Danaidi agli Argivi. In conclusione: «È la giustizia di Zeus che veglia sui supplici, è la giustizia della città che si schiera per essi e per il dio» (p. 41). Medesima situazione è da leggersi nel legame che stringe in uno le Coefore e le Eumenidi di Eschilo. Attraverso la narrazione delle tragiche vicende di Oreste, le due opere eschilee chiariscono come la pólis, al fine di tutelare la “misura” olimpico-apollinea, debba reintegrare tó deinón, il terribile, l’ombra del mito, simbolizzato dalla potenza delle Erinni. La tragedia mette in atto una: «riconfigurazione in cui il passato viene accolto e conservato al fondo del presente […] il che corrisponde […] all’idea stessa di tradizione» (p. 51).
  •  ...
  • Nelle Troiane di Euripide, a rivestire un ruolo di primo piano, è il corpo di Ecuba. Un corpo umiliato, offeso, catatonico, simbolo dell’umiliazione della città di Priamo. Il dolore silenzia il corpo: «La tragedia consiste […] in questo movimento opposto che sospende l’elisione mortale della parola, che coglie l’umano appena prima che precipiti nella condizione di […] “cosa muta”» (p. 92). Il corpo diviene pura phoné, voce del dolore puro che assurge alla dimensione del canto. Un corpo-voce privo di lógos, che accompagna ritmicamente il dimenarsi delle membra sferzate dal dolore. Non c’è misura, né speranza di gloria futura come nell’épos omerico, ma testimonianza di “vita nuda”: «Poesia dei corpi devastati dalla sventura. Poesia che trasfigura la pena e insieme ricorda quella soglia dell’“invisibile” cui il mortale è destinato» (p. 99).
  • ...
  • Di fronte a ciò, Susanetti nota che l’Ellade lesse psuché non solo come “vita”, ma anche come “anima”(orfici e pitagorici): «che trasmigra da un’esistenza all’altra […] la fine è solo un passaggio» (p. 165). Ciò dovrebbe indurre un certo distacco dalla dimensione “pesante”, meramente “cosale” dell’ex-sistere, del nostro “stare-fuori”: dovremmo sentire quell’éleos, quella pietas, di cui si fa esperienza durante le rappresentazioni del teatro tragico, posti al cospetto degli eventi in cui gli eroi sono coinvolti. La stessa condizione interiore che, a dire di Platone (mito di Er), provò Odisseo al momento della scelta della vita “giusta”.
  • ...
  • Queste alcune delle questioni che Susanetti “ri-corda” in merito al tragico. Gliene siamo grati.

  • Locch

  • “L’essenza del fascismo”
  • Un saggio di
  • Giorgio Locchi
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • Nell’area culturale non-conforme italiana si sta risvegliando un certo interesse per Giorgio Locchi. La cosa, per chi scrive, è positiva. Locchi è pensatore di tutto rispetto, originale, nel senso che egli, in ogni sua opera, presenta la possibilità di recuperare l’origine, in quanto su di essa siamo, in ogni tempo, esposti. Non è poco, soprattutto per un ambiente abituato, dal secondo dopoguerra, a vivere di rimpianti e/o a definire il proprio immaginario su alcune figure di riferimento, il più delle volte, lette in termini idolatrici e scolastico-ripetitivi. Segnaliamo, all’interno di questa renaissance locchiana, la recente pubblicazione di, L’essenza del fascismo per i tipi di Altaforte edizioni (pp. 125, euro 15,00). Il volume, curato da Adriano Scianca, è testo composito: comprende lo scritto, Riflessione storica sul fascismo, uscito in prima edizione nel 1981, un’intervista rilasciata poco dopo a Marco Tarchi per meglio definire i concetti espressi nel saggio, la prefazione di Locchi a, I fascismi sconosciuti di Maurice Bardèche, uno scritto di Philippe Baillet, oltre alla postfazione del curatore.
  •   
  • Una delle ragioni dell’interesse del volume va rintracciata nel fatto che, fin dall’incipit di queste pagine, Locchi individua, quale principale obiettivo polemico, la nuova storiografia del fascismo che, sotto la guida di Renzo De Felice, si affermava nei primi anni Settanta del secolo scorso. L’autore ritiene che l’approccio critico-accademico defeliciano, attento ai dettagli della storia dei movimenti fascisti, accolta come “liberatoria” a destra, in realtà perdeva di vista il tratto essenziale connotante, sia sotto il profilo spirituale che politico, tali movimenti. Scianca ricorda, inoltre, che Locchi imputava a De Felice di non aver individuato il tratto europeo del fascismo, finendo con il depotenziare e relegare definitivamente al passato, tale esperimento politico. In una parola, De Felice avrebbe realizzato la “spoliticizzazione” del fascismo, presentandolo quale fenomeno di un’epoca storica irripetibile. Al contrario, storici ideologicamente avversi a tale ideale politico, quali Lukács e Viereck: «hanno […] il grande merito di aver messo in risalto l’origine prima, la “matrice” del fenomeno fascista» (p. 9), pur criticandola apertamente e derubricandola, sic et simpliciter, all’irrazionalismo filosofico. Anche la storiografia tradizionalista, del resto, esempio tipico è offerto per Locchi dalle opere di Evola in tema, discriminando tra aspetti positivi e negativi del fascismo, avrebbe concluso con il: «restringere a se stessa la definizione del fascismo “valido”» (p. 10).
  •   
  • Tra le poche eccezioni, va annoverato Adriano Romualdi. Questi, sia pur in modo frammentario, a causa della sua prematura scomparsa, mise: «in luce la “conclusione indoeuropea” di quel che […] è il tipico “ripiego-sulle-origini-progetto-d’avvenire” di tutti i movimenti fascisti» (p. 11). Pertanto, il movimento storico in questione è la prima manifestazione, probabilmente “prematura”, di un fenomeno culturale e spirituale, manifestatosi in termini di “risorgenza anti egualitaria”, sinteticamente definibile “sovrumanismo”, apparso in Europa nella seconda metà del XIX secolo, che ebbe, quali tedofori, Nietzsche e Wagner. Più in particolare, il “sovrumanismo” si mostrò quale rigetto radicale dell’opposto principio egualitaristico, pienamente incarnato, dapprima dal cristianesimo e, successivamente, da ogni forma di democratismo, liberalismo, socialismo ecc. Le differenze presenti nei fascismi europei, indicano, a dire di Locchi, i diversi “gradi di coscienza” che essi ebbero dell’ideale sovrumanista. Per Wagner, il cristianesimo delle origini, avrebbe rappresentato una metamorfosi dell’originario “paganesimo”, ma tale messaggio sarebbe stato deviato dalle influenze esercitate sul cristianesimo dal giudaismo. I fascismi furono, pertanto, “rivoluzionari” nel senso etimologico del termine, proposero un mito: «Mito si ha quando un “principio” storicamente nuovo sorge in seno ad un ambiente sociale […] tutto informato e conformato da un principio opposto» (p. 16). Stessa situazione visse il cristianesimo delle origini nei confronti del mondo classico. La sostanza dei movimenti epocali è sempre “sentita”, da chi è formato da valori opposti, in termini di irrazionalità.
  •   
  • Il fascismo ha attecchito come richiamo in chi era connotato da una coscienza egualitarista “debole”. Il crollo dei regimi fascisti, che non ebbero l’opportunità storica, in quanto “prematuri”, di esplicare tutte le loro potenzialità, ha indotto la parte egualitarista a tentare di realizzare un’ultima sintesi, la fine della storia.
  • ...
  • Locchi, sostenitore di una visione aperta e tragica del tempo, ritiene improbabile questa definitiva chiusura, in quanto essa implicherebbe, oltre ogni concezione deterministica, una sua “condivisione” valoriale da parte di tutti gli uomini. L’egualitarismo, pertanto, nel secondo dopoguerra, vide nel fascista il “nemico” per antonomasia e concesse al fascismo una vita in negativo, catacombale e marginale. Tale posizione indusse Locchi a criticare ogni forma di entrismo sistemico, compresa la via delle nuove sintesi indicata dalla “Nuova Destra”, con la quale, per un certo periodo, collaborò. Non è casuale che Tarchi ricordi, nell’introduzione che accompagna la sua intervista al pensatore italiano, che le sue domande furono “modificate” da Locchi: «ebbi la sorpresa di vedere che pressoché ogni domanda era stata riformulata dal destinatario, qualcuna era stata eliminata, altre aggiunte […] le divergenze su più aspetti dell’interpretazione del fascismo tra Locchi e me sono rimaste intatte […] e forse si sono accentuate» (pp.30-31).
  • ...
  • Stimiamo molto Locchi, probabilmente in questo libro non ha tenuto conto della lezione schmittiana che dice la storia, ogni evento storico, essere caratterizzato dal tratto dell’unicità. In particolare, non condividiamo la sua lettura del nazionalsocialismo, quale movimento che tradusse in pratica le idealità rivoluzionario-conservatrici. Al contrario, il nazismo, a nostro giudizio, in quanto regime monocratico, le tradì, contribuendo a realizzare il Gestell, l’impianto della tecno-scienza. A differenza di Baillet, pensiamo che Klages visse realmente ai margini, isolato dal regime. Certo, oggi è impossibile non tener conto del domino della Tecnica al fine della formulazione di qualsivoglia progetto politico ma, altresì, crediamo che l’approccio esclusivamente prometeico debba essere integrato da quello orfico. Solo a queste condizioni sarà possibile re-incontrare la physis, luogo della scaturigine e dell’origine, unica reale trascendenza che ci sovrasta, come sapevano i Greci, ben oltre le tragedie della storia.
  • ...
  • Questo libro nonostante ciò, è testo rilevante, da leggere e da discutere.

  • SENTIMENTO E INDIFFERENZA POLITICA
  • di 
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Malgrado il bombardamento anti-russo della comunicazione mainstream, non sembra, dai sondaggi ripetuti, che sia stata scalfita la maggioranza neutralista nell’opinione pubblica soprattutto, si legge, in Italia e in Romania; altrove, in Europa, tranne in quella orientale (e si capisce il perché) favorevoli e contrari si distribuiscono in blocchi pressoché uguali sull’aiuto all’Ucraina.
  • ...
  • Dopo un simile spiegamento di mezzi, i risultati paiono modesti. Soprattutto in relazione all’argomento forte e più ripetuto, che si adagia sulle comprensibili aspirazioni degli europei, i quali dopo i due macelli collettivi del XX secolo, di aggressioni, guerre, ed aggressori non vogliono sentir neanche parlare.  Per cui appare facile demonizzare l’aggressore come turbatore della pace, e la resistenza allo stesso come justa causa.   Quale può essere il perché della tepidezza di buona parte dell’opinione pubblica? Le cause possono essere tante, ma ritengo che le principali siano:
  1. a) il timore di un’estensione (fino al coinvolgimento diretto) nella guerra;
  2. b) il non comprendere (perché non spiegato) quale possa essere l’interesse nazionale ad un esteso aiuto ad uno dei belligeranti;
  3. c) che la Russia, anche se aggressore, non ha tutti i torti (scontri nel Donbass, accordi di Minsk).
  • Quanto al timore dell’escalation, è bene tenerne conto, perché come sosteneva Clausewitz, è nella natura della guerra l’ascensione agli estremi. Tuttavia a rendere tale ipotesi poco verosimile è proprio il secondo elemento: la mancanza di un interesse nazionale, sia della Russia che dei popoli europei ad aggredirsi. Anzi tutto l’interesse è quello di convivere e commerciare pacificamente, per la complementarietà economica delle due aree. Relativamente al terzo aspetto è chiaro che la dissoluzione dell’Unione sovietica in Stati nazionali, le cui frontiere non coincidevano con l’omogeneità etnica, di guerre ne ha generate tante, sia nella superpotenza che nella Jugoslavia.
  • ...
  • Basti ricordare per la prima: Georgia, Ossezia, Cecenia, Abkhazia, Nagorni-Karabach (salvo altri). Per cui la sussistenza, anche da parte dell’aggressore russo di una justa causa belli non è esclusa. Con la conseguenza che, contrariamente all’evoluzione del diritto internazionale nel XX secolo, la guerra, nel sistema westfaliano, è “giusta” da entrambe le parti.   Per cui che il sentimento ostile nei confronti dell’aggressore sia così tiepido a dispetto di tutti gli sforzi per suscitarlo e ravvivarlo non meraviglia.
  • ...
  • Si aggiunge per l’Italia la storia degli ultimi secoli; di guerre l’Italia (prima il Regno di Sardegna) alla Russia ne ha mosse tre. La guerra di Crimea, l’intervento nella guerra civile del 1918-1921, il fiancheggiamento della Germania nell’operazione Barbarossa. Di converso l’unica volta che un esercito russo si è visto in Italia è nel 1799. Ma i russi, peraltro alleati di Stati italiani occupati dalla Francia, se ne andarono senza pretendere di tornare.   Gli è che né i russi hanno alcun interesse ad occupare l’Italia, né gli italiani la Russia. Si è cercato di compensare questa evidenza storica e politica col dipingere Putin come il diavolo guerrafondaio, affetto da aggressività compulsiva, emulo nel XXI secolo di Hitler. Ipotesi ancora più inverosimile dell’altra: vediamo perché.
  • ...
  • É costante della Russia estendere la propria influenza a sud, in particolare intorno al Mar Nero.   Malgrado tutti gli sforzi dei professionisti dell’informazione per additare Putin come pazzo e/o malato, il Presidente russo non ha fatto altro che ripetere la politica dei suoi predecessori, da Ivan il Terribile a Pietro il Grande, da Caterina la Grande a Nicola I.  Il che rendeva assai prevedibili sia le intenzioni che il comportamento dello stesso. Ciò nonostante non è stato previsto il probabile, e neppure adottati comportamenti idonei ad evitare che una situazione, da anni esplosiva, degenerasse in guerra.   Quando poi questa è scoppiata, non c’è stato altro da fare che cercare di coprire il tutto con la demonizzazione dell’aggressore, come mezzo per incrementare il sentimento popolare, improntato ad una paurosa indifferenza.
  • ...
  • Scrive Clausewitz nel Von Kriege a proposito del sentimento politico, cioè l’odio e l’inimicizia verso il nemico che questo è “da considerarsi come un cieco istinto” e corrisponde al popolo; e che “Le passioni che nella guerra saranno messe in gioco debbono già esistere nelle nazioni”. Sicuramente in Polonia e in Ungheria, tenuto conto della storia le suddette passioni non mancano. Ma in Europa occidentale? Solo la Germania ha condotto nella storia e per geopolitica diverse guerre con la Russia, alternate a periodi di amicizia (spesso a scapito dei popoli che stavano “in mezzo”).
  • ...
  • Ma Francia, Spagna, Italia (e non solo) non hanno né ragioni politiche e geo-politiche né una storia che identificasse nei russi il nemico principale e reale.    Per cui non restava che affidarsi alla propaganda, confermando, con lo scarso risultato, l’affermazione di Clausewitz.

 

  • LO SPETTRO DELLA STAGFLAZIONE GLOBALE SU DI NOI
  • di
  • Vittorio de Pedys,
  • (dicembre 2022)
  • Nel terzo trimestre 2022 le economie mondiali hanno mostrato evidenti segnali di rallentamento. Stanno venendo al pettine parecchi nodi insoluti degli anni passati e nuove difficoltà impediscono lo sviluppo delle economie a ritmi accettabili. Stiamo per cadere, collettivamente, in una fase di stagflazione. Con questo vecchio neologismo si descrive una congiuntura economica di recessione abbinata ad una crescita dei prezzi ben al di sopra delle possibilità di gestione da parte del pubblico. Di questa doppia disgrazia non se ne sentiva parlare dai lontani anni ’70 quando il mondo vi fu gettato all’improvviso dal brutale rialzo dei prezzi del petrolio da parte delle nazioni arabe come ritorsione per la guerra del Kippur. Da allora i tassi di interesse hanno avuto una tendenza secolare di riduzione durato molti decenni e venuto a terminare proprio in tempi recentissimi. Basti pensare che nel 2021 oltre 20.000 miliardi di titoli di stato dei paesi occidentali mostravano rendimenti reali negativi. In altre parole, il povero risparmiatore o fondo o banca che ha acquistato questi titoli per la loro sicurezza aveva come garanzia matematica quella di perdere soldi dall’investimento. Pensate quale effetto negativo una cosa del genere può avere sulle disponibilità finanziarie dei risparmiatori e, come corollario, sulla attrattività del capitale per scopi produttivi. Oltre al rallentamento dell’inflazione e dei tassi di interesse, abbiamo assistito anche ad una parallela riduzione dei tassi di crescita economica. L’Italia in questo detiene ogni record, visto che l’economia nazionale è sostanzialmente ferma dagli anni ’90 con conseguenze devastanti sull’occupazione giovanile, sulla produttività, sulla crescita del reddito disponibile. Tutte le altre economie occidentali sono cresciute poco, ma comunque un po' di più. Ora purtroppo stiamo entrando in una fase in cui l’inflazione è passata bruscamente dal 1% a circa il 10% in Europa (circa 8% in USA) e tutti gli organismi economici internazionali, privati e pubblici, prevedono una recessione ad iniziare dal 2023. Negli Usa la recessione è stata già registrata con i primi due semestri del 2022 cresciuti a tassi negativi. Le previsioni per gli Usa sono di un 2022 che chiuderà circa a zero e divergono per il 2023, dove alcuni prevedono una ripresa intorno al 2%, ed altri invece ritengono inevitabile una crescita negativa. Per l’Europa quasi tutti gli Istituti sono concordi nel prevedere una congiuntura recessiva nel 2023, dal momento che le economie sono colpite contemporaneamente dallo straordinario rialzo del prezzo del gas naturale, dalle conseguenze economiche dei lockdown decisi dai governi e da politiche monetarie fortemente restrittive. Inoltre, nel 2022 sono venuti generalmente meno gli effetti di sostegno artificiale varati dai governi per tentare di compensare gli effetti profondamente recessivi delle decisioni relative al Covid nel 2020. Ad es. in Italia abbiamo avuto nel 2020 un crollo del PIL del 10%, un rimbalzo “drogato” del 8% ed ora un 2022 che finirà probabilmente con un saggio di crescita limitata, nonostante l’ammontare straordinario di fondi europei del PNRR che stanno raggiungendo il nostro paese. Tutte le recessioni dell’ultimo mezzo secolo sono state precedute, causate o accompagnate da rialzi dei prezzi dell’energia (si veda grafico sottostante, dove le recessioni sono le aree celesti), in particolare del petrolio, per cui anche attualmente sembra questa una delle cause della congiuntura recessiva che i mercati finanziari stanno ampiamente prevedendo e scontando nelle quotazioni.

Prezzi del petrolio in forte rialzo sono prodromici di recessione economica

  • Ci sono naturalmente anche altri aspetti che giustificano una congiuntura negativa: l’erosione del potere d’acquisto della moneta, salari che rimangono indietro rispetto alla crescita dei prezzi, la debolezza dell’euro, le difficoltà nella catena degli approvvigionamenti esteri. Su questo si innesta l’incredibile impennata del prezzo del gas naturale derivante dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, che ha sostanzialmente chiuso i rubinetti. Poiché alcuni paesi europei come Italia e Germania importano quote consistenti del loro fabbisogno energetico dalla Russia questa situazione non può non generare importanti effetti recessivi sulle nostre economie. Soprattutto considerando che i prezzi dell’energia penetrano in tutti i settori economici, elevandone i costi, dall’ alimentazione, ai fertilizzanti, alle costruzioni, all’immobiliare, la chimica, l’ industria, eccetera. Una ragione ulteriore di questa dinamica è da individuarsi nella velleitaria e ideologica crociata contro l’utilizzo dei combustibili fossili contro i quali i governi per essere “green” hanno scatenato una guerra economica senza quartiere in nome della transizione ecologica. Tutti desideriamo passare ad un’economia a minor impatto ambientale, ma occorre realismo e non furore messianico, e tener conto che questa transizione non è cosa che realizza in un anno. Passare a fonti come eolico, idrogeno, solare, nucleare, richiederà molto tempo per sostituire un mondo costruito in maniera diversa: la narrativa che si possa fare spingendo un bottone è fuorviante. Di conseguenza le grandi aziende petrolifere hanno drasticamente ridotto le ricerche e trivellazioni, per non incorrere nelle ire dei governi e degli azionisti più ecologisti ed attivisti. Chi scrive è facile profeta nel predire che il risultato di una domanda crescente di energia, accoppiata a minori investimenti nelle fonti abituali, manterrà i prezzi del gas e del petrolio a livelli molto elevati per lungo tempo, guerra o non guerra. Il che sarà un problema per tutti i cittadini.
  • Il rialzo dell’inflazione menzionato, mentre era assolutamente prevedibile, è straordinario in termini di velocità e dimensione. il grafico sottostante, che riporta a 100 il livello del 1982, fornisce una visione chiara della drammaticità del fenomeno che stiamo vivendo.

Il balzo della crescita dell’inflazione non ha paragoni fino agli anni ‘80

Median Consumer Price Index

10

9

8

7

6

5

4

3

2

1

0

-1

1985

1990

1995

2000

2005

2010

2015

2020

Source: Federal Reserve Bank of Cleveland

fred.stlouisfed.org

  • E’ importante sottolineare come l’inflazione sia una tassa occulta particolarmente odiosa perché colpisce in maniera più forte le fasce di popolazione più deboli ed esposte, riducendo in maniera subdola il potere d’acquisto delle famiglie e di alcune categorie di imprese (quelle che non dispongono della capacità traslativa degli aumenti dei prezzi dalla produzione sui consumatori).
  • Le radici di questa stagflazione, di cui come detto non si vedevano le tracce dagli anni ’80, vanno ricercate nelle irresponsabili politiche fiscali e monetarie dei governi a partire dalla crisi finanziaria del 2008. I governi hanno aumentato in maniera notevole le spesa statale, e con essa la dimensione della presenza dello stato nell’economia, finanziando spesa corrente e progetti a ritorni negativi per importi del tutto superiori alla capacità di copertura da parte dei risparmiatori, risultando in esplosioni senza precedenza dei debiti pubblici. Il rapporto debito/Pil, ed il suo alimentatore, il rapporto deficit/PIL di quasi tutti i paesi occidentali è salito ben oltre i livelli di sostenibilità e queste spese sono state possibili soltanto attraverso maggior debito e la conseguente sottoscrizione dei titoli di stato emessi dai governi da parte delle banche centrali, le quali hanno gonfiato a dismisura i loro bilanci. Ad esempio, la Federal Reserve americana è passata da un bilancio 4000 miliardi di attivo nel 2019 a 9000 miliardi di attivo nel 2021. Accoppiata a questa espansione del debito mai vista nella storia dell’umanità, le banche centrali hanno tenuto i tassi a livelli artificialmente bassi per oltre un decennio, svilendo la remunerazione del risparmio e generando bolle speculative che stiamo ancora pagando. Questo mix di politiche, favorito dalle élite che controllano i governi ed il sistema finanziario, ha generato da un lato enormi guadagni ai possessori di attività finanziaria (azioni, obbligazioni, immobili, valute) e dall’altro ha generato bolle speculative senza alcun senso economico (criptovalute, NFT, venture capital, spacs, ipos, quotazioni insostenibili di aziende che generano solo perdite, aziende zombi non in grado di pagare neppure gli interessi e che però non falliscono). Il contraltare di questa scelta di “quantitative easing” è naturalmente l’insostenibilità dei debiti pubblici accumulati, il trasferimento di enormi quantità di debito alle generazioni future, la distruzione del risparmio delle famiglie, la crescita distrofica di amministrazioni e burocrazie pubbliche che si auto-alimentano, e quindi il rallentamento economico. Il tasso dell’interesse è un prezzo come tutti gli altri, che si forma su un mercato: è il prezzo del denaro. Quando esso viene artificialmente manipolato dai governi e dalle banche centrali che per così tanto tempo lo hanno represso a zero, distorcendone il valore , è inevitabile che le forze economiche riemergano in altro modo, ed ecco che oggi paghiamo allo stesso tempo con alta inflazione e recessione economica il prezzo di queste scelte da cicala degli ultimi decenni. Le bolle prima o poi scoppiano e la deflazione che ne segue, di nuovo, penalizza principalmente le classi medie e produttrici.
  • La recessione economica è prevista anche dagli indicatori di mercato stessi, come ad esempio l’inclinazione della curva dei rendimenti dei titoli di stato. Al momento la curva è disposta in maniera invertita, con i titoli a lungo termini che offrono rendimenti minori di quelli a breve termine, cosa che è innaturale ed è statisticamente prodromica e predittiva di una recessione economica a seguire (vedi grafico sottostante per gli USA).

Una curva dei rendimenti invertita è sempre stato un segnale di sfiducia

10-Year Treasury Constant Maturity Minus 2-Year Treasury Constant Maturity

2.0

1.5

1.0

0.5

0.0

-0.5

-1.0

2018-01

2018-07

2019-01

2019-07

2020-01

2020-07

2021-01

2021-07

2022-01

2022-07

Source: Federal Reserve Bank of St. Louis

fred.stlouisfed.org

  • Casella di testo: Percent
  • La verità è che viviamo oggi in una congiuntura radicalmente diversa di quella deli ultimi 15 anni: ci siamo abituati, come un drogato in dipendenza, ad ottenere dosi sempre maggiori di iniezione monetaria per risolvere qualsiasi difficoltà. Con i tassi tenuti a zero, la quantità di indebitamento possibile è teoricamente infinita. La realtà è ben diversa ed è che la recessione morde anche e soprattutto per i problemi di supply chain derivanti dal blocco economico del lockdown, ed ora i governi non hanno più la possibilità di emettere nuovo debito a tassi ridicoli. Il mercato (non gli accademici) ha girato le spalle all’insostenibilità della “modern monetary theory” (la più grande stupidaggine che la teoria economica poteva produrre, ovviamente frutto di economisti d’elite schierati a sinistra e ben difesi dai loro phD e dai loro stipendi sicuri).

The “Modern Monetary Theory”

La velocità di incremento dei tassi da parte della Federal Reserve non ha precedenti

  • Pertanto, oggi su una economia non in salute stanno cumulandosi le addizionali difficoltà dei forti rialzi dei tassi da parte delle banche centrali di tutto il mondo. La Federal Reserve ha già alzato i tassi da 0 % al 3.75% e con certezza continuerà ad incrementare il costo del denaro almeno fino al 4.5% o 5%. Allo stesso tempo sta riducendo il proprio bilancio lasciando scadere 95 miliardi di titoli di stato detenuti al mese, nel tentativo di scendere dimensionalmente dai livelli insostenibili menzionati sopra. Questa politica è esattamente l’opposto di quella perseguita fino ad ora ed è infatti definita un “quantitative tightening”, ossia restrizione monetaria. Tutte le altre banche centrali del mondo sono avviate sullo stesso identico cammino. La Bank of England sta rialzando i tassi velocemente anche perché incalzata dal crollo della sterlina e l’economia inglese è già in recessione. La Banca centrale Europea, pur molto cauta finora, non ha scelta che effettuare rialzi molto consistenti dei tassi di riferimento, incalzata dagli esponenti della Bundesbank che la reclamano vista che l’inflazione in Germania è superiore al 10% e non accenna a scendere. La BCE è tra l’altro anche molto indietro nel processo di rialzo dei tassi, “behind the curve” come si dice, in quanto la distanza fra i tassi attuali e ‘inflazione è maggiore che in altre aree economiche e quindi l’inasprimento necessario è maggiore. Altre banche centrali stanno restringendo le politiche monetarie allo stesso modo: Svizzera, Norvegia, Svezia, perfino il Giappone sta intervenendo sul mercato dei cambi a difesa dello yen. La velocità e dimensione di questi rialzi dei tassi non ha precedenti nella storia ed avrà necessariamente profondi effetti recessivi.
  • Con queste ricette comuni la domanda di credito verrà razionata, i tassi sui mutui stanno volando in alto rendendo più difficile gli acquisti di case, la domanda viene compressa, la spesa aggregata limitata, la disoccupazione non può che salire.
  • Come scritto più volte, la creazione artificiale di moneta da parte delle banche centrali non ha generato alcuna crescita del potere d’acquisto delle famiglie; al contrario lo ha sensibilmente ridotto, come dimostra incontrovertibilmente il seguente grafico della Federal Reserve di Saint Louis, che evidenzia la correlazione negativa fra crescita dell’aggregato M2 ed il potere d’acquisto dei consumatori.

Senza ancoraggio all’oro, l’aumento della base monetaria per “favorire” l’economia genera invece erosione del potere d’acquisto delle famiglie

  • Un altro effetto molto grave, mai menzionato dalle élite che controllano i media e le università, è che tutta questa massa monetaria scollegata dalla crescita reale, ha aumentato a dismisura tutti gli indicatori di diseguaglianza reddituale della società. Dal 2008 a oggi mentre i salari e gli stipendi sono rimasti sostanzialmente stagnanti la ricchezza finanziaria è aumentata di svariate migliaia di miliardi di dollari. Queste politiche ufficialmente varate per sostenere le classi lavoratrici hanno, come è ovvio, avuto invece un non casuale effetto opposto, di esplosione dei prezzi delle attività finanziarie (azioni, obbligazioni, fondi, ecc.) che ovviamente sono detenute solo dalla fascia più alta della popolazione. È stato calcolato che se l’1% della popolazione più ricca negli USA perdesse il 99% della propria ricchezza finanziaria, sarebbe cionondimeno più ricca di almeno 3.5 miliardi di persone.
  • Tutti questi “esperti” banchieri centrali sono, a parere di chi scrive, colpevoli di non aver capito la natura inflazionistica delle misure di quantitative easing che hanno perseguito ciecamente negli ultimi anni e si sono trovati spiazzati dalle dinamiche negative congiunte della economia in recessione e dell’inflazione fuori controllo. Il potere d’acquisto dei nostri risparmi si erode oggi al ritmo del 10% l’anno, l’euro è quasi ai minimi storici contro dollaro e le prospettive per il 2023 sono negative da parte di tuti i centri di ricerca. L’apprezzamento del dollaro contro ogni altra valuta ha raggiunti livelli mai visti in una generazione ed è un modo per esportare ulteriore inflazione dagli USA agli altri paesi.

Dollaro mai così forte contro tutte le altre valute del mondo negli ultimi 20 anni

  • Le banche centrali, dopo aver fatto “too little too late”, ora sono sono passate ad una situazione di “too much too long” nel loro disperato tentativo di recuperare la loro perduta credibilità nei confronti dei mercati finanziari e degli operatori economici. Con i rialzi dei tassi menzionati sopra, esse non faranno altro che affossare ulteriormente le economie, restringendo il credito e la liquidità al momento sbagliato. Tanto va detto sui super-esperti, burocrati con PhD che non hanno mai fatto un giorno di lavoro nell’economia reale, ma che ritengono di poter indirizzare le variabili economiche *. Una restrizione monetaria così sincronizzata in tutto il mondo occidentale è un evento nuovo e che non potrà non portare effetti recessivi. Persino l’economia cinese è in frenata brusca, come conseguenza delle autoritarie politiche sui lockdown del governo comunista e dell’iniziato riposizionamento delle manifatture internazionali verso altri paesi. Per il nostro paese, il nuovo governo uscito dalle urne deve fronteggiare una situazione di estrema gravità congiunturale, descritta sopra, accoppiata alle ataviche debolezze del nostro sistema economico: un debito pubblico al 150% del PIL, una crescita media dello zero virgola, un’amministrazione pubblica che distrugge valore, bassi livelli di produttività multi-fattoriale, fuga di cervelli, livelli bassissimi di investimenti in attività capaci di generare valore futuro. La stessa Nota di Aggiornamento emessa dal governo Draghi ad inizio di ottobre pronosticava per il 2023 almeno due trimestri di PIL in contrazione.
  • Andando controcorrente, chi scrive ritiene che le economie moderne siano intrecci talmente complessi ed inter-correlati, che non sia possibile governarle efficacemente solo dal centro: la storia, per chi vuole veramente leggerla senza pregiudizi, mostra che l’intervento pubblico e dirigista nell’economia ha di frequente effetti collaterali pesanti su larghe fasce di cittadini ed alla fine rende tutti più collettivamente poveri. In particolare, sono più poveri i cittadini e le categorie produttrici, in nome dei quali gli interventi vengono posti in essere da parte di una casta di burocrati che si autogiustifica e sottrae risorse vive alla crescita economica collettiva. Questo non significa che la mano pubblica non debba avere un ruolo nella regolazione dell’economia. Al contrario (non ci si dia del neoliberista). È una questione di dimensione, di efficacia, di convenienza, di libertà, di buon senso e infine di Hubris.
  • *
  • Si confronti l’arroganza concettuale degli economisti , banchieri ed accademici attuali, che ritengono di “governare” l’economia con la seguente affermazione di un vero premio Nobel :
  • “In the present state of our knowledge [of monetary policy and the economy] we cannot hope to use monetary policy as a precision instrument...The attempt to do so is likely merely to introduce additional instability into the economy, to make the economy less rather than more stable." Milton Friedman, 1959.
  • Rossi

  • La grande finanza nella storia occidentale
  • Un saggio di
  • Marco Rossi
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
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  • La società post-moderna é l’esito del primato dell’economia sulla politica. In una recente pubblicazione, Marco Rossi, noto per lavori storiografici sulla storia contemporanea italiana, entra nel merito delle relazioni che legano lo sviluppo della finanza e gli eventi più rilevanti della storia occidentale. Ci riferiamo a, La grande finanza e l’Occidente. I retroscena di una guerra sconosciuta, nelle librerie per Arya edizioni( per ordini: arya.victoriasrl@gmail.com, pp. 224, euro 25,00).   L’esegesi di Rossi rigetta i dogmi della storiografia “politicamente corretta” e quelli del riduzionismo “complottista”.   L’autore fornisce una sorta di mappatura, che consente di rilevare i momenti salienti attraverso i quali la finanza è divenuta, progressivamente, padrona del mondo.
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  • Le cose cominciarono a cambiare con la seconda rivoluzione inglese, prima affermazione del liberalismo. In quel frangente nacque, il 27 luglio del 1694, la prima banca di emissione privata, la Banca d’Inghilterra. Da quel giorno, la Gran Bretagna, pur divenendo grande potenza commerciale, rese la moneta e la finanza, non più prerogative dello Stato, ma appannaggio della borghesia. Le colonie americane, resesi indipendenti, si rifiutarono di costituire una Banca Centrale privata sull’esempio inglese. La loro Costituzione stabiliva che solo il Congresso: «avrebbe avuto la piena sovranità per coniare e regolare la moneta» (p. 16). Durante la rivoluzione francese, per risolvere il problema del debito pubblico, si ricorse agli assegnati che si trasformarono in carta moneta. Essi facevano aggio sui beni sequestrati alla Chiesa. In seguito, furono stampati con continuità. Ciò mostra come: «per lo Stato francese […] prevalessero (ancora) le decisioni politiche sugli interessi specifici dei banchieri» (p. 17). Tale primato fu ribadito nell’età napoleonica. Solo dopo Waterloo, ebbe inizio la marcia trionfale del capitalismo. Studiosi di vaglia, hanno riconosciuto il ruolo di primo piano, in funzione anti-napoleonica, delle banche Rothschild.
  • ...
  • Questi ottennero dall’Austria imperiale, ritenuta dal tradizionalismo baluardo della civiltà, il titolo di Baroni. Alla metà del secolo XIX, l’Inghilterra e le sue banche si prodigarono per mantenere in vigore l’equilibrio tra i piccoli Stati nati dal Congresso di Vienna. Da qui il ruolo di rilievo della Gran Bretagna, espressione degli interessi finanziari, nel nostro Risorgimento. La spedizione dei Mille, fu pianificata dagli inglesi con Cavour, al fine di evitare che l’Italia divenisse appendice francese. I medesimi interessi, animarono, a dire di Rossi, la guerra civile americana, in cui a prevalere furono gli Stati del Nord industrializzati. Questi miravano a realizzare scelte protezioniste, contestate dagli Stati del Sud, esportatori di prodotti agricoli. Fu montata, ad hoc, una campagna propagandistica che presentava come “schiavisti” i Sudisti e, al contrario, come difensori dei diritti dei neri, i Nordisti. In realtà, Lincoln non pensò mai di concedere il diritto di voto alle popolazioni nere, né pensò ad alcuna eguaglianza con i bianchi. Da quell’evento storico, l’eterodirezione delle masse divenne strumento privilegiato per indirizzarne le scelte. Quando Lincoln, per far fronte alle spese di guerra, fece appello al primo articolo della Costituzione e fece stampare cambiali-prestito coperte dalla forza-lavoro del popolo americano, venne eliminato.
  • ...
  • Gli USA rinunciarono alla loro sovranità monetaria nel 1913 con il Federal Reserve Act di Wilson. Lo Stato delegava: «ad un consorzio di banche private la gestione della moneta nazionale, compresi tutti gli oneri relativi al signoraggio» (p. 36). Da allora, i destini del mondo furono condizionati dai Rockefeller, dai Warburg, dai Rothschild. Un momento di impasse lo si ebbe con i fascismi. In Germania, per far fronte al debito pubblico prodottosi nel 1929, il presidente della Banca Centrale, l’ebreo Schacht, creò le obbligazioni Mefo. Tali obbligazioni circolavano come moneta, garantita dallo Stato, senza gravare sul debito. Tale divisa era valida all’interno del territorio tedesco, mentre negli scambi internazionali: «i fornitori erano pagati in moneta che poteva essere spesa soltanto per comprare merci fatte in Germania» (p. 47). Medesima situazione si verificò in Italia con la creazione, ad opera di Alberto Beneduce nel 1931, dell’IMI, Istituto che nazionalizzò le tre banche private operanti da noi e, successivamente, dell’IRI. Nei due paesi vennero colpiti gli interessi dell’“intermediazione finanziaria”, pertanto, andavano fermati e, a tanto, si provvide con la Seconda guerra mondiale. Nel 1944, gli accordi di Bretton Woods portarono alla creazione di organismi sovranazionali al diretto servizio della finanza. La Banca dei Regolamenti Internazionali svolse la funzione di vertice della piramide bancaria mondiale e anticipò il costituirsi della Banca Mondiale e del Fondo Monetario. Il dollaro divenne l’unica divisa ammessa negli scambi.
  • ...
  • L’Urss restava l’ultimo impedimento per la realizzazione della governance mondialista. Si lasciò una certa autonomia politica ai paesi occidentali e, sotto il profilo economico, venne mantenuto in essi il Welfare State. Si favorì la decolonizzazione: il colonialismo tradizionale, fu sostituito dalla dipendenza economica dell’ex-colonie. Ovunque, si registrava l’avanzata militare degli Usa. Tale contesto sembrò scosso, nel 1963, da Kennedy. Il presidente reintrodusse la possibilità di stampare moneta negli USA al di fuori della Federal Reserve e, guarda caso, venne assassinato. Con Nixon, la finanza riprese pieno controllo della situazione. Nixon impose: «di accettare il dollaro come base dei commerci internazionali senza che la moneta americana fosse più agganciata ad alcun valore dell’oro» (p. 108). Nel 1981, in Italia, Ciampi propose la completa indipendenza della Banca Centrale, sollevandola dall’obbligo di acquistare i titoli di Stato. Con l’implosione dell’URSS, la globalizzazione estese il proprio potere. In Italia, dopo “mani pulite”, lo Stato sociale fu smantellato e la Banca d’Italia tornò ad essere una SPA. Ovunque si tentò la “normalizzazione” globalista attraverso le guerre balistiche e la colonizzazione dell’immaginario dei popoli non occidentali.
  • ...
  • La crisi economica del 2008 mostrò, di contro, che la produzione di denaro ex nihlo non può essere “coperta” dalla produzione di beni reali. Infine, la pandemia da Covid 19 ha portato allo scoperto il tratto liberticida della governance. La partita è ancora in corso, ci dice Rossi, la guerra russo-ucraina potrebbe avere esiti imprevedibili. Essa mostra che la storia non è affatto finita, come pretenderebbero le élites globaliste.


  • VIVA   la  MORIA   2.0   
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Quando, quasi tre anni orsono, si iniziò a parlare del PNRR scrissi un articolo, dal titolo uguale, nel quale ricordavo quanto scriveva Manzoni «che nella Milano appestata i monatti – addetti al trasporto dei malati al lazzaretto e dei cadaveri al cimitero - brindavano allegramente ripetendo “Viva la moria!”, dato che l’epidemia garantiva agli stessi un lavoro continuo e remunerativo, e la connessa possibilità di rubare e di estorcere denaro a malati e parenti». E che quel gran parlare di novità, di ricostruzione, di generosità europea poteva diventare l’ouverture di una prossima grande abbuffata. Già Conte, allora Presidente del Consiglio diceva che le spese relative dovevano essere decise e distribuite. Che un tale programma fosse il miele per attrarre un nugolo di tax-consommers era chiaro; come lo era che gli stessi si sarebbero fatti in quattro per «come dicono in Spagna buscar un lugar en el presupuesto, ossia a trovare una nicchia nel bilancio ed essendo questo all’uopo abbondantemente fornito, hanno una ricerca facile». Cattiva prospettiva per il contribuente italiano, cui sarebbe comunque toccata la parte di Brighella “che fa le spese”.
  • ...
  • Ad alleviare i dubbi del suddetto Brighella fu anche detto che l’inquinamento (la riduzione del quale era il principale obiettivo del PNRR) aveva aiutato la diffusione del virus. Tesi poco ripetuta, forse perché spericolata.  Da notizie di stampa emerge che tra le spese finanziate dal PNRR ci sarebbero piste ciclabili, campi di padel, strutture per l’assistenza anche ai migranti, ecc. ecc. Tutte cose magari (si spera), non tanto incidenti sulla spesa complessiva, ma le quali più che ad una (necessaria, anzi indispensabile) ripresa economica, sembrano rivolte a finanziare opere ed interventi del tutto marginali, e poco o nulla suscettibili di aumentare reddito, produttività, competitività degli italiani e dell’Italia. Cioè di tutte le belle parole con cui hanno condito anche le finalità del PNRR.
  • ...
  • Per cui non appare errato procedere alla revisione enunciata dal governo. Sperando che, essendo fatta da un governo diverso, non ripeta le “gesta” dei precedenti.

 

  • Falange

  • La Rivoluzione proibita della Falange
  • Un saggio di
  • Bernd Nellessen
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  •  
  • Il fascismo è stato fenomeno politico europeo. In Spagna ha avuto la sua autentica espressione nella Falange di José Antonio Primo de Rivera. A riportare l’interesse su tale movimento, è la recente pubblicazione di un volume di Bernd Nellessen intitolato, La rivoluzione proibita, nelle librerie per Oaks editrice, con prefazione di Massimo Maraviglia (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 212, euro 18,00).
  • ...
  • Il libro, tesi di dottorato dell’autore, fu pubblicato in Germania nel 1960.  Della sua rilevanza storica si accorse l’editore Giovanni Volpe che lo fece uscire, nel 1965, nel suo catalogo.  Si tratta, certamente, di un lavoro scientifico, costruito su una vasta gamma di documenti, dal quale si evince la padronanza di Nellessen dell’argomento trattato. Saggio, pertanto, come precisa Maraviglia, avalutativo, le cui pagine sono costruite da intenzione esegetica sine ira et studio.  Nonostante ciò, come mostra il titolo del libro, l’obiettivo ermeneutico dell’autore è del tutto esplicito: chiarire come le grandi idealità della “prima” Falange siano venute meno nel partito unico voluto da Franco, che ne conservò solo il nome.  Quella della Falange risultò essere, pertanto, una “rivoluzione proibita” o impossibile.
  • ...
  • Il testo muove dall’analisi dei presupposti storici che hanno reso, in Spagna, la prima metà del secolo XX, una lotta senza quartiere tra due diverse idee di mondo: la liberale e la socialista da una parte, e quella “tradizionale” e cattolica dall’altra.  L’autore prosegue, inoltre, con il presentare i personaggi più significativi e le idealità politico-sociali che animarono, fin dalla fondazione, il falangismo.  Nellessen si sofferma su José Antonio e Ledesma Ramos, ma non trascura la personalità di Onésimo Redondo, del cenacolo di Valladolid, né sottovaluta la dialettica interna del movimento, che produsse, in alcune circostanze, divisioni insanabili.  Viene, inoltre, colto il legame sussistente tra alcune tesi storiche del falangismo e le posizioni espresse in tema dal filosofo Ortega y Gasset.   Lo studioso presenta i momenti drammatici della guerra civile, fino a giungere al Decreto di unificazione del 19 aprile del 1937.  Con tale atto, Franco, a suo dire, avrebbe smorzato, nel regime personalistico che andava costruendo, l’afflato rivoluzionario-conservatore e nazionale della Falange, al punto che risulta possibile parlare di una prima e una seconda Falange.  Queste due diverse esperienze politiche non avrebbero nulla in comune, se non aspetti formali. Nellessen mette in luce il tratto minoritario, élitista e intellettuale, della prima Falange che, per questo, non  avrebbe potuta percorrere altra strada, in quanto il “velleitarismo” di José Antonio e dei suoi, in sé, non era latore di effettivi sbocchi politici.
  • ...
  • In realtà, come colto dal prefatore, il sorgere delle idealità falangiste, rappresentò una sorta di reazione alla cattiva modernità, all’atomismo sociale che andava dissolvendo, perfino in Spagna, in nome dell’utile e dell’economico, l’intero corpo sociale . Due furono i punti centrali attorno ai quali  tale contromovimento, mirato a costruire un’altra modernità, atta a recuperare i valori dell’ hispanidad, si coagulò: la difesa della comunità e della trascendenza religiosa. Ciò comportò, secondo Maraviglia: «da un lato lotta serrata contro la risorgente tentazione del particolarismo, dall’altro affermazione incontrastata della Weltanschauung cattolica» (p. II). Riconquista dell’unità statale legata, naturalmente, al dinamismo proprio alla vocazione imperiale dell’hispanidad: «L’unità dello Stato apre a una trascendenza religiosa e questo […] la salva dal divenire il programma di un imperialismo orizzontale» (p. III).  Tale atteggiamento è esemplarmente mostrato dal simbolo della Falange, laddove giogo e  frecce: «esprimono proprio il vincolo che serra in un identico destino tutti gli spagnoli e il dinamismo di una realtà che mai si ferma alle mete raggiunte» (p. III).
  • ...
  • La buona modernità, segnata dal cattolicesimo, nella prospettiva della Falange, si contrappone alla modernità escatologica e utopistica. Si tratta, in qualche modo, del riproporsi del secolare conflitto di Spagna e Inghilterra, da cui, nel 1713, con la pace di Utrecht, uscì sconfitta la prima.  All’incipit del ventesimo secolo, tali rapporti avrebbero dovuto essere ribaltati, attraverso la contro-politicizzazione della società spagnola, che cominciava a esser permeata dal giacobinismo illuminista. In tale progetto, la Falange, pur risultando alla fine sconfitta e risucchiata nel fronte anticomunista creato dal Franchismo, non per questo sparì dall’agone politico.  Quella resa da José Antonio e da altri appartenenti al movimento, al momento della loro esecuzione, è testimonianza vitale, dal tratto mistico-religioso. I loro corpi offesi, ancor oggi, mettono a tacere i falsi valori della clase discutidora, le cui parole sono vuoto orpello retorico, in quanto: «il testimone produce un taglio nella catena inarrestabile delle argomentazioni, opponendo […] il peso ineguagliabile del proprio corpo ferito» (p. X).   Il sacrificio della vita erige un saldo confine tra l’autentica testimonianza e la prudenza vile dei più: «Ovunque tale muro viene costruito, si genera lo spazio per una nuova dignità della politica» (p. XI), chiosa il prefatore.
  • ...
  • Non casualmente, José Antonio ebbe a scrivere che i primi fermenti rivoluzionari non possono esser compresi dalle masse, in quanto queste, vivendo un periodo di decadenza, tendono a perdere il mirabile dono della “luce interiore”. Ecco, l’azione, le idee e la vita del fondatore della Falange, tesero a restituire alle masse contezza di sé, al fine di renderle  effettivo soggetto della storia e non mero strumento oggetto di eterodirezione. 

 

 

 

 

  • Ermete trismegisto

  • La Rivelazione di Ermete Trismegisto
  • Il dio ignoto
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • È nelle librerie, per la casa editrice Mimesis, il quarto volume de, La Rivelazione di Ermete Trismegisto. Il dio ignoto e la Gnosi, parte conclusiva della monumentale opera che André-Jean Festugière ha dedicato al Corpous Hermeticum (per ordini: mimesis@mimesisedizioni.it, pp. 526, euro 32,00). Un primo dato di rilievo, riguarda il lavoro del curatore, Moreno Neri, che si è prodigato, da par suo, in un lavoro complesso e certosino, producendo un’analisi puntuale e organica tanto dell’ermetismo, quanto dell’opera di Festugière. In tal senso, risulta particolarmente importante la sua postfazione, che fa il punto sui risultati esegetici conseguiti anche nei precedenti tre volumi. L’opera dello studioso francese, fino agli anni Ottanta del secolo scorso, è stata punto di riferimento degli studi sulla tradizione ermetica. Essa venne composta nel decennio 1944-1954, e, ancor oggi, riveste un ruolo di rilievo per chiunque voglia accedere a questo universo realizzativo.
  • ...
  • In questo quarto volume, non casualmente intitolato, Il dio ignoto, Festugière affronta il problema della gnosi, vale a dire della conoscenza necessaria per avere accesso al dio Trascendente. Si tratta della vexata quaestio che fu al centro del dibattito filosofico-religioso durante il periodo imperiale. A giudizio dell’autore, il tema del dio “inconoscibile”, “ignoto”, non sarebbe originario dell’Oriente, dell’Egitto in particolare, come rilevato da altri studiosi, ma si sarebbe palesato all’interno della tradizione greca pitagorico-platonica.  Nell’analizzare la gnosi, al fine di addivenire alla comprensione del suo reale ubi consistam, Festugière si avvale di testi platonici prodotti nel II sec. d.C., di quelli di Albino, Apuleio, Celso, Massimo di Tiro, Numenio.  La prima parte del volume, ha, pertanto, tratto eminentemente filosofico, mentre la seconda, nota Neri: «si basava maggiormente sull’esame di testi ermetici più o meno confusi e oscuri» (p. 2115). Dall’analisi emergono due atteggiamenti realizzativi contrapposti e diversi, l’uno centrato sull’estroversione, l’altro sull’introversione.
  • ...
  • Nel primo caso, l’adepto esce da sé per incontrare Dio, nel secondo caso viene, al contrario, “invaso” dal Principio.  In tale contesto, Festugière si sofferma ad analizzare la nozione di aión.  Tale termine, che in origine indicava il “principio vitale”, la “vita”, evolse, nel corso del tempo, nel concetto di “eternità”. Per il francese, aión può essere tradotto con “Divinità”: «non solo nell’ermetismo, ma nei papiri magici e in alcuni testi filosofici» (p. 2115). Al di là di questa breve sintesi del quarto volume, la lettura dei precedenti testi editati anch’essi da Mimesis e, soprattutto, la postfazione di Neri, ci inducono a discutere alcuni temi dell’ermeneutica ermetica di Festugière. La sua lettura, non solo tende a ricondurre alla Grecia l’intero patrimonio del Corpus, ma è attraversata da dualismi di ogni tipo. Innanzitutto, egli tende a distinguere l’ eremetismo “popolare” e magico, da un ermetismo “colto” e filosofico, quando invece le due espressioni della sapienza ermetica si intrecciano e interagiscono l’una sull’altra.   Zosimo, che tra ermetisti fu colui che: «assunse la posizione più contraria alla magia» (p. 2121), integrò, gradualmente, alcuni suoi aspetti, presentando una sintesi teorico-pratica di tale movimento di pensiero. Ciò vuol dire, come rileva il curatore, che la visione dualista pecca di una costitutiva ambiguità, in quanto, come comprese nell’ambito storico-religioso, Ugo Bianchi, in essa è, di fatto, implicito il monismo, ed è proprio: «questa vocazione monista che starebbe alla base dell’ermetismo come di recente sostenuto nel saggio di Z. Pleše» (p. 2125).
  • ...
  • Le contrapposizioni dualiste, corpo-anima, natura-Dio ecc., servono da “supporto”, lungo la “via”, all’Uno. In questo senso, la tradizione ermetica nel Novecento è tornata a mostrarsi in filosofia, negli autori che hanno teso a porsi oltre il dominio del concetto, del logocentrismo distinguente, tra essi Deleuze.   Il culmine della gnosi ermetica consiste, infatti, nel superamento dei “confini” posti dal pensiero, in funzione del suo costituirsi sulla distinzione di soggetto-oggetto: si tratta di una conoscenza non-duale, presente in molte tradizioni.   Per giungere a tanto bisognava vivere una fase preparatoria nella quale i contenuti dei trattati ermetici illustravano le virtù atte a facilitare la “rigenerazione”, la “rinascita” dell’adepto.   Al dio “inconoscibile”, si giunge per via negationis.   In Ermete si legge, Dio è: «quello che non consiste in nessuna di queste cose» (p. 2173).   Bisogna seguire la via del “non-essere”, è necessario, al fine di realizzare la gnosi, de-identificarsi.   A ciò muove il “desiderio”, la “nostalgia” di Dio: essa consente all’uomo di “riconoscersi” nella “rinascita”.  Si tratta: «di una tecnica di deprivazione sensoriale che innesca un’esperienza extracorporea» (p. 2175), suggerisce Neri.   Ecco, allora, palesarsi l’unità di tutte le cose.
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  • Chi realmente abbia compreso, sa che, a ragion veduta, non è neppure possibile parlare di “via”, in quanto il cammino avviene nell’interiorità e conduce alla coscienza cosmica e unitiva, nella quale la vita ordinaria è ridotta a mero miraggio, sogno a occhi aperti: «il corpo e i pensieri scompaiono e sono visti come una aggiunta estranea» (p. 2176).     Tale visione è del nous, coscienza sovra individuale. Al fine di disidentificarsi, i trattati parlano della rilevanza del silenzio, quale pratica meditativa. Il lógos viene tacitato ed emerge l’intelletto, che instaura uno stato di concentrazione mentale. L’ultimo grande ostacolo per il “risveglio” è dato dalla caligine, dalla difficoltà di vedere oltre la nebbia del non-sapere.  Oltre essa, sta l’indiarsi.   L’attimo che lo precede è esemplificato dal serpente che si morde la coda, al cui interno si trova l’iniziato accompagnato da una laconica iscrizione: «Questo è il cadavere» (p. 2182). Qui avviene l’incontro di morte e resurrezione, la coicidentia oppositorum: «L’uomo vecchio […] è ora un uomo nuovo […] una riattualizzazione o ierofania dell’ Uomo archetipico» (p. 2184).
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  • Il curatore, nella postfazione, ricostruisce con dovizia di particolari e in modo critico, la storia dell’esegesi dei trattati ermetici, soffermandosi in particolare sugli studiosi del Novecento: ricorda, tra le altre cose, che Zielinski, ricollocò, contro l’interpretazione egitto-centrica, gli Hermetica nella cultura greca, suddividendoli in tre serie: «peripatetica, platonica e panteista» (p. 2143).
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  • Essenziale ci pare, in termini bruniani, il riferimento al panteismo.   Solo in tale prospettiva la visione dualista viene meno ab initio e consente di esperie l’origine “mediterranea” dell’ermetismo.  I quattro volumi di Festugière, le note critiche di Neri, rendono davvero unica e dirimente questa pubblicazione.

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  • PD e LEGITTIMITÁ in SALITA
  • di 
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • C’è un “nocciolo duro” che collega il processo di decadenza della classe dirigente della “Seconda repubblica” e in particolare il PD, confermato dalle ultimi elezioni regionali, tutte perse dall’opposizione e l’ultima rovinosamente (Fedriga ha riportato più del doppio dei voti del candidato PD-M5S ed altri): è la perdita di legittimità delle élite in disfacimento.
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  • L’ironia della Storia ha fatto sì che, con le ultime elezioni politiche il primo partito e la Presidente del Consiglio della “Repubblica nata dalla resistenza” siano gli eredi di coloro che la resistenza l’avevano combattuta e dall’ “arco costituzionale” erano esclusi. Così che attualmente, contrariamente alle litanie ripetute da decenni, la volontà popolare ha rifiutato l’armamentario propagandato – fino a qualche anno fa confortato dal consenso – dal 1945. In un certo senso ha disconosciuto la paternità.
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  • Questo, indipendentemente dal fatto che la “tavola dei valori” che ispira la nostra costituzione, da non identificare con quella propagandata per decenni dalla sinistra (e non solo) che ne costituisce una versione parziale e ad “usum delphini”, non abbia ancora una sua legittimità, nel senso di una diffusa condivisione.
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  • Gli è che, come scriveva Thomas Hobbes, l’essenza del rapporto politico e quindi del comando-obbedienza, è che chi pretende il comando deve dare protezione (effettiva). Con la conseguenza che se quella protezione non viene data cessa anche l’obbligo di obbedire. Questo è asserito dal filosofo di Malmesbury proprio nell’ultima pagina del Leviathan: di aver scritto il trattato “...senza altro scopo che di porre davanti agli occhi degli uomini la mutua relazione tra protezione ed obbedienza; alle quali la condizione della natura umana e le leggi divine – tanto naturali che positive – richiedono un’osservanza inviolabile”.
  • ...
  • E nelle pagine precedenti del Leviathan ci dà un saggio di ciò che non dà protezione e quindi non serve a pretendere obbedienza. “Casistica” che ha più che qualche carattere di somiglianza con quanto praticato (anche) dalle élite decadenti, e ancor più con i cattivi risultati della loro azione di governo. Ad esempio quando Hobbes paragona la Chiesa cattolica al regno delle fate (e gli ecclesiastici alle fate) anche perché “Quale specie di moneta abbia corso nel regno delle fate non è detto nella storia; ma gli ecclesiastici invece accettano nelle loro riscossioni la moneta, che noi coniamo, benché, quando debbano fare qualche pagamento, li facciano consistere in canonizzazioni, indulgenze e messe” e così i chierici non lavorano, ma come le fate, vivono approfittando del lavoro degli altri, banchettando con la crema del latte munto dai fedeli (o – per il potere temporale - dai sudditi).
  • ...
  • C’è più di un’analogia con i trasferimenti di ricchezza, da tax-payers a tax-consommers operati dai governi delle élite, o ancor più con la predazione diretta (e indiretta) connessa; senza trascurare che ad ogni salasso si accompagna una enunciazione di buone intenzioni, e ancor più lo “scambio” di beni con chiacchiere.   Oppure quando Hobbes mette in guardia dall’insistere nel giustificare l’esercizio del potere col richiamo al titolo giuridico (successione, conquista, consuetudine), invece che all’effettività e risultati ottenuti.   O, in senso contrario, col giustificare il proprio potere condannando le malefatte del regime precedente (invece dei risultati propri).
  • ...
  • Il potere pubblico, assai più che ai tempi di Hobbes, ha giustificato dallo scorcio del XIX secolo il proprio intervento e così la pubblicizzazione di attività private (soprattutto nell’economia) con gli effetti in termini di sicurezza del futuro. Ma i risultati italiani nell’ultimo trentennio, quando l’influenza del PD (e predecessori) è stata determinante, sono i peggiori dell’area UE (ed euro).   Onde i risultati di un’azione di governo esteso all’economia sono pessimi, e pertanto non c’è legittimità “di scambio” (protezione/obbedienza) che possa confortarla. Non resta che rivolgersi ad una legittimità fondata sulle intenzioni conformi a certi valori. Ciò ha un doppio limite: che quei valori debbano essere condivisi dalla maggioranza e, di conseguenza – e a lato – debbano essere ragionevoli.    Tuttavia condivisione ce n’è poca (v. risultati elettorali) e ragionevolezza (nel senso di obiettivi effettivamente alla portata di un’azione di governo) non di più.  Non si capisce infatti come insistere nel primario obiettivo di tutela dei c.d. “diritti umani” di esigue minoranze posponendo loro i “diritti sociali” conseguiti nel XX secolo sia produttivo di consenso, soprattutto maggioritario. Significa scambiare (con gioia?) parte dello stipendio e della pensione per promuovere le unioni tra omosessuali, l’utero in affitto, ecc. ecc. Che ci guadagna la stragrande maggioranza?
  • ...
  • Quanto alla ragionevolezza va tenuto conto che il marxismo ha provato il carattere totalmente immaginario del proprio esito ultimo: la società comunista, cioè il paese dei balocchi. Ma il vizio non è stato perso.  Alla natura umana e all’ordine politico sono connaturali due caratteri: la paura della morte e la preoccupazione per il futuro.    Ambedue strumenti di governo (e di accettazione – consenso) del potere politico. Quanto al primo c’è stato il tentativo di sfruttare come instrumentum regni il Covid, e poi la guerra russo-ucraina. Quest’ultima, contraddittoriamente (per la sinistra) quale lesione alla libertà e sovranità di popolo.  Ma quale beneficio ne abbia tratto il PD (e soci) non si vede.
  • Quanto all’ansia per il futuro: ossia (anche) della sicurezza economica (propria e di tutti):  non si capisce quanta tranquillità agli italiani impoveriti possa venire (sia dai risultati che) dalle intenzioni dichiarate di un partito preoccupato di tutt’altro (LGTB et similia).
  • ...
  • Hobbes scriveva che concepire il futuro presuppone l’esperienza del passato “Un concetto del futuro è solo una supposizione circa il medesimo derivante dal ricordo di ciò che è passato; e noi, in tanto concepiamo che qualcosa avverrà di qui in avanti, in quanto sappiamo che c’è qualcosa al presente che ha il potere di produrla. E che qualche cosa abbia al presente il potere di produrre in avvenire un’altra cosa, non possiamo concepirlo, se non grazie al ricordo che esso abbia prodotto la stessa cosa già altra volta”.   Ricordo che non è dei migliori.

 

  • Hjalmar Schacht,
  • Magia del denaro,
  • Oaks Editrice 2023, pp. 310, € 24,00
  • rec. di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Il nome di Hjalmar Schacht dice poco al lettore italiano contemporaneo (a meno che non sia uno storico dell’economia): banchiere, finanziere, commissario per la moneta (1923), Presidente della Reichsbank, Ministro delle Finanze e dell’Economia nazionale di Hitler. Dimessosi da Ministro, nel 1944 fu incarcerato perché sospetto di aver avuto contatti con i congiurati del 20 luglio e, poco tempo dopo – giudicato per crimini di guerra (e assolto) dal Tribunale di Norimberga.
  • ...
  • Il suo prestigio era tale che continuava, nel secondo dopo guerra ad ispirare le riforme economiche e finanziarie nella Germania occidentale, e fare il consulente di altri Stati. Quale “tecnico” dell’economia, operò e collaborò con governi di quattro “formule politiche” (scriverebbe Gaetano Mosca): l’Impero guglielmino, la repubblica di Weimar, il regime nazista e la repubblica federale. Il fatto che abbia goduto di fiducia e considerazione pluripartizan è la conferma delle sue capacità fuori dal comune; e dei risultati conseguiti. Pertanto, in un periodo storico come l’attuale, turbato da crisi la cui soluzioni e – almeno in Italia – e secondo la comunicazione mainstream – dovrebb’essere “tutto il potere ai tecnici”, è quanto mai opportuna la ri-pubblicazione di questo libro. Non foss’altro per rendersi conto della differenza tra Schacht e qualche insegnante promosso a governare in Italia “per fare i compiti a casa”.
  • ...
  • In effetti Schacht appare come risolutore di crisi economiche. Tante ne dovette affrontare nella sua carriera di banchiere pubblico, e fu decisivo per superarle.  Dall’inflazione del marco all’inizio degli anni ’20 al pagamento delle riparazioni imposte a Versailles, dal pagamento del debito estero alla grande crisi del ’29.  Scrive Schacht “problemi, come quelli che il periodo 1920-1940 ha sollevato, non sono apparizione sporadica ma che, invece, di tempo in tempo, tornano a presentarsi nella medesima forma o in un ‘altra simile”. In effetti problemi non troppo dissimili si sono presentati in questo secolo, anche in forma diversa e spesso attenuata dallo sviluppo del Welfare State dopo la crisi del ’29.  Quello che il grande banchiere non ha mai dimenticato è che la moneta e la banca si reggono sulla fiducia e quindi sulla responsabilità del banchiere nell’erogare il credito “Alle false strade della politica monetaria appartiene l’assunzione di crediti quando sulla possibilità della loro restituzione non ci si dà, con eccessiva leggerezza e irresponsabilità, alcun pensiero”.
  • ...
  • Emerge così dal libro quella che si può definire l’etica di ruolo del banchiere, soprattutto del banchiere centrale. Non bisogna dimenticare come Schacht, il quale con la sua genialità aveva contribuito a finanziarie la ripresa degli anni ’30 e il riarmo della Germania, si dimise nel 1937 da Ministro quando si accorse che la politica hitleriana avrebbe portato la Germania alla distruzione (e quindi all’insolvenza). Nelle ultime righe Schacht scrive “È sempre la magia del denaro a porre problemi. Problemi che cambiano sempre e per i quali, dobbiamo rendercene conto, non esiste un sistema risolutivo valido genericamente. Ogni nuova situazione richiede nuovi metodi, nuove intuizioni, nuove idee. Alla base di tutto, comunque, deve esserci sempre e soltanto questa considerazione: mantenere in buona salute la moneta tedesca”.   Un libro da non perdere anche per capire e valutare l’oggi.

 

  • storia come arte5

  • Marcelino Menéndez Pelayo
  • La storia come arte
  • Iduna Editrice
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • Chi scrive è fermamente convinto che sia ineludibile il confronto con le filosofie della storia. Stante le lezioni di Löwith, Voegelin e Strauss, esse sono il prodotto dell’immanentizzazione del fine della storia cristiano (la Redenzione) e hanno prodotto le tragedie del secolo XX.   Negli esiti sono risultate anticristiane, nelle premesse condividono pienamente lo schematismo del provvidenzialismo storico.   Abbiamo letto con interesse il volume dello studioso spagnolo Marcelino Menéndez Pelayo, La storia come arte, nelle librerie per Iduna Editrice, a cura di Massimo Maraviglia (per ordini: associazione.iduna@gmail.com, pp. 87, euro 12,00).
  • ...
  • L’autore (1856-1912) animò la vita culturale spagnola della seconda metà del secolo XIX e dell’inizio del XX secolo.  Introdotto nei circoli intellettuali e in quelli dell’aristocrazia, genio eclettico, precoce e versatile, produsse un numero considerevole di opere, connotate, in uno, da ampia erudizione (i suoi scritti sono supportati da una bibliografia davvero sterminata), ma anche da empatia per le tematiche trattate. Spaziò dalla filosofia alla teologia, dall’estetica alla letteratura: il suo approccio fu, per ampiezza di interessi, rinascimentale.   Amò la Spagna, la sua cultura, le sue tradizioni e, convintamente, in un’epoca nella quale il laicismo era prepotentemente comparso perfino sulla scena politico-culturale del paese iberico, si disse cattolico.   Va rilevato, come opportunamente chiarisce il curatore, che le diverse discipline cui si dedicò, trovarono un punto di convergenza negli studi storici o meglio negli studi mirati a individuare il senso della storia.
  • ...
  • Il testo che brevemente andremo a discutere, La storia come arte, in realtà è la prolusione che lo studioso pronunciò il 2 marzo 1883 quando, giovanissimo, fu ammesso all’Accademia Spagnola della Storia. Testo breve che, nella sua sinteticità, rappresenta una sorta di manifesto della visione del mondo dell’autore. Si tratta di un volume centrato sulla polemica anti-positivista. L’Europa stava entrando, in quel frangente, nel clima culturale storicista, in cui il positivismo, soprattutto di matrice tedesca, svolgeva un ruolo di primo pano.   Di contro alle posizioni “scientifiche” dei positivisti, alla ricerca dell’oggettività storica, lo spagnolo in queste pagine mette in luce il legame che lega la storia all’arte.   Faccia attenzione il lettore! I critici del positivismo si rifacevano all’arte: «non tanto per la possibilità di sganciarsi dal rigore di un storia attentamente documentale, quanto per l’angustia di un sapere che, idolatrando il fatto, metteva in ombra le sue risonanze di senso» (p. XVIII), nota Maraviglia.
  • ...
  • Menéndez Pelayo riteneva indispensabile il rinvenimento del senso degli eventi storici e riteneva che lo studioso serio dovesse andare, inoltre, alla ricerca delle regolarità che si manifestano nel percorso umano.  Per questo, nelle sue tesi, antropologia e teologia sono pensate in uno.   Negli eventi i fattori dirimenti, a suo dire, sono il libero arbitrio, la Provvidenza e l’identificabilità in essi della legge morale: «Lo storico […] doveva cercare il senso dei fatti, mai perdendo di vista […] le lampade che illuminavano il corso degli eventi: libertà, Provvidenza, morale» (p. XIX), anche se la razionalità della storia non doveva essere interpretata in termini rigidamente deterministici. Nella storia vigono, a dire del pensatore iberico, tre leggi: 1) legge della continuità solidale, tendente a leggere il procedere umano in termini di continuità e non in modalità rivoluzionaria; 2) legge dell’ evoluzione storica, conseguenza della precedente ed esprimente, in particolare, che: «i fattori della storia esprimono una sorta di conatus in direzione di un dipanarsi ragionevole del filo degli accadimenti» (p. XX); 3) la legge dell’influsso dei grandi uomini. Questi ultimi vengono liberati, nell’esegesi dello studioso spagnolo, dalla soggezione all’hegeliana “astuzia della ragione”, in quanto: «la Provvidenza regna, ma alla fine è l’uomo che decide» (p. XX).
  • ...
  • Avverte, profeticamente, il nostro autore, che i popoli europei, oltre al rischio dell’esaltazione del ruolo politico della classe presente in Marx, sarebbero andati incontro all’universalismo cosmopolita, irrispettoso delle differenze e delle identità.  Menéndez Pelayo riteneva la storia prossima all’estetica, non semplicemente per la sua narrazione, che doveva avere tratto affabulante, ma: «relativamente a tutto il suo contenuto che, […] deve restituire la forma ideale dell’essere uomini […] un nucleo fondativo che ci dice cosa è necessario perché vi sia un uomo e che cosa debba risplendere ovunque vi sia un uomo» (p. XXI). La sua analisi è intrisa dall’idea del divenire, dell’evolversi di tutte le cose. Esse, di contro, sono lette nel loro collegamento con l’universale, con l’idea platonica che il Nostro apprezzò, assieme allo spirito classico, nel suo intenso percorso formativo.
  • ...
  • La sua proposta, prendendo le mosse dalla critica al positivismo, allo storicismo, in realtà ci pare una falsa via di uscita dal loro scacco. Egli, di fatto, propone un ritorno alla teologia della storia, sia pur tentando di mitigarne l’aspetto deterministico. Se si pone all’inizio di tutto Dio, o qualsivoglia principio d’ordine, lo stigma necessitarista risulta insuperabile.  Forse i “krausiani”, i panteisti e alcuni tra gli “eterodossi” che tanto criticò, nella loro ri-scoperta della physis greca, quale luogo esclusivo del darsi del principio infondato della libertà-dynamis, potrebbero rappresentare il riferimento ideale per superare tanto le teologie quanto le filosofie della storia.  La visione “aperta” del tempo, nietzschiana-heideggeriana-locchiana, mira infatti al sempre possibile Nuovo Inizio dell’origine.   Paradossalmente, proprio per questo, La storia come arte è libro importante, da leggersi con attenzione.    Svolge la stessa funzione, nella definizione teorica dell’idea di storia “aperta”, che gli “eterodossi” ebbero nella costruzione del sistema di Menéndez Pelayo.

  • ALLA  C.P.I.  MANCA L’ISPETTORE GINKO
  • di
  • Teodoro Klitsche de  la Grange
  • La notizia che la Corte Penale Internazionale ha spiccato un mandato d’arresto nei confronti di Putin non è inaspettata: è un altro tassello della tendenza, tutta moderna (ma non solo) a confondere la politica con il diritto, e segue l’altra simile, di confonderla con la morale.
  • ...
  • Altri exploits del genere, come quando anni orsono, alla Corte erano intenzionati a procedere nei confronti dei funzionari USA per gli abusi sui detenuti a Guantanamo, furono respinti dall’allora amministrazione USA come pericolosi e irresponsabili. Ci sarebbe tanto da scrivere su quella confusione, sulla funzione della politica e sul carattere del “trasgressore”, il quale in politica è il nemico, nel diritto penale il reo. Mi limito ad alcune breve considerazioni.
  • ...
  • La C.P.I. nacque, per così dire, zoppa: ad onta delle grandi manifestazioni di giubilo che ebbe in Italia quando fu istituita, si capiva che non avrebbe avuto vita e azione facile dal fatto che tutti gli Stati che avevano maggiori possibilità di trasgredire la normativa applicanda, si erano ben guardati dal ratificarne il trattato istitutivo: Russia, USA, Cina, Turchia, India, molti paesi arabi ed Israele. Oltretutto il fatto che la C.P.I. fosse competente a giudicare del “crimine di aggressione” giovava a tenerne lontani tutti gli Stati che avevano intenzione non solo di farla, ma anche di essere coinvolti in una guerra (v. sopra), anche se (talvolta) non aggressori.
  • ...
  • In secondo luogo: la C.P.I. non ha una forza pubblica che ne esegua le decisioni, attività rimessa alla cooperazione degli Stati. Ovviamente poco intenzionati a farlo ove a subirle fossero politici e funzionari degli stessi. Da qualche secolo il carattere distintivo (e intrinseco) del diritto è di essere applicato con la coazione. Come scriveva Kant “al diritto è immediatamente connesso, secondo il principio di contraddizione, la facoltà di costringere colui che lo pregiudica” per cui “Diritto e facoltà di costringere, significa dunque, una cosa sola”. Lo Stato moderno, che ha rivendicato a se il monopolio della violenza legittima (e della decisione politica) è l’istituzione che ha assunto la funzione di applicare il diritto esercitando il monopolio della coazione. Ma se, come nel caso delle decisioni della C.P.I., per essere eseguite sono rimesse al bon plaisir degli Stati, il problema reale è quello di convincerli o costringerli a farlo. Col che il tema della forza, apparentemente uscito dalla porta, rientra dalla finestra. E in effetti i casi di applicazione di indagini e decisioni della C.P.I. concernono ex governanti di Stati falliti o convinti, magari con qualche previo bombardamento di persuasione, a farlo.
  • ...
  • Così come avvenuto per il processo di Slobodan Milosevic (e altri) dell’analogo (alla C.P.I.) Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia. Ma, data l’altissima improbabilità che la decisione venga eseguita, quali effetti può avere? Quelli più facilmente prevedibili e di contribuire col timbro della C.P.I. alla criminalizzazione di Putin, cioè del nemico, e, quindi forse, a rinfocolare il sentimento d’ostilità – per la verità non imponente – dei popoli della “coalizione anti-russa” nei confronti dell’arcidiavolo del Cremlino.   L’altro, connesso, è che criminalizzare il nemico, se può soddisfare la vittima ha in genere l’effetto di intensificare e prolungare la guerra. E qua passiamo ai caratteri distintivi tra “politico” e “diritto” e alle regole che derivano dalle differenze.
  • ...
  • La prima delle quali è che, come scriveva Hegel, “non c’è il Pretore tra gli Stati”; non essendoci un’istituzione terza (il “Pretore”) in grado di costringere i belligeranti, l’unica possibilità è che un terzo/i volenteroso/i e soprattutto equidistante/i, si offra di arbitrare il conflitto, anche prospettando sanzioni in caso negativo o benefici in quello positivo. Ma questo terzo/i è in genere un altro Stato: e nel caso che tutti gli Stati che finora hanno manifestato (o realizzato) di voler mediare (la Cina) o raffreddare le ostilità (come la Turchia per le esportazioni di cereali) sono Stati che, avuto riguardo (soprattutto) al loro interesse sono, intervenuti in tal senso. Cioè a mediare: non Tribunali istituiti per condannare
  • ...
  • La seconda è che il nemico in politica non è un criminale: e tale distinzione (già nel Digesto) non è dovuta tanto ad un disprezzo per regole, leggi, norme, quanto alla considerazione realistica che, essendo l’ostilità e i conflitti coessenziali alla politica, il nemico non è solo colui con cui si fa la guerra, ma anche quello con cui si tratta la pace. A meno di non volerne la distruzione totale, come entità politica se non fisica; come nel caso di resa incondizionata e successivo processo quale criminale di guerra. Ma una tale prospettiva è tutt’altro che incentivante la pace. Un bel processo e un’esemplare condanna, sono poca cosa rispetto ai tanti danni che proseguire un conflitto provoca. Un morto in più, prima della guerra, come detto da millenni da Plotino (il “visir” di Tolomeo perorante l’uccisione di Pompeo) fino ad un ex Presidente del Consiglio italiano qualche giorno fa, può evitarne anche decine di migliaia, se eseguito prima o durante la guerra. Ma nessuno, a guerra conclusa.

  • I cani del tempo

  • I cani del tempo
  • Icone della pazienza
  • di 
  • Andrea Tagliapietra
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  •  
  • La società post-moderna è centrata sul primato dell’impazienza. Tale modo di essere permea le nostre vite. Per dirla con le parole di Andrea Tagliapietra, filosofo teoretico impegnato nella definizione di un modo di esperire l’esistenza che si ponga oltre i dualismi metafisici, essa: «può essere ritenuta la cifra contemporanea dell’esperienza soggettiva» (p. 7). La citazione è tratta dalla sua ultima opera, I cani del tempo. Filosofia e icone della pazienza, nelle librerie per Donzelli editore (pp. 191, euro 34,00).   Libro davvero importante, nelle cui pagine la ricerca filosofica è strettamente intrecciata con l’esegesi della produzione pittorica che, nel corso del tempo, ha fatto oggetto di rappresentazione l’animale domestico per eccellenza, il cane, simbolo della virtù della pazienza. Il volume è cruciale soprattutto per chi, come lo scrivente, sia convinto che l’orizzonte dischiuso dalla physis, possa rappresentare l’unica trascendenza cui guardare e in cui tutto è incluso.
  • ...
  • Un testo, quello di Tagliapietra, non di mera erudizione accademica ma aperto, con decisione, alla critica del presente. Il pensiero critico: «non può rinunciare a essere anche una critica radicale della forma assunta oggi dall’esperienza soggettiva […] dal momento che essa viene intesa come una figura storica epocale» (p. 7).  Siamo tutti perpetuamente proiettati, sia pur ormai in forma secolare e “spettacolare” sul futuro. Solo la virtù opposta al tratto costituivo del presente, la pazienza, può richiamarci: «a una dimensione essenziale del nostro essere […] del nostro corpo come dell’ambiente naturale che ci circonda» (p. 8).   Tale dimensione altro non è se non il tempo della vita, del corpo e dell’attenzione nei confronti di ciò che è. Ben lo sapevano i Greci, soprattutto Eraclito, che il corpo presenta una trasparenza silenziosa, che si vela nel momento in cui si cerchi di illuminarla, di porla sotto i riflettori della conoscenza logistica. Il lògos aurorale ellenico non conosceva distinzione di anima e corpo né, tantomeno, quella uomo-animali-enti di natura. Solo nella rappresentazione animale, oltre l’antropocentrismo, torna a mostrarsi la vita nuda.   Tagliapietra presenta, pertanto, un percorso ideografico nel quale la teoresi abbraccia la storia delle idee, ponendoci al cospetto delle icone del pensiero: «che esplorano la metafora animale in prossimità con l’essere umano» (p. 9).
  • ...
  • L’ideografia mette in scena la prossimità delle diverse forme viventi, alla luce del “limite” che le connota, nella consapevolezza della loro vulnerabilità, che gli permette di assumere il volto della pazienza.  Nella pittura europea il cane, generalmente, appare quale “dettaglio”, ai margini del soggetto principale della rappresentazione.  Tagliapietra dimostra come le figurazioni pittoriche dell’“amico dell’uomo”, altro non siano che simboli del tempo.  Mentre, stante la lezione di Agostino, il concetto e l’idea non riescono a “definire” la temporalità, essa prende corpo e consistenza nell’icona.   In ogni caso, anche per il filosofo d’Ippona, il luogo della “misurabilità” del tempo, è l’anima: «L’anima c’è in tutto ciò che vive, eppure il suo essere è impossibile da dire» (p. 11). Di essa, ne ebbe contezza Klages: «può darsi un’immagine» (p. 11). Questa è atta a ospitare l’erranza della verità, la sua “catastrofe” logica.   Tali icone presentano esemplarmente la coincidentia oppositorum: «le immagini pensano senza parole, attirano coloro che le guardano in un’attesa silenziosa carica di pensieri, ci invitano alla pazienza di vederle più da vicino» (p. 13). Simmel aveva intuito che il ritratto era atto a ripristinare l’unità antropologica di interiorità e esteriorità, di anima e corpo, in quanto: «l’artista […] mostra l’anima come qualcosa di visibile» (p. 15). Nonostante ciò, egli rimase prigioniero della visione antropocentrica e metafisica, non riconoscendo l’anima: «in quella visibilità metamorfica della vita […] ma nell’espressione dell’individualità umana» (p. 15).
  • ...
  • Lo scarto ontologico tra uomini e altri esseri viventi, di fatto, non è mai venuto meno nel pensiero europeo (in tal senso eccezioni possono essere rappresentate da Fechner, Bruno e Derrida, i quali leggono gli enti quali manifestazioni sempre all’opera della dynamis).   Il paradigma iconico da cui prendono avvio le pagine di Tagliapietra è dato dal dipinto, Due cani da caccia legati a un ceppo (1548-50) di Jacopo da Bassano.   In questa pittura ciò che si coglie del soggetto: «è la sua passività […] la sua temporalizzazione» (p. 17).   In siffatto contesto, l’anima indica il patire, che indica, in uno, soffrire, certo, ma anche vivere di passione, situazioni esistenziali proprie di tutto ciò che è soggetto al tempo. Nel dipinto è in gioco la singolarità, ciò che Andrea Emo, con linguaggio attualistico, definì la presenza, ciò che rende unico e insostituibile ogni essere vivente: «il tempo si concentra senza passare, si deposita nella splendida icona del corpo animale, nella sua durata, senza tradursi nell’intenzionalità e dispersiva cinetica dello spazio» (p. 25).   È un tempo che si addensa quello cui i cani della pittura alludono. Nell’assecondare tale intuizione, l’autore compie l’analisi di alcune opere di Dürer, attraverso le quali si sofferma sulla focalizzazione di tre “figure”, nelle quali la durata può darsi: la noia intesa come accidia, la pazienza e l’attenzione. Tagliapietra prosegue con la presentazione del fondamento della pazienza, soffermandosi sulle modalità, attraverso le quali, esso si manifesta nelle opere di Goya, Carpaccio e Turner.
  • ...
  • Al centro del terzo capitolo sta la figura paradigmatica di Argo, cane di Ulisse, simbolo della scuola cinica. In essa, il cane era assunto: «come modello di vita anarchica» (p. 26). L’ermeneutica dei dipinti di Jean-Léon Gérôme permette, di contro, l’approfondimento della nozione di pazienza anestetica, cui mirarono i saggi dell’antichità. Tagliapietra discute, inoltre, le figure bibliche di Tobia e Lazzaro e della loro presenza nei dipinti di Leonardo, Tiziano, Rembrandt e del Verrocchio. La pazienza, rappresentata in tali pitture, ha il tratto dell’inquietudo: essa sorge di fronte al dolore e alla sofferenza altrui: «É una pazienza che […] mantiene intatta, nella vigilanza dell’attenzione e nella quotidianità della cura, la sua originaria carica messianica» (p. 27).   Infine, vengono presentati esempi di pitture dell’800 e del ‘900. Si tratta di opere di Bacon, Marc, Lautrec, in cui i cani, icone del tempo, ci conducono alle soglie della pazienza antitetica al lavorismo della mobilitazione totale contemporanea: «Si tratta della pazienza come stato di attenzione senza finalità né oggetto, ovvero la disposizione di chi si abbandona all’immanenza e alla pura durata» (p. 27).
  • ...
  • Questa pazienza è extrasoggettiva. A essa pervenne Heidegger sulla scorta di Eckhart, riproponendo la dimensione della Gelassenheit, di “abbandono”. Uno stato di attenzione senza finalità né oggetto, presente nel dipinto di Franz Marc, Cane di fronte al mondo del 1912. Per Marc: «i dipinti di animali non erano paesaggi naturalistici, né ritratti, ma piuttosto icone cromatiche dell’armonia silenziosa della natura e della sua serena durata» (p. 171). All’eterna metamorfosi della physis bisogna tornare a guardare, oltre i drammi della storia, al fine di liberarci dell’impazienza contemporanea.

  • IL FANTASMA DELLA NAZIONE Campi

  • IL FANTASMA DELLA NAZIONE
  • Per una critica del sovranismo
  • di
  • Alessandro Campi
  • (Marsilio Editore, Venezia 2023, pp. 205, € 15,00)
  • rec. di
  • Teodoro Klitsche de la Grange


  • Diversamente da quanto più frequentemente si legge, questo saggio formula una critica al sovranismo, che è scientifica e lungimirante. Al contrario, per l’appunto di quanto raccontato nei media maenstream, dove a parlare di Nazione è regola pronunciare formule (e termini) esorcizzanti, e ancor più fare una gran confusione: tra Cavour e Mazzini da una parte e Alfredo Rocco e Enrico Corradini dall’altra (per non parlare di Mussolini). Ovvero tra il sentimento patriottico del risorgimento e quello dei nazionalisti e del fascismo.
  • ...
  • Il primo – tra i non pochi pregi del libro – è così rimettere a posto significati, definizioni (e appartenenze). Tanto per fare un esempio il sentimento (nazionale) risorgimentale era quello di una Nazione che voleva costituirsi in Stato, di guisa da non dipendere dagli altri Stati, di gran lunga superiori agli Stati pre-unitari per popolazione, territorio, risorse, per cui era una rivendicazione di indipendenza ed autonomia. Mentre il nazionalismo dei Rocco e Corradini era una rivendicazione di potenza nei confronti di altri popoli – coloniali soprattutto. Il primo era difensivo, il secondo d’aggressione: distinzione essenziale che ancora gli ideologi del pensiero unico non riescono (o non vogliono) afferrare.
  • ...
  • Particolarmente interessante è il pensiero di Campi sul rapporto tra destre e nazione, visto (anche) i diversi – e talvolta opposti - modi di declinarlo. In Italia, scrive Campi “quello tra destre (al plurale) e nazione è stato un rapporto per certi versi ambiguo e controverso, discontinuo e accidentato, fortemente rivendicato sul piano ideale quanto scarsamente produttivo su quello politico, che ha finito per generare un nazionalismo-patriottismo più che altro sentimentalistico e retorico, letterario, estetizzante e occasionalistico, come tale incapace di definire una chiara visione degli interessi nazionali dell’Italia… Potremmo dire che la nazione-mito, facile da invocare sul piano della propaganda e in chiave di mobilitazione politica, ha prevalso a destra sulla nazione-progetto, intesa come realizzazione nel concreto della storia di un disegno politico collettivo o comunitario”. Onde la destra italiana, non sembra “sia mai riuscita a elaborare una dottrina nazionalistica coerente e organica in grado di saldare il richiamo all’idea di nazione con un forte senso dello Stato e di tradurre quel richiamo sul terreno della progettualità politica”. A intenzioni “buone” hanno corrisposto spesso risultati modesti o addirittura pessimi. Tralasciando, per ragioni di spazio, tutte le interessanti analisi di Campi sul rapporto con la Nazione delle varie destre (risorgimentale, nazionalista, fascista, della prima repubblica, della seconda), veniamo all’attualità.
  • ...
  • Nel presente la concezione di destra della Nazione, o meglio dello Stato nazionale “è la forma politica che assume l’identità collettiva di una comunità interessata a mantenere la propria integrità contro chi la insidia”. In effetti, scrive l’autore “la prima cosa che colpisce nel sovranismo populista, nelle diverse declinazioni che ne sono state offerte dalla politica italiana recente, è il suo carattere meramente difensivo e reattivo”. Se questo costituisce un pregio rispetto alle declinazioni “aggressive” del nazionalismo, ha il difetto di suggerire “un ripiegamento a difesa di ciò che si ha e di ciò che si è, soprattutto di ciò che si teme di perdere. Il sovranismo, in altre parole, è una dottrina della decadenza, è il nazionalismo dei popoli stanchi”. Oltre che l’altro difetto di commettere imprudenze in politica estera. Per cui “Più che una dottrina politica o un progetto ideologico, il sovranismo, come spesso viene declinato soprattutto dalla nuova destra di Salvini e Meloni, può dunque essere considerato un espediente politico-psicologico, grazie al quale si offre un antidoto momentaneo e provvisorio alla paura e all’incertezza in cui oggi si trovano molti individui e interi strati sociali”. Infatti manca il progetto che costituisca una realistica visione del domani. Malgrado la Nazione, sostiene Campi nelle ultime pagine, sia tutt’altro che “obsoleta” e superata. Lo dimostra come possa coniugarsi con la democrazia e il pluralismo “L’unità della nazione, assunta come presupposto del pluralismo, è dunque ciò che consente agli attori di una democrazia di dividersi senza il timore che la comunità si disgreghi o scivoli sul terreno di un conflitto aperto e letale. Questa connessione tra democrazia e nazione viene spesso sottovalutata dai critici di quest’ultima. Mentre invece rappresenta una interessante scommessa per il futuro”.
  • ...
  • Due note a conclusione. È inutile ricordare come il saggio, come in genere, l’opera di Campi sia ispirata al pensiero politico realista, molto spesso rigettato (o demonizzato) dal “pensiero amico”.
  • ...
  • Secondariamente se è vero che la Nazione nelle “vecchie” concezioni delle varie destre italiane si è per lo più manifestata in declamazioni roboanti e risultati modesti, onde non è confortante per il futuro, è anche vero da un lato che i sovranisti-populisti praticamente non sono mai andati al governo se non con il Conte 1 nel 2018 e poi da qualche mese con la Meloni, onde si può sperare che col tempo possano realizzare, almeno in parte, quanto promesso,
  • ...
  • Anche perché, purtroppo, la situazione italiana ha raggiunto il fondo del barile nel decennio trascorso (il peggiore della pur cattiva “seconda Repubblica”). Il che dà ai sovranisti un compito assai difficile, simile a quello descritto da Machiavelli nell’ultimo capitolo del Principe: di risollevare un popolo impoverito (e così anche indebolito) da élite politiche (e istituzioni) decadenti. E che soprattutto per questo da quasi dieci anni da un consenso maggioritario (intorno al 55-60% dei voti espressi nelle elezioni succedutesi) agli avversari di quelle élite.
  • ...
  • Operare meglio delle quali non è impossibile, fare un miracolo sì.

  • Gordio

  • La discorde concordia Jünger-Schmitt
  • La nuova versione Adelphi de
  • Il nodo di Gordio
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
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  • Torna per i tipi di Adelphi, a cura di Giovanni Gurisatti, un libro cruciale e attualissimo, Il nodo di Gordio di Ernst Jünger e Carl Schmitt (pp. 238, euro 14,00). Il libro raccoglie lo scritto jüngeriano, uscito in prima edizione nel 1953 e la risposta del filosofo e giurista tedesco che apparve due anni dopo, nel 1955. Il volume è, quindi, momento centrale del’intenso e lungo colloquio intrattenuto tra i due pensatori. Il dibattito ebbe, inoltre, un altro deuteragonista, almeno per quanto attiene al problema della tecnica: Martin Heidegger. Ricorda, a riguardo, il curatore che, fin dalla pubblicazione negli anni Trenta, de Il Lavoratore di Jünger, Schmitt elaborò la propria esegesi della trasformazioni dello Stato liberale in Stato “potenzialmente totale”, confrontandosi, in “discorde concordia”, con le intuizioni di Jünger. Questi aveva chiarito che i cambiamenti introdotti dalla mobilitazione totale, spingevano verso il costituirsi di uno spazio globale planetario.
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  • Sullo sfondo, nell’universo concettuale jüngeriano, iniziò a farsi strada l’idea dell’inevitabilità del Weltstaat, uno Stato mondiale, in quanto, chiosa Gurisatti: «Solo in esso si trova l’unità di misura di una superiore sicurezza che investe tutte le fasi del lavoro in guerra e in pace» (p. 217). Il problema sollevato da Jünger era, in quel frangente storico, al centro delle riflessioni di Schmitt. Questi leggeva lo Stato planetario quale organismo irrispettoso, è sempre il curatore a rilevarlo: «della concretezza spaziale […] il principale nemico del politico tout court» (p. 218). Vero e proprio distruttore delle differenze, del pluralismo e della dimensione polemologica connotante di sé il politico pensato come categoria. Sostanzialmente, il filosofo del diritto giudicava la posizione dello scrittore: «ingenuamente spoliticizzante» (p. 219). All’inizio degli anni Quaranta, Schmitt, opponendosi in uno agli universalismi politici del capitalismo occidentale e del bolscevismo orientale, si fece latore della necessità di difendere la sostanzialità politica dell’Europa, affinché questa divenisse propagatrice di un nuovo nomos della terra, nella contingenza storica che si annunciava con la fine del Secondo conflitto mondiale.
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  • Egli, all’unità globale, iniziò a opporre l’idea di un mondo multipolare, articolato in una pluralità di spazi concreti, pregni di senso, costruiti sulla tradizione. Il nodo di Gordio, per Schmitt, ha al proprio centro il binomio Europa-Germania (e continuò ad averlo anche dopo il crollo del Terzo Reich). In tale congerie, anche Jünger si interrogò sull’Europa. Il Vecchio continente avrebbe dovuto rifondarsi in termini di unità geopolitica di molteplici madre-patria. Solo a tale condizione, gli europei avrebbero potuto assurgere al ruolo di garanti degli equilibri Est-Ovest. In ogni caso, a suo dire, lo Stato mondale rimaneva il telos cui tendevano le sorti della storia. Tesi ribadita in Oltre la linea, che suscitò la reazione del giurista. Jünger interpretava, inoltre, in modalità impolitica il rapporto Oriente-Occidente, derubricandolo a polarità archetipica, elementare, contrassegnante ab initio la storia e la coscienza dei singoli. Pertanto, per lo scrittore, a valere non sono tanto la storia e il politico, quanto la dimensione destinale.
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  • In ciò è da cogliersi la divergenza più profonda tra i due: Schmitt, a differenza dell’amico, legge il nodo Oriente-Occidente in termini concreti, storico-dialettici, quale contrapposizione di terra e mare. Tale dicotomia nulla ha a che fare con il “naturalismo” jüngeriano. Per Jünger, infatti, al polo Oriente corrisponde il mythos. L’Oriente è quindi latore dell’idea della Madre Terra, del destino e, in ambito politico, del principe-dio. Al contrario, l’Occidente è eminentemente ethos, libertà, storia, principe-rappresentante. Quella di Hitler, in tale prospettiva, è stata figura segnata in senso “orientale”. Per Schimitt dalla parte della terra sta il mondo continentale, Russia e Asia.   Dalla parte del mare, al contrario, egli collocava l’Occidente mercantile e liberale. Al centro, tra i due, L’Europa. Nei secoli dal XVI al XIX la storia europea ha oscillato tra due diverse configurazioni geo-politiche: la prima annoverava in sé le “telluriche” Francia, Spagna e Germania, la seconda era rappresentata dall’Inghilterra che aveva espresso, in tutta evidenza, lo spirito marittimo. La prima Guerra mondiale mise in scacco lo jus publicum europaeum. L’opzione tra i due poli costituisce, pertanto, il vero e proprio nodo di Gordio della modernità. La terra è nomos, radicamento, confini e tradizioni, il mare è techne, lo sradicamento errante.    L’Europa è, quindi: «sottesa tra “casa” e “nave”» (p. 228).    Tagliare il nodo implica, ancor oggi, tentare di sottomettere la techne, al fine di riaffermare il nomos: «La sottomissione della tecnica scatenata: questa sarebbe […] l’azione di un nuovo Ercole! […] la sfida del presente» (p. 229).
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  • Per Jünger, solo l’etica occidentale della libertà avrebbe potuto riuscire in tale titanica impresa. Il nodo, nella sua prospettiva, non andrebbe tagliato, ma sciolto attraverso il “patto” tra contendenti. Al contrario, a dire di Schmitt la soluzione è da individuarsi nell’affermazione storica di diversi “grandi spazi”, capaci di realizzare tra loro equilibrio geo-politico. In tale contesto, assegna all’Europa ruolo dirimente, facendo affidamento sulla nascita di un patriottismo continentale, centrato sulla sostanza spirituale degli uomini che la abitano. Le posizione tra i due sono discordi nella concordia, in quanto, nonostante il riferimento al Weltstaat, lo scrittore tedesco non escludeva il costituirsi dell’Europa quale patria sostanziata dall’ethos: «In Europa abbiamo la capacità di rispettare qualcosa che si trova al di fuori dell’uomo, e che ne determina la dignità» (p. 86).    Una sorta di equivalente della sostanza spirituale a cui si riferiva Schmitt.   Se ciò è vero, l’approccio “archetipale” jüngeriano al problema, mostra la propria insufficienza nell’aver depoliticizzato il nodo, la relazione Oriente-Occidente.
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  • Dalla situazione attuale lo si evince con chiarezza: la posta in gioco per noi europei, non è solo politica, ma storica. L’assunzione della funzione di “grande spazio” è l’unica a poter garantire la sopravvivenza del Vecchio continente. Solo a tale condizione, come rileva Gurisatti, si potrà ancora parlare di un’Europa possibile.   Possibilità è potenza, recupero dell’originaria vocazione politica e civile della nostra cultura.

  • Cop. COOGAN OK

  • L’I.R.A. e l’indipendentismo irlandese
  • Un saggio di T. P. Coogan
  • di
  • Giovanni Sessa
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  • La storia dell’indipendentismo irlandese è stata segnata da gesti eroici, da sacrifici estremi e dal ricorso, in alcune circostanze, all’uso della violenza. Al centro di tale congerie storica sta l’I.R.A., l’esercito indipendentista repubblicano, la cui origine e le cui vicissitudini interne sono chiarite dalla pagine di un interessante volume di Tim Pat Coogan, Storia delle origini dell’I.R.A. (1919-1970), nelle librerie per Oaks editrice, con prefazione di Fiorenzo Fantaccini (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 317, euro 24,00).
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  • L’autore nacque in una famiglia segnata dal nazionalismo. Il padre contribuì, lo ricorda il prefatore, alla creazione del sistema giudiziario irlandese, sorto in sostituzione di quello inglese. Negli anni Quaranta fu segretario del Fine Gael, gruppo politico moderato sorto dalla scissione del Sinn Féin. La madre, attrice e giornalista, pubblicò un romanzo storico di grande successo, The Big Wind. Poco più che adolescente, Coogan iniziò a scrivere per l’Evening Press, divenendo più tardi direttore dell’Irish Press per circa vent’anni.
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  • Nel 1966 uscì un suo libro dedicato alla storia d’Irlanda dopo la rivolta del 1916. Fino ad allora, l’indipendentismo aveva avuto, quali riferimenti culturali, l’antica storia dell’isola di Smeraldo, la mitologia celtica e le suggestioni letterarie a essa legate. Era necessario, a dire del nostro autore, portare l’attenzione sugli eventi contemporanei. Il volume conteneva, allo scopo, un capitolo dedicato all’ I.R.A. Alla luce del successo di questo primo testo, a Coogan venne proposto di scrivere un libro pioneristico dedicato alla sola storia dell’I.R.A. Egli accettò e iniziò a lavorare alla nuova opera nel 1967. In quegli anni, l’esercito repubblicano sembrava essere “in sonno”, una sorta di “vulcano estinto”: «ma poco prima che il volume venisse pubblicato, nel 1970, in Ulster si erano verificate le rivolte settarie che segnarono l’inizio dei […] Troubles e che fecero riemergere con forza il conflitto tra la comunità cattolica e quella protestante» (p. III). Nel 1969 era, peraltro, sorta, a causa di divisioni interne, l’I.R.A. Provisional. Alcuni Ministri irlandesi furono accusati, ma in seguito assolti, di aver fornito armi a tale frazione rivoluzionaria.
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  • La Storia delle origini dell’I.R.A. ha un merito fondamentale. Non si avvale solo di una cospicua documentazione relativa al tema indagato, ma fa riferimento alle esperienze dirette di molti militanti, intervistati dall’autore. I quadri dell’esercito repubblicano, all’inizio, mostrarono diffidenza nei confronti di Coogan. Il capo di stato maggiore dell’I.R.A., Cathal Goulding, diede istruzioni ai suoi sottoposti di non rilasciare dichiarazioni di alcun tipo. Coogan, durante il primo approccio con loro, tese a rassicurali sulle sue intenzioni e, alla seconda intervista, ottenne informazioni di rilievo. Grazie a tale metodo, raccolse oltre cinquecento testimonianze, che rappresentano il cuore del volume che stiamo presentando. L’edizione italiana, ripropone la prima versione del libro, che in Irlanda fu un best seller. Successivamente, fino al 2002, il testo è stato editato più volte e aggiornato. La ricostruzione-narrazione storica prende le mosse dagli anni Venti e giunge fino agli inizi degli anni Settanta. L’esegesi della “questione irlandese” si spinge molto indietro nel tempo. Essa muove: «dalla colonizzazione delle sei contee dell’Ulster nel 1609 da parte di Giacomo I, alla creazione degli United Irishmen da parte di Wolfe Tone […] (e attraversa) la Grande carestia e alle (le) conseguenze dell’Atto di Unione d’Inghilterra e Irlanda del 1800» (p. VI).
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  • Il libro ricostruisce puntualmente la storia dell’I.R.A., sorta per difendere l’Home Rule e per realizzare l’unità irlandese, che avrebbe dovuto comprendere anche le contee del Nord. Lo statuto dell’esercito repubblicano venne redatto nel 1923. Da allora, l’organizzazione ha conosciuto fasi alterne di sviluppo. Sono particolarmente rilevanti i capitoli che l’autore dedica ai rapporti dell’I.R.A. con gli Usa, data la presenza in quel paese di un numero consistente di patrioti irlandesi, con la Russia e con la Germania nazista. Durante la Seconda guerra mondiale, infatti, i tedeschi avevamo interesse ad indebolire l’Inghilterra servendosi di atti di sabotaggio realizzati da appartenenti all’esercito repubblicano. La posizione di neutralità, assunta dal governo irlandese di de Valera, impedì che ciò accadesse. Importanti, ai fini storici, risultano i capitoli che indagano la campagna terroristica, messa in atto in Inghilterra, tra il 1939 e il 1940, il racconto degli internamenti dei repubblicani durante la Seconda guerra mondiale e le “Campagne del Confine” degli anni Cinquanta, che stanno a monte del conflitto etnico-religioso dei decenni successivi.
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  • Dalle interviste, ben raccordate con la documentazione fornita dall’autore, si evince l’eterogeneità ideologica dell’I.R.A. Coogan, a volte, si attarda nella descrizione di eventi drammatici che hanno avuto per protagonisti militanti dell’esercito repubblicano. Da un lato, condanna fermamente l’uso della violenza e precisa che il libro non ha, quale obiettivo, il proselitismo a favore della lotta armata, d’altro lato, dalle sue pagine si evincono il coraggio e l’idealismo dei membri dell’I.R.A. Quale paradigma delle intenzioni di Coogan potrebbe essere scelta la figura di Dan Breen che, nel 1919, assieme a un drappello di compagni, uccise due poliziotti inglesi. Questi, in seguito, si convertì alla prassi politica del Costituzionalismo, i cui obiettivi sono simbolizzati dalla bandiera d’Irlanda: «Sono profondamente convinto che l’unità irlandese sarà raggiunta […] non con la forza, ma con un accordo simile a quello della bandiera irlandese: verde per il Sud cattolico, arancione per il Nord protestante, e bianco per la pace tra le due parti» (p. 13).
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  • Nonostante ciò, Coogan riconosce di aver tratto dagli incontri con gli uomini dell’I.R.A. un insegnamento essenziale: la storia è il prodotto dell’azione umana.  Pertanto, nelle pagine in cui racconta la dura reclusione cui essi furono sottoposti o ne ricorda le esecuzioni sommarie, ne onora il coraggio, lo spirito di sacrificio, la memoria.

  • EUTANASIA  DI  UNA  RIVOLUZIONE?
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Sono fioccati abbondantemente i commenti all’elezione di Elly Schlein a segretaria del PD. Molti lieti, altri perplessi, altri ancora (meno) per lo più profetizzanti un compito in salita per l’esordiente leader.
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  • Qualche mese fa scrivevo, sull’insuccesso di Letta, che questo, più che alle proposte (ed alla “immagine”) del medesimo, era causato dal “ciclo” storico-politico. Per cui tra Repubblica “nata dalla resistenza” (ma con l’utero in affitto a Yalta) e comunismo (imploso nel 1989-1991) cioè padre e madre del PCI e, in genere, parenti stretti della sinistra italiana,  il PD si trovava con il secondo morto, ma anche la prima stava tutt’altro che bene. Per cui, nuotando controcorrente, era molto difficile trovare un capo con le qualità personali volte a invertire un andamento (generale) consolidato.
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  • E il tutto va confermato per la Schlein; anzi, l’ “immagine” della stessa può accelerare il destino del PD. Vediamo perché.
  • Ne Il suicidio della Rivoluzione, Del Noce scriveva che “l’esito dell’eurocomunismo non può essere che quello di trasformare il comunismo in una componente della società borghese ormai completamente sconsacrata”. Profezia avverata perché oggi il postmarxismo è quel “partito radicale di massa” che riceve il sostegno della grande finanza internazionale; la conseguenza è che il vecchio PCI sarebbe finito “nel suo contrario: voleva affossare la borghesia e ne è divenuto una delle componenti più salde ed essenziali”.
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  • A distanza di quasi cinquant’anni occorre riconoscere che la profezia di Del Noce si è realizzata, e la scelta della segretaria ne è l’ennesima conferma. Anzi l’incarnazione perché riassume in sé tutti i connotati dell’“ideologia” del PD: si dice sia LGBT, è sicuramente di buona famiglia borghese, ha tre passaporti, ha compiuto parte degli studi all’estero. Partecipa quale primo atto alla manifestazione antifascista. È inutile ricordare quanto scriveva Del Noce sull’antifascismo, citando Bordiga: che Gramsci “sostituendo” all’opposizione capitale/proletariato quella fascismo/antifascismo aveva dato “vita storica al velenoso mostro del grande blocco comprendente tutte le gradazioni dello sfruttamento capitalistico e dei suoi beneficiari, dai grandi plutocrati giù giù fino alle schiere ridicole dei mezzi-borghesi, intellettuali e laici”. E questa borghesia che Gramsci credeva di arruolare (e invece ha arruolato il PD) non è quella di Marx e neppure di altri pensatori, ma è quella in cui lo spirito borghese si manifesta finalmente allo stato puro; “in cui realizza pienamente quel che già aveva fatto per la natura, abolendo il mistero e la qualità, e sostituendoli con dati misurabili, quantitativi. L’ideologia spontanea della borghesia è il materialismo puro, il positivismo attento unicamente ai nudi fatti”; e il cui dominio si esercita in una forma totalitaria che agisce più col condizionamento/indottrinamento culturale (l’egemonia) che con la coazione (anche se dissimulata, ma non del tutto assente).
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  • In secondo luogo la Schlein, come ogni segretaria che il PD avesse scelto, dovrebbe far dimenticare il fallimento di tanti anni di potere (e di governo) della Seconda Repubblica, così deludenti in particolare per i ceti medi e popolari. Ma nulla dell’immagine della Schlein induce a suggerire un’identificazione dei suddetti ceti con la leader. È così difficile perché – e questo è il terzo aspetto - negli ultimi 8 anni si è concretizzato in Italia un blocco sociale tra ceti medi e popolari che è largamente maggioritario e anche coeso. La coesione dipende prevalentemente dal fatto di percepire come avversari coloro che costituiscono il blocco “globalista”.
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  • L’unica speranza è, come normale in politica, dissolvere il blocco avverso, applicare il divide et impera (cioè la riduzione del numero e della potenza dell’avversario).   Ma questa è la manovra più difficile, perché la sostituzione dell’opposizione amico/nemico è cosa che attiene più al zeitgeist che alle manovre di palazzo.   In queste il PD e il sui personale politico era (ed è) maestro: in quella non c’è un Principe che la possa fare.

 Piero Visani Contro il Leviatano


  • Piero Visani,
  • Contro il leviatano. Ripensare la politica, la storia, lo spettacolo,
  • Oaks editrice,
  • pp. 166, euro 20,00.
  • recensione  di  
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • È veramente spiacevole recensire un libro come questo, postumo, sapendo che non se ne leggeranno altri. Perché Piero Visani, da me recensito negli ultimi anni, nei suoi lavori aveva testimoniato di un pensiero libero ed anticonformista, e al contempo, nel solco della migliore tradizione del pensiero politico (e giuridico) moderno.   Nell’introduzione il figlio Umberto riporta uno scritto indirizzatogli dal padre, che gli aveva “sempre cantato le lodi di una concezione antimercantilistica, antieconomicistica, antiutilitaristica, antispeculativa dell’esistenza”, e che è la migliore sintesi dei diversi scritti raccolti
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  • E in effetti il libro consta di cinque parti: la prima sulla visione del mondo; la seconda sulla politica; la terza sulla guerra; la quarta sullo spettacolo; la conclusione, sugli scenari futuri.    
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  • Data la vastità dei temi, la sintesi sopra riportata, dovuta all’autore è quanto mai utile; tuttavia qualche altro passo può dare il senso di questo denso volume. Ad esempio sulla propaganda delle élites dirigenti che ci ha abituati a dissociare potere politico e militare da quello economico; e ancor più a dimenticare la “realtà effettuale” di guerra, nemico ed uso della forza (e così le condizioni di esistenza e azione politica). Ma a parte altro, la stessa propaganda criminalizza e indica al pubblico ludibrio chi non paga le imposte (di cui la classe dirigente vive), onde la considera l’autore così «si può essere contrari al sogno di una grande Italia, in piena legittimità, ma essere favorevoli alla pratica di una “grande Equitalia” è davvero incredibile, è un obiettivo da minorati mentali. A meno che i “morti di fisco”, come i morti fatti dagli americani e dagli occidentali in genere, siano “meno morti”…».  Visani peraltro, in tanti passi fa notare come le classi dirigenti inette e in decadenza, predicano il bene, ma praticano alacremente lo sfruttamento della maggioranza governata.   È inutile ricordare come, in Italia soprattutto, il servilismo e le prediche edificanti, hanno raggiunto il proprio apice proprio in coincidenza con il massimo prelievo fiscale, condizione per la (comodissima) vita delle stesse élite.   Le quali vendono parole per rapinare beni.
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  • Il buonismo imperante, il politicamente corretto si coniugano ad una incapacità di comprensione (e comunicazione) della realtà, ad una continua affabulazione, onde a seguire certi capi (?), il mondo di Bengodi della globalizzazione sarebbe già in atto e in via di completamento.   Tutt’al più, basta eliminare qualche disturbatore (già criminalizzato) per terminare l’opera (dell’uscita dalla storia). In un quadro del genere un discorso come quello di Churchill che prometteva agli inglesi sangue, sudore e lacrime prima di arrivare alla vittoria costituisce un esempio di cosa non dire.   Ma a chi scrive l’illusione del mondo globalizzato (attenti alle votazioni all’Assemblea ONU – di segno opposto) ricorda quanto proclamato nella costituzione sovietica brezneviana, che il socialismo si era realizzato. Così bene che crollò una dozzina d’anni dopo; e di certe nuove illusioni non si può che augurarsi lo stesso.
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  • Visani tratta di molte cose (film compresi): di idee, di autori, di mentalità, e sempre con un taglio originale e politicamente scorretto (ça va sans dire).   È difficile trarre da una tale massa di giudizi un unicum prevalente.   Tra i diversi possibili (e data l’abbondanza) ne ricordiamo tre:   Il primo è il disprezzo per le classi dirigenti attuali, in particolare per quella italiana (tuttavia il disprezzo è indirizzato anche a quella che l’aveva preceduta). Il secondo, correlato al precedente, è che le attuali élites (che secondo Max Weber vivono sia di politica che per la politica), vivono esclusivamente di, avendo cancellato dalla propria prospettiva di vivere per; così come di realizzare risultati invece di propagandare (buone) intenzioni.
  • Il terzo che la Weltanschaung globalista appare come una scissione del rapporto – necessario in politica, come attività umana – tra ragione e passione.
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  • Quello di cui è un esempio insuperato l’ultimo capitolo del Principe, dove l’unità politica d’Italia - in un mondo di Stati nazionali nascenti - era la condizione insostituibile per un’esistenza indipendente ed autonoma.   Onde repubbliche e signorie, le quali avevano senso e funzione in un medioevo feudale, lo avevano perso con l’incipiente formarsi del mondo moderno.
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  • La consapevolezza della diversità del contesto storico e politico era il presupposto di poter vivere liberi nella mutata situazione. Ragione (di Stato) e passione politica che la classe dirigente non riesce a coniugare. E che questo libro così interessante, che non dimentica mai tale rapporto, ci aiuta e sprona a fare.

 

  • Orlando

  • Una voce nel deserto
  • La poesia antimoderna di
  • Vittorio Orlando
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  •  Nell’ultimo periodo, in più di una circostanza, ci è capitato di rilevare come, nell’epoca attuale, la creatività poetica sia divenuta sempre più rara, dono di pochi.   È, pertanto, con particolare curiosità che ci siamo rivolti alle pagine di una recente raccolta di componimenti di Vittorio Orlando, Una voce nel deserto edita da Amazon (per ordini: vittorio.v2020@gmail.com, pp. 102, euro 12,00). Il volume è prefato da Davide Morelli e da Gaia Ortino Moreschini e chiuso dalle “Note finali” di alcuni tra i compagni d’avventura poetica del Nostro. L’autore, in versi denotanti un’intensa e sofferta ricerca formale, presenta, con lucidità estrema, disincantata, la realtà lacerata della vita contemporanea.
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  • La vocazione poetica in Orlando sorge di fronte al senso di perdita e di smarrimento che si prova a cospetto del pauperismo spirituale dell’Età Ultima, di fronte alla dismisura delle potenze del giorno, tese a trasformare il cosmos in caos ritornate. Il caos e l’informe connotano le nostre vite, tanto esistenzialmente quanto in termini comunitari e politici.   L’ubi consistam della poetica di Orlando, pertanto, va colta nel suo tratto antimoderno.   Ciò rende questa poesia del tutto originale, non nel senso di creazione lirica fortemente “personalizzata”, ma nel senso della trascrizione della ricerca dell’origine, intensamente vissuta dall’autore.  Orlando non appartiene, date tali premesse, ad alcuna scuola o corrente, è estraneo agli ismi del Novecento.   Il suo colloquio con l’Antico, rende sofica, sapienziale la sua testimonianza. Una testimonianza tesa a trasmettere al lettore-uditore il senso di una vita piena, persuasa, appagata.  In essa cadono, vengono meno le distinzioni dualiste imposte dal logocentrismo, dal concettualismo imperante.   Egli scrive: «Per opposti mi fu negato/Il lato oscuro dell’assoluto/troppo immenso da abbracciare […]/ chiuso da un grande sipario» (p. 10).
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  • Lungo la Via, il poeta acquisisce coscienza di sé stesso: «Sono essenza/distillata di pietra/lanciata nello stagno/senza concentrici cerchi/senza tonfo/ senza rumore/nell’immenso oblio del tempo» (p. 27). La voce del poeta è oscurata, tacitata dal chiacchiericcio contemporaneo: «Funestata è la via del Poeta e alla gogna/ e alla solitudine di volute ragionate scientificità. L’incancrenito popolo sta alla finestra/ come l’impotente sulla venerea fessura di incallite spettrose puttane» (p. 29).   Quella del creare poetico è lotta per il Nulla.   In tale contesto: «l’araba fenice/ si ricompone nel fecondo/ e nascosto deserto» (p. 28).   La solitudine pare inevitabile, destino inscritto nella poesia che rischia di trasformarsi in vox clamantis in deserto: «Nel visibile, nascosto/ il nunzio è tra la folla/ ad annunciare la novella,/ la novella del nulla/dove l’essere e il non-essere/ si confondono» (p. 34).  Nell’apparente sconfitta, nel destino di solitudine, nella ri-conquistata “isola dell’Io”, la versificazione antimoderna vede, intuisce l’origine, la coincidentia oppositorum.
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  • Così, la creatività farà rifiorire: «i gigli calpestati da orde barbariche/ […] tra sassi e macerie» (p. 43).  Questa è l’ “arcana speranza” che muove la versificazione in un mondo che: «va sempre più giù» (p. 50).  Nella modernità, al poeta non resta che esclamare: «Temo il dormiente demo,/odo l’eco democratica/ nella fetida aria di acido etilico/ che combacia con il cicaleccio nei fiordi» (p. 60)   La denuncia sociale è presente in modalità prioritaria nei versi di Orlando. Egli lancia strali contro l’omologazione generalizzata, contro il fragore dirompente della globalizzazione e dei suoi falsi aedi, in nome della Libertà calpestata nei fatti e nelle parole. Essa oggi è: «vigilata/controllata/obilterata» (p. 60)   Orlando ha contezza del tratto epidemico, in senso etimologico, della democrazia liberale.   Di essa ha detto esemplarmente il filosofo Andrea Emo.  Sa, inoltre, con Carlo Michelstaedter, cui è dedicata una lirica, filosofo della persuasione che produsse all’inizio del secolo scorso un esempio luminoso di pensiero-poetante, che il desiderio-rettorico chiude l’Io in un destino di morte: «Ogni alba radiosa/annuncia il senso provvisorio della vita» (p. 65).
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  • Non sia tratto in inganno il lettore, la pars destruens in Orlando è seguita da una pars construens.   Essa è data dall’immersione nella dimensione originante della physis, della natura: «Lo spirito indomito/mi riporta a ricredere nel possibile della natura,/ la luce è il risveglio dall’appannamento notturno» (p. 67).   Il poeta si immerge e ci immerge, almeno in alcuni versi, nel lucore mediterraneo, laddove vita e civiltà sorsero all’unisono.   L’orizzonte della physis, il suo reale trascendere la “nostra” vita, è simbolo di risveglio, di riscatto dall’infamia insolente del presente.   Essa indica la Via da seguire: «agogno un deserto sabbioso/con dune che si lasciano sfiorare,/sfiorare/ dalla carezza di un dolce vento/che rimodella il sacro divenire,/divenire/ di attesa che porta sulla giusta via./»

Hocart 


  • Le caste nel mondo e nella storia 
  • di  A. M. Hocart 
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • L’esegesi corretta del mondo antico e delle civiltà tradizionali deve essere accompagnata, nello studioso serio, da un profondo lavoro che questi deve compiere su se stesso, mirato a liberare le sue intenzioni critiche dai pregiudizi imposti, da oltre due secoli all’immaginario collettivo, dall’ideologia occidentalista centrata sull’idea del progresso unilineare, che ha individuato nella civilizzazione contemporanea, liberale e utilitarista, il “migliore dei mondi possibili”.   Lo si evince dalla lettura di un volume importante di Arthur Maurice Hocart, da poco apparso nel catalogo Arkeios, intitolato, Le caste nel mondo e nella storia, introdotto da Giovanni Monastra (per ordini: 06/3235433, ordinipv@edizionimediterranee.net, pp. 169, euro 22,00).
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  • L’autore è poco noto in Italia, perfino tra gli studiosi del pensiero di Tradizione. Ci pensa Monastra a informare compiutamente il lettore sulla vita e le opere di Hocart. Questi fu antropologo, apripista nei lavori di sociologia scientifica. Poliglotta, riuscì a padroneggiare addirittura gli idiomi delle Isole Figi e Salomone, dove lavorò sul campo per alcuni anni in un’importante spedizione etno-antropologica, sotto la guida di W. H. Rivers. Laureato a Oxford in discipline umanistiche, il suo approccio alla realtà “primitiva” era fondato sul rifiuto della riduzione dei “selvaggi” a esseri “quasi umani” (veri umani sarebbero stai, per i positivisti, solo i “civilizzati”, i moderni), inoltre, non si servì dell’esegesi psicanalista freudiana per interpretare i sogni delle popolazioni “primitive”, cui prestò, al contrario, attento ascolto.   Egli, lo si sappia, si era formato al metodo critico-accumulatico, accademico-scientifico.   Nonostante ciò, le conclusioni cui giunse sono, su alcuni temi, sintoniche a quelle dei grandi autori del tradizionalismo.   Il mondo delle Università non gli dette il riconoscimento che avrebbe meritato. Al Cairo, dove si trasferì nel 1934, di ritorno dallo Sri Lanka, paese nel quale aveva ricoperto l’incarico di commissario archeologico, ottenne una cattedra di Sociologia.   Morì, per un’infezione contratta in Egitto, nel 1939.
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  • Le sue ricerche hanno, comunque, influenzato insigni studiosi: tra gli altri, Louis Dumont, Claude Lévi-Strauss e Marcel Mauss.  Dumont ha scritto che: «tutto lo sforzo di Hocart mira a restare fedele al punto di vista indigeno e a restituirne la logica interna» (p. 13). Monastra ricorda che lo studioso: «identificava nel rito, nella sua accezione di atto sacro, l’origine della cultura» (p. 14).   Riteneva, inoltre, che i riti fossero tra loro interconnessi in un’unità profonda e mirati a promuovere la vita individuale e comunitaria.   Il rito primigenio, a suo dire, era quello dell’incoronazione, dell’intronizzazione del capo della comunità. Il re è figura divina. Questi aveva il compito di difendere, materialmente e in modalità “sottile”, la comunità che gli era affidata. Il re dell’origine era pertanto pontefice, come ben sapeva Evola.   I sovrani erano sottoposti alla morte “simbolica”, alla morte iniziatica, atta a indurre una metamorfosi ontologica di chi la viva, come si evince dall’assunzione di un nome nuovo, a indicare la nuova “personalità” del sovrano.  A differenza dei tradizionalisti, Hocart ritiene che la regalità costituisse: «un mondo a sé stante […] al quale possono (avrebbero) potuto accedere persone appartenenti a caste diverse» (p. 16). A proposito dei rapporti tra regalità e sacerdotalità, lo studioso è sostenitore di tesi prossime a quelle evoliane e di Benveniste: sottolineò il ruolo sacrale, oltre le caste, dell’arcaico rex indoeuropeo.   Tale figura riassumeva in sé le tre funzioni sociali.   Il re era, dunque, anche sacerdote.  A tale conclusione, si badi, Hocart non giunse per scelta aprioristica, ma per via empirica, attraverso le ricerche condotte sul campo, sottoposte a giudizio comparativista.   Hocart afferma, inoltre, che in India furono i sacerdoti a usurpare la funzione regale, non il contrario. Precisa Monastra: «la figura regale, proprio per i suoi caratteri di totalità, doveva […] racchiudere un significato androgino, di coincidentia oppositorum» (p. 19).
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  • A proposito delle caste, vero e proprio tabù della cultura moderna, Hocart sostiene il tratto universale di tale istituzione.  Tale sistema: «può essere definito come […] strutturato in base a esigenze rituali che vedono concorrere […] tutti i corpi sociali che lo compongono» (p. 19). È un organismo sociale totalizzante, in origine dotato di una certa flessibilità e dinamica interna.  I fuori casta, coloro che non avevano adempiuto ai doveri castali, venivano esclusi dal sistema verso il “basso”, mentre gli asceti che, al contrario dei primi, erano sulla via della “realizzazione”, venivano considerati oltre le caste, in senso superiore.  Si apparteneva ad una data casta, non semplicemente per nascita naturale, ma in forza dell’essere stati iniziati, di aver vissuto la “seconda nascita”, determinante realmente il tratto spirituale di un dato uomo, l’:«eredità biologica […] riveste un’importanza molto relativa nell’Induismo» (p. 23).  Solo dopo le invasioni islamiche dell’India e, soprattutto, a causa del colonialismo inglese, il sistema castale si irrigidì, e tale decadimento trasformò la casta, a tutti gli effetti, in classe sociale.
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  • Le caste chiuse, endogamiche, sono sorte solo recentemente in India. Ciò vuol dire che: «le caste indù sono del tutto prive di una base genetica omogenea […] Tutte le caste comprendono […] uomini e donne derivanti dal lungo periodo precedente caratterizzato da accoppiamenti liberi» (p. 26), tra popolazioni dravidiche e indoeuropee.   In ogni caso: «La casta va interpretata come legge spirituale, il dharma, che regola e stabilisce la condotta degli esseri umani in ogni aspetto» (p. 23).    In tal senso, ciò che distingue davvero, a dire di Hocart, i “civilizzati”, dai popoli tradizionali, è il primato concesso da questi ultimi allo spirito.

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  • Panunzio5

  • Guénon e la revisione del tradizionalismo
  • Una raccolta di scritti di
  • Silvano Panunzio
  • rec.di
  • Giovanni Sessa
  • La casa editrice Iduna propone ai lettori un’importante silloge di scritti di Silvano Panunzio, introdotti da Aldo la Fata, che del pensatore cristiano è il maggior esegeta. Si tratta del volume, René Guénon e la crisi del mondo moderno, in cui sono raccolti saggi dedicati dall’autore all’esegesi del pensiero dell’esoterista francese e della sua scuola, apparsi in libri o sulla rivista Metapolitica, che egli stesso fondò.  I testi sono accompagnati da una serie di lettere indirizzate a studiosi di diversa formazione, interessati al “tradizionalismo integrale” (per ordini: associazione.iduna@gmail.com, pp. 188, euro 20,00).   La Fata rileva la differenza di toni che si evince dal confronto tra scritti pubblici e privati: i primi connotati da maggior pacatezza, i secondi “più liberi” e caratterizzati da toni maggiormente polemici o apologetici.
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  • Da un punto di vista generale, Panunzio riconosce a Guénon un ruolo rilevante nella cultura metafisica e religiosa del Novecento, ma ritiene che il suo insegnamento non sia privo di limiti e contraddizioni. Panunzio mira a dimostrare: «ai “tradizionalisti esoterici” che il cristianesimo è una tradizione completa sotto tutti i riguardi» (p. 9).  Tra i saggi, alcuni rivelano esplicitamente l’intenzione che muove e attraversa l’esegesi panunziana del “tradizionalismo integrale”: giungere a una revisione del guénonismo.  Prendendo le mosse da una recensione dello scrittore Vintilă Horia del 1982, dedicata a La crisi del mondo moderno, lo studioso italiano mostra di condividere le tesi critiche del romeno. Horia rilevava, nel libro in questione, delle ambiguità. Mentre, da un lato, Guénon: «rivendica […] al Cristianesimo latino e alla Chiesa il privilegio di essere l’unica organizzazione autenticamente “tradizionale”» (p. 65), dall’altro conferisce alla Massoneria il medesimo ruolo.  Inoltre, le “aperture” all’Oriente induista e all’Islamismo, religione alla quale poi il francese si convertì trasferendosi in Egitto, hanno di fatto contribuito a realizzare il “disormeggio” dell’Europa dalla propria patria spirituale. Simili atteggiamenti teorici potevano trovare giustificazione nell’idea guénoniana della Tradizione Unica, da cui sarebbero discese le “tradizioni”.
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  • A tale tesi, Panunzio replica che le Rivelazioni non sono uguali e non sono intercambiabili: «Il cristianesimo è, in questo senso, l’ “ultima” religione, quella che offre in modo univoco all’uomo la possibilità di salvarsi […] per l’intercessione dello stesso Figlio di Dio» (p. 67). Tenuto conto dell’accelerazione dei processi di decadenza che si manifestarono dopo la seconda metà del secolo scorso, per Panunzio sarebbe risultato dirimente mettere in atto una revisione del “tradizionalismo integrale”. Una revisione radicale quanto quella che aveva scosso le sicurezze dogmatiche del marxismo, al termine del secolo XIX.   Il limite del guénonismo viene individuato, come si rileva da Gli stati molteplici dell’essere, da cui discende l’intero sistema dell’esoterista, dall’essere una proposta centrata sul monismo di Plotino e di ricondurre, pertanto, il dibattito: «all’incontro e allo scontro, mai del tutto risolto, fra Neoplatonismo estremo e Cristianesimo» (p. 70). Tale atteggiamento intellettuale, inoltre, indusse Guénon a esperire l’India alla luce della sola prospettiva shankariana, sottovalutando il “mistero vivente”, colto da Pannikar, relativo all’esistenza di un’ “India interiore” che riconosce la funzione salvifica del Cristo.
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  • Conclusivamente, per Panunzio il guénonismo è una forma moderna di averroismo: «che si ripresenta ai cristiani del XX secolo con la stessa problematica d’urto del secolo XIII!» (p. 71). C’è da dire, precisa il nostro autore, che Guénon stesso si aspettava molto, in termini di emendamento del proprio sistema, dalla nuova ondata di studi tradizionali che si stava affermando in Italia e che era guidata, dallo studioso di economia, Giuseppe Palomba e da Panunzio stesso. Essa avrebbe dovuto favorire, non semplicemente la riunione orizzontale di Oriente e Occidente ma: «lo scambio verticale tra Cielo e Terra» (p. 73). Medesimi rilievi critici emergono dalla lettura del saggio dedicato a Guido De Giorgio, il cui merito maggiore è: «non aver posto ridevolmente (sic!) la Tradizione al posto di Dio» (p. 43). È proprio attraverso l’analisi del contributo di questo Adepto, che si evince il fallimento del tradizionalismo dei secoli XIX e XX, dimentico dell’insegnamento di De Maistre, il quale ebbe contezza che la Tradizione era stata preservata non solo dal cattolicesimo ma dall’Ortodossia, della qualcosa solo Sédir ebbe sentore. Lungo la via segnata dal guénonismo: «L’Europa interiore è rimasta abbandonata, lasciata alla mercé di forze ctonie […] Una frana: nella quale la Metafisica pura, senza l’aiuto della Metapolitica, si è rivelata impotente ad arrestare» (p. 45). Guénon, ricorda Panunzio, incontrò, Padre Tacchi Venturi: la scambio tra i due non risultò proficuo ai fini di una rettificazione delle posizioni del francese, e questi continuò a perseguire la via della “esternazione” del patrimonio esoterico.
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  • Il pensatore transalpino non comprese fino in fondo il lascito “tradizionale” presente in Leibniz.  Quest’ultimo, non solo fu reale iniziato ma ebbe profonda conoscenza della Scolastica mistica: «la quale ultima è invece ignota a Guénon» (p. 34).  Leibniz, per questo, non arretrò davanti alla concezione arditissima della: «pars totale», che tanto affascinò Goethe, filosofo della natura.   Quelli presentati sono solo alcuni dei temi trattati nel volume.   Essi tornano anche nell’interessante corrispondenza privata, che chiude questa preziosa raccolta.  Concordiamo sulla necessità di sottoporre a revisione il tradizionalismo.  Panunzio avrebbe voluto realizzarla attraverso il riferimento al “cristianesimo esoterico”, “giovanneo”.  In alcuni passaggi del volume si evince, per questo, qualche giudizio eccessivamente ingeneroso nei confronti dell’ “eresia evoliana”, ritenuta “luciferica”.
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  • Chi scrive, ritiene certamente che lo “spirito geometrico” e di sistema di Guénon debba essere vitalizzato dallo “spirito di finezza”.  Tale qualità era viva e presente nella tradizione Misterica greca, in particolare nel dionisismo che mai, nell’atto aristotelicamente inteso, pensò di normare e tacitare la dynamis, la potenza-libertà del principio.  L’uno, per chi scrive, si dà solo nei molti, è infranaturale.  La physis è tempio della dynamis.  Pertanto, qualora esistesse un esoterismo cristiano, centrato sull’idea di un dio che muore e rinasce, “potente” e “sofferente”, sarebbe debitore e succedaneo dei Misteri antichi, a cui è necessario tornare a guardare oltre le scolastiche tradizionaliste.

  •   COSTITUZIONE 
  • e  canzonette
  • di 
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • A vedere l’omelia di Benigni a Sanremo sulla “Costituzione più bella del mondo” (di cui è l’interprete certificato), mi è venuto in mente quello che scriveva della sovranità del popolo Massimo Severo Giannini – e può essere adattato alla Costituzione nel frangente – che il popolo sovrano esiste solo nelle canzonette. Non posso dire con certezza quale dei molti significati possibili tale espressione volesse privilegiare.
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  • Se quello dei realisti politici, che a governare è sempre la classe dirigente e non le norme né le “masse”; ovvero che il giurista pensasse alla tesi di Lelio Basso (e non solo) che la sovranità (del popolo) italiano fosse andata persa con la sconfitta in guerra e la subordinazione al vincitore più potente; ovvero all’incapacità del popolo di dirigere una macchina così complessa (e altro).
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  • Tuttavia resta il fatto che il pistolotto sul palco dell’Ariston ha collocato la Costituzione nel posto dall’ironia di Giannini assegnato alla sovranità: nelle (o almeno tra) le canzonette. E anche il ritornello che la Costituzione è la più bella del mondo esprime una (profonda) verità, da collegare per l’appunto (anche) alle canzonette.   Attribuire il predicato della bellezza è un giudizio estetico: si può legittimamente dire che è bella la Vittoria di Samotracia, ma è più bella un’auto di Formula 1 (come sosteneva Marinetti), che lo è la Carmen o la Nona Sinfonia; può piacere il Giudizio Universale di Michelangelo e l’Entierro del Senor de Orgas di El Greco. Tuttavia nessuno attribuirebbe, al contrario, quale (primo) giudizio positivo a un sant’uomo che è bello; o che S. Francesco e S. Martino donando beni ai poveri avessero fatto una bella azione anziché buona. Ovvero che era bello il Piano Marshall e brutte le riparazioni del Trattato di Versailles. Per il diritto che è bello il corpus juris e brutto l’Editto di Rotari. A seconda delle attività umane vi sono delle qualificazioni – positive o negative – appropriate alla natura delle stesse. Per le costituzioni da Polibio in poi, passando per de Bonald il giudizio positivo è dato (prevalentemente) dalla durata e dall’aver contribuito all’indipendenza e potenza dell’unità politica.
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  • Ci sono anche costituzioni belle; ma così belle che non furono mai applicate come la costituzione giacobina francese o quella polacca del 1791 (tra l’altro la prima costituzione europea scritta – che durò pochi mesi). Onde dare un attributo positivo (e improprio) di bellezza non le distingue (e non le santifica).   Tuttavia nel chiamare bella la costituzione vigente c’è qualcosa di vero e di necessitato. Vero perché se non la più bella del mondo, quella italiana è un compromesso, tuttora appetibile, almeno sul piano dei principi tra diritti umani, sociali ed economici, cui hanno contribuito le più influenti culture politiche del XX secolo; dell’altro, dati i risultati degli ultimi trent’anni, non resta che riferirsi al testo piuttosto che alla sua “applicazione”, in particolare a quella più recente. E ai partiti che si sono più “intestati” la difesa della Costituzione, come il PD, riportando un consenso deludente che dimostra, semmai, come l’entusiasmo verso la stessa è variegato, ma ormai minoritario.
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  • C’è un’altra ragione perché il giudizio sulla bellezza della Costituzione abbia comunque un significato. Le opere d’arte definite belle sono un frutto dell’immaginazione umana, del poeta, del musicista o del pittore.  La Divina Commedia è una straordinaria costruzione dell’immaginazione e non un atlante del pianeta e dell’universo. Come gli orologi di Dalì non sono un prodotto della tecnica o la Venere di Botticelli un disegno di anatomia. O che Astolfo sia stato sulla Luna a cercare il cervello di Orlando. Tutti tali artisti hanno immaginato mondi, uomini, cose (ed imprese). La fantasia poetica e la bellezza hanno compensato l’irrealtà di queste.
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  • Ma in politica vale come principio generale quello di Machiavelli, da me spesso citato, che è “più conveniente andare dietro alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di epsa”.  Ma proprio la “verità effettuale”, così modesta costringe ad illudersi, scambiando l’immaginario (bello) per il reale “brutto”.      Come d’altra parte, abitudine consolidata negli ultimi decenni.

  • Arcella

  • L’ uomo quale accidente culturale
  • Un saggio di
  • Luciano Arcella
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
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  • Luciano Arcella, storico delle religioni e filosofo, è autore di un numero considerevole di saggi. La sua ultima fatica, da poco nelle librerie per i tipi di Mimesis editrice, può essere considerata la summa della sua visione del mondo: le pagine del volume sono animate dall’esegesi puntuale dei suoi “autori” (Nietzsche, Frobenius, Spengler, Gehlen) e da un’originale proposta speculativa, mirata a cogliere il tratto “culturale” dell’uomo e della sua vita. Ci riferiamo a, L’uomo: un accidente culturale (per ordini: mimesis@mimesisedizioni.it, 02/24861657, pp. 218, euro 20,00), testo pensato alla luce della complessa e ambigua relazione dialettica Modernità-Tradizione, rispetto alle quali Arcella rifiuta le tesi mirate ad assolutizzare l’una o l’altra, onde evitare sterili contrapposizioni.
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  • Il nucleo teorico più forte del volume sta nella presentazione della posizione nietzschiana, relativa alla visione del mondo affermatasi in Grecia nell’epoca aurorale. Una visione tragica, avente al centro la polarità divina di Dioniso, statuente la caoticità del mondo. Nietzsche, in particolare, attraverso il metodo “fisiologico”, individua due tipi umani apparsi, per la prima volta, proprio nell’antica Ellade, l’uomo tragico, incarnante i valori dionisiaci, e l’uomo “teoretico”, perfettamente rappresentato da Socrate. La differenza tra le due tipologie umane: «si traduce in attitudine temperamentale e in costituzione fisica» (p. 18). L’uomo tragico, agendo pervaso da ebbrezza e sogno, nonostante la scoperta dell’insensatezza del mondo, è in grado di sostenere la tragicità di tale visione e di metamorfizzarla in energia vitale. L’uomo teoretico, al contrario, non riconosce la tragicità dell’esistenza e imbriglia il caos attraverso la creazione di uno strumento che ha prodotto lo sdoppiamento del mondo, il concetto.
  • ...
  • Attraverso tale invenzione, l’uomo andò incontro a un cambiamento fisiologico, in quanto: «L’elemento culturale opera sull’aspetto fisico non meno che questo influisce(a) sulle propensioni e le scelte di un singolo individuo come di un’epoca» (p. 20). Per il filosofo tedesco esistono animali di una specie particolare, gli uomini, che a differenza di altre specie sono dotati di intelligenza. Questi in un certo momento della storia, stimolati da situazioni diverse, agirono “intellettualmente” e “inventarono” la conoscenza. L’intelletto risultò, per l’uomo, salvifico: egli, come ribadirà Gehlen, è animale privo di efficaci strumenti istintivo-naturali e dovette costruire se stesso e modellare l’ambiente nel quale si muoveva attraverso l’intelligenza. Per controllare il mondo, le cose dovevano essere distinte (da cui la logica identitaria fondata sul principio di non contraddizione) e denominate. Nacque il linguaggio, primo strumento “tecnico” a disposizione degli uomini, che: «trasformò le cose in forme simboliche» (p. 25), in una realtà sovrapposta a quella naturale. Tutto, da allora, divenne mera rappresentazione, si postulò l’“in sé” del mondo. Per questo, Nietzsche ritenne che l’arte avrebbe potuto essere l’unico strumento in grado di riconnetterci all’esperienza originaria della vita, all’intuizione dell’Uno-Tutto dionisiaca che: «eliminando la distinzione soggetto-oggetto, propone un processo identitario nel quale il conoscere è una continua autoplasmazione dell’ essere» (p. 29).
  • ...
  • Per Nietzsche, nota Arcella, l’uomo è un’eccezione cosmica, il suo apparire sulla scena del mondo fu occasionale, la sua presunta essenza è autodefinitoria e fondata sul pregiudizio logico-morale. Inoltre, la realtà da lui costruita è prodotto di convenzione linguistica e, pertanto, l’uomo è un essere storico, un “accidente culturale”. Lo si rileva dalle lettura del canto dell’Odissea dedicato a Polifemo, nel quale Odisseo è presentato come: «padrone della tecnica della menzogna» (p. 52). Segno tangibile dell’ancestrale vocazione culturale dell’uomo. Cosa rilevante dell’episodio è che il “Nessuno” suggerito da Ulisse: «non è il niente […] ma il sovrumano, dinanzi al quale arretrano coloro che […] devono accettare il suo potere e dominio» (p. 57). Spengler proseguì sul cammino di Nietzsche e ne, Il tramonto dell’Occidente, si servì di uno strumento ermeneutico desunto da Frobenius, l’“intuizione”, per entrare nelle vive cose dello sviluppo ciclico-morfologico dei processi storici, la cui analisi non limitò al solo contesto europeo, ma spostò a livello mondiale. Anche nella sua prospettiva, l’uomo faustiano opera tecnicamente, in forza dell’attitudine: «funzionale alla lotta contro la natura per la sopravvivenza e il dominio» (p. 52). Agiamo, come Odisseo, astutamente. Per farlo dobbiamo: «creare un mondo falso» (p. 52), ma comunque propizio alla nostra sopravvivenza, quello culturale. L’estendersi della tecnica ad ogni aspetto della vita culturale, ha posto, nel corso del tempo, una serie di problemi, con i quali ci stiamo ancor’oggi confrontando. Arcella presenta e discute, in modalità organica, tutti quegli autori che, nella Germania degli anni Venti e Trenta, si opposero, nel nome del ritorno alla natura, al fenomeno dell’urbanesimo-industrialismo: dai Wandervogel ai primi gruppi di naturisti e nudisti.
  • ...
  • Soprattutto, si interroga sull’esito finale cui la vocazione culturale che ci costituisce potrà giungere. Il progressivo potenziamento degli apparti messi in campo dalla tecnica, sostiene l’autore, potrebbe rendere, alla lunga, l’uomo autosufficiente. Cosa accadrebbe, in tal caso? Forse potrebbe succedere che, per la prima volta, l’umanità potrebbe fare a meno di escogitare nuove “astuzie”, per dominare la natura e recupererebbe, in tal modo: «l’originaria animalità. Vivrebbe nell’ozio, da moderno Ciclope […] L’uomo […] risponderebbe in maniera del tutto spontanea a tali stimoli che la natura gli offre […] e godrebbe pertanto di una vita libera e giocosa. Il che sarebbe come tornare a vivere nell’epoca di Saturno» (p. 212). L’autore evoca il ritorno, attraverso la tecnica, allo stato originario, in cui l’essere dell’uomo sarebbe connotato da: «una animalità consapevole, saggia, in una ritrovata unione con la natura» (p. 213). Si tratta di uno sviluppo, si badi, soltanto ipotizzato, immaginato.
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  • Per chi scrive, la tensione umana al superamento di sé resterà sempre iperbolica.  Essa, ab origine, è inscritta nel rapporto polemologico che istituiamo con la realtà.  Queste pagine ci hanno indotto, in ciò il loro merito principale, a pensare alla necessità di conciliare la dimensione prometeica con quella orfica, con l’obiettivo di equilibrare la dialettica natura-cultura.

  • PINOCCHIO  VA  ALLA  GUERRA 
  • di  
  • Teodoro Klitsche de la Grange

 

  • Dopo l’invasione russa dell’Ucraina abbiamo letto notizie ed opinioni talvolta inverosimili in partenza, ma per lo più smentite dai fatti successivi; e il tutto accompagnato dall’omissione di circostanze contrarie, regolarmente taciute o minimizzate.   Quale esempio delle prime: Putin è matto, molto malato, ecc. ecc.   Ma Putin non ha fatto nulla di diverso da quanto operato da secoli dai governanti russi: cercare uno “sbocco” a sud verso i mari caldi, con decine di guerre soprattutto contro gli ottomani. Per cui se farlo significa essere matti, vuol dire che la Russia è diretta, almeno da tre secoli, da dementi; ma ciò non le ha impedito di ...
  • divenire una grande potenza. Ovvero che Putin sarebbe stato detronizzato dai “suoi”. Può darsi, ma finora, a quasi un anno dall’inizio delle ostilità, sembra saldo al potere. O anche che le sanzioni alla Russia l’avrebbero messa in ginocchio: ad oggi pare solo che ha perso qualche 2-3% del PIL (ossia un terzo di quello perso dall’Italia col governo Monti) e sarebbe in via di recupero. Quel che è taciuto è che il rublo si sia rivalutato nei confronti del dollaro e ancor più dell’euro: segno che i “mercati” – la pizia della stampa mainstream – ritengono la moneta (e l’economia) russa tutt’altro che inaffidabili, né in via di collasso.
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  • O che i russi avrebbero presto finito le munizioni: da un anno continuano a sparare, il che testimonia che ce l’hanno. E potremmo continuare per pagine. Anche dall’altra parte se ne raccontano, ma la tempesta mediatica da occidente è di gran lunga superiore sia per varietà (e contraddittorietà) degli argomenti, sia soprattutto per quantità dei ripetitori. Nelle prime fasi del conflitto mi è capitato di scrivere che la “nebbia della guerra” di Clausewitz, applicata nel caso alla comunicazione, era imponente; oggi è ancora tale. L’ultimo caso è quello dei carri armati: è stata da poco diffusa la notizia che stavano per arrivare agli ucraini (nei prossimi tre mesi) circa 100 carri armati occidentali, destinati a far polpette di quelli russi. Nessuno spiegava né nei tre mesi suddetti, cosa avrebbero fatto i russi per evitarlo (magari accelerare le operazioni militari per vanificare tanto aiuto agli ucraini) ma soprattutto che la asserita qualità dei corazzati occidentali non avrebbe compensato la superiorità quantitativa di quelli di Putin. Un po’ come, per tenersi da quelle parti, successe nel ’43 a Kursk, dove qualche centinaio di eccellenti Tiger e Panther tedeschi fu sconfitto, malgrado le perdite inflitte ai sovietici alle assai più numerose formazioni di T-34 e KV russi. E ciò malgrado i nazisti fossero comandati dal miglior generale della II guerra mondiale: Erich von Manstein. Il quale infatti, e a dispetto dell’inferiorità numerica (da 1 a 3 a 1 a 5), riuscì a tenere l’Ucraina per circa un anno. Ma era von Manstein e non Zelensky a comandarle.
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  • Agli albori dello Stato moderno, un noto giurista, Alberico Gentili, si poneva il problema se fosse lecito, in guerra, “ingannare” il nemico con menzogne di vario genere. E ne tratta per molte pagine del suo capolavoro il “De jure belli, libri 3”. Il problema sussisteva perché, per un giurista, è normale qualificare un comportamento come lecito o illecito.   E nel mentre riteneva illecito – in taluni casi – l’uso della menzogna per ingannare i nemici, tuttavia concludeva “Se infatti si ammette che a fin di bene anche gli amici possono essere ingannati con la menzogna, si può ammettere che i nemici possano essere indotti in errori per la loro rovina. Naturalmente, come agli amici è fatto per il loro bene, così ai nemici è reso il fatto loro e giustamente è recato loro danno”.    Ma in tutta la sua esposizione non si pone mai il problema del capo che mente (sistematicamente) al seguito; cioè il problema riconducibile alla propaganda di guerra – che tanta parte ha nei conflitti, soprattutto moderni.    Certo è che tutte – o quasi – le menzogne propagate non sembrano poter avere alcun effetto nell’ingannare Putin, o, al più, un’efficacia minima.
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  • Quindi il loro unico – o assolutamente prevalente - risultato, è di suscitare un qualche consenso nell’opinione pubblica a sopportare il costo delle sanzioni e degli aiuti all’Ucraina. Ossia sono false o errate rappresentazioni ad usum delphini. Le quali hanno l’inconveniente, in politica e ancor più nel di essa mezzo, la guerra, di indirizzare (e far regolare) le proprie azioni su presupposti e fini immaginari e immaginati, con ciò rischiando, a parafrasare Machiavelli “d’imparare più presto la ruina che la preservazione sua”.  Nella specie quella della comunità nazionale, che i governanti hanno il dovere di proteggere e dei cui risultati devono rispondere.

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  • Panunzio

  • Cristianesimo giovanneo
  • Un libro essenziale di Silvano Panunzio
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
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  • A parere di chi scrive, Silvano Panunzio va ascritto al novero dello sparuto drappello di pensatori che, nel corso del secolo XX, hanno tenuto accesa la fiaccola della Tradizione. Lo affermo, pur muovendo da posizioni assai diverse da quelle panunziane. Il suoi libri sono, comunque li si interpreti, miniere ricche di doni preziosi per lo spirito   Il lettore può trovare conferma di tale affermazione, nella nuova edizione di uno dei libri di maggior pregio di quest’autore, Cristianesimo giovanneo. Luci di ierosofia, nelle librerie per i tipi di Arkeios (per ordini: 06/3235433, ordinipv@edizionimediterranee.net, pp. 200, euro 24,90).   Il volume è arricchito dall’introduzione di Aldo La Fata.
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  • La prima edizione di Cristianesimo giovanneo fu realizzata nel 1989. Si tratta di una raccolta di saggi, per lo più usciti su due riviste di grande spessore teorico, L’Ultima, fondata a Firenze da Giovanni Papini e Feridinando Tirinnanzi, e Metapolitica, diretta dallo stesso autore. Il Nostro, figlio del filosofo Sergio Panunzio, rifondò nel 1946 il periodico sindacale e corporativo, Pagine libere. Dopo la scomparsa del pensatore, avvenuta nel 2010, sono state rieditate molte delle sue opere ed è uscita anche una biografia intellettuale, che ricostruisce le tappe principali del suo iter terreno e spirituale.   Il volume che presentiamo, ha un ruolo di primo piano per la comprensione della proposta realizzativa del pensatore.   Al suo centro sta la figura di Giovanni, nome che, stando all’etimologia ebraica, significa “Dio ha dato la grazia”.  Giovanni, in queste pagine, non è presentato, sic et simpliciter, quale figlio di Zebedeo e fratello di Giacomo, ovvero quale discepolo prediletto di Gesù.   No, tale nome indica una corrente spirituale presente e viva nel cristianesimo.
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  • Panunzio ritiene che si sia sviluppata, sotto il profilo teologico, a muovere dalla patristica greca e che abbia avuto quali insigni rappresentati personaggi che, non casualmente, portavano il nome, Giovanni: Scoto Eriugena, Pico della Mirandola, San Francesco (Giovanni, al momento del battesimo), san Bonaventura (Giovanni Fidanza), Giovanni XXIII.   La Fata, correttamente, chiosa: «una comunità di anime elette che hanno operato all’interno del cristianesimo con lo scopo di custodirne e alimentarne la vera essenza spirituale» (p. 11).   Non sia tratto in inganno il lettore, Panunzio non rinvia alla visione gnostica, secondo la quale sarebbe esistita una Chiesa giovannea, spirituale e segreta, contrapposta alla Chiesa storicamente presente nel mondo.   Al contrario: «Essere giovannei […] per Panunzio significa affermare il primato e la centralità dello Spirito» (p. 112), senza abiurare la fede nella quale si è nati, senza deflettere dalla Tradizione.  La fede cristiana per Panunzio non è, però, in sé sufficiente: rinvia a una dimensione che la eccede, a un grado di conoscenza più elevato, attinente all’“intelletto d’amore”.
  • ...
  • Questo riferimento permette di comprendere la prossimità, ma anche la distanza del Nostro nei confronti di René Guénon.  Non è casuale che il nome dell’esoterista francese compaia in esergo, assieme a quelli di Eugenio Zolli, Agostino Zanoni e Ubaldo Mondio, riconosciute guide spirituali di Panunzio.  A differenza di Guénon, il pensatore italiano non ha fatto dell’“intellezione pura” l’unico strumento atto a ricongiungerci al principio.  Egli, infatti, in queste pagine, ma non solo, concede un ruolo centrale e ineguagliato alla figura di Gesù, ritenendolo: «l’unico essere vivente ad aver realizzato per davvero l’ipseità assoluta, l’identità suprema» (p. 12).  Ciò permise al Cristo, dopo aver portato a termine la propria missione, di non venir semplicemente riassorbito nell’Uno: per questo, in quanto Persona, Egli risorse a nuova vita ed é sempre presente nell’Eucarestia.   Tale il mistero di fede.   Panunzio considerò la santità atta a condurre chi la realizzi, a un gradino superiore a quello cui può pervenire l’iniziato (da qui la svalutazione del ruolo della Massoneria, alla quale Guénon attribuiva una funzione significativa).
  • ...
  • Ciò non basta a qualificare i tratti che connotano il pensiero di Panunzio.   Altro elemento essenziale è il particolare ecumenismo spirituale di cui le pagine di Cristainesimo giovanneo trasudano. A riguardo, non è casuale che nella sua Introduzione al volume, egli presenti minuziosamente le figure e le tappe realizzative degli “intermediari”, intellettuali e spirituali, che si sono adoperati per l’ incontro tra Oriente e Occidente.  In sequela di tale congerie spirituale, a ragion veduta, Panunzio pone se stesso.  La sua indefessa azione intellettuale fu consonante, per molti tratti, a quella di Daniélou, di De Lubac e di Balthasar, che agirono per: «resuscitare […] la gnosi cristianissima e niente affatto ereticale dei Padri greci» (p. 18).  Sulla medesima linea di pensiero e contemplazione, tra gli altri, a fianco di Panunzio, si inserì Attilio Mordini.   Costoro erano fermamente convinti che la Rivelazione del Logos non può riguardare solo alcuni uomini ma: «deve necessariamente appartenere a tutti» (p. 12). Il divino non può essere costretto in una forma data, definitiva, nella sua esclusività particolaristica.  Da qui, la profonda e positiva considerazione che Panunzio ebbe dell’ecumenismo giovanneo che, proprio Giovanni XXIII, avrebbe voluto realizzare con il Concilio (dal che si evince la distanza della posizione panunziana da quella del cattolicesimo tradizionalista).
  • ...
  • Il cattolicesimo del pensatore, come mostrano le pagine di Cristianesimo giovanneo, è centrato sull’universalità della Rivelazione cristiana. Il libro testimonia, da un lato, proprio tale tratto universalista (ha suscitato interesse persino in chi scrive, che cristiano non è), dall’altro, dalle sue pagine, si evince l’identità di vita e pensiero incarnata dall’uomo Panunzio, la cui esperienza non è stata meramente intellettuale.

 

  • Cop. FRATE FUOCO alta

  • L’occulto e i suoi fenomeni
  • FRATE  FUOCO
  • a cura di Nuccio D'Anna
  • Una critica al neo-spiritualismo
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • La società post-moderna, liquida, rappresenta, a dire di molti interpreti, il momento terminale della dissoluzione della civiltà europea. A tale risultato hanno condotto, non solo, il razionalismo illuminista, con i suoi correlati economicisti e utilitaristi, ma la pervicace azione di distruzione della “muraglia interiore” degli individui, messa in atto da correnti e sette del neospiritualismo contemporaneo. A tali conclusioni conducono le tesi di insigni tradizionalisti, quali Evola e Guénon, che, ampiamente e in opere specifiche, si sono occupati di tali fenomeni, rilevando il tratto di “apertura verso il basso”, catagogica, proprio del neospiritualismo.  È da poco nelle librerie la nuova edizione di un libro che presenta, con organicità argomentativa, l’analisi di simili problematiche.  Porta la firma di un autore poco noto, Frate Fuoco, pseudonimo di un Padre Cappuccino, le cui opere ebbero un certo successo nella prima metà del secolo scorso. Il volume si intitola, L’occulto e i suoi fenomeni, ed è nelle librerie per Iduna editrice (per ordini: associazione.iduna@gmail.com, pp. 465, euro 28,00).
  • ...
  • Il testo introdotto da Nuccio D’Anna, studioso di storia delle religioni e simbolismo, è corredato da uno specifico dizionario tecnico che aiuta il lettore ad avere proficuo accesso al lessico dell’occultismo.  Ricorda D’Anna che, a muovere dal ‘700: «in tutta l’area del continente europeo si sviluppa quel fenomeno che Paul Hazard ha definito “crisi della coscienza”. […] Si tratta […] del capovolgimento totale di tutte le credenze religiose e le convinzioni filosofiche che fino a quel momento erano state considerate fondamentali» (p. III). Inizialmente, tale processo di sovversione, si manifestò nel razionalismo, teso a rappresentare in modalità puramente empirico-materiale la realtà del mondo. In tale contesto ideale, ben presto gli uomini sperimentarono una profonda inquietudo esistenziale che li indusse a prestare attenzione esclusiva alla dimensione istintiva della vita. Sorsero, quali succedanei della religione e della trascendenza, varie forme di psichismo. Intervenne, come rileva Frate Fuoco, una confusione esegetica, incapace di distinguere tra fatti naturali, preternaturali e sovrannaturali: «Si è trattato di un disordine ben strutturato che ha invertito ogni gerarchia interiore» (p. V).
  • ...
  • Non potendo tacitare l’anelito alla trascendenza, chiosa il cristianissimo autore, lo si indirizzò verso forme di pensiero fuorvianti e lo si catalizzò in istituzioni, mirate a: «sostituire l’azione anagogica della Chiesa» (p. V).   Pensieri e istituzioni che indussero, a suo dire, l’uomo moderno ad abbracciare definitivamente il nulla.  Movimenti quali lo spiritismo, nota D’Anna, come mostrano documenti di Società segrete legate alla Rivoluzione, furono artatamente creati per impedire il ritorno al trascendente.  Tra i primi fenomeni, legati al diffondersi del neo spiritualismo e criticati dall’autore, figurano il magnetismo, l’ipnotismo e il sonnambulismo: ponendo l’attenzione su “fluidi” ed “energie”, illusero un numero consistente di creduloni sulla possibilità di superare, con estrema facilità, la comune condizione umana.  Il fenomeno che coinvolse un pubblico davvero ampio è stato il medianesimo.  Al di là dei numerosi ciarlatani, quest’ambito è esperito da Frate Fuoco quale testimonianza dell’esistenza di soggetti umani “passivi”, che spengono ogni traccia di personalità in sé, ma che nulla sanno delle forze che, in tal modo, li investono e delle quali divengono succubi.   Il medium è agito, in lui parlano le “forze dal basso”, è un posseduto.   A volte si è creata, sostiene l’autore, una vera e propria simbiosi, tra medianesimo e demonismo.
  • ...
  • Le società, semi segrete, che raggrupparono i seguaci di tali credenze, erano centrate sulla presenza di un capo carismatico, vero e proprio despota nei confronti degli adepti.  Il pullulare e diffondesi di tali gruppi ha creato una “catena psichica” regressiva che sta a monte della stessa dissoluzione della personalità, oggi evidente.   L’omologazione dei culti, le pratiche deviate, in tali gruppi, di “magia nera”, l’utilizzo di talismani e amuleti per difendersi, eventualmente, da “malefizi”, sono testimonianza della credulità di ritorno propria del neospiritualismo e del ruolo devastante che esso ha giocato e gioca nella dissoluzione dell’Io.   Frate Fuoco prende in considerazione la stessa visione del mondo della Teosofia, ne ricostruisce la storia.   Ritiene che la concezione teosofica di Dio sia essenzialmente panteistica in quanto: «Il Dio dei teosofi è niente in sé, ma diventa tutto in ogni cosa nella quale acquista l’essere, il genere, la differenza, la individualità, la personalità ed ogni altro attributo» (p. 323).   Rifiuta, inoltre, nel nome dei principi cristiani, la dottrina del karma e quella della reincarnazione che condurrebbero alla negazione del libero arbitrio.     Definisce, infine, la Teosofia un ritorno al paganesimo!
  • ...
  • Il che ci pare non corrispondere alla realtà.   Infatti, se come rileva D’Anna, nel neospiritualismo, e quindi anche nella Teosofia: «non c’è nulla di autenticamente tradizionale», come avrebbe potuto tale movimento moderno riproporre la visione classica del mondo, nella quale la Tradizione si è incarnata?   Il termine paganesimo è del tutto improprio, in un volume che comunque conduce il lettore a una lettura critica del neospiritualismo.

  • Langelo dellabisso Maculotti

  • Apollo, Angelo dell’Abisso
  • Un saggio di
  • Marco Maculotti
  • di
  • Giovanni Sessa
  •  

  • Marco Maculotti è un giovane studioso che si occupa di Tradizione, folklore, esoterismo e letteratura fantastica. I molteplici interessi lo hanno dotato di una non comune capacità esegetica, convenientemente esercitata nella lettura dei simboli, delle religioni e dei miti.   La cosa la si evince dalla sua ultima fatica, da qualche tempo nelle librerie per Axis Mundi Edizioni, L’Angelo dell’Abisso. Apollo, Avalon, il mito polare e l’Apocalisse (pp. 383, euro 28,00).  Il libro muove dalla condivisibile concezione che gli archetipi, compreso quello apollineo: «sono ancora vivi e vegeti, e aspettano solo di essere colti da chi sappia comprenderli e “svelarli” dalla patina storica con la quale sono stati così accuratamente offuscati» (p. VIII). Si tratta di un testo che, costruito tanto sull’analisi delle fonti antiche quanto sulla più accreditata letteratura critica, decostruisce il mito di un Apollo esclusivamente uranico, solare, prodotto tipico del neoclassicismo di Winckelmann e presenta un Apollo dal duplice volto, tanto solare, quanto ctonio.
  • ...
  • Marcel Detienne, in uno studio ricordato da Maculotti, Apollo con il coltello in mano, ha sostenuto che il nome del dio rinvia al verbo apollunai, “far morire”, significato che, con tutta evidenza, è sintonico alla dimensione tellurica. Eliade aveva colto nel dio della Luce qualità ambigue e nient’affatto riconducibili al mero ordine del reale e all’armonia cosmica.   La potestas apollinea, infatti, in Attica era collegata a Pan e alle Ninfe, portatrici, come ben sapeva Calasso, delle “acque mentali” atte a indurre mania. Le Sibille vivevano in antri sotterranei e in essi, visitate dal dio, vaticinavano.   Maculotti, in sostanza, sostiene che Apollo è dio della coincidentia oppositorum, nella sua figura divina convissero la dimensione polare e il daimon sotterraneo: «Una doppiezza che, tuttavia, si risolve proprio comprendendo l’essenza di quella dimensione assiale di cui Apollo è epifania, quell’Iperborea dalla quale proviene» (p. 6).
  • ...
  • L’autore rileva, inoltre, che il culto apollineo sorse in stretta connessione con la tradizione sciamanica nordasiatica. Per questo i suoi sacerdoti, gli Iatromanti, come attestato da copiosa e verificata letteratura, compivano viaggi “in spirito” e immersioni nell’Ade.   Essi, il più delle volte: «vivevano e agivano da asceti solitarî, praticando una forma di religiosità che esulava nettamente dai riti e dai sacrificî su cui era imbastita la religione olimpica delle póleis» (p. 7).   Sciamanesimo e culto apollineo trovarono una loro coerente elaborazione e sviluppo nella nascita della filosofia, stante la lezione di Colli e Tonelli.   Il culto del Fuoco, così rilevante in Eraclito, rinvia al Fuoco-Luce quale arché che vive nei molti e dinamizza la physis.   L’esperienza sciamanica è, del resto, presente in Empedocle.   La sua morte, realizzata gettandosi nel cratere dell’Etna, rinvia a un’ascesi che si mostra solo successivamente alla pratica della “discesa agli inferi”.  Molte le testimonianze inerenti i Sapienti che narrano di pratiche estatiche atte a separare l’anima dal corpo, mentre altre testimoniano delle loro capacità medico-taumaturgiche.
  • ...
  • In una colonia milesia, nel 1973, è stata rinvenuta, ricorda il nostro autore, una lapide del III sec. a. C. su cui compare l’epiteto, attribuito ad Apollo, di Pholeuterios, termine che rinvia a “celare” ed è traducibile con “Signore della caverna”. Il culto apollineo, come la pratica estatica dei pitagorici, comprendeva la tecnica della incubatio che si svolgeva in cavità naturali, propiziante un alto grado di concentrazione e di rammemorazione.   Nella filosofia presocratica confluì l’intero sapere primigenio dell’Ellade arcaica tanto che: «Pitagora venne […] considerato una manifestazione dell’Apollo iperboreo, ipotesi che persino Aristotele reputò veritiera» (p. 45).   La leggenda che meglio permette di aver contezza della relazione tra il filosofo e il dio si riferisce alla coscia d’oro del primo.   Coscia in greco è méros, fonema immediatamente assonante con il monte Mêru della tradizione vedica, axis mundi legato alla simbologia polare propria di Apollo.   Questi, nella sua funzione di daimon, nel suo legame con la dimensione tellurica, svolge il ruolo di mediatore tra mondo umano e divino, è simbolo anagogico trainante dal basso all’alto.
  • ...
  • A Delfi, l’esistenza di un oracolo di Gea, insediato in loco prima di quello di Apollo, conferma la struttura ambivalente della potenza divina apollinea.   Nel suo sopravvenire in tale località sacra, il dio della Luce non uccise il serpente Pitone ma la dragonessa Delfine, il cui nome significa “grembo”.   La vittoria conseguita su Delfine è interpretabile quale trionfo del cosmos sul caos dell’origine.   Da allora Pitone è sottomesso al lauro di Apollo e venne rappresentato attorcigliato all’omphalós: «Apollo è potuto nascere solo nell’oscurità più densa, in quel buio che precede l’alba […] Si rivela solo ed esclusivamente in situazioni notturne […] simbolicamente […] infrauterine» (p. 109). Per questo, gli altri centri sacri ascrivibili al dio della Luce sono collocati su “abissi”, su “bocche infernali”, come quelli dedicati a San Michele, allineati sulla “Linea Sacra Michelita”.   Lungo tale linea si trova l’isola di Patmos, inabissata e fatta sorgere a nuova vita, stando al mito, da Apollo e da Artemide (altra divinità legata alla Terra).   L’isola atemporale corrisponde alla Sacra Terra polare, di cui narrano i miti iperborei e la tradizione graalica del Regno di Avalon (su questi aspetti, Maculotti intrattiene a lungo e con argomenti persuasivi il lettore).
  • ...
  • A Patmos, san Giovanni Evangelista scrisse il “Libro della Rivelazione”.   La liturgia cristiana sostiene che Giovanni avrebbe ricevuto la rivelazione dell’Apocalisse dall’Arcangelo Michele, una sorta di “doppio cristianizzato” di Apollo, a dire dell’autore.   Tali coincidenze fanno pensare a una possibile continuità tra la mantica apollinea e quella apocalittica.   In ogni caso Apollo, a dire di Maculotti è dio che annulla la distanza tra Terra e Cielo, almeno in quanti si lascino colpire: «dalla sua freccia e sappia(no) intendere l’Armonia cosmica insita nelle sette note ansimate dalla sua lira, facendo nascere nell’intimo abissale […] la capacità profetica» (p. 121).
  • ...
  • Per noi che riteniamo che il principio si dia solo nei molti, che pensiamo la physis in termini sacrali, la parte più rilevante di questo studio va individuata nella demistificazione di Apollo quale dio solare.   La sua duplicità rinvia, al contrario, all’arché quale coincidentia oppositorum, in cui si danno in uno maschile e femminile.

  • Visani

  • Contro   il   Leviatano
  • Gli ultimi scritti di
  • Piero Visani
  • di
  • Giovanni Sessa
  • Piero Visani è stato intellettuale libero e anticonformista. Romagnolo trapiantato a Torino, da storico militare di vaglia quale era, per oltre vent’anni è stato consulente del Ministero della Difesa.  A oltre due anni dalla prematura scomparsa, è nelle librerie, per i tipi di Oaks, una raccolta di suoi scritti, arricchiti dall’introduzione del figlio Umberto. Ci riferiamo a, Contro il Leviatano. Ripensare la politica, la storia, lo spettacolo (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 166, euro 20,00).     La silloge consta di cinque parti.  La prima raccoglie articoli relativi alla visione del mondo, la seconda testi inerenti alla politica, la terza è costituita da scritti sulla guerra, la quarta da saggi su letture, spettacolo e sport, la parte conclusiva da testi riguardanti gli scenari futuri del mondo.
  • ...
  • L’introduzione di Umberto è conclusa da una lettera che Piero rivolse al figlio. Testo commovente, dal quale si evince non solo il forte, sincero e appassionato legame paterno, ma la stessa tempra caratteriale di Visani: studioso che ha sempre fatto della libertà, della coerenza e della testimonianza del proprio mondo valoriale, ragione di vita: «Posso aver fallito tutto ma non ho fallito il compito principale che mi ero dato: quello che mio figlio fosse memoria vivente delle mie idee e di me» (p. 13). Fin dall’incipit del volume, l’autore ricorda che, a partire dall’infanzia, in lui si manifestò un intenso amore per l’Italia, sentita quale Patria.  A scuola era attratto dalle gesta degli eroi del Risorgimento o dalle battaglie campali, il cui esito ha determinato le sorti del mondo.  Per questo, i suoi studi universitari furono centrati sulla Storia militare e mossi dalla convinzione che polemos è legge vigente nella vita dell’intero cosmo.  Posizione decisamente inattuale, che Visani ha constatato, nel corso della vita, confermata dalle visite ai luoghi dove si svolsero le grandi contese belliche.  A Waterloo, ad esempio, ebbe contezza che: «I luoghi della Storia parlano» (p. 21) e insegnano che: «nessuna sconfitta è veramente tale se si salvano l’onore, la dignità, la memoria» (p. 22).
  • ...
  • Tale affermazione ci fa comprendere che paradigma di vita dell’autore è da individuarsi nelle gesta di Carlo Fecia di Cossato, discusse nel volume. L’ufficiale, dopo una brillante carriera in marina, per fedeltà al Re, l’8 settembre rispose al fuoco di navi tedesche ma: «maturò il convincimento di essere stato l’involontario protagonista di una resa ignominosa» (p. 29).  Per questo, si tolse la vita.  L’onore, prima di tutto.  In quella tragica giornata, non si comportò allo stesso modo, chiosa Visani, la maggioranza degli italiani che: «si preoccupò come sempre di acconciarsi ai nuovi padroni» (p. 31). Tale difesa della dignità, la certezza di condividere una medesima “comunità di destino”, sono state rintracciate dal Nostro, nella dignità esistenziale di due popoli in lotta per l’indipendenza, irlandesi e scozzesi, che egli ebbe la ventura di conoscere durante i soggiorni in queste terre della Tradizione.
  • ...
  • Centrale nel volume è il capitolo dedicato alla politica.  Da esso si evince quanto l’intellettuale torinese avesse contezza del tratto liberticida del regime della governance, nel quale, da tempo, si sono involute le democrazie liberali.  La condizione del cittadino europeo è paradossale: «Le armi di distrazione di massa lo persuadono quotidianamente di vivere nel migliore dei mondi possibili, mentre, a livello pratico, pezzi della sua libertà e sovranità vengono perduti ogni giorno» (p. 40). Nessuno di noi è sovrano, in quanto, come ha insegnato Schmitt, non possiamo decidere né dello “stato d’eccezione”, né d’altro.  La situazione politica contemporanea è definita “totaldemocratica”.  Si tratta di un pericolo estremo, contro di essa vanno canalizzate le forze d’opposizione, le intelligenze ancora vive, anche se l’esito della battaglia è più che incerto: «Non penso che l’Europa si salverà […] ma le buone battaglie è sempre bene combatterle» (p. 43).   All’evidente fallimento della narrazione metapolitica del potere vigente, è necessario sostituire una visione metapolitica alternativa allo stato presente delle cose.   Le categorie di Destra e Sinistra, risultano obsolete nel confronto con il Leviatano.   La vera opposizione è quella che vede contrapposti i difensori della libertà e i fautori della “totaldemocrazia”.   Il caso italiano è emblematico, teatrale, in tale contesto.   Viviamo da molti decenni un eterno 8 settembre, un susseguirsi di tradimenti a danno degli interessi e della sovranità nazionale.
  • ...
  • Per il Nostro è necessario ripensare la politica attraverso una nuova considerazione dell’ idea di guerra.   Da un lato, dovremmo lasciarci alle spalle l’idea moderna del nemico assoluto, rappresentante del Male, sic et simpliciter da eliminare, mentre, dall’altro, sarebbe auspicabile il recupero di: «una genuina inimicizia relativa» (p. 72).   Essa è del tutto improbabile, in quanto la concezione moralista della politica e della guerra oggi prevalente, ha trasformato quelli che erano i conflitti tra Stati, in guerra civile internazionale.   Detto ciò, bisogna agire al fine di identificare un nemico reale, con il quale la composizione del conflitto potrà essere sempre possibile.   A tale conclusione teorica, ricorda Visani, per vie diverse, sono giunte Nuova Destra e Nuova Sinistra.   Le politiche mondiali attualmente in atto, sostenute dagli USA, sono invece drammaticamente caratterizzate in senso moralista, come si evince dal conflitto russo-ucraino.
  • ...
  • Un libro composito, una lettura godibile e fluida, indotta dalla prosa accattivante di Visani. Contenutisticamente, si tratta di un testo esposto sui problemi del presente. Dalle sue pagine emergono gusti e disgusti dell’autore, dall’ambito letterario a quello sportivo e cinematografico (dall’amore per Jünger e Le tempeste d’acciaio a quello per il rugby e Antonio Conte).  Vista la visione del mondo di Piero, anche nel chiudere questa recensione non possiamo che far nostro l’augurio del figlio: Requiescat in bello.


  • IL BICCHIERE MEZZO PIENO 
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Tra le innovazioni del decreto 150/2022, c’è l’estensione dei reati procedibili solo a querela dell’offeso, onde creare un barrage ai processi penali e così ridurne il numero. Il tutto, si sostiene, in linea con gli obiettivi di efficienza del processo e del sistema penale. Ancorché il tutto possa prestarsi ad un’inferiore deterrenza della prescrizione sanzionatoria (e così al di essa effetto dissuasorio) la rimessione alla parte lesa della facoltà di “far partire” il procedimento, ne facilita – a vantaggio della medesima – le condotte risarcitorie e riparatorie del reato, con soddisfazione – almeno parziale – dell’interesse della vittima.
  • ...
  • Nello stato in cui versa la giustizia italiana, non possono che essere benvenute disposizioni che consentono una migliore soddisfazione dell’interesse privato, peraltro “alleggerendone” gli oneri per lo Stato. Tuttavia sono i presupposti di soluzioni come questa a dover essere criticati; vediamo perché.   Scriveva Hegel che lo “Stato è la realtà della libertà concreta”, in quanto, brevemente, coniuga gli interessi particolari con l’interesse della generalità così che né l’universale si compie senza l’interesse particolare, né che gli individui vivano solo per questo, senza che vogliano, in pari tempo, l’universale.   Più “tecnicamente”, da giurista, Jhering collegava l’interesse particolare al generale, attraverso i meccanismi giuridici, in particolare la sanzione, che, come Carnelutti avrebbe sottolineato, è un avvaloramento del precetto normativo con la quale si penalizza la condotta conforme o contraria a quella, sacrificando o soddisfacendo l’interesse particolare.   Anche per questo Jhering scrisse quel best seller giuridico che è La lotta per il diritto (Kampf ums Recht) ancora oggi, a circa un secolo e mezzo dalla pubblicazione, continuamente riedito. Nell’edizione Laterza degli anni ’30, con un’avvertenza preliminare di Croce che, sorprendentemente, ne sottolineava l’alto valore etico, scrivendo: “Può far maraviglia che questo elevamento della lotta pel diritto sopra le considerazioni utilitarie sia sostenuto da un pensatore che nella sua speciale trattazione filosofica dell’argomento, Der Zweck im Recht (1877-83), riportò il principio del diritto all’egoismo… Ma tant’è: nel Jhering il sentimento morale era più forte dei suoi presupposti e della sua logica filosofica” e proseguiva che a questa concezione “valse il forte rilievo dato agli individui e ai loro bisogni e ai fini che si propongono nel formare il diritto; se anche gli piacque interpretarli e chiamarli, poco felicemente, egoistici”.
  • ...
  • La ragione per cui lottare (Kampf) per il proprio diritto soggettivo, al tempo stesso si risolve nel realizzare quello oggettivo è che il diritto che non è applicato, per cui non si lotta, è un diritto… teorico. Cioè che nega la propria essenza di attività (ragione) pratica. Come le idee di Platone, confinato in un iperuranio normativo, senza un demiurgo che lo porti in terra.   Se la funzione del demiurgo è rivestita soltanto dalla vittima zelante probabilmente l’effettività dell’attuazione (cioè la soddisfazione dell’interesse pubblico all’ordine sociale) e così l’oggettivazione lascerà a desiderare.   Ciò premesso quel che più sorprende di questa soluzione è che se ne vuole misurare (almeno nella rappresentazione che ne danno molti mass-media) l’efficacia non dal calo dei reati commessi ma da quello dei processi che ne conseguono.
  • ...
  • Di per se che non si celebri il processo dopo il reato perché manca la querela, non significa che il reato non sia avvenuto (né che il reo non lo reiteri), ma solo, per l’appunto, che manca la querela. Anzi, sbrigarsela con un risarcimento e non con la detenzione non fa calare le trasgressioni, ma aumentare le possibilità di “farla franca”. In particolare per i rei dotati di disponibilità finanziarie.   C’è da aggiungere che tale modo di ragionare, in particolare se presentato come “momento” decisivo delle riforme, è figlio di una visione burocratica del mondo; è l’universo visto dall’angolo visuale della scrivania, ma tale punto di osservazione non permette una percezione “a giro d’orizzonte” e prenderla per quella principale è frutto di una deformazione professionale, spesso ripetuta. Se invece di centomila processi da iniziare se ne hanno settantamila, onde la durata degli stessi dimezza, non vuol dire (neppure) che l’efficacia dell’amministrazione della giustizia penale è migliorata, ma solo che ha minore lavoro da sbrigare.
  • ...
  • Tuttavia la funzione della giustizia penale, in ispecie, di assicurare l’ordine sociale, non ci guadagna un gran che. Ciò non significa che la riforma sia disprezzabile, ma che non è il caso di intonare peana né confidare in grandi risultati da un bicchiere mezzo pieno.

 

  • Toti
  • Innella
    Esempi di poesia contemporanea
  • I componimenti di 
  • Marco Toti
  • e di  
  • Francesco Innella
  • rec.  di
  • Giovanni Sessa
  •  
  • Marco Toti, del quale conoscevamo finora la produzione saggistica di ambito storico-religioso, ci ha sorpreso, e non poco, con la sua ultima opera, Dal fondo di tutte cose. Lessico poetico 1999-2017, pubblicato da Thule, con prefazione di Maria P. Allotta. Il volume raccoglie la sua significativa produzione poetica (per ordini: marco76toti@yahoo.it, pp. 71, euro 15,00) ed è testimonianza viva della ricerca, spirituale ed esistenziale, dell’autore: in qualche modo, il “volto celato” del suo universo ideale.  Un percorso lirico, quello contenuto in queste pagine, segnato da slanci conoscitivi, momentanei arretramenti e cadute lungo la Via, così come da illuminazioni improvvise.  Alcune immagini evocate dalla parola di Toti, ci hanno riportato al climax della lirica michelstaedteriana, segnata dalla delusa tensione alla Persuasione che si evince, tra le altre composizioni del goriziano, in Itti e Xenia.  L’animo di Toti è funestato: «dallo sciabordio di quest’onda […] E all’incorrotto cielo/sale umbratile pianto.» (p. 14).   La dimensione desiderativa, la “brama” di vivere, sono esperiti quali impedimenti al dis-velarsi del Reale, cui egli mira oltre la dimensione meramente rappresentativa del mondo: è il fondo, l’Abisso da cui tutto si dischiude e si mostra.
  • ...
  • Le cose, viste, distinte, determinate nell’approccio logocentrico, concettuale, sono: «il mal dissimulato empito: /È la nemesi D’un Tempo indimenticato» (p. 19). Tale realtà sta oltre il velo dell’apparenza, in quanto siamo ingannati da “illusioni ferali” : «Brama e terrore/Di vivere/Che occulta la vita/Come mendace manna.» (p. 21).   L’enigma, il mistero che avvolge la vita, si fa ascoltare nei versi di Toti e, al suo confronto, non si può che sospendere il giudizio: «Forse del divenire/È l’essere il senso/Profondo?/Io vago,/Errabondo» (p. 23).  Il dubbio, di fronte agli insistiti tentativi di “conoscere”, pare assalire l’autore: «O forse,/Quel che scorsi,/Tremolante/ per onirici veli,/Era niente?» (p. 27).   Se così fosse, si tratterebbe di quella “pienezza” nientificante, di cui hanno detto i mistici, di cui ebbe contezza Eckhart.  La lirica di Toti è, infatti, pervasa da afflati mistici, vissuti con speranza, ma anche, com’è naturale, pervasi da estrema incertezza: «La verità mi sfugge […] Navigare/È fuggire/È naufragare» (p. 29). Il senso ultimo della queste totiana, si appalesa in questi versi: «Appare/Nel crepuscolo/L’indistinto […] Lo prendo/Come un cesellato dono/dell’arte superba/D’un Artista/Che non conosco ma amo.» (p. 31). Essi suggellano il tratto unitivo di un sapere nesciente, sofia che si nutre: «Del vuoto di Te, Amore immortale» (p. 35) colmante, definitivamente persuasivo.  Un’esperienza palpitante è quella che Toti trascrive sulla pagina.  La sua poetica sottrae la parola, il dire, al linguaggio denotativo, convenzionale.    Essa si metamorfizza in icona, immagine possibile della Parola.
  • Anche la poesia di Francesco Innella è sostanziata da tensione lirica alla liberazione. Lo si evince dalla sua ultima silloge compositiva, Kimera. Poesie dell’Io (pp. 54, edita da Amazon).  Egli, con il filosofo Andrea Emo, una cui citazione è l’incipit della silloge, ha contezza che poeta è uomo assiso sulle rive del fiume della vita: egli spera di trarre dalle acque fulgenti, spesso deludenti dell’esistenza, immagini guizzanti, testimonianti la presenza, nei molti, del medesimo, dell’origine.   Immagini, non idee: solo le prime alludono al tratto negativo dell’Uno, al ni-ente originario, fuggevoli e iconoclaste proprio quanto lo è il principio.  Per questo, Innella è consapevole che solo: «Un giorno/le nostre egoità/tramonteranno nell’Eterno » (p. 7), nel quale l’Io, con le sue effimere certezze, si annienta.   Come rileva in postfazione Davide Morelli, la poesia di Innella è trascrizione di contesa interiore, in forza della quale l’autore ha superato la propria “notte dell’anima”, rivoltando l’inconscio in conscio.
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  • In questi versi, a trovar voce e, prima ancora, ascolto, sono “antiche presenze”, immagini archetipali che rendono l’iter vitale, con i suoi inciampi, delusioni e rare riuscite, cammino in direzione della consapevolezza. A tanto, possono bastare le semplici cose della vita, la bellezza baluginante nella natura e, ancor più, i ricordi: «A vent’anni/il mio desiderio/si spegneva/sul corpo di una donna,/mentre il sole/tramontava indifferente/sulla mia inquietudine» (p. 33).  Dall’inquietudo e dallo smarrimento della coscienza, in processo anagogico, la parola poetica conduce Innella in faccia all’abisso della vita: «Abitiamo nel profondo mistero/dell’assenza, pozzo in cui/ si infrangono coscienze» (p. 28).    Anche per lui, come per Toti, la dimensione desiderativa tende a ridurre la realtà umana, al dato puramente esistenziale. Chi senta in sé, prorompente, il bisogno della consistenza, prende atto che: «Difficile è far comprendere/un verso che salta alla gola/in un meriggio d’angoscia/ad un cuore imputridito di vita» (p. 25). Memore del monito agostiniano: «Guarda in te stesso!», il nostro autore, poetando, persegue la Via interiore: «La via interiore/si dipana/in una discesa dolce/e nel mistico silenzio/l’ego si appanna/e tace» (p. 19). Nei versi della poesia Il dolore, egli insegna che solo liberandoci del peso in eccesso del nostro Io, come fanno le piante in autunno con le foglie: «la libertà avrebbe/il sopravvento/sul nostro dolore» (p. 45).
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  • La libertà: ecco infine riconquista, al termine del percorso, l’origine, il principio infondato della nostra vita.   L’Io è ormai alle spalle, ricordo obliato, trasfigurato nel Sé.   Scoperta rasserenante e luminosa.

  • La scala terrestre

  • La scala terrestre
  • Una raccolta poetica di
  • Jurigis Baltrušajtis
  •  di
  • Giovanni Sessa
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  • La contemporaneità sembra poter fare a meno dei poeti.  Di poesia poco si discute e, ancor meno, si pubblica.  Resta il fatto che, chi abbia l’avventura di imbattersi nell’opera di uno di questi uomini rari, ne viene illuminato e il suo sguardo sulla vita, le sue aspettative esistenziali, vengono modificate in profondità.  È il caso della poesia del lituano Jurgis Baltrušajtis (1873-1944) di cui la Bietti di Milano ha recentemente rieditato la raccolta, La scala terrestre, per la cura di Guido Andrea Pautasso (pp. 68, acquistabile su Amazon).  La silloge poetica, uscì in prima edizione all’inizio del secondo decennio del secolo scorso, grazie a Vannicola, direttore di una collana che pubblicava traduzioni di agili libretti.  Si occupò della prefazione la moglie di Giovanni Amendola, Eva Amendola Künh, anch’ella di origini baltiche.
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  • Nel 1904 Baltrušajtis era a Firenze, città nella quale iniziò la frequentazione degli ambienti papiniani, assai vivaci anche sotto il profilo della produzione lirica e poetica. Tra gli altri, i versi del lituano colpirono fortemente l’immaginario di Dino Campana che, come è noto, fu creatore orficamente ispirato, oltre che ribelle alle strettoie del mondo borghese e dell’ “Italietta” dell’epoca.  Jurgis, in patria, aveva conseguito una certa notorietà: animatore del movimento simbolista, aveva fondato una casa editrice e, soprattutto, la rivista Vesy. È opportuno, al fine di pervenire a un’esegesi critica e puntuale del mondo ideale di Baltrušajtis, muovere da questa affermazione del curatore della raccolta: « (Egli) viveva immerso in una dimensione filosofica pura, una gnosi alternativa anti-moderna che si esprimeva attraverso la ricerca di una spiritualità pagana» (p. 11).   È, con probabilità, questo l’aspetto che affascinò Campana: La scala terrestre indicava una particolare via alla liberazione, conduceva oltre la prigione della rappresentazione, delle determinazioni e distinzioni concettuali, proprie del logos prevalso in Occidente, per ricondurci, con forza, di fronte al misterium vitae, all’enigma nel quale siamo avvolti.  Campana, in un suo componimento, trascrisse questi versi del compositore baltico: «Tutto era mistero per la mia fede, la mia vita era “tutta un’ansia del segreto delle stelle, tutta un chinarsi sull’abisso”» (p. 13).
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  • La tensione stellare di Baltrušajtis ci pare assai prossima alla via alla Persuasione testimoniata, sia filosoficamente che poeticamente, da Carlo Michelstaedter. Essa sorge dalla volontà di lasciarsi alle spalle la dimensione “rettorica”, vanamente desiderativa dell’ex-sistere, del nostro star-fuori dall’origine.  Leggiamo in Desiderio: «Ci aspetta nel mondo una brama/ su ogni cammino… […] Imploriamo il miracolo dell’appagamento/ Giorno e notte» (p. 45). Il miracolo è il superamento dell’inganno, la fuoriuscita dalla dimensione greve della vita, per cui al poeta, anelante la riconquista del principio, non resta nei versi de Il sole nero, che affermare: «Aspetto il non essere» (p. 46). L’assoluto che attrae l’animo di Baltrušajtis quasi fosse un magnete, è nulla di ente, ni-ente. Si dà e vive negli enti. Per tale ragione, né l’amore, né la bellezza della natura, possono acquietare la sua sete irrefrenabile di portarsi oltre le cose, oltre la loro duplicazione rappresentativa, attraverso la parola rivelativa della poesia. In, Le ali della luna, si legge: «E nell’attimo delle stelle, quando tutte le catene cadono,/ la bramosia del secolo è acchetata. / Tutto è sogno e luce: e io stesso son luce di luna, / E non sono più e pare non vi sia più il mondo» (p. 43).   Conseguire una tale visione, implica aver contezza, al di là di qualsivoglia condizione relativa, della coincidentia che si staglia alle spalle degli opposti, intuiti dall’intellettuale lituano nella loro dimensione relazionale, come si evince dalla versificazione i, Meditazione: «Nel cuore, come nel mare, vi è flusso e riflusso…/ Io vivo nell’alternarsi degli estremi» (p. 49). Tutto è Uno e: «l’attimo e il tempo senza limiti/ E ciò che è pieno di inquietudine e di sogno,/ [….] Sono tutti grani della stessa spiga» (Gloria Mundi, p. 53).
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  • Nonostante la visione salvifica sia per pochi, il poeta valorizza, nel medesimo componimento, il tradere dei più. Egli rileva: «Sono ugualmente degni del fuoco di adorazione/ il sudore austero dei visi chinati sulla terra,/ le azioni che non svaniscono nel fuoco dei secoli/ Ed il mormorio savio della favole sapienti.» (p. 52). Non sorprende che la nobile voce del poeta lituano sia stata finora poco ascoltata. Dopo la rivoluzione d’Ottobre, egli si batté per l’indipendenza della propria Patria e si prodigò nel tentativo di salvare gli intellettuali invisi al regime comunista.   Durante il Secondo conflitto mondiale fu in esilio a Parigi, e qui si spense nel 1944.
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  • Negli anni Sessanta, si tornò a parlare di lui, in forza della sagace azione riabilitativa messa in atto, nei confronti della sua opera, dal figlio, noto storico dell’arte.  Benemerita, pertanto, questa iniziativa editoriale della Bietti, che ci consente di porci nuovamente all’ascolto di una delle voci più significative, oltre che controcorrente, della parola poetica del Novecento.

  • PIÚ DIKE... TIMIDAMENTE
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Ha suscitato un discreto dibattito la riforma della giustizia tributaria impostata e realizzata dalla ministra Cartabia. Molti ne hanno evidenziato la timidezza, altri la congruità, non pochi l’hanno considerata un’occasione mancata.    A mio avviso per valutarne la portata “ordinamentale” (che brutta espressione!) occorre risalire sia a principi e norme costituzionali, sia alle innovazioni in materia di giustizia tra pubbliche amministrazioni e cittadino, in particolare nell’ultimo trentennio.    Al riguardo ho sostenuto più volte (v. da ultimo “Temi e Dike nel tramonto della Repubblica”) riprendendo così delle tesi di Maurice Hauriou, che in ogni Stato vi sono due giustizie: una paritaria e intergroupale, che il grande giurista chiamava Dike, l’altra non paritaria (e intra)istituzionale, che denominava Temi.       Le quali corrispondevano al diritto (sostanziale) comune la prima e a quello istituzionale la seconda.
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  • Nessuna istituzione politica ne può prescinderne, nel senso che in ogni ordinamento, anche il più liberale o, all’opposto, il più autoritario, v’è comunque un po’ dell’una e dell’altra (come del diritto sostanziale corrispondente).   L’una e l’altra rientrano nel rapporto (presupposto del “politico”) tra comando e obbedienza, autorità e libertà (secondo una definizione fortunata e ripetuta, anche se un po’ imprecisa).   Facevo notare in quei lavori che nell’ultimo trentennio, il rapporto tra potere pubblico e cittadini aveva preso una piega tale da aumentare la disparità (a favore del primo), ad onta del fatto che la novella all’art. 111 della Costituzione aveva disposto che le parti stanno in giudizio in condizione di parità.  Anzi l’aver affermato solennemente con la modificazione costituzionale il principio di parità aveva incentivato il proliferare di norme legislative che di diritto o di fatto lo riducevano, così come di comportamenti amministrativi contrari alla “parità”.    Sotto tale profilo indubbiamente la riforma Cartabia, senza avere nulla di travolgente, ha un suo indiscutibile pregio: che ha invertito la tendenza ad aumentare la disparità, anzi riducendola.   Le norme – ancorché non chiarissime, sull’onere della prova e sull’ammissibilità di quella testimoniale (scritta) nonché quella sull’aumento delle spese (per rifiuto ingiustificato di conciliazione) riducono la disparità tra amministrazione e contribuenti (in lite). In senso opposto è la previsione del rapporto tra Giudici tributari e Ministero dell’Economia, che è una delle parti (sostanziale) del processo.
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  • C’è un altro aspetto in cui l’intervento risulta positivo: l’aver “professionalizzato” la nomina dei magistrati tributari, prevedendo per quelli da assumere il possesso della laurea (magistrale) in giurisprudenza o economia. Se si vanno a leggere gli artt. 4 e 5 del D.Lgs. 545/92 (abrogati) nelle commissioni potevano essere nominati anche: ragionieri, periti commerciali, revisori dei conti, abilitati all’insegnamento in materie giuridiche, economiche e ragionieristiche, ingegneri, architetti, agronomi (e altro).    Era stato anche notato che il 47% dei ricorsi in Cassazione avverso le sentenze dei giudici tributari era accolto ed era interpretato nel senso di una scarsa capacità di agronomi, ragionieri, ecc. ecc. ad applicare il diritto (il dato era tuttavia contestato quale sintomo di…scarsa perizia). Resta il fatto che prescrivere dei requisiti più “stringenti” per la nomina, dovrebbe portare ad un miglioramento della competenza professionale dei magistrati; ma potrebbe concorrervi anche la previsione del concorso (invece che della precedente nomina su elenchi).   È comunque incontestabile che, pur nella sua timidezza, la riforma ha capovolto l’andazzo trentennale voluto soprattutto dal centrosinistra, onde i diritti da proteggere erano quelli che avevano meno occasioni di essere esercitati: così quello all’eutanasia, al matrimonio tra omosessuali, all’adozione “allargata”, alla gravidanza a pagamento, ecc. ecc.   E per questo anche quelli che hanno meno possibilità che ne fosse richiesta la tutela in giudizio.  Per gli altri, di converso, oggetto di contenzioso, di cui costituiscono la stragrande maggioranza delle liti, come i rapporti di lavoro (pubblico e privato), i contratti, la proprietà, ecc. ecc., le obbligazioni della P.A., le imposte, ecc. ecc., si faceva poco o niente per rendere più agibile la giustizia.    Anzi, se controparte ne erano le pubbliche amministrazioni si aumentavano deroghe e privilegi della parte pubblica.  Resta comunque molto lavoro da fare, nello steso senso e in termini più generali. Un controllo giudiziario fiacco e ostacolato è uno dei migliori sostegni di un’amministrazione inefficiente e predatoria.    C’è da chiedersi perché proprio alla fine del trentennio della seconda repubblica è stata emanata questa norma di segno contrario alla pratica filo-statalista seguita prima. Forse per l’evidenza che norme come quelle modificate stridevano con principi e testo della costituzione, onde se ne sacrificano alcune per conservarne altre, facendo tuttavia “bella figura”, come per la modifica dell’art. 111, rimasto disapplicato o poco applicato.
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  • L’importante è procedere nella strada appena iniziata anche resistendo alle critiche (usuali e prevedibili) di chi dirà che colpa dell’evasione è d’aver ripartito paritariamente l’onere della prova. Cui si può fin d’ora replicare che se per sostenere un fatto basta affermarlo (senza provarlo), un precetto del genere legittima qualsiasi abuso.

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  • LO SPETTRO DELLA STAGFLAZIONE GLOBALE SU DI NOI
  • di
  • Vittorio de Pedys,
  • (dicembre 2022)
  • Nel terzo trimestre 2022 le economie mondiali hanno mostrato evidenti segnali di rallentamento. Stanno venendo al pettine parecchi nodi insoluti degli anni passati e nuove difficoltà impediscono lo sviluppo delle economie a ritmi accettabili. Stiamo per cadere, collettivamente, in una fase di stagflazione. Con questo vecchio neologismo si descrive una congiuntura economica di recessione abbinata ad una crescita dei prezzi ben al di sopra delle possibilità di gestione da parte del pubblico. Di questa doppia disgrazia non se ne sentiva parlare dai lontani anni ’70 quando il mondo vi fu gettato all’improvviso dal brutale rialzo dei prezzi del petrolio da parte delle nazioni arabe come ritorsione per la guerra del Kippur. Da allora i tassi di interesse hanno avuto una tendenza secolare di riduzione durato molti decenni e venuto a terminare proprio in tempi recentissimi. Basti pensare che nel 2021 oltre 20.000 miliardi di titoli di stato dei paesi occidentali mostravano rendimenti reali negativi. In altre parole, il povero risparmiatore o fondo o banca che ha acquistato questi titoli per la loro sicurezza aveva come garanzia matematica quella di perdere soldi dall’investimento. Pensate quale effetto negativo una cosa del genere può avere sulle disponibilità finanziarie dei risparmiatori e, come corollario, sulla attrattività del capitale per scopi produttivi. Oltre al rallentamento dell’inflazione e dei tassi di interesse, abbiamo assistito anche ad una parallela riduzione dei tassi di crescita economica. L’Italia in questo detiene ogni record, visto che l’economia nazionale è sostanzialmente ferma dagli anni ’90 con conseguenze devastanti sull’occupazione giovanile, sulla produttività, sulla crescita del reddito disponibile. Tutte le altre economie occidentali sono cresciute poco, ma comunque un po' di più. Ora purtroppo stiamo entrando in una fase in cui l’inflazione è passata bruscamente dal 1% a circa il 10% in Europa (circa 8% in USA) e tutti gli organismi economici internazionali, privati e pubblici, prevedono una recessione ad iniziare dal 2023. Negli Usa la recessione è stata già registrata con i primi due semestri del 2022 cresciuti a tassi negativi. Le previsioni per gli Usa sono di un 2022 che chiuderà circa a zero e divergono per il 2023, dove alcuni prevedono una ripresa intorno al 2%, ed altri invece ritengono inevitabile una crescita negativa. Per l’Europa quasi tutti gli Istituti sono concordi nel prevedere una congiuntura recessiva nel 2023, dal momento che le economie sono colpite contemporaneamente dallo straordinario rialzo del prezzo del gas naturale, dalle conseguenze economiche dei lockdown decisi dai governi e da politiche monetarie fortemente restrittive. Inoltre, nel 2022 sono venuti generalmente meno gli effetti di sostegno artificiale varati dai governi per tentare di compensare gli effetti profondamente recessivi delle decisioni relative al Covid nel 2020. Ad es. in Italia abbiamo avuto nel 2020 un crollo del PIL del 10%, un rimbalzo “drogato” del 8% ed ora un 2022 che finirà probabilmente con un saggio di crescita limitata, nonostante l’ammontare straordinario di fondi europei del PNRR che stanno raggiungendo il nostro paese. Tutte le recessioni dell’ultimo mezzo secolo sono state precedute, causate o accompagnate da rialzi dei prezzi dell’energia (si veda grafico sottostante, dove le recessioni sono le aree celesti), in particolare del petrolio, per cui anche attualmente sembra questa una delle cause della congiuntura recessiva che i mercati finanziari stanno ampiamente prevedendo e scontando nelle quotazioni.

Surge in Energy

  Prezzi del petrolio in forte rialzo sono prodromici di recessione economica

 

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  • l'EUROTARTUFO   (2)     
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Tra i tanti commenti, rivelazioni, dichiarazioni (e anche confessioni) in relazione al Qatargate, mi ha colpito l’intervista ad un giovane eurodeputato del PD. Ciò perché sosteneva che gli esponenti del PD (“campo largo”, cioè anche i passati ad articolo 1) erano stati finanziati dal paese arabo, in quanto erano i più decisi difensori dei “diritti umani”. Dove la necessità, per gli emiri, che fossero tali paladini ad asseverare la maturità liberale del Qatar.
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  • Il ragionamento che ha una qualche consistenza (chi chiederebbe a Cicciolina di certificare l’illibatezza della figlia da maritare?) ha però tanti altri punti deboli. Ci aiuta a capirli il personaggio di Fra Timoteo nella “Mandragola”.
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  • Machiavelli descrive alla perfezione il “tipo” dell’:a) ipocrita b) in vendita. In primo luogo il frate è scelto per convincere Lucrezia all’adulterio perché è il confessore della donna e della madre: le quali hanno pertanto fiducia nella di esso santità e dottrina. E in effetti il primo requisito per essere corrotti è proprio quello di ottenere fiducia: un sant’uomo (o che pare tale) è quindi il prescelto per… far peccare Lucrezia.
  • ...
  • Il secondo è che Ligurio e Callimaco sanno che è un corrotto, disposto a sostenere qualsiasi tesi, purché a pagamento. Per cui santità e dottrina sono strumenti dell’arricchimento del frate. Il quale tra se e se meditando sull’incarico – accettato – di persuadere Lucrezia, dice “Messer Nicia e Callimaco sono ricchi, e da ciascuno, per diversi rispetti, sono per trarre assai” e proseguendo “perché madonna Lucrezia è savia e buona: ma io la giugnerò (convincerò) in sulla bontà”. Abusare della fiducia e ingenuità dell’interlocutore è la risorsa di frate Timoteo.
  • ...
  • Nel caso del Qatargate e del carattere pubblico delle attività,  per ingannare l’opinione pubblica si presentano come opere di bene quelle che sono opere di soldi. Va da sé che in tempo di secolarizzazione si ridimensiona (ma non del tutto) la giustificazione di fra Timoteo di usare il compenso della corruzione per fare “limosine”. Giustificazione che ricorre in tanti altri casi (attuali). E non è escluso che parte di quei soldi vadano alle ong messe su dal (principale) accusato.   Anzi dal Sudafrica sono in arrivo novità sul punto.   Aspettiamo, fiduciosi nell’intuito di Machiavelli.

 

  • Giust

  •  Panslavismo
  • Torna un importante studio di
  • Wolfango Giusti
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • In un momento come l’attuale, nel quale l’erompere della guerra russo-ucraina, sta drammaticamente riproponendo tematiche di natura geopolitica legate ai rapporti Europa-Russia, torna opportunamente nelle librerie un saggio, di grande rilievo teorico, pubblicato in prima edizione nel 1941 da Wolfango Giusti.   Si tratta di Panslavismo, comparso nel catalogo di Oaks editrice, per la cura di Paolo Mathlouthi (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 210, euro 18,00).
  • ...
  • Il curatore, nell’esaustiva introduzione, contestualizza e attualizza le tesi esposte dall’autore nel volume, ricordando che, a dispetto della cronaca bellica contemporanea tesa a criminalizzare il mondo ideale incarnato dalla Russia, i rapporti tra l’Occidente e il paese euro-asiatico, in particolare quelli con l’Italia, in più circostanze storiche, sono stati positivi.
  • ...
  • Si pensi all’innovativo lavoro architettonico compiuto da Giacomo Quarenghi, che dette impronta neoclassica a San Pietroburgo per volere di Pietro il Grande o a Gogol’ che scrisse le Anime morte Roma, negli ambienti del Caffè Greco. Nella Città Eterna fanno ancora mostra di sé, abitazioni gentilizie volute da nobili russi. Lo stesso Lenin soggiornò a Capri, con altri compatrioti e: «nell’ultimo scorcio del secondo conflitto mondiale il Friuli offrirà [offrì] riparo ai cosacchi dell’Atamano Krasnov: acerrimi nemici della Rivoluzione, hanno scelto [scelsero] di schierarsisotto le insegne del Terzo Reich» (p. V).
  • ...
  • Wolfango Giusti è nome poco noto ai più. Fu docente universitario e membro dell’Istituto per l’Europa Orientale, per la cui fondazione si prodigò Giovanni Gentile. In queste pagine, presenta le radici europee della Russia che, nel corso del tempo, a causa della propria espansione verso l’Asia, inglobò componenti etniche e culturali diverse, in particolare le popolazioni islamiche turcomanne o quelle nomadi di origine mongola. Dall’inizio dell’Ottocento, diversi intellettuali tornarono a interrogarsi sui rapporti con l’Occidente, tra questi  P. J. Čaadaev e V. G. Belinskij, i quali riconobbero alle riforme “modernizzatrici” pietrine: «il merito di aver salvato la Russia dalla deleteria influenza dell’Asia tartara»  (p. IX).    Questi studiosi lessero l’Europa quale luogo della creatività spirituale, dalla quale la Russia non poteva continuare a rimanere separata, conducendo un’esistenza storica sorniona, appartata, lontana dal cuore del mondo.   Il legame religioso cristiano sarebbe dovuto divenire il “filo aureo”, atto a legare il “continente” russo all’Europa.
  • ...
  • Dopo la sconfitta nella guerra di Crimea, alla metà del XIX secolo, si assistette: «a un radicale mutamento di paradigma nel dibattito culturale [...] in favore di posizioni aspramente critiche nei confronti della decadente civilizzazione europea»  (p. XI). A. S. Chomjakov, I. V. Kireevskij e N. J. Danilevskij si proposero quali aspri critici dell’atomismo sociale d’Occidente.   Alla società liberale, gli slavofili opponevano: «un’esaltazione parossistica del narodnostlo spirito nazionale russo, descritto alla stregua di un’ipostasi metafisica, collocata fuori dal tempo e dallo spazio» (p. XII).     Si trattava di una visione antimoderna, ferma nella difesa dei valori dell’Ortodossia, che faceva della Russia la chiave di volta spirituale e geopolitica nel confronto-scontro con l’Europa.  Dagli autori citati vennero glorificati alcuni momenti della storia nazionale.  In particolare, le vittorie contro i cavalieri dell’Ordine Teutonico, momento dirimente di un: «provvidenziale disegno escatologico» (p. XIII).    Maggiore interprete di tale tendenza fu K. N. Leon’tev, il quale pensò l’Autocrazia quale progetto politico irrinunciabile e vide nelle idealità religiose ortodosse l’eterno riferimento spirituale russo.   L’Occidente fu esperito quale nemico da sconfiggere, all’interno di una visione dualista, rigidamente manichea e teologico-storica.  Tale concezione del mondo è oggi più che mai viva: incarnata dal pensiero di A. Dugin, che ha pagato tragicamente, sul piano personale, per questa scelta di campo.   La Russia, in tale visione, dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, si pose di  fronte al mondo quale Terza Roma.  Un sogno dal tratto chiliastico, che ha spinto, in epoche diverse, i russi a scendere in campo a favore di popoli slavi reclamanti il diritto all’autodeterminazione,  Bulgaria, Serbia e oggi Donbass.   Il curatore ricorda come tesi panslaviste siano state espressamente  sostenute da Dostoevskij, scrittore grandissimo, antimoderno e anti papista.   Anche la rivoluzione bolscevica, ha recepito il messaggio escatologico di tale corrente di pensiero: «Antiliberale in senso ideologico e antieuropea nella sostanza, la Rivoluzione ha posto in essere una restaurazione della Russia arcaica [...] dove il potere autocratico degli Zar è stato soppiantato dal totalitarismo centralizzato e pervasivo del Partito» (p. XVII-XVIII).   Putin, funzionario del KGB, non è che l’ultimo anello della catena ideal-politica slavofila.  La guerra in atto, rileva Mathlouthi, ha messo in luce la fragilità del mondo unipolare, con al centro l’imperialismo USA, sorto a seguito del crollo dell’URSS, e apre a una realtà geopolitica diversa, multipolare.    Putin ha dato una risposta forte al tentativo di espansionismo USA verso l’Est Europa.  
  • ...
  • Il problema è che si tratta di una risposta maturata all’interno dello stesso quadro ideologico in cui  si muove l’Occidente, la cui decadenza, lo ha ammesso perfino Dugin, ha colpito al cuore, da tempo, la comunità tradizionale russa, diffondendovi gli stessi mali che pervadono la società liquida.   Le guerre balistiche di “esportazione della democrazia” degli Usa nascono sul terreno della secolarizzazione della teologia della storia cristiana, la “fine della storia” nel mondo liberal-capitalista è uno dei volti del chiliasmo contemporaneo.  Essa è sorta dall’esperimento puritano, creare “la casa sulla collina”, il “migliore dei mondi possibili”, dicevano i Padri Pellegrini, non casualmente espulsi dall’Europa.   A tale concezione non può essere opposta una risposta speculare che, seppur segnata da antimodernismo, in realtà, della prima, condivide gli assetti teorici di fondo.  Ancora una volta, le due “braccia della tenaglia”, come disse Evola in Americanismo e bolscevismosi stringono attorno all’Europa per soffocarla.  Tornare a guardare alla physis quale unico orizzonte che ci trascenda, ci pare l’unica via percorribile per lasciarci definitivamente alle spalle i disastri della metafisica e delle filosofie della storia.  L’importante studio di Giusti ci ha suggerito una riflessione siffatta.

 

  • Siniscalchi

  • Margherita Sarfatti tra arte e fascismo
  • Un saggio di
  • Claudio Siniscalchi
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
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  • Tra i personaggi che hanno animato la vita culturale del Ventennio, un ruolo centrale, finora non riconosciuto se non da uno sparuto drappello di storici, spetta a Margherita Sarfatti. Personaggio eclettico, moderno, influì non poco sulla formazione e le scelte di Mussolini. Il cliché interpretativo al quale la sua azione politico-culturale, sagace e dinamica, è stata ridotta, è quello di “amante” del Duce.   Fa luce, al contrario, su vari aspetti che compongono la biografia di una donna intelligente e complessa, un recente volume di Claudio Siniscalchi, Novecento. Fascismo, America e arte in Margherita Sarfatti, nelle librerie per Altaforte Edizioni, con prefazione di Francesco Borgonovo (pp. 156, euro 13,00).
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  • Margherita Grassini nacque a Venezia nel 1880 da una facoltosa famiglia ebraica. Nel 1898 sposò l’avvocato Sarfatti, convinto mazziniano. Con lui si trasferì a Milano, città nella quale, non solo maturò il suo distacco dall’ebraismo, ma iniziò la frequenza degli ambienti socialisti. Divenne intima di Filippo Turati frequentando abitualmente il salotto politico-letterario che questi, assieme alla compagna, Anna Kuliscioff, teneva nell’appartamento di Piazza Duomo. Qui conobbe il geniale Marinetti, mentre procedeva, infiammata dalla lettura di Ruskin, nello studio dell’arte.  Maturò ferma convinzione che la creatività estetica avesse: «funzione morale» (p. 37). Forte di tale certezza, fu tra le prime donne italiane a occuparsi di critica artistica. Ben presto entrò in contatto con Prezzolini e il gruppo vociano.   La lettura di Fogazzaro la convinse, peraltro, che il cattolicesimo modernista poteva coniugarsi con il socialismo.   Sulle colonne de L’Avanti! comparvero, a partire dal 1812, suoi articoli di contenuto estetico.
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  • Con la conquista della guida del Partito socialista da parte di Mussolini, ebbe inizio la fascinazione mussoliniana della Sarfatti: considerò, da allora, il futuro Duce un demiurgo della parola. Mussolini, al contrario, nel momento in cui assunse la direzione del quotidiano socialista, volle accanto a sé Angelica Balbanoff, esule rivoluzionaria russa conosciuta in Svizzera.   La liaison sorta tra i due si interruppe bruscamente: il leader socialista aveva bisogno di altra Musa accanto a sé.  Ne scorse i tratti in Margherita. Lo colpirono tanto gli aspetti propri della donna fatale, elegante, qualità che non mancavano alla donna, quanto la raffinatezza dei modi, che discendeva da una formazione intellettuale profonda.  Poliglotta, Margherita, sapeva essere anche ostinata, secondo i malevoli, perfino cinica e approfittatrice. Quando, nel 1913, Mussolini fondò a Milano la rivista Utopia, chiese la collaborazione alla Sarfatti, che iniziò a scrivere per quel periodico a partire dall’anno successivo.
  • ...
  • Il percorso della donna fu in qualche modo sintonico e contemporaneo a quello di Mussolini. Dapprima attratta dal nascente femminismo e dal socialismo turatiano, maturò le proprie scelte rivoluzionarie durante le battaglie per l’interventismo. Amò, come Mussolini, Nietzsche e Bergson e presto fu considerata vera e propria “Dittatrice” del mondo culturale. Divenne, in un lasso di tempo assai breve, il punto di riferimento dell’arte italiana.  La definitiva consacrazione si realizzò con la mostra degli artisti di Novecento a Milano, il 26 marzo 1923. Tre anni dopo, nel capoluogo lombardo, si tenne la prima mostra d’arte del Novecento italiano. La Sarfatti fu ispiratrice e protettrice di tale movimento: «che si sforza(va) di rinnovare il moderno attraverso la classicità» (p. 81). Era convinta, infatti, che le avanguardie avessero esaurito la loro spinta innovatrice e che fosse necessario un ritorno all’espressione formale, il cui riferimento paradigmatico doveva essere rintracciato nell’arte classica.  L’egemonia sarfattiana sulla cultura italiana durò un decennio.   La sua uscita di scena è ascrivibile al 1932, con l’inaugurazione della Mostra della rivoluzione fascista: «l’impostazione dell’esposizione è(ra) marcatamente sarfattiana» (p. 92), eppure la donna non fu invitata alla cerimonia d’apertura. Ci furono, sulla stampa, diversi attacchi nei suoi confronti che, presto, misero in crisi la stabilità del suo trust.  Anche artisti del valore di Soffici sostennero che Novecento: «era espressione della decadenza straniera» (p. 94).   Il quotidiano, Il regime fascista, l’accusò di nutrire eccessive ambizioni personali e politiche.
  • ...
  • Eppure, quest’attiva animatrice culturale, nel 1927 si era prodigata affinché Mussolini potesse aver voce sulla stampa d’oltreoceano. Anzi, aveva ottenuto per il Duce, ma anche per se stessa, lauti proventi, grazie agli ottimi rapporti instaurati con William Randolph Hearst, magnate della carta stampata statunitense.  Con le leggi razziali del 1938, Margherita andò in esilio negli USA: «Ma quando rientra in Italia nel 1947 non può far scomparire il passato» (p. 33).   Da allora su di lei ha gravato la damnatio memoriae. Merito indubbio di questo lavoro di Siniscalchi è l’aver portato l’attenzione sulla sua figura e la sua opera. Cosa rilevante: De Felice sostenne, a più riprese, che per capire il fenomeno fascista risulta imprescindibile la comprensione di quanto nel Ventennio avvenne nel mondo della cultura.  Essere tornati a parlare, sine ira et studio, della Sarfatti, ci spinge a credere che finalmente si possa giungere a quell’interpretazione trans-politica, vale a dire filosofica, della storia contemporanea, auspicata da Augusto Del Noce alcuni decenni fa.

     
  • Giorgio

  • Evola, Reghini e l’Imperialismo pagano
  • Un nuovo volume di Fabrizio Giorgio
  • di
  • Giovanni Sessa
  •  
  • La crucialità del pensiero e dell’opera di Evola nella cultura italiana (e non solo) del Novecento è cosa acclarata. L’azione culturale pervicace del pensatore romano si è fatta sentire nei campi più disparati del sapere, spaziando dalla filosofia all’arte, dalla saggistica storico-religiosa all’orientalismo. Decisamente imprescindibile, come notò Margherite Yourcenar, è stato il contributo evoliano agli studi sull’ermetismo.     ...
  • A far luce su quest’importante aspetto della ricerca evoliana è un nuovo volume di Fabrizio Giorgio, che intrattiene il lettore sulle relazioni del tradizionalista con il milieu esoterico della Roma degli anni Venti. Ci riferiamo a, Ignis cova sotto le ceneri. Julius Evola, Arturo Reghini e l’Imperialismo pagano, da poco nelle librerie per i tipi de L’Arco e la Corte (per ordini: info@arcoelacorte.it, pp. 175, euro 17,00).
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  • Giorgio è certamente profondo conoscitore del tradizionalismo romano avendo dato alle stampe, qualche anno fa, il monumentale Roma renovata resurgat (Settimo Sigillo, 2012), studio organico inerente il pensiero e la prassi realizzativa perseguita dai maggiori esponenti di quella congerie esoterico-spirituale. Questo nuovo saggio è, in essenza, una disamina storica, biografica e intellettuale del rapporto che legò Evola ad Arturo Reghini, esoterista di primo livello, matematico di vaglia, la cui formazione era di carattere massonico-pitagorico. Uno studio, si badi, solidamente costruito su una documentazione prevalentemente d’archivio, letta con rara acribia e puntigliosità. Il lettore è così accompagnato dall’autore all’interno del vivace dibattito che animava i circoli esoterici e tradizionalisti della Capitale, nel secondo decennio del secolo scorso. Ambienti attraversati da speranze escatologiche e soteriologiche, motivate dalla convinzione di poter esercitare un’azione “magica” sul reale, fino al punto di trasformare a fondo la natura umana, liberandola dalla scorza cosale, dalla pietra grezza, connotante la coscienza dell’uomo di senso comune.
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  • Oltre a tratteggiare in dettagli sorprendenti e, finora poco noti, la relazione Evola-Reghini, Giorgio presenta il contributo fornito da alcune riviste alla nascita del magico “Gruppo di Ur”, del quale i due esoteristi furono animatori: «Entrambi, alla luce delle rispettive “visioni del mondo”, erano convinti che conoscere significasse, innanzitutto, dare ordine al reale, essere demiurghi» (p. 5). Sarebbe stato necessario, allo scopo, sintonizzare la volontà individuale, dopo aver conseguito la gnosi, al Principio. L’Uno, in tale prospettiva, si dà nel mondo visibile, lo anima dall’interno. Quindi è necessario: «conoscere la logica, le leggi delle forze intelligenti operanti in natura ed asservirle ai propri voleri per modificare le realtà dell’anima e quelle materiali» (p. 6). Evola e Reghini si prodigarono al fine di costituire “catene” operative in varie città d’Italia, con lo scopo di condizionare le scelte politiche del Regime fascista, “rettificandolo” (l’espressione è evoliana) in senso tradizionale e romano: «agendo perfino sullo psichismo del Capo del Governo, illuminandolo coll’ideale dell’Imperialismo pagano» (p. 6).
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  • Il tentativo, inutile sottolinearlo, non sortì effetti positivi. Il fascismo, nonostante il “mattino dei maghi” di quegli anni, mise in atto nel 1929, con la stipula dei Patti Lateranensi, la propria opzione guelfa. Al contempo, come mostra Giorgio con dovizia di particolari, i rapporti Evola-Reghini andarono, con il trascorrere del tempo, sempre più deteriorandosi, tanto da concludersi con una rottura definitiva in sede giudiziaria. Reghini agì sostanzialmente in nome della massoneria iniziatica che avrebbe dovuto determinare la “rettifica” in senso tradizionale del fascismo.   In tale contesto, aveva concordato con Evola la pubblicazione di una serie di articoli di quest’ultimo sul tema dell’imperialismo pagano, mirati a scongiurare il riavvicinamento Chiesa-Regime. Pare, inoltre, che il pitagorico fosse al corrente che l’idealista magico stesse scrivendo il volume intitolato Imperialismo pagano, pubblicato nel 1928. Il problema di fondo è che Evola non credeva nel progetto massonico reghiniano e, per questo, si vide costretto a respingere e/o a correggere scritti di Giulio Parise, orientati nel senso della massoneria iniziatica. La cosa mandò su tutte le furie il collaboratore di UR e lo stesso Reghini.  Si tentò anche una mediazione tra i due gruppi, dopo che Evola riuscì a sventare il tentativo di sottrargli direzione e proprietà del periodico, perpetrato dal duo Reghini-Parise.  Si stabilì, in tale circostanza, di sospendere la pubblicazione della rivista UR. Evola fondò Krur, Reghini resuscitò Ignis. Da queste testate i due continuarono a scambiarsi reciproche accuse, che li portarono a scontrarsi in tribunale.
  • ...
  • Tale situazione, determinò la marginalità politica, prodotta anche dalle divisioni interne, in cui tra il 1928-1929 venne a trovarsi il tradizionalismo romano e ciò spianò la strada ai Patti Lateranensi.  Quello del “mattino dei maghi” fu: «Un tentativo, forse, velleitario, ma che avrebbe potuto fornire alla Nazione un novero di uomini in grado di orientare la politica italiana verso una vera Rivoluzione Tradizionale» (p. 143). 
  • ...
  • Guardare, dalla mestizia dei nostri giorni, a quella ormai lontana stagione spirituale, è sconcertante.  Evola e Reghini, nonostante le differenze e le polemiche che li divisero, appaiono come giganti se confrontati con gli attuali protagonisti dell’agone politico-intellettuale.

  • L’EUROTARTUFO   
  • di   
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Sorprende la sorpresa per quanto accade all’Europarlamento, alcuni dei membri del quale sono accusati - e trovati dagli inquirenti letteralmente con le mani nel sacco – per aver caldeggiato, dietro compenso – il campionato di calcio nel Qatar. Sorprende non solo perché tanti dimenticano quanto scritto da Max Weber che, in genere i governanti non vivono solo per la politica, ma anche di politica (con quel che ne può conseguire sotto il profilo penale); ma anche perché a leggere Sallustio gli stessi mezzi erano adoperati da Giugurta per influire sulla decisione del Senato e dei magistrati romani. Racconta Sallustio che più sulle capacità e potenza militare del pur valoroso re numida, i romani dovettero guardarsi dalla sua perizia di corruttore, attraverso la quale riusciva a conseguire ciò che voleva e a evitare le conseguenze delle proprie azioni, alterando i processi decisionali della repubblica egemone. Così un potentato medio-piccolo come quello di Giugurta resistette per oltre sei anni alla potenza di Roma. Per cui orientare le decisioni politiche della potenza superiore è, da almeno venti secoli, una risorsa da utilizzare proficuamente dai potentati minori.
  • ...
  • Ma quel che maggiormente colpisce è che, nelle istituzioni europee usano i buoni propositi (diritti umani, migranti) per occultare le cattive azioni (le tangenti), come abitualmente e prevalentemente dalla sinistra italiana (e non solo).   Anche questo è un vecchio espediente. Ne diede una straordinaria rappresentazione Moliére nel Tartufo, quasi quattro secoli fa. Nella commedia c’è in primo luogo, ma poco notato, un aspetto politico evidenziato da Moliére stesso: il quale nella prefazione scrive “L’ipocrita, è per lo Stato, un pericolo più grave di tutti gli altri”: per lo Stato quindi, ancor più (o alla pari) che per la religione. Nel primo “placet” rivolto al Re perché revocasse la proibizione di rappresentare in pubblico la commedia, ribadiva che “l’ipocrisia è sicuramente uno dei vizi più diffusi, dei più scomodi e dei più pericolosi”. Onde è un servizio descrivere “gli ipocriti…che vogliono far cadere in trappola gli uomini con un falso zelo ed una sofisticata carità”. In effetti i connotati di Tartufo sono i più pericolosi per lo Stato. Gli ipocriti pubblici nascondono progetti ed intenzioni inutili al pubblico interesse, e talvolta delittuose, finalizzate ai propri interessi privati e personali, con il richiamo a opinioni ed interessi condivisi e generali. I diritti umani, la pace, l’assistenza ai migranti sono le buone intenzioni usate per nascondere interessi concreti.
  • ...
  • Al riguardo, nella commedia, Dorine (cioè la cameriera) commenta i discorsi edificanti di Tartufo così: “come sa bene con modi traditori, farsi un bel mantello con tutto ciò che è venerato”.     Il bello è che Tartufo lo giustifica anche. Nel dialogo con Elmire, la moglie del di esso benefattore, che vuole sedurre ma la quale gli fa notare che quanto desidera è contrario alla legge divina, argomenta “Se non è che il cielo che viene opposto ai miei desideri…, con lui si possono trovare degli accomodamenti… col rettificare la malvagità dell’azione con la purezza della nostra intenzione”. Così l’intenzione buona “purifica” l’azione cattiva. È un’assoluzione preventiva.
  • ...
  • La quale svuota la stessa azione politica, che è (soprattutto) una fase in virtù di risultati, e solo in seconda battuta un predicare del bene. Così il criterio principale per giudicare se un’azione è politicamente proficua o meno, non è verificare se corrisponde a buoni propositi, largamente condivisi, ma se ottiene risultati positivi.   D’altra parte è evidente che col richiamo continuo e prevalente alle buone intenzioni oltre che assolversi dalle cattive opere, i politici tendono ad assomigliare ai sacerdoti. Hobbes (tra i tanti) sosteneva che funzione dei quali è predicare il bene (la parola di Cristo, oggi, per lo più, quella più facilmente condivisa) e non di comandare (e costringere).
  • ...
  • E fin qui nulla di male. Ma se il bene predicato si converte in cattive azioni, la santità che dovrebbe produrre si converte in una via comoda per l’arricchimento a spese di chi paga. Cioè dei contribuenti, i quali contribuiscono, a differenza di chi spontaneamente dona il proprio per le buone cause, per il comando di chi predica.  Volontario nel primo caso, frutto di coazione nell’altro.


  • Heidegger

  • Heidegger e l’inizio della filosofia
  • Interpretazione di Anassimandro e Parmenide
  • di
  • Giovanni Sessa
  •  
  • È finalmente a disposizione dei lettori italiani un testo cruciale per la comprensione dell’iter filosofico di Martin Heidegger, L’inizio della filosofia occidentale. Interpretazione di Anassimandro e Parmenide, nelle libreria per Adelphi a cura di Giovanni Gurisatti (pp. 313, euro 42,00). Questo testo heideggeriano raccoglie il corso che il filosofo tenne in tema a Friburgo, nel 1932. Le tesi più rilevanti sono sintoniche, tanto a quelle espresse in Dell’essenza della verità (1930), quanto alle posizioni teoretiche dello scritto del 1940, La dottrina platonica della verità. Il volume di cui qui si tratta, si colloca pienamente all’interno della temperie teoretica che il pensatore visse nei primi anni Trenta, la Kehre, svolta, che lo indusse a lasciarsi alle spalle l’esclusività della prospettiva aristotelica sulla quale era stato costruito, nel 1927, il mondo dell’Esserci in Essere e tempo. In tale contesto, Heidegger recuperò al pensiero l’idea greca di verità, aletheia, vale a dire dis-velamento, in quanto il “vero” era stato inteso dalla metafisica classica quale conformità di intelletto e realtà.
  • ...
  • Del resto, Heidegger, fin dagli esordi accademici, aveva mostrato interesse per il pensiero aurorale. Tale propensione si consoliderà nel dopoguerra, quando il tema dell’Altro Inizio del pensiero europeo sarà centrale nella speculazione del filosofo di Friburgo. L’inizio del pensiero occidentale si suddivide in tre parti: 1) Il detto di Anassimandro; 2) Considerazione intermedia; 3) Il poema didascalico di Parmenide. Per Heidegger, Anassimandro è un pensatore che si rapportò all’essere in prospettiva pre-metafisica. La prima locuzione del pensiero europeo, infatti, coglie l’ente nel suo essere. In particolare, gli enti sono esperiti: «nell’essere simultaneamente l’uno-con-l’altro (accordo) e l’uno-contro-l’altro (disaccordo)» (p. 41). Ciò significa che, l’essere dell’ente, per Anassimandro è tempo: «il suo compito e la sua essenza sono quelli di far apparire e scomparire l’ente» (pp. 50-51). Il tempo indica i ritmi dell’essere, cui sottostanno gli enti. Ma essere ed enti non dicono il medesimo, Heidegger resta anche in queste pagine, come già in Essere e tempo, dualista: «Essere ed enti sono differenti – e questa differenza è la più originaria che […] possa darsi» (p. 64).
  • ...
  • Nell’ esegesi, assai ampia, dedicata a Parmenide, il filosofo mette in campo la consueta acribia e puntigliosità filologica nell’esegesi del poema dell’Eleate. Nei suoi versi, oltre alla via dell’essere e a quella del non-essere, impercorribile, si cenna alla via della doxa che, a dire di Heidegger deve essere conosciuta dal saggio, in quanto, come rilevato dal curatore: «solo chi ha sperimentato a fondo l’essenza errante della via-doxa può decidersi a […]imboccare la via-aletheia» (p. 22). Ciò apre alla quarta via parmenidea, quella della conversione del sapiente alla prima via, all’essere. Tanto in questo primo esperimento ermeneutico nei confronti dell’eleatismo, quanto nei successivi, il pensatore abbraccia la tesi che: «percepire ed essere si coappartengono» (p. 223). La Seinfrage, la domanda fondamentale del pensiero, è resa possibile da tale appartenersi di uomo ed essere. Pertanto, se l’essere si dona come presenza all’uomo, questi: «può tendergli a sua volta incontro per accoglierlo» (p. 23). Tra i due poli c’è reciprocità dinamica, anche se il primato è attribuito all’essere. L’uomo non può che progettarsi ex-staticamente nel getto-dono dell’essere. Per questo, a parere di chi scrive, in forza del dualismo che attraversa l’intero sistema di pensiero del tedesco (essere-ente, autentico-inautentico ecc.), egli rimase, per tutta la vita, più che ontologo, un teologo.
  • ...
  • Resta il fatto che, in questo volume, la riflessione heideggeriana si apre, ponendosi oltre la concezione lineare della storia, all’attualità dell’interrogazione sul “primo inizio” del pensiero. Tale auroralità, per quanto velata, resta vigente nella storia e nel presente e ci incalza: «chiedendoci di fare esperienza di tale vicinanza e di prendercene cura» (p. 24). Per questo, rileva Heidegger, la Seinfrage è domanda destinale, in essa si dà la possibile salvezza dell’essenza dell’uomo. Nella Considerazione intermedia, il pensatore concede tratto etico alle proprie riflessioni. Darsi all’aletheia implica, da parte del saggio, trasformarsi in profondità, mettere in atto un vero e proprio cambio di cuore, liberarsi dei vincoli dell’apparenza. Di tale atteggiamento d’indagine fa inevitabilmente parte il tornare a interrogarsi sulla: «non domandata domanda dell’essere» (p. 131).
  • ...
  • Solo in tale riflessione, si comprenderà che l’inizio non sta alle nostre spalle, non lo si recupera semplicemente volgendosi indietro, perché sta: «davanti a noi in quanto compito essenziale della nostra più propria essenza» (p. 136). Questa asserzione spiega il senso del recupero heideggeriano di Anassimandro e Parmenide. La filosofia di Heidegger è, senza tema di smentita, uno dei tentativi più originali (nel senso del suo guardare all’origine), più organici e complessi prodotti dal pensiero del Novecento. Essa è essenzialmente centrata sul tentativo di recuperare la physis greca. Forse, il progetto heideggeriano, come riconobbe Franco Volpi, nei Contributi alla filosofia ricade paradossalmente su se stesso e fu portato a termine dall’allievo “eretico” del filosofo, Karl Löwith. Questi pose, quale unica trascendenza per l’uomo, la physis e i suoi cicli.   Come si evince dalle pagine che abbiamo sinteticamente presentato, in Heidegger echeggia la domanda: «Perché l’essere e non il nulla?».   La domanda è mal posta in quanto, come mostrarono all’inizio del secolo XX le filosofie di Evola ed Emo, memori della tradizione dionisiaca ellenica, l’essere è il nulla.    Coincidenza ermetica degli opposti, non dualismo ontologico.

    • Il coccodrillo 2

    • Dostoevskij
    • antimoderno e fantastico
    • “Il coccodrillo”
    • rec. di
    • Giovanni Sessa 
Fëdor Dostoevskij è maestro indiscusso della letteratura moderna, oltre che profetico annunciatore, assieme a Nietzsche, del nichilismo che pienamente si dispiegherà nel secolo XX. Nel 1865, un anno dopo aver dato alle stampe lo straordinario I racconti del sottosuolo, pubblicò uno scritto, dal finale incerto e sospeso, intitolato Il coccodrillo. Il testo è finalmente proposto nella nostra lingua dalla casa editrice Adelphi, per la cura di Serena Vitale (pp. 97, euro 12,00). Si tratta di un racconto breve “anomalo”, non in linea, dal punto di vista formale e contenutistico, almeno al primo superficiale approccio, con i grandi romanzi dello scrittore russo. In queste pagine, Dostoevskij presenta, in modalità esilarante, divertendosi e divertendo il lettore, una storia fantastica, un narrato che mette in discussione le certezze di ogni realismo, sia sotto il profilo gnoseologico che letterario.
Utilizza una lingua nuova, inusuale nella letteratura russa (e non solo) della seconda metà del secolo XIX, grazie alla quale nel racconto: «si allentano gli anelli della consequenzialità e viene smascherata la pochezza del determinismo causale» (p. 97). L’autore si pone oltre il logocentrismo, mostra, infatti, che l’umorismo e la facezia sono in grado, paradossalmente, di smentire le certezze apodittiche, ubi consistam del pensiero moderno e positivista. Lo svanire delle certezze, ci dice lo scrittore, apre al dubbio universale, alla sospensione del giudizio. Per questo le vicende del protagonista de Il coccodrillo non hanno effettiva e congruente conclusione. La fine resta inopinabile, imprecisata, proprio come accade al progetto di vita di ogni uomo. La narrazione è ambientata a Pietroburgo, città che vive sull’abisso del possibile, dove può accadere di tutto, perfino l’impensato. In un negozio del Passage, la prima elegante galleria commerciale della Russia zarista che, proprio come i Passages parigini di cui ha detto Benjamin, avrebbe dovuto celebrare i fasti del capitalismo rampante, esempio di “preistoria della modernità”, un tedesco espone al pubblico, previo pagamento di biglietto d’accesso, un animale esotico, un coccodrillo.
Il funzionario ministeriale di basso rango, Ivan Matveič, supponente, pieno di sé, come ogni progressista che si rispetti, decide di accompagnare, assieme a un amico (voce narrante), la moglie Elena Ivanovna, tipica rappresentante del nuovo ceto borghese e cliente dei negozi del Passage, in visita dallo strano animale. Matveič stuzzica, con il guanto, il naso del coccodrillo e questi, per reazione, fa dell’uomo un sol boccone. Mentre i presenti discutono tra loro se fosse conveniente aprire il ventre dell’animale e liberare il malcapitato, questi sostiene di trovarsi benissimo nelle viscere del coccodrillo e comunica la sua decisione irremovibile di rimanere dove si trova. Ritiene, infatti, che lontano dalla società e dai suoi svaghi potrà diventare un grande riformatore politico, proclama di voler diventare il “nuovo Fourier”. Gran ressa di pubblico, naturalmente, a partire dal giorno seguente, per vedere il “mostro” e grandi incassi per il proprietario. Durante le visite, il protagonista non fa che blaterare delle sorti progressive dell’umanità e della patria russa.
E’probabile che, con tale personaggio, Dostoevskij abbia fatto la parodia di Černyševskij e dei pensatori “rivoluzionari” dell’epoca in cui visse. Insomma, lo scrittore, rifacendosi a motivi tratti dal Naso di Gogol’, presagisce il trionfo della borghesia, il culto del profitto e fotografa in modo umoristico e destrutturante il “nuovo mondo” che si annunciava, a suo dire, con il tratto del “mostruoso”. Il coccodrillo non è semplicemente una “birichinata”, come l’autore volle far credere ma, nota Vitale, una storia di avidità e meschinità. Il tedesco proprietario dell’animale si preoccupa, da buon borghese: «dell’animale unicamente perché è fonte di guadagno» (p. 93). La moglie del malcapitato funzionario, seduttrice e fatua: «sembra piangere soprattutto perché sa che le lacrime le donano e, ben presto […] tradisce il marito» (p. 93). Il funzionario ministeriale a cui l’amico si rivolge per ricevere aiuto e consiglio: «diventa più amabile soltanto dopo che gli sono sati restituiti i sette rubli che […] Matevič ha perso con lui a carte» (p. 93). Nonostante il trionfo, ormai prossimo, del mondo borghese, sulla Pietroburgo di queste pagine, città animata dalla nomenklatura, in cui le gerarchie hanno semplicemente funzione formale, non sostanziale, aleggia la possibilità dell’impossibile. In essa, tutto potrebbe accadere, a indicare, tra l’altro, che il corso della storia non è mai necessitato, predeterminato dal trionfo dello spirito del tempo. Matevič è l’incarnazione del formalismo borghese del tempo, in quanto, subito dopo: «essere stato inghiottito dal “mostro” dichiara: “La mia unica preoccupazione è come prenderanno la cosa i miei superiori» (p. 94).
Il coccodrillo non è semplice inciampo nel percorso di pensiero di Dostoevskij. Proprio in quanto “eccezione” in esso è condensato l’antimodernismo dell’autore che, in opere considerate “maggiori”, assumerà tratto slavofilo e “antipapista”. Oltre ciò, lo scrittore mostra, in particolare   nei dialoghi esilaranti dei personaggi (l’umorismo, a questi livelli di finezza ermeneutica e disvelativa ci pare ravvisabile nella letteratura moderna esclusivamente ne Il circolo Pickwick di Dickens) che la “fantasia” è lo strumento a cui guardare per portarsi oltre il mondo “mostruosamente” costruito dall’utilitarismo. Il coccodrillo è libro divertente e, per questo, di grande potenza.


 
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  • Il coccodrillo, di Dostoevskij, rec. di Giovanni Sessa.
  • Il viaggiatore immobile, (2) (Intellettuale e gentiluomo), per G. de Turris, AA.VV., rec. di Giovanni Sessa.
  • La società dei diritti ed il dilagare dei divieti, art. di Teodoro Klitsche de la Grange.
  • L’uomo contro l’umano, di Gabriel Marcel,   rec. di Giovanni Sessa.
  • Interesse nazionale cos’è?,   art di Teodoro Klitsche de la Grange.
  • Le religioni e il folklore, di ELIADE, rec. di Giovanni Sessa.
  • Compagni di solitudine, di  S. Solinas,   rec. di Giovanni Sessa.
  • STUDI EVOLIANI 2021,  di AA.VV., rec. di Giovanni Sessa.
  • Pitagora ed il Pitgorismo, di Nuccio D’Anna, rec. di Giovanni Sessa.
  • Homo Faber...J.Evola.. di Elisabetta Valento, rec. di Giovanni Sessa.
  • Matrix e il Mito, di Paolo Riberi, rec. di Giovanni Sessa.
  • Legislatura e dualismo costituzionale, art. di Teodoro Klitsche de la Grange.
  • Shinto e Zen, di Medrano, rec. di Giovanni Sessa.
  • Sotto il segno di Urania, di G. de Turris, rec. di Giovanni Sessa.
  • Qualche nota sulle elezioni,   art. di Teodoro Klitsche de la Grange.
  • Il Terzo,   art di Teodoro Klitsche de la Grange.
  • Il mondo magico degli Heroi, rec. di Giovanni Sessa.
  •  
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  • Guerra ed ascesa agli Estremi, art. di Teodoro Klitsche de la Grange.
  • Democrazie liberali, ‘illiberali’ e in via d’implosione,   art. di Teodoro Klitsche de la Grange.
  • Votare da ‘grandi’, art. di Teodoro Klitsche de la Grange.
  • Il Manifesto,   di Stefan George, rec. di Giovanni Sessa.
  • Vincolo esterno e strabismo economicista   art. di Teodoro Klitsche de la Grange.
  • Quattro regole per votare,   art. di Teodoro Klitsche de la Grange.
  • Filosofia della carta,   di Massimo Donà,   rec. di Giovanni Sessa.
  • Contro il giusnaturalismo moderno, di Marco Iacona,   rec. di Giovanni Sessa.
  • I soldati perduti, di E. von Salomon,    rec. di Giovanni Sessa.
  • Il volto della tecnica. E. Jünger, di Michele Iozzino,   rec. di Giovanni Sessa.
  • Anticipazione da ‘Le radici dell’idealismo’, di Stefano Arcella, dalla postfazione di G. Sessa.
  • Sotto gli occhi dell’Agnello,   di Roberto Calasso,   rec. di Giovanni Sessa.
  • L’idea di natura tra Oriente ed Occidente, di Ghilardi, Pasqualotto e Vidali, , rec. di Giovanni Sessa.
  • Cultural Intelligence ed Etnografia di Guerra,   di Federico Prizzi,  rec. di Giovanni Sessa.
  • Wolfram Von Eschenbach e i custodi del Graal, di Nuccio D’Anna,   rec. di Giovanni Sessa
  • La dis-integrazione delle stelle, art. di Teodoro Klitsche de la Grange.
  • Prigioni di Francia sotto il Terrore,   di Albert Savine,   rec. di Giovanni Sessa.
  • La Praga esoterica di Rodolfo II, di Paolo Mathlouthi,   rec. di Giovanni Sessa.
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  • ilviaggiatoreimmobile2

  • Intellettuale e gentiluomo
  • I sessant’anni di attività letteraria di
  • Gianfranco de Turris
  • ("Il viaggiatore immobile"  - 2)
  •  rec.  di
  • Giovanni Sessa
  •  
  • L’egemonia culturale dell’ “intellettualmente corretto” ha posto, nel nostro paese, al centro delle cronache culturali pensatori funzionali al sistema, alla visione del mondo moderna e materialista. Si contano sulla punta delle dita gli intellettuali che hanno tentato di reagire con iniziative editoriali di spessore a tale situazione. Quando ciò è accaduto, essi hanno patito una marginalizzazione culturale e professionale. Tra questi, va, senza dubbio, annoverato Gianfranco de Turris, studioso del Fantastico, autore egli stesso di racconti, oltre che raffinato critico ed interprete di questo genere narrativo. La sua attività giornalistico-saggistica iniziò nel lontano 1961. Chi volesse aver contezza dell’intensità, della profondità e della lungimiranza esegetica di de Turris, non ha che da sfogliare le pagine della nuova edizione ampliata e aggiornata, di un volume collettaneo mirato a ricordare i suoi sessant’anni di vita letteraria. Ci riferiamo a, Il viaggiatore immobile. Saggi per Gianfranco de Turris in occasione dei 60 anni di attività (1961-2021) edito, per la cura di Andrea Gualchierotti, da Solfanelli (per ordini: 335/6499393, edizionisolfanelli@yahoo.it, pp. 335, euro 20,00). Rispetto alla precedente versione, il lettore troverà ben 14 nuovi contributi, alcuni firmati da nomi illustri: Veneziani, Morganti, Cardini, Bizzarri, Bottero, Pautasso, La Rosa, Romanisio Amerio.
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  • Si tratta, infatti, di una silloge che raccoglie contributi di amici, collaboratori e colleghi, impreziosita da un noto scritto critico di de Turris, Dal Mito alla Fantasy e dalla bibliografia della sua narrativa. Non si tratta di una celebrazione acritica, di un lavoro meramente agiografico ed elogiativo in senso deteriore, ma, come rileva il curatore: «di un meritato omaggio che ha ancor più valore proprio perché chi lo riceve fatica ancora sul campo» (p. 10). Il libro raccoglie contributi diversi, alcuni fondati sul ricordo personale (particolarmente interessante, per la generazione che visse l’adolescenza negli anni Settanta, è lo scritto di Luca Gallesi), altri mirati a presentare il ritratto psicologico, umano ed esistenziale di de Turris. Vi sono, naturalmente, anche significative analisi dei contributi da lui forniti sull’opera di Tolkien, Lovecraft, Meyrink, Machen e la letteratura fantascientifica. Ricorda Sebastiano Fusco, che ha accompagnato, da gemello letterario, l’attività editoriale del Nostro quasi per intero, che tutto ebbe origine a Roma, all’inizio dei memorabili anni Sessanta, epoca di grandi cambiamenti sociali, caratterizzata da nuovo fervore intellettuale. Roberto Scaramuzza che poi diventerà l’editore della mitica rivista Abstracta, mise in contatto de Turris e Fusco. I tre vivevano nella stessa zona e qui incontrarono anche Luigi de Pascalis. Nacque un sodalizio protrattosi negli anni.
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  • I “ragazzi di Piazza Bologna” erano accomunati dagli interessi culturali: «appassionati di fantascienza, il che, all’epoca, ci segnalava come persone singolari», chiosa Fusco (p. 298). De Turris collaborava alla rivista Oltre il Cielo, sulle sue pagine comparve il primo articolo scritto a due mani con Sebastiano. Il testo affrontava un tema essenziale per la letteratura fantascientifica: la necessità di introdurre traduzioni italiane integrali e corrette. Si trattava di un vero e proprio progetto editoriale, che si concretizzò con la nascita della casa editrice Fanucci. Presso i suoi tipi, con il contributo del duo de Turris-Fusco, vennero pubblicati un numero rilevante di volumi, almeno un centinaio, con: «presentazione esauriente degli autori, apparato di note per facilitare la lettura, […] testi con introduzioni pensate come piccoli saggi destinati a esplorare il senso mitico-letterario della narrativa fantastica» (p. 299). Fu un momento di svolta. Da allora, la letteratura dell’Immaginario, ritenuta di seconda classe dai critici à la page, acquisì dignità culturale e la “meraviglia dell’impossibile” divenne un codice di lettura con il quale guardare il mondo, oltre gli asfittici confini segnati dal realismo imperante.
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  • De Turris, in questo particolare ambito di indagine, ha svolto un’azione promozionale di primo piano, tanto nei confronti di grandi nomi della letteratura fantastica, come nei confronti di autori meno noti. E’stato, di certo, il maggior rappresentante dell’esegesi neo-simbolista della Fantasy. La cosa è opportunamente ricordata, rispetto a Tolkien, dal bel saggio di Chiara Nejrotti, nel quale viene rilevato che, tanto Novalis quanto Eliade, pensavano il finito quale manifestazione dell’infinito: negli enti di natura balugina la vita dell’Eterno: «All’inizio l’umanità percepiva il mondo come una totalità, e sé stessa come una parte di questa» (p. 187). Il processo di individuazione ha portato progressivamente l’uomo a percepirsi come altro dal cosmo. Quindi: «E’[…] per rendere possibile la riunificazione originaria che la mente umana ha creato i simboli» (p. 187). Il Signore degli Anelli ha reintrodotto, nel mondo desacralizzato della modernità, il mito e l’epica, di cui gli uomini contemporanei, in particolare i giovani degli anni Settanta, avvertivano bisogno impellente. Tolkien, anziché creare una “mitologia per l’Inghilterra”, come disse, in realtà, ha prodotto una “mitologia per l’Europa”. L’interesse tolkieiniano di de Turris lo ha indotto, ancora una volta in sodalizio con Fusco, a scrivere una pièce teatrale in tema, Ricordi di un Hobbit, delle cui trame si occupa in un saggio, con pertinenza argomentativa, Stefano Giuliano.
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  • Punto apicale della critica fantastica deturrisiana è rappresentato dalla lettura di Lovecraft. Lo mostra, con evidenza lapalissiana, Pietro Guariello. Per de Turris, lo scrittore di Providence non è semplicemente scriba del caos, in quanto: «C’è in noi una scheggia che resiste, un nucleo di materia ostinata che non si dissolve nell’acqua corrosiva del caos: dobbiamo ricercarlo, accrescerlo, attraverso una condotta di vita coerente […] che ci ponga in pace con noi stessi» (p. 121). Lovecraft diviene, in qualche modo, immagine di de Turris rifranta allo specchio: entrambi alla ricerca dell’ordine nel caos dilagante, entrambi animati da spirito antimoderno. Il fantastico lovecraftiano consente di osservare, con occhio indagatore, l’abisso che si cela dietro la realtà apparentemente rassicurante. Il letterato sposta l’attenzione dei lettori dal terrore interno all’uomo, alla dimensione cosmica. Tema, questo, presente anche nella esegesi deturrisiana di Machen, i cui personaggi: «appaiono come preda di forze delle quali non hanno vera comprensione» (p. 160), ricorda Marco Maculotti.
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  • Questa ci pare, del resto, la medesima istanza cui de Turris si è attenuto nella produzione narrativa. In essa, riattualizza, come evidenzia con persuasività di accenti, Andrea Scarabelli, un fantastico panico e mediterraneo, il “mondo alla rovescia” tematizzato da Giambattista Basile ne, Lo cunto de li cunti, o, come sostiene Max Gobbo, si pone alla ricerca di un fantastico “ontologico”, in particolare nel racconto, Il silenzio dell’universo. Tutto ciò mostra che de Turris ricopre un ruolo di primo piano nella letteratura contemporanea, sia per la narrativa, che per l’azione di promozione culturale e le esegesi critiche. Dai suoi scritti si rileva come egli avesse compreso, fin dalla collaborazione alle pagine di Linus, diretta da Oreste del Buono, la necessità di agire tanto sul piano della cultura “alta” (si pensi alla sua direzione dell’Opera omnia di Julius Evola per le Mediterranee), che di quella popolare (il suo interesse per il fumetto). Convinzione mantenuta anche dopo il suo approdo in RAI, come attestano le registrazioni della sua trasmissione radiofonica, L’Argonauta. Gianfranco de Turris è, senza dubbio, intellettuale di spicco ma è, innanzitutto, un gentiluomo. Tale termine, chiosa Fusco: « Indica […] chi […] si colloca più in alto e […] vede più lontano, capisce prima, coglie cose che altri non scorgono» (p. 297) e, per noi, è chi vive in coerenza alle proprie idee.
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  • Dagli scritti della silloge emerge l’azione pedagogica che egli esercita, a volte da perfezionista o da “burbero benefico”, nei confronti di giovani e meno giovani che collaborano con lui, stimolandoli ad una costante revisione migliorativa dei testi prodotti. Consigliamo caldamente la lettura de, Il viaggiatore immobile. Dalle sue pagine, chi vorrà avvicinare de Turris, potrà trarre una serie di informazioni utili sui “difetti” (e chi non ne ha), i gusti dell’uomo, come la smodata passione per i dolci, raccontata, in modalità esilarante da Marco Cimmino ma, soprattutto, sulla sua generosità intellettuale. Egli, infatti, si è da sempre speso per introdurre nel mondo editoriale chi gli è stato vicino (compreso chi scrive), ma non sempre è stato ripagato con la stessa moneta…Un libro di testimonianze, che gli rende giustizia. In un periodo come l’attuale, non è poco…

  • “LA SOCIETÁ DEI DIRITTI E IL DILAGARE DEI DIVIETI”
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange


  • 1. Il tema di oggi, evidentemente riferito alla società italiana odierna, è riduttivo, nel senso che dà per scontato che carenze e difficoltà attuali siano riferibili ad un eccesso di divieti e ad una compressione continua e crescente delle libertà pazientemente costruite in Europa negli ultimi secoli, in particolare quelle riferite alla sfera economica.
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  • Non è così: contribuisce infatti a questa formulazione (che non è in se errata, ma parziale) sia una generale e progressiva svalutazione dello Stato contemporaneo, cui contribuiscono solidaristi cattolici, leghisti, liberals, da cui lo Stato è visto come conculcatore sia di diritti individuali, che delle comunità intermedie e in cui si nota come abbiano preso del termine Stato solo uno dei significati correnti, anche se il più frequente. In effetti con tale termine si può intendere (come fanno i critici) l’apparato amministrativo (in senso lato) per cui lo Stato è il carabiniere, il Procuratore della repubblica o l’esattore delle imposte; ovvero l’entità che da forma e “personalità” alla comunità; o anche l’istituzione che protegge l’esistenza di quella. E si può parlare di un’idea e anche di un’ideologia dello Stato, come forma politica basantesi su propri presupposti ed esigenze, in particolare quelli fatti propri dal razionalismo moderno, e prodotto (secolarizzato) del cristianesimo occidentale.
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  • Per cui che lo Stato sia sinonimo di oppressione appare affermazione azzardata perché parziale, anche se non (del tutto) infondata: in fondo è quella forma di organizzazione del potere con cui si è cercato da un lato di dare effettività e certezza alla tutela dei diritti e alla protezione dell’esistenza (individuale e) collettiva (cosa che le monarchie feudali non facevano o facevano in modo approssimativo, parziale e imprevedibile). Per cui appare vero che “Lo Stato è la realtà della libertà concreta” (v. G.G.F. Hegel prgr. 260, Grundlinien der Philosophie des rechts trad. di V. Cicero) e come scrive Hegel subito dopo “la libertà concreta consiste nel fatto che la singolarità personale ed i suoi interessi particolari, per un verso, hanno il loro sviluppo completo e il riconoscimento del loro diritto per sé (nel sistema della famiglia e della società civile); per altro verso, invece, essi in parte passano da se stessi nell’interesse dell’universale, e in parte, con il loro sapere e volere, riconoscono l’universale stesso: precisamente, lo riconoscono come loro proprio Spirito sostanziale, e sono attivi in vista di esso come in vista del loro fine ultimo. Per cui “Il principio degli Stati moderni ha questa immane forza e profondità: esso fa sì che il principio della soggettività si compia fino all’estremo autonomo della particolarità personale, e, a un tempo, lo riconduce nell’unità sostanziale, conservando così quest’ultima in quel principio stesso”.
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  • Marcel

  • L’uomo contro l’umano
  • Gabriel Marcel
  • antimoderno
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
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  • Gabriel Marcel è uno dei rappresentanti più noti dell’esistenzialismo cristiano, vivace corrente teoretica del secolo scorso, che ha tentato (vanamente) di correggere gli esiti nichilisti dell’esistenzialismo di matrice sartriana. Nella vasta e poliedrica produzione di Marcel c’è un’opera che si distingue dalle altre, fortemente segnata dalla critica del moderno. Della cosa si accorse Julius Evola che, per questo, la tradusse nella nostra lingua. Ci riferiamo a, L’uomo contro l’umano la cui nuova edizione è da poco nelle librerie per i tipi di Iduna (per ordini: associazione.iduna@gmail.com, pp. 221, euro 18,00). Il volume è arricchito dall’introduzione di Nuccio D’Anna, che contestualizza storicamente la filosofia di Marcel.
  • ...
  • In questo testo, il filosofo francese descrive la condizione spirituale e intellettuale dell’uomo moderno. Il quadro è drammatico: la modernità ha determinato, con gli sviluppi del soggettivismo cartesiano, il progressivo fanatizzarsi delle concezioni degli uomini. Questi, perso ormai il contatto con la dimensione dell’essere e, pertanto, con la realtà, vivono di false certezze indotte in loro da una teoria della conoscenza centrata, almeno dall’età dell’idealismo, sulla mera astrazione intellettualistica. Non orientando più gli uomini il proprio percorso di vita attorno al reale, al Centro, rappresentato, per il pensatore, da Dio e dalla trascendenza, si è registrata una conseguente perdita irreversibile dei valori che, fin dall’antichità, hanno indirizzato l’iter dell’umanità. Si badi, le argomentazioni di Marcel sono antimoderne, egli guarda all’epoca nella quale ebbe in sorte di vivere con occhio decisamente critico, eppure invita i suoi lettori ad evitare di rifugiarsi nell’idealizzazione del passato. Il moderno non deve, tout court, essere rifiutato. Egli stesso non si sentiva estraneo alla realtà storica, con la quale accettò di confrontarsi.
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  • Le tesi del francese possono essere valido sostegno per quanti si battono contro la massificazione contemporanea, contro il mondo definito umano dal pensatore, che ha determinato l’abbandono dell’uomo alla solitudine cosmica, connotata dalla situazione esistenziale dell’angoscia. D’Anna presenta al lettore i pensatori e i momenti speculativi di maggior rilievo dell’esistenzialismo cristiano. Ricorda non semplicemente che tale scuola prese le mosse dalla filosofia di Kierkegaard ma che ebbe in Karl Barth, negli anni Trenta del secolo scorso, un rappresentante di primo piano. La speculazione barthiana si chiuse nel teocentrismo. Solo la fede, a dire del teologo, sarebbe stata in grado di risolvere l’inquietudo dell’ex-sistere, proprio perché, nel finito delle nostre esistenze, si dà anche la presenza dell’infinito, del divino, in forza dell’atto di creazione. La fede è un possibile che si apre all’uomo, solo a condizione che questi abbia vissuto lo scacco gnoseologico. La crisi che ne segue può essere risolta nel credere:  «L’esistenza […] viene trasfigurata, il biblico “uomo vecchio” […] scopre un “uomo nuovo”» (p. V). Si ripropone, in tale passaggio, la lezione paolino-agostiniana: la morte dell’uomo esteriore, dell’uomo abbagliato dalle luci del mondo. Barth porta a estrema coerenza teorica le intuizioni emerse in Dostoevskij.
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  • Ancor più radicale, risulta la proposta di Peter Wust che, animato da un potente afflato mistico-contemplativo, sostenne nell’uomo di fede, nell’“uomo nuovo”, il permanere del fondo abissale dell’angoscia, il sentimento della nullità dell’esistere finito. Ragione e dati obiettivi sono guide insicure lungo la via che conduce alla salvezza. Marcel, al contrario, propone una via filosofica libera dai legami con le eredità cartesiane e razionaliste, centrata su: «una partecipazione intima ai ritmi universali, possibile solamente perché si è riusciti a evocare quello che il filosofo francese chiama il fatto del sentimento» (p. VII). È necessario lasciarsi alle spalle il dualismo cartesiano, la contrapposizione di soggetto-oggetto, mettendo in discussione la stessa veridicità dei processi di “oggettivizzazione”. La filosofia deve tornare a riflettere sull’essere, sulla realtà umana esistenziale, fatta anche di corporeità dolente. L’essere è, per Marcel, mistero, di fronte al quale ogni uomo si trova coinvolto. Vissuta in profondità, l’esperienza del mistero può aprire alla trascendenza. Anziché rinviare all’essere, la modernità vive esclusivamente la dimensione dell’avere. Di fronte a tale opzione l’uomo deve scegliere, deve progettarsi come vivente e recuperare l’essere, riscattando la condizione umana dalla reificazione in cui è caduta.
  • ...
  • Nelle pagine di L’uomo contro l’umano, Marcel si confronta con il problema della tecnica, rilevandone i vantaggi materiali ma anche gli aspetti negativi. Tra essi, un ruolo significativo va attribuito al processo di “polverizzazione” della vita, che i dispositivi tecnici, condizionando gli uomini, hanno messo in atto. Il filosofo pare non aver coscienza, a differenza di Heidegger, che la tecnica è l’espressione ultima della metafisica, è il suo farsi mondo attraverso la desacralizzazione della natura e della vita.   Auspica, il Nostro, il recupero di un sacro che sia realmente vissuto e trasfigurante. A esso può condurre la speranza: «una vera e propria apertura al mistero dell’essere, una via di trasformazione interiore» (p. XIII), che si pone oltre ogni astratto intellettualismo.  Le pagine più riuscite del volume ci paiono quelle dedicate al ruolo del filosofo nella realtà moderna. In un mondo costruito sul rifiuto della riflessione: «Spetta al filosofo […] attaccare questa confusione, senza presunzione e senza farsi false illusioni, avendo però il senso che questo è un imprescindibile dovere» (p. 108).     Affermazione di rilievo, che indica un compito, se non una via d’uscita dalla scacco del presente.   Non è poca cosa.

  • religioni folklore europa provv 227124bf6c51b3015b899692139241a8

  • Da Zalmoxis a Gengis Khan
  • Religioni e folklore della Dacia e dell’Europa Orientale
  • secondo
  • Eliade
  • di
  • Giovanni Sessa
  • Mircea Eliade, insigne storico delle religioni romeno, nonostante abbia vissuto gran parte della vita all’estero in esilio, mantenne uno stretto legame con la cultura del proprio popolo e, soprattutto, ebbe un interesse, mai celato, per la spiritualità dell’antica Dacia.  A testimoniarlo, con dovizia di particolari, è il suo volume, Da Zalmoxis a Gengis Khan. Le religioni e il folklore dell’Europa orientale, nelle librerie per i tipi delle Edizioni Mediterranee, a cura di Horia Corneliu Cicortaş e con la traduzione di Alberto Sobrero (per ordini: 06/3235433, ordinipv@edizionimediterranee.net, pp. 275, euro 27,00).
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  • Il volume fu pubblicato, per la prima volta, in Francia nel 1970. Uscì in Italia nel 1972 e, visto il discreto successo di critica e vendite, fu tradotto, in un breve lasso di tempo, in molte lingue. Il testo è costituito di otto capitoli: sei di essi rappresentano rifacimenti di precedenti saggi usciti su riviste e periodici. Due sono i capitoli pensati appositamente per questo libro.   Il primo di essi si riferisce a Zalmoxis e si occupa della storia religiosa dei Geto-Daci. Alla relazione tra questa antica popolazione e i lupi è dedicato un altro scritto mentre, un articolo relativo alla “Ballata della pecorella veggente” ha lo scopo, secondo le intenzioni di Eliade, di integrare gli altri cinque saggi relativi alla tradizioni popolari romene. Essi, rispettivamente, si occupano dei miti cosmogonici dualistici, della caccia rituale, della leggenda di Mastro Manole, di pratiche sciamaniche e del culto della mandragora. Il riferimento del titolo a Gengis Khan, lo ricorda Cicortaş, è puramente simbolico: «poiché nel libro le invasioni mongole non vengono ricordate» (p. 8), pur avendo giocato un ruolo fondamentale nella formazione dell’immaginario dei Daco-Romani, soprattutto in relazione all’antenato totemico individuato nel Lupo grigio. È opportuno tener presente che, per Eliade: «Il culto di Zalmoxis e tutti i miti, i simboli, i rituali che informano il folklore religioso dei Romeni, affondano le loro radici in un universo di valori spirituali che preesiste all’apparizione delle grandi civiltà del Vicino Oriente antico e del Mediterraneo» (p. 17).
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  • Ciò spiega l’interesse per tale patrimonio spirituale, mai venuto meno nello studioso. Per la prima volta esso si manifestò alla fine degli anni Venti, dopo il soggiorno dello studioso in India ma tornò a mostrarsi negli anni Quaranta, prima e dopo la fine del Secondo conflitto mondiale. Del resto, Eliade aveva fondato, nel 1938, la prima rivista internazionale romena di studi storico-religiosi, non casualmente intitolata Zalmoxis. Al testo che presentiamo, l’intellettuale lavorò tra il 1968 e il 1969, nel momento in cui era impegnato a mettere a punto alcune delle sue opere più rilevanti sotto il profilo scientifico. Qualora non ci fosse stata questa concomitanza di impegni, Da Zalmoxis a Gengis Khan: «avrebbe avuto verosimilmente dimensioni ben maggiori» (p. 11). Anzi, l’autore aveva progettato di aggiungere alla prima edizione capitoli dedicati ad altri aspetti della ritualità e del folklore della Romania e dell’Europa orientale. Il lettore della nuova edizione italiana troverà in Appendice il saggio che lo storico delle religioni ha dedicato all’esegesi dei căluşari, feste in maschera stagionali.
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  • Anche questo scritto conferma l’importanza metodologica attribuita da Eliade, nel comparativismo storico-religioso, alla dimensione etnologica. Egli ricorre di continuo, al fine di giungere al cuore, al significato riposto di miti e riti: «al patrimonio culturale del folklore […] Una fonte preziosa specialmente nel caso dei cosiddetti “popoli senza scrittura”» (p. 11). Lo studioso è fermamente convito che l’humus spirituale dei Daci potesse essere colto: «solo nell’universo dei valori specifici dei cacciatori e dei guerrieri, o più esattamente alla luce di riti iniziatici di tipo militare» (p. 18). Più in particolare, l’ambigua duplicità, ctonia e tellurica, di Zalmoxis: «diventa comprensibile quando si svela il senso iniziatico dell’occultazione e dell’epifania del dio» (p. 18). Il mito cosmogonico romeno, alla luce di tale intuizione, non può essere ridotto, sic et simpliciter, ai dualismi balcanici e centro-asiatici, ma va letto, rileva Eliade, attraverso il tema della “stanchezza di dio”: «sorprendente espressione di quel deus otiosus reinventato in seguito dal cristianesimo popolare, nel disperato tentativo di rendere dio estraneo alle imperfezioni del mondo e all’apparizione del male» (p. 18).
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  • La stessa “caccia rituale”, praticata nei primordi della Dacia, per l’intellettuale romeno deve essere posta all’origine del principato di Moldavia. Il monastero d’Argeş riesce a esplicitare, inoltre, il proprio simbolismo, non semplicemente in relazione ai miti di costruzione ma in relazione al: «senso originario di un primitivo sacrificio umano» (p. 18). Una delle ballate popolari più note in Romania, la Mioriţa presenta la funzione oracolare degli animali nell’antica Dacia. Il culto della mandragora, se ben interpretato, mette in luce la stretta connessione di Vita e Morte.
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  • Leggere questo libro significa essere proiettati in un universo arcaico di grande spessore simbolico. Eliade, in queste pagine, ha trasmesso alla contemporaneità il patrimonio immemoriale sul quale è stata costruita la civiltà europea. Un’occasione da non perdere, da non sprecare, in un momento in cui la cancel culture è intenzionata a fare tabula rasa della nostra memoria storica.

  • MOSAICO FILOSOFI

  • INTERESSE NAZIONALE.   COS’È?
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  1. Qualche tempo fa mi capitò di scrivere che le dichiarazioni della Meloni davano uno spazio – poco consueto in Italia – al perseguimento dell’interesse nazionale come bussola dell’azione politica e di governo.
  • Il che è un problema classico della teoria, segnatamente di quella moderna dello Stato, ove non ci si rifaccia a forme di legittimazione teocratiche, carismatiche o tradizionalistiche del potere pubblico: trovare un fondamento razionale ed immanente per l’associazione politica, le potestà di governo e la sovranità. Tale ricerca è conseguenza diretta della laicizzazione del pensiero politico; un attento osservatore come de Bonald, l’attribuiva a una concezione atea del mondo e della società, perché privato questo e quella di una presenza o di una istituzione divina, non rimane che fondarne l’assetto sugli interessi umani.
  1. Il pensiero della dottrina moderna dello Stato è così chiaramente orientato fin dall’inizio e almeno nei suoi esponenti più seguiti a dare (e darsi) una dimostrazione della necessità del dominio politico in base a presupposti realistici. In tale contesto emergono le spiegazioni in termini utilitaristici dell’assetto dei poteri pubblici e della modellazione degli stessi in vista del raggiungimento dei fini della comunità politica, denominati di volta in volta “bene comune” “pubblico bene”, “interesse generale”, “interesse pubblico”, al fine di sottolinearne, talvolta polemicamente, la strumentalità rispetto alle utilità degli associati; e di pari passo, della considerazione correlativa degli interessi (particolari) degli esercenti (e non) le potestà pubbliche, di cui si mostra la conflittualità, effettiva o potenziale, col primo.
  • Spinoza distingueva, con una intuizione destinata a notevole fortuna (e comune ad altri pensatori), la (classica) differenza dei tre tipi di potere a seconda dell’interesse tutelato. Il padre ha un potere sui figli per fare il loro interesse; il padrone perché i servi procurino l’utilità propria; l’autorità pubblica per provvedere l’interesse dei sudditi, non uti singoli ma uti cives...
  1. Locke teorizzava lo Stato limitato dall’intangibilità di alcuni diritti fondamentali; è stato considerato con minore attenzione che il filosofo inglese, funzionalizzando l’esercizio delle potestà pubbliche all’interesse generale, individuava un limite interno, anche nell’area delle stesse prerogative sovrane, che è base non secondaria della strutturazione dello Stato costituzionale moderno; e con pari chiarezza Locke avvertiva la situazione di potenziale ed effettivo contrasto tra pubblico bene e fini privati dei governanti.
  • Scriveva Rousseau che la volonté générale è corretta solo quando si applica su oggetti d’interesse comune; laddove vengono in considerazione oggetti ed interessi particolari, di cui spesso sono portatrici le fazioni, la volontà generale viene meno, e il parere predominante, anche se di una fazione maggioritaria, è tuttavia opinione e volontà particolare.
  • Anche gli autori di “The Federalist” si pongono lo stesso problema. Nel saggio n.10 Madison si interrogava su come far prevalere, in una repubblica ben ordinata, l’interesse generale su quelli particolari.
  • Alla fine del XVIII secolo si consolida l’idea di ridurre al diritto (e col diritto) l’obbligazione politica. Le potestà pubbliche, anche quelle ritenute peculiari del sovrano, sono concepite come non solo limitate dal diritto, ma anche organizzate per mezzo di norme giuridiche di guisa da assicurare il conseguimento degli scopi della società (politica e) civile.
  • Così nel “costituzionalizzare” il perseguimento dell’interesse generale: nella dichiarazione dei diritti dell’89 si afferma che “il fine di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali ed imprescrittibili dell’uomo” ed all’art. 12 “la garanzia dei diritti dell’uomo e del cittadino rende necessaria una forza pubblica; questa è dunque istituita per il vantaggio di tutti, e non per l’utilità di coloro ai quali è affidata”. Con ciò era anche evidenziato e vietato l’uso ai fini d’interessi privati della funzione pubblica.
  • Assai scettico sull’attitudine di governanti e funzionari a perseguire l’interesse generale era anche Romagnosi il quale sosteneva che «di costituzione c’è bisogno laddove non si pensi che gli amministratori siano “naturalmente illuminati” e fedeli all’ordine”. E, dato che è principio di ragione che “l’interesse dell’amministrato deve essere assolutamente procurato dall’amministratore”, ma “egli è pure principio di fatto, che l’amministratore libero da ogni freno si presume prevalersi sempre del suo potere per far servire la cosa dei suoi amministrati all’interesse proprio”, lo scopo della garanzia costituzionale è “impedire che la volontà dell’uomo corrompa la volontà del monarca”»[1]. Anche negli elitisti italiani il problema del conflitto tra interessi privati dei governanti è oggetto di analisi basate sulla considerazione dell’antinomia degli interessi delle èlite politiche rispetto a quelli del corpo sociale[2].
  • La convinzione, maturata particolarmente nel XVIII secolo, che ogni potere di governo dovesse essere esercitato allo scopo di attingere il bene comune ne comportava la generale funzionalizzazione. Ove invece si fosse concepito, secondo il modello tradizionale e pre-borghese, i poteri pubblici (prevalentemente) come diritti attribuiti in forza di investitura divina, consuetudine od atto insindacabile a determinate persone, ceti o comunità territoriali e tramandati secondo il principio ereditario od acquisiti per appartenenza a ceti e comunità (e talvolta negoziabili), in misura inferiore si sarebbe potuta sviluppare l’idea delle potestà “nazionalizzate”[3].
  • Carl Schmitt ritiene principi fondamentali dello Stato di diritto quello di divisione (cioè la tutela, anche del potere pubblico, dei diritti fondamentali ) e quello di distinzione dei poteri (concetto diversamente connotato, e denominato). Ma c’è almeno un terzo principio essenziale: quello, sopra cennato, della funzionalizzazione dei poteri “nazionalizzati” all’interesse “pubblico”. Di per sé è tipico di una forma di potere razionale-legale, in cui si pretende (tra l’altro) la giustificazione dell’esercizio della potestà nella sua conformità ad una norma, e (quindi) ad un valore ovvero ad uno scopo (ovviamente la descrizione weberiana del tipo legale-razionale di potere è enormemente più complessa, e vi rinviamo completamente); e, onde acquisire evidenza utilitaristica e, sotto un certo profilo, legittimità, deve corrispondere agli interessi di tutti i consociati. All’importanza di tale principio si potrebbe replicare che anche ad altre forme di organizzazione politica non manca l’elemento teleologico di funzionalizzazione dei poteri pubblici all’interesse di tutti. Invero in altri ordinamenti politici mancano o sono incompleti o episodici, norme ed istituti presupponenti una tensione dialettica tra interessi generali e non, tra classe di governo e governati, che sono tipici dell’attuazione completa del medesimo, com’è (o come dovrebbe essere) nello Stato borghese. Concludendo tale sintetico excursus di dottrine politica e giuridica, il dovere di perseguire l’interesse generale è carattere di ogni istituzione politica; ma nello Stato borghese si connota per una estesa e articolata realizzazione in istituti, organi e norme.
  1. L’immanenza di tale principio ad ogni forma d’istituzione politica è stata sempre espressa in termini indefiniti. La stessa formula romana che salus rei publicae suprema lex sicuramente ci dice che la salvezza dello Stato prevale sull’osservanza del diritto, ma non indica in nessun modo cosa debba fare chi governa: tutt’al più nelle applicazioni, ossia nei testi costituzionali, designa chi possa deciderlo. Santi Romano, nel solco di una tradizione plurisecolare riteneva la necessità fonte di diritto superiore alla legge: che è un altro modo di esprimere lo stesso concetto in termini moderni e più “tecnici”.
  • Tale genericità ha contribuito a far sì che qualunque politico (e altro) vesta gli interessi privati propri e del di esso seguito dei solenni panni dell’interesse generale. Così qualche settimana fa un settimanale di centrosinistra ha ritenuto d’interesse nazionale, gradatamente: a) l’emancipazione delle donne; b) l’allargamento dei diritti; c) l’equità (espressione che senza l’ausilio della dottrina giuridica, è non meno vaga di quella d’interesse nazionale): d) una nuova giustizia sociale ed economica (v. equità); e) un’idea ecosostenibile d’innovazione; f) il rispetto dei trattati internazionali finalizzati alla tutela dei diritti umani. Inoltre l’interesse nazionale (alias generale) deve tener conto di quello del pianeta. A margine si legge che la famiglia tradizionale, difesa dalla Meloni è “cominciata con la discriminazione della maggior parte (??) delle “famiglie” fatte da diverse forme di unione”. A parte vaghezza ed affermazioni apodittiche è difficile da credere (e a prescindere dal dettato costituzionale) che la maggior parte delle famiglie non sia costituito dalle unioni tra uomo e donna, ma da quelle tra uomo e uomo, donna e donna (e altro).
  • Ciò malgrado è interessante approfondire comunque se il concetto suddetto, così importante, e richiamato in diversi termini da più norme della nostra Costituzione, possa essere – almeno in una certa misura – determinato di guisa da escludere che almeno certi obiettivi possano essere d’interesse generale, e di converso, che altri sicuramente lo sono.
  1. In primo luogo nazionale o generale che sia, l’interesse deve riguardare aspirazioni, situazioni, oggetti che siano comuni agli appartenenti alle comunità; se riguardano piccoli gruppi o minoranze non lo sono.
  • Possono diventarlo però se tutelare determinati interessi delle minoranze serva a mantenere l’unità politica e la concordia sociale. Cioè sono d’interesse nazionale indiretto. Altri lo sono in modo diretto: così quello (disciplinato dalla Costituzione vigente) di conservazione della sintesi politica, e di conseguenza del dovere di difesa della patria (art. 52).
  • In secondo luogo l’interesse generale appare delimitato dalla qualità di cives dei soggetti del medesimo. Generale così indica i cittadini, per il bene dei quali devono essere esercitate le potestà pubbliche e che sono (ma non solo loro) soggetti alle leggi: ha carattere essenzialmente politico, ed è difficilmente pensabile disgiunto dal concetto moderno di democrazia. É da collegare all’interesse della comunità, prima che a quelli singoli individui; la norma appena citata, del dovere di difendere (e morire) per la patria ne è la conferma.
  • In terzo luogo – ma in effetti è il primo – occorre ricordare all’uopo la regola di Croce “prima vivere e poi filosofare, prima essere e poi essere morale”. E in altri passi il filoso lo specifica “Quando si parla di senso politico, si pensa subito al senso della convenienza, dell’opportunità, della realtà, di ciò che è adatto allo scopo, e simili[4]; perché “L’azione politica non solo è azione utile, ma questi due concetti sono coestensivi”.
  • A confortare quanto scritto da molti, tra cui ho citato solo Croce, è il dato storico e giuridico che l’istituzione di protezione della comunità, cioè lo Stato, perdura malgrado cambi la “tavola dei valori” (come scrivono per lo più i giuristi contemporanei); lo Stato nazionale italiano ne ha cambiate almeno tre, tuttavia esso e la comunità nazionale hanno continuato in suo esse perseverari. Confondere e ancor più far prevalere il normativo – di qualunque genere – sull’esistente è un errore, che, a seguire la logica di Croce, può portare a cessare di esistere; e se non si esiste, come comunità, non ci sono valori da perseguire.
  • In quarto luogo, la dottrina delle ragion di Stato, come scrive Meinecke (in ossequio alla salvaguardia dell’esistenza) si sviluppa anche come dottrina degli interessi degli Stati, intendendo con ciò quegli interessi costanti che sono di ogni comunità politica concreta. Così per la Francia evitare con ogni mezzo che alla destra del Reno vi sia uno Stato più forte – o forte quanto la Francia. Almeno da Richelieu e Mazzarino fino (sostengono in tanti) a Mitterand, tutti i governanti francesi l’hanno perseguito. O la tendenza della Russia (e prima della Moscovia) a espandersi verso i mari caldi (in particolare il mar Nero), che spiega – almeno in parte – il comportamento odierno di Putin.
  • Il quale non ha fatto altro che continuare quanto fatto da Ivan il Terribile, Pietro il Grande, Caterina la Grande e tanti altri governanti russi.
  1. Ma non è dato comprendere quanto contribuisca all’esistenza politica, al vivere e al buon vivere della comunità, e così all’interesse nazionale o generale, il trattamento uguale delle famiglie normali e no, dell’equità (quale?) e così via. Con ciò si difende non l’esistenza politica, né la potenza – in senso weberiano - dell’istituzione, cioè la possibilità di far valere con successo la propria volontà, ma una determinata visione del vivere sociale ed economico. Ovviamente subordinata all’esistenza perché solo chi esiste ha la capacità di realizzare una propria visione della convivenza sociale. Perciò è legittimo cercare di far valere la propria visione, ma è fuori dalla realtà ritenerla necessaria all’esistenza comunitaria quale interesse nazionale.
  • Note: 
  • [1] Nel saggio “On Liberty” anche John Stuart Mill faceva derivare proprio dalla distinzione d’interessi tra governanti e governati e dalla volontà di superarla, le richieste di democrazia politica e di governo rappresentativo e responsabile di fronte agli elettori. Stuart Mill giudicava che questa era, a giudizio di chi la sosteneva, una risorsa contro i Governi i cui interessi ritenevansi di consueto opposti a quelli del popolo.
  • [2] Mosca scrive della “naturale tendenza che hanno coloro che stanno a capo della gerarchia sociale ad abusare dei loro poteri” e ne ravvede i temperamenti in forme d’autorità non fondate sul carisma e la religione, e nella divisione dei poteri. Ma la propensione di Mosca, come anche di Pareto, a considerare gli aspetti sociologici e politico-logici più di quelli giuridici, ne rendono meno pertinenti ai nostri fini le pur interessanti analisi e prospettazioni
  • [3] V. M. Hauriou, Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, pp. 174 ss.
  • [4] E prosegue “E si considerano forniti di senso politico coloro che a quel modo operano o a quel modo giudicano l’altrui operare, e, per contrario, privi di senso politico quegli altri, che diversamente si comportano, ancorché abbondino di morali intenzioni e si accendano a nobilissimi ideali”.

  • Compagni di solitudine

  • Solinas 
  • Compagni di solitudine
  • Un’autobiografia intellettuale e sentimentale
  • di
  • Giovanni Sessa

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  • E’ nelle librerie, per Bietti, la nuova edizione di uno dei libri più significativi di Stenio Solinas, Compagni di solitudine. Una educazione intellettuale (per ordini: 02/29528929, pp. 361, euro 20,00). L’autore, scrittore di vaglia, ricorda che, vent’anni fa, la prima edizione di questo volume nacque per sollecitazione di Mario e Luigi Spagnol, figure di primo piano dell’editoria nazionale che, colpiti dalla lettura del pamphlet, Per farla finita con la destra, apprezzando lo stile di Solinas, gli chiesero cosa custodisse nel cassetto. Ne uscì Compagni di solitudine. La seconda edizione è arricchita da un’introduzione dell’autore e da un’Appendice che raccoglie diverse recensioni uscite allora, la cui lettura consente di comprendere come ci si trovi di fronte a un testo di rilievo.
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  • In queste pagine, Solinas ricostruisce la propria ricerca intellettuale, presentando gli autori che hanno avuto un ruolo rilevante nella sua formazione: la formazione, si badi, di un uomo che ha attraversato il tempo in cui gli è stato dato in sorte di vivere, animato da distacco esistenziale nei confronti degli idoli di fronte ai quali si prostrano i nostri contemporanei.   Compagni di solitudine è pertanto un «romanzo di idee» (p. 17), la cui prima parte è connotata da stile colloquiale. L’autore, da par suo, coinvolge il lettore nel flusso narrativo intermittente, messo in atto dall’uso dell’interpunzione, il cui modello è esplicitamente riconosciuto nelle pagine del Male oscuro di Giuseppe Berto. Nella seconda parte, il dinamismo stilistico si placa e si distende nella discussione delle opere dei “compagni di solitudine”, le cui pagine Solinas ha frequentato, non solo con continuità, ma animato dalla passione di chi ha contezza, che la lettura è una delle grazie di cui può avvalersi l’uomo per rendere meno greve la vita.  
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  • Chiave d’accesso, atta a illuminare l’universo interiore dell’autore, è da individuarsi in Arturo Pérez-Reverte: «Il protagonista dei suoi romanzi è sempre lo stesso tipo umano» (p. 29), un “avventuriero”, sia che abiti nella Spagna di Cervantes, o negli anni Trenta del secolo XX. Reverte mette in scena nei romanzi: «la dignità della sconfitta, […] il senso dell’onore come ultima e unica risorsa, […] il sentimento dell’amicizia e della fedeltà che lega fra loro i vinti» (p. 32). Si tratta del medesimo contesto esistenziale che anima i personaggi di Chateaubriand nella Francia rivoluzionaria di fine Settecento. A Solinas e alla generazione che, per dirla con Gianfranceschi, “non fece in tempo a perdere la guerra”, quella Francia lacerata, senza possibilità di conciliazione tra le parti politiche, sembrava molto simile all’Italia postbellica.   In quel frangente storico, con la definitiva conquista dell’egemonia culturale, la sinistra nostrana si trasformò in “etnia”, in “razza padrona” il cui sguardo moralista, venato di razzismo antropologico, ridusse l’altro da sé, chi si riconosceva nella “destra” paradossale incarnata dai figli di Salò, in paria. Solinas ha avuto l’avventura di far parte di questa sottorazza, e ha scontato tale appartenenza in termini umani e professionali.
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  • È in questo ambiente che maturò i propri gusti e, soprattutto, i propri disgusti. I primi lo indussero a scegliersi, quali compagni di viaggio e d’avventura: «quegli scrittori che alla propria individualità alla fine non avevano mai rinunciato […] spiriti più liberi… anime più nobili» (p. 63). Tra essi Drieu, Jünger, Marlaux, Saint-Exupery, Lawrence. Pochi gli italiani cui la generazione dei “giovani nazionali” nati negli anni Cinquanta guardò con interesse, tra essi Evola.   Il filosofo romano fu idolatrato, nei Settanta, dai giovani di “destra”, ma il suo tradizionalismo è lontano dalla visione di Solinas, il quale sostiene di aderire alla concezione sferica, aperta della storia, in cui il possibile è sempre in agguato come, proprio in quegli anni, sostennero Giorgio Locchi e Paolo Isotta (l’Evola “idealista magico”, condivideva, comunque, tale posizione).    L’idolatria evoliana, produsse il germe malato degli “evolomani”, degli scolastici ripetitori del verbo del maestro: «un vero e proprio caravanserraglio dell’esoterismo […] aristocratici del pettegolezzo e della calunnia si lanciavano insulti che ritenevano sanguinosi» (pp. 66-67). Per questi ultimi, l’evolismo, con il correlato del necessitarismo storico-ciclico, fu dottrina di rassicurazione politica-esistenziale.   I disgusti di Solinas lo portarono al disprezzo per il mondo in cui trionfavano l’utile e il materialismo, ma lo indussero a prendere le distanze dall’altrettanto sterile e culturalmente asfittico mondo ideale della “destra” dell’epoca, connotato dalla circolazione degli stessi nomi, inchiodato a esegesi ripetitive e vincolato alla mera lettura “politica” degli autori indagati, presto divenuti oggetto d’adorazione fideistica e acritica.
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  • L’autore ricorda il tentativo della Nuova Destra, di cui egli fu interprete di primo piano, mirato a rinnovare un patrimonio di idee staticizzato da nostalgismo e retorica: «Era una volontà di presenza…una chiamata alla vita…un calcio alle ragnatele dove soffocavano intelligenze e passioni» (p. 71). Un’occasione persa, mancata, tradita dall’irruzione del berlusconismo e di tutto ciò che ha rappresentato. Con la Nuova Destra, a riemergere fu la dimensione dell’avventura intellettuale, la valorizzazione delle capacità individuali, il confronto con la modernità. Da questo punto di vista, a parere di chi scrive, Solinas conferma la veridicità delle tesi di Antoine Compagnon. Gli antimoderni, o quantomeno, coloro che guardano ai valori premoderni, risultano paradossalmente più moderni dei progressisti, capaci di interagire con il reale attraverso la cultura, nel caso del Nostro, attraverso la parola scritta.
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  • Solinas ha ragione nel sostenere che certi libri riescono a farci sentire meno soli, proprio rafforzandoci nelle nostre solitudini. Essi inducono la contrapposizione a quella che Carlo Michelstaedter definì la “comunella dei malvagi” e aiutano a costruire una comunità che abbraccia tempi e spazi lontani, quella dei solitari, degli “avventurieri”, coloro che non rinunciano all’“invincibile estate” (Camus) e la mantengono viva, in tutte le età della vita.
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  • Solinas ha quali compagni di solitudine Drieu e Malraux, accomunati da un destino comune pur nella diversità, Lawrence: «uomo assediato, sempre bisognoso di una fortezza in cui rinchiudersi […] Era l’assedio […] dell’insensatezza della vita, della condizione umana» (p. 135), Saint-Exupéry che: «cerca di indicare agli altri proprio la dignità umana che scaturisce dalla consapevolezza di avere uno scopo che li trascende» (p. 149), ma soprattutto Céline, maestro di stile. Un ruolo importante il Nostro attribuisce ai grandi viaggiatori, da Morand a Chatwin. Nell’insolenza prodigiosa di quest’ultimo, tanto biologica quanto spirituale, è da ravvisarsi l’ubi consistam dell’uomo e dello scrittore inglese. Quella cui Solinas allude è una comunità di solitari, una comunità “impolitica”, accomunata dalla ricerca della bellezza, la cui potenza effusiva, ben lo sapeva il premoderno Dostoevskij, può “salvare” il mondo.

  • copertina SE

  • Studi Evoliani 2021
  • 2022: l’anno di Evola
  • di
  • Giovanni Sessa
  • L’Annuario della Fondazione Evola, Studi Evoliani 2021, anche quest’anno è giunto puntualmente nelle librerie per i tipi di Ritter editore (per ordini: info@ritteredizioni.com, pp. 325, euro 25,00). Il numero che ci apprestiamo a presentare, è particolarmente importante. Infatti, l’anno in corso, nella nota editoriale che apre il volume, viene definito “anno evoliano”. Non è un caso. Il 30 marzo, infatti, Paolo Mieli, giornalista e storico, ha dedicato una puntata della trasmissione televisiva, Passato e presente, alla disamina dell’opera e del ruolo politico svolto da Julius Evola. In studio erano presenti docenti universitari, tra loro Alessandra Tarquini, allieva di Renzo de Felice, e studenti. Mieli e gli intervenuti hanno mantenuto, e la cosa è da sottolineare positivamente, il tono generale della discussione lontano dall’invettiva alla quale, i dibattiti attorno al tradizionalista, ci hanno, da tempo, abituato. Nel complesso, pur in presenza di alcuni errori di valutazione, in alcuni casi clamorosi (si è sostenuto che Evola fosse vicino alla RSI!), si è trattato di un primo, rilevante passo, nel tentativo di pervenire a un giudizio obiettivo sul pensiero evoliano. Ed Evola merita davvero, visto lo spessore della propria visione del mondo, un approccio sine ira et studio. Nell’Annuario compare, in tema, nella sezione Cronache e polemiche, un articolo in cui, de Turris e Scarabelli, forniscono precisazioni e fanno il punto in merito agli errori esegetici emersi nella trasmissione.
  • ...
  • Un altro evento, in questo caso dedicato all’attività artistica del filosofo, ha fatto parlare di sé nel 2022. Ci riferiamo alla mostra dedicata a Evola dal Mart di Rovereto. Nella città trentina sono stati esposti ben 55 quadri del dadaista, che hanno attirato l’attenzione di un vasto pubblico e della critica, tanto che la sua chiusura, prevista per metà settembre, è stato prorogata a fine ottobre. Dell’evento si è discusso ampiamente. Solo qualche critico malevolo e sprovveduto ha provato a storcere il naso. Studi Evoliani 2021, presenta, ancora in Cronache e polemiche, l’articolata e organica risposta dei curatori della mostra, Avanzi, Calcara e Pautasso, a tali critici fuori tempo massimo. Inoltre, a riguardo, il lettore potrà leggere uno stralcio della prolusione inaugurale tenuta da Vittorio Sgarbi a Rovereto il 15 maggio, in cui viene rilevata l’innegabile posizione di primo piano di Evola nell’arte contemporanea.
  • ...
  • Nella sezione che apre il volume, sono pubblicate le relazioni che eminenti studiosi hanno tenuto durante il Convegno annuale di studi della Fondazione (Roma-Milano, 27 novembre 2021) relativo a Novant’anni di “Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo”, opera uscita in prima edizione nel 1932. In queste pagine, alla luce delle posizioni evoliane, vengono stigmatizzati gli aspetti più negativi della società liquida o viene ricostruita e analizzata, con persuasività di accenti storico-filologici, l’origine di Maschera e volto nel percorso compiuto dal filosofo.
  • ...   
  • Davvero ricca, anche quest’anno, la sezione Saggi. In essa Francesca Luchini si occupa delle relazioni tra suo nonno, Alberto Luchini, ed Evola, in tema di teoria della razza. Luca Valentini presenta l’esegesi evoliana della filosofia epicurea. Giovanni Damiano discute il volume di Sandro Consolato, relativo all’archeologo Giacomo Boni. Interessante il contributo di Jari Padoan relativo ai riferimenti alla Tradizione, presenti nella musica contemporanea e nel black metal italiano. Non mancano scritti che si occupano del pensiero di Tradizione in Roberto Calasso ed ai rapporti intercorsi tra Evola e l’artista Emilio Villa (Vitaldo Conte).
  • ...
  • In Inediti e rari sono pubblicate, per la prima volta in italiano, due interviste ad Evola, rintracciate in Germania da Emanuele La Rosa, e firmate rispettivamente da Gustav Glässer ed Emil Szittya. Luca Siniscalsco presenta una lettera del pensatore inviata a Raphael Spann, figlio del filosofo Othmar, intercettata e “tradotta” dalla polizia politica. Testimonianza chiarissima che il Nostro non era, sic et simpliciter, un fascista a tutto tondo. Guido Pautasso si occupa, invece, di Pagine di Antifazione di Vittorio Vettori.
  • ...
  • Ampia, in questo numero, la sezione Rassegne, in cui compaiono recensioni dedicate a volumi su Evola e sul tradizionalismo.
  • ...
  • Nell’Annuario si dà, inoltre, notizia che la Fondazione ha, di recente, aperto un nuovo sito (www.fondazionejuliusevola.com) sul quale gli interessati potranno leggere testi rari di Evola, articoli e saggi che lo riguardano, tesi di laurea a lui dedicate e trovare informazioni inerenti a manifestazioni e convegni indetti dal sodalizio stesso. C’è davvero da augurarsi che, quanto accaduto quest’anno, sia di buon auspicio. Evola va liberato dai pregiudizi che ancora gravano su di lui.  

      
  • PITAGORA E IL PITAGORISMO NUCCIO dANNA

  • Pitagora e il pitagorismo
  • Un saggio di Nuccio D’Anna
  • di
  • Giovanni Sessa
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  • Nuccio D’Anna, storico delle religioni e valente studioso di simbolismo, ha già dato alle stampe una serie considerevole di volumi dedicati all’esegesi delle principali forme religiose e di pensiero del mondo antico. Nell’ultimo periodo è comparso nelle librerie, per i tipi delle Edizioni Arkeios, un suo corposo studio intitolato, Pitagora e il pitagorismo (per ordini:06/3235433, ordinipv@edizionimediterranee.net, pp. 229, euro 24,50). Si tratta di una monografia organica, ricostruttiva dell’iter storico e teorico cui il pitagorismo è andato incontro nella sua lunga storia che, com’è noto, giunge, da un passato remoto fino ai nostri giorni. Nel susseguirsi dei capitoli, D’Anna si sofferma, in modo analitico e servendosi, con intelligenza filologica, di ampia messe di documenti relativi all’origine italica di questa Scuola di pensiero. Si interroga, inoltre, sulle forme, gli archetipi e i principi primi del reale; presenta la figura essenziale dell’ “Uomo divino” e discute i momenti più rilevanti delle tecniche di concentrazione, meditazione e contemplazione in uso nel sodalizio sapienziale. Infine, affronta l’annoso tema del’ordine cosmico, della numerologia pitagorica nei suoi rapporti con la musicologia sacra, intrattenendo il lettore sulla diffusione del movimento pitagorico a Roma.
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  • homo faber provv 468d1660fd21f6336cedcfee0952481c

  • HOMO  FABER
  • Evola fra arte e alchimia
  • Torna un saggio di Elisabetta Valento
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
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  • Nella nota editoriale che apre l’annuario della Fondazione Evola, Studi Evoliani 2021, si dice che il 2022 è stato per Evola, anno mirabile. A marzo una trasmissione televisiva di Paolo Mieli è stata intermente dedicata alla “Rivolta contro il mondo moderno” del filosofo romano. Gli intervenuti, esimi docenti e studenti, hanno tenuto, nonostante qualche errore di fatto e di giudizio, un atteggiamento pacato, lontano dalle, finora consuete, pregiudiziali invettive contro il filosofo. Inoltre, il 18 settembre scorso, si è chiusa al prestigioso museo MART di Rovereto la mostra, Julius Evola e lo spirituale nell’arte, fortemente voluta da Vittorio Sgarbi e dalla Fondazione Evola, curata da Beatrice Avanzi e Giorgio Calcara.   Qui, per la prima volta, i numerosi visitatori hanno potuto ammirare ben 55 dipinti del tradizionalista.   L’esposizione ha inconfutabilmente accreditato Evola quale artista di livello europeo.
  • ...
  • Per acquisire piena contezza del valore della fase artistica del pensatore romano, è a disposizione di lettori e studiosi una nuova edizione del volume di Elisabetta Valento, Homo faber. Julius Evola fra arte e alchimia, con introduzione di Claudia Salaris, Appendice di Giorgio Calcara, nelle librerie per i tipi delle Edizioni Mediterranee (per ordini: 06/3235433, ordinipv@edizionimediterranee.net, pp. 160, euro 24,50). Il testo uscì nel 1994 e il suo nucleo principale resta invariato nella nuova edizione. E’ arricchito da un rilevante apparto iconografico, nel quale sono riprodotte le immagini delle opere discusse dall’autrice.  L’Appendice di Calcara: «dà conto di ciò che d’importante è accaduto in quasi trent’anni di ricerca sull’arte di Julius Evola […] nuove immagini e ritrovamenti pittorici, l’incredibile affermarsi delle opere […] di Evola sul mercato dell’arte internazionale, conseguenti esposizioni e novità editoriali» (p. 7).  Salaris rileva che l’impegno artistico del filosofo: «si svolge nel clima dell’avanguardia romana degli anni Dieci e primi Venti, caratterizzata da un intenso fervore sperimentale, espresso anche dall’attività di Balla» (p. 9), presso il cui studio Evola visse la propria iniziazione artistica.
  • ...
  • Il Futurismo romano non ebbe tratto settario e estremista e colloquiò con le più diverse tendenze dell’avanguardia europea. In tale contesto, un ruolo di rilievo fu svolto da Prampolini, che curò la rivista Noi, sulle cui colonne scrisse lo stesso Tzara assieme ad esponenti della poesia francese, a De Chirico e Savinio e al giovane Evola.   Un aspetto connotante in modo originale l’avanguardia romana è da individuarsi nell’esplicito interesse per l’esoterismo.  La cosa è attestata da dipinti di Balla quali, Mercurio passa davanti al sole e dalla rivista, lo ricorda ancora Salaris, L’Italia futurista, in cui le tematiche discusse ruotavano attorno a psichismo, onirismo, ritenuti i fondamenti di una poetica del fantastico, prossima alle suggestioni teosofiche e antroposofiche.  Il poeta si riteneva essere latore di facoltà magiche, trasformative, legate al tratto apparentemente a-logico delle proprie produzioni linguistiche.  Evola era al centro di tale milieu creativo e paganeggiante.  Dal libro della Valento si evince che, nel 1918, egli aveva portato a termine la prima fase della propria attività artistica, definita “idealismo sensoriale”.  Dava, pertanto, avvio, il tradizionalista, a una fase ulteriore, all’“astrattismo mistico”, legata alle dottrine sapienziali, in particolare all’alchimia.
  • ...
  • Tale passaggio avvenne dopo la pubblicazione del Manifesto Dada 1918, nel quale Evola, come sosterrà in Arte astratta del 1920, troverà profonde consonanze con la propria idea d’arte non medianica, di arte quale “pura espressione”, arte del capriccio, dell’arbitrio, fuori dal tempo. Non aveva forse, proprio Tzara affermato che il Dada era il ritorno a una religione dell’indifferenza: «di tipo quasi buddista»? (p. 11). Si tratta di una vera e propria rottura, nota Salaris, con la logica e la dialettica d’Occidente, in nome dell’esaltazione della creatività, intesa quale atto spontaneo, manifestazione della libertà originaria che, nell’idealismo magico evoliano, sarà considerata principio infondato. La chiave di volta, rileva Valento, per essere proficuamente immessi nel processo di decodificazione della pittura e della poesia evoliana, va individuata nella simbologia alchemica. La studiosa, utilizza la lettura che Evola ha fornito dell’alchimia ne, La tradizione ermetica, al fine di inquadrarne teoricamente la produzione pittorico-poetica.
  • ...
  • In termini generali, le procedure alchemiche mirano a portare l’Io individuale da coscienza corporea opaca ad Io attuale, ad essere in atto. L’Ars Regia: «presuppone una metafisica, cioè un ordine di conoscenze sovrasensibili, le quali a loro volta presuppongono la trasmutazione iniziatica della coscienza umana», scriverà Evola ne, La Tradizione ermetica. Nigredo, albedo e rubedo, sono i momenti costitutivi dell’iter trasmutativo, mentre l’Oro alchemico simbolizza il raggiungimento del principio. I riferimenti metallurgici nella tradizione ermetica hanno a che fare con l’analogia che lega il microcosmo al macrocosmo.  L’operatore, pertanto, è al medesimo tempo, la “materia prima” da trasformare che il fine dell’Opera.   L’Uno-Sole dà essenza e sostanza al Tutto.   Alla materia, corrisponde il principio Luna, che allude al tratto diveniente del reale.   Al Sole corrisponde l’Oro, alla Luna l’Argento.   Nel Corpo, vincolato dal desiderio, l’Anima è paralizzata: per ri-animarla è necessario liberare lo Spirito, che detiene le chiavi della “prigione”, dalle condizioni dell’individuazione.   Quando Anima, Spirito e Corpo, torneranno ad essere una sola sostanza indivisa: «il viaggio nelle interiora terrae, che altro non è che un viaggio all’interno di noi stessi, si conclude con l’Opera al Rosso» (p. 55).   L’uomo è così risospinto verso quel Centro in cui è possibile vivere l’eliminazione di ogni discrepanza tra essere e divenire.   Dal Centro poietico del dadaismo, Evola si è spinto al Centro magico.   Il percorso da lui seguito, rileva Valento, è di fatto trascritto nelle opere pittoriche e poetiche che, nel libro, vengono analizzate fin nei dettagli.

  • Riberi

  • MATRIX  e  il   MITO
  • Il risveglio di NEO
  • Un saggio di Paolo Riberi
  • di
  • Giovanni Sessa

  • Eliade ha insegnato che il mito è la sostanza della vita e che, proprio per questo, anche nell’epoca attuale che sembra aver rimosso tale sapere tradizionale, in realtà non può essere espulso dalla realtà e dall’immaginario umano. Viviamo nel mito e di miti. Lo mostra un recente saggio di Paolo Riberi, Il risveglio di Neo. Mitologia, gnosi, massoneria e metaverso da “The Matrix” a “Resurrections” edito da Lindau (pp. 221, euro 19,00).  L’autore, studioso di filologia e letterature dell’antichità, è membro della Società italiana di Storia delle religioni e, in suoi lavori precedenti, si è occupato, tra le altre cose, di gnosticismo.   Il libro è interessante proprio perché mostra, con persuasività argomentativa e notevole documentazione, come retaggi mitici siano presenti nella produzione cinematografica contemporanea, intrattenendosi, in particolare, su pellicole quali Matrix (1999) e sulle sue successive trasformazioni, vale a dire The Matrix Reloaded  e  The Matrix Revolutions (2003).
  • ...
  • Il mito altro non sarebbe, a dire dell’autore: «che un’elaborazione fiabesco-narrativa delle cosiddette “fasi di passaggio” […] Si tratta di autentici momenti di svolta, che l’individuo deve necessariamente attraversare per realizzare appieno il passaggio dall’incoscienza infantile all’età adulta» (p. 17), mirando alla liberazione.  Alla base dei miti c’è sempre: «un percorso circolare compiuto da un protagonista, articolato in tre momenti […]: la separazione, l’iniziazione […] e il ritorno» (p. 18).  Joseph Campbell, riferimento fondamentale di Riberi in questo ambito, riteneva che, alla luce di tale struttura, fosse possibile riferirsi a un “mono-mito” primigenio:  il “viaggio dell’eroe”.   Tale iter torna a mostrarsi con evidenza in Matrix e nelle pellicole succedanee della stessa serie.
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  • MOSAICO FILOSOFI

  • LEGISLATURA  e  DUALISMO COSTITUZIONALE
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Qualche mese fa (21/12/2021) osservavo in un articolo che Costantino Mortati aveva elaborato il concetto (nella modernità dovuto principalmente a Lassalle) e coniato il termine di “costituzione materiale”. Il termine, secondo il giurista calabrese indicava «una raffigurazione della costituzione che colleghi strettamente in sé la società e lo stato, è da ribadire quanto si è detto sull’esigenza che la prima sia intesa come entità già in sé dotata di una propria struttura… e risulti sostenuta da un insieme di forze collettive che siano portatrici della divisione stessa e riescano a farla prevalere dando vita a rapporti di sopra e sotto–ordinazione, cioè ad un vero assetto fondamentale che si può chiamare “costituzione materiale” per distinguerla da quella cui si dà nome di “formale”».
  • ...
  • Nella repubblica i partiti del CLN che avevano elaborato il testo della Costituzione alle successive prime elezioni politiche del 18 aprile ’48 conseguivano oltre il 90% dei voti, espressi da circa il 90% degli elettori: ne conseguiva che almeno l’80% dei cittadini italiani aveva votato i partiti del CLN. Fino agli anni ’80 la situazione variava di poco: i partiti ciellenisti conseguivano all’incirca l’80%-85% dei voti espressi.
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  •  Shinto

  • Shintō e Zen
  • Un saggio di Antonio Medrano
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  •  
  • È nelle librerie, per i tipi delle Edizioni Arktos, un volume davvero rilevante, mirato a presentare al lettore italiano la visione del mondo che ha dato forma all’Impero del Sol Levante. Si tratta di un saggio di Antonio Medrano, studioso spagnolo vicino ai pensatori di Tradizione, purtroppo recentemente scomparso, Shintō e Zen. Le radici metafisiche del Giappone (per ordini: edizioniarktos@yahoo.it, pp. 312, euro 32,00). É libro lungamente pensato e voluto dall’autore. Questi, attratto dalla civiltà nipponica fin dalla giovinezza, al fine di entrare nelle vive cose del sapere tradizionale giapponese, si fece introdurre allo studio della lingua e della scrittura di quel popolo. Tale passione è trasfusa nelle pagine del libro, che ha avuto una gestazione pluridecennale e le cui tesi sono il frutto di copiose letture, tra le quali un ruolo di primo piano riveste l’esegesi dello Shintō di Frithjof Schuon, allievo di Guénon.
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  • De Turris

  • Sotto il segno di Urania
  • Gianfranco de Turris
  • e la storia dell’immaginario italiano
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • Gianfranco de Turris è considerato, non a torto, insigne conoscitore e scrittore di vaglia del genere fantastico. Egli, meglio e più di altri critici, ha contribuito alla valorizzazione del fantasy e della fantascienza in Italia. Lo conferma la sua ultima pubblicazione, una silloge di saggi da cui si evincono i tratti salienti di tali generi letterari, le loro origini storiche e la rilevanza del contributo italiano in tema. Ci riferiamo al volume, Sotto il segno di Urania. Per una storia dell’immaginario italiano, pubblicata da Oaks editrice, con prefazione di Luca Gallesi (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 233, euro 20,00). Il prefatore ricorda che sono passati: «...settant’anni dalla nascita del periodico “Urania” che […] rappresenta ufficialmente la “fantascienza” in Italia, e ne sono passati sessanta da quando Gianfranco de Turris ha cominciato ad occuparsi professionalmente di letteratura fantastica e fantascientifica» (p. 9).
  • ...
  • Merito inequivocabile dell’autore è aver rilevato, fin dai suoi primi scritti, che tale genere creativo trae origine dal mito e dal sapere custodito nelle fiabe. La letteratura popolare mise in atto, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, una rielaborazione originale di tali contenuti, fornendo al lettore una chiave di accesso alla realtà profonda della vita.   Il fantastico, pertanto, non è una forma letteraria “minore”, al contrario!   L’Italia, per di più, non fu affatto nazione chiusa alla visione del mondo di cui la letteratura fantastica era latrice, come un altro luogo comune esegetico ha fatto credere per troppo tempo. Fin dal Rinascimento, con l’Ariosto, la fantasia ebbe un ruolo rilevante nelle patrie lettere. Per non dire del Barocco e de Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile. Tale tendenza riemerse nella letteratura popolare della fine del secolo XIX, si manifestò, inoltre, negli autori della Scapigliatura ed è presente, in modo vigoroso, in Calvino, Buzzati, Morselli e Landolfi, solo per fare qualche nome tra i contemporanei.
  •    
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  • MOSAICO FILOSOFI

  •  Il  
  •   TERZO   
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Julien Freund sosteneva che il conflitto è una relazione sociale bipolare, la quale comporta l’assenza (la dissoluzione, l’estraneità) del terzo dal rapporto.           Utilizzando l’espressione del noto principio di logica, è caratterizzato dal terzo escluso.
  • Il terzo, scriveva il pensatore alsaziano riguardo alla polarità, la elimina in partenza, e poi la ritrova alla conclusione, senza contare che può infrangere la dualità conflittuale. Il terzo si manifesta così come la nozione correlativa, per contrasto, al conflitto.
  • ...
  • Il terzo, scriveva Freund, aderendo alla tesi di Simmel, è di tre tipi. Il primo è il terzo imparziale, che non ha interessi nel conflitto, onde è il decisore/intermediario ideale per conciliare i contendenti a far cessare il conflitto. Deve avere autorità e in genere un certo potere per orientare la decisione delle parti in conflitto.
  • ...
  • Il secondo tipo è “il terzo ladrone” (larron). Non è implicato nella guerra, ma ne trae benefici per se stesso. Tra i tanti sotto-tipi in cui può suddividersi tale tipo-genere, i più frequenti sono: poter perseguire il proprio tornaconto, contando sulla distrazione dei contendenti o, in altri casi, fare affari con i contendenti (o con uno di essi).
  • ...
  • Il terzo tipo è quello del terzo che divide et impera. In questa sotto-classe il terzo non è né il decisore né il profittatore del conflitto: ne è talvolta colui che lo suscita, ma per lo più chi lo mantiene ed alimenta. Del quale tipo è ricolma la storia. Tanto per fare un esempio la politica di Richelieu nella guerra dei trent’anni, prima dell’intervento francese, in soccorso dei protestanti. O, per la politica interna, quella degli Asburgo verso i popoli nell’impero austro-ungherese.
  • ...
  • Nella guerra russo-ucraina chi – e di che tipo – può essere il terzo? Il decisore, il profittatore, il suscitatore?   Quanto al profittatore, ce n’è tanti e, per lo più privati, che è superfluo parlarne. Anche perché la posizione del terzo larron, è conseguenza – prevalentemente – di decisioni altrui e non proprie.  Pertanto ha poche possibilità sia di suscitare che di far cessare la lotta.  Neppure si vede un terzo che abbia i connotati del primo tipo: non c’è nessuno che sommi in se neutralità (nel senso prima specificato), autorità e potere. Gli USA sono i protettori dell’Ucraina, come Richelieu lo era dei principi protestanti, e hanno ampiamente aiutato una delle parti e preso misure contro l’altra; l’U.E. non ha l’autorità, né il potere, e neppure è neutrale, anche se ha tutto l’interesse a far cessare il conflitto.  La Cina ha tenuto un comportamento relativamente equidistante tra i contendenti ed  è sotto questo aspetto, idonea; ma è dubbio se abbia il potere e ancor più il tasso minimo di autorità presso i contendenti.   Il Vaticano si è saggiamente mantenuto in equilibrio tra le parti; ma anche se – credo – ha una certa autorità, ha pochissimo – o nessun – potere. Intendendo qui come “potere” l’impiego di incentivi alla pace o disincentivi alla guerra.
  • ...
  • Di converso appare più chiaramente percepibile la presenza di terzi “suscitatori”. Forniture di armi e sanzioni possono disincentivare l’aggressore, ma sicuramente prolungano la guerra e probabilmente la intensificano.  Sempre tornando a Richelieu, la guerra dei trent’anni ebbe tale durata proprio grazie al denaro che il cardinale dava in abbondanza alla parte più debole, ossia ai protestanti. Per farla cessare fu necessario, tuttavia, l’intervento militare della Francia, con relativo abbandono del ruolo di terzo.
  • ...
  • Nel conflitto russo-ucraino i “terzi” abbondano, ma dei tipi “polemogeni”; mancano, allo stato, quelli del primo tipo.  A meno che uno dei belligeranti non si riconosca sconfitto o ambedue trovino un’intesa pacifica (ipotesi che appare ancor più difficile), la durata appare rimessa alla volontà delle stesse.   E la durata anche.


 

  • MOSAICO FILOSOFI

  • QUALCHE NOTA SULLE ELEZIONI
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Sull’esito elettorale più scontato, previsto e prevedibile della storia della Repubblica italiana (prima e seconda) occorre fare qualche considerazione, selezionandole tra le meno frequentate dai giornali di regime.   La prima è che, come capita da oltre 5 anni, la larga maggioranza dei votanti, si è orientata verso partiti anti-establishment. Dalle politiche del 2018 (ma in effetti dalle ultime amministrative ad esse precedenti) la somma dei voti conseguito da M5S, Lega, FDL e partitini popul-sovranisti è largamente superiore al 50%.    Da ultimo abbiamo avuto il 26% a FDI, il 16% al M5S, il 9% alla Lega, più circa il 4% ad Italexit, Italia sovrana e popolare, ecc. ecc., cioè sommando il 55%. Che è, decimale più o meno, quanto conseguivano gli stessi sia alle politiche 2018 che alle europee 2019. Una robusta maggioranza anti-establishment che ha acquisito stabilità. Si potrebbe replicare che è una maggioranza frazionata in più soggetti politici e quindi priva di compattezza.
  • ...
  • Sicuramente in tale obiezione c’è del vero, ma a patto di considerare anche come da un lato, lo scambio dei voti tra partiti è stato soprattutto all’interno dello “schieramento”: per cui i voti persi dal M5S alle politiche 2018 sono passati (circa la metà) alle europee 2019, a favore quasi totale della Lega e FDI, del pari tali voti sono transitati alle politiche 2022 dalla Lega a FDI. A parte comunque qualche decimale restituito, alla differente distribuzione tra i partiti corrisponde una scarsa permeabilità tra gli schieramenti (filo establishment/anti-establishment). Di voti ritornati dal M5S al PD o dalla Lega a FI ce ne sono stati, dai risultati, assai pochi, una frazione minima di quelli transitati all’ “interno”. Ad essere esaurienti anche lo schieramento filo-establishment ha avuto un andamento analogo: lo scambio è quasi tutto avvenuto al proprio interno, peraltro per cifre percentuali meno imponenti che in quello maggioritario.
  • ...
  • Qualche anno fa mi capitò di scrivere come la situazione ricordava la tesi di Gramsci del “blocco storico” che il pensatore sardo vedeva realizzato dalla convergenza (rivoluzionaria) di operai del nord e contadini del sud, ripetuta oggi, nel XXI secolo, dall’alleanza tra ceti medi (prevalentemente rappresentati dalla Lega) e strati popolari (M5S), tutti consapevoli che la deriva economica infausta della seconda Repubblica li stava impoverendo (in economia) ed emarginando (in politica). Da cui la necessità di pensionare/privatizzare la vecchia classe dirigente (il momento del “vaffa”), connotata (negativamente) dall’idoneità, confermata in circa 20 anni, di tenere l’Italia ferma al più modesto (sotto)sviluppo d’Europa, di cui lo stivale è l’ultima ruota (dopo esserne stata per tanti anni – precedenti la “seconda Repubblica” – uno dei motori).
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  • mondo magico heroi ods provv 3cbef97acdbb983f9e0a41d7579bc286

  • Il Mondo magico degli Heroi
  • Un trattato ermetico di
  • Cesare Della Riviera
  • commentato da Evola
  • di
  • Giovanni Sessa
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  • Julius Evola non si è limitato a scrivere delle opere al fine di trasmettere il proprio pensiero, è stato un promotore culturale di primissimo livello, attento a presentare lavori di autori considerati “minori” dal senso comune a lui contemporaneo. All’inizio degli anni Trenta, intento al lavoro di stesura di uno dei suoi libri più importanti, La tradizione ermetica, si confrontò con uno scritto di Cesare Della Riviera, Il Mondo magico degli Heroi, chiarissima espressione della via realizzativa “solare”. Fulminato dalla lettura, si prodigò perché questo testo venisse pubblicato nuovamente nella sua seconda edizione del 1605 (la prima era uscita nel 1603). Il libro uscì nel 1932. Questo capolavoro della letteratura ermetica è ora nuovamente disponibile, grazie alla cura di Sebastiano Fusco, nella collana “Orizzonti dello Spirito” delle Edizioni Mediterranee (per ordini: 06/3235433, ordinipv@edizionimediterrannee.net, pp. 272, euro 27,00).
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MOSAICO FILOSOFI

 


DEMOCRAZIE  LIBERALI,   "ILLIBERALI”   E IN VIA DI IMPLOSIONE

di

Teodoro Klitsche de la Grange


  • È un classico del pensiero politico liberale il discorso di Benjamin Constant su “La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni” dove il pensatore svizzero distingueva i due generi di libertà “le cui differenze sono passate sino ad ora inosservate, o per lo meno non sono state rimarcate a sufficienza. La prima libertà è quella il cui esercizio era così sentito presso i popoli antichi; l’altra è quella il cui godimento viene considerato particolarmente prezioso all’interno delle nazioni moderne”. La prima “libertà” “consisteva nell’esercizio, in maniera collettiva ma diretta, di molteplici funzioni della sovranità presa nella sua interezza, funzioni quali la deliberazione sulla pubblica piazza della guerra e della pace” ed aveva il grave difetto che gli antichi “ammettevano come compatibile con questa libertà collettiva l’assoggettamento completo dell’individuo all’autorità dell’insieme” di guisa che “In tal modo, presso gli antichi, l’individuo, praticamente sovrano negli affari pubblici, è schiavo all’interno dei rapporti privati”. Mentre “Tra i moderni, al contrario, l’individuo, indipendente nella vita privata, anche negli Stati più democratici non è sovrano che in apparenza” e nel mondo moderno “la libertà è il diritto di essere sottoposti soltanto alla legge, il diritto di non essere arrestati, detenuti, condannati a morte, maltrattati in alcuna maniera, per effetto della volontà arbitraria di uno o più individui”, di esprimere il proprio pensiero, scegliere la propria occupazione, disporre dei propri beni, di andare dove si vuole, di culto religioso (e così via). Ed è anche il diritto “di influire sull’amministrazione del governo, sia nominando per intero o in parte certi funzionari, sia attraverso rappresentanze, petizioni, domande”.
  • Tale distinzione ha influito sul pensiero politico e giuridico moderno, tra gli altri su quello di I. Berlin e Carl Schmitt.
  • È interessante riprendere tale concezione in ispecie quando si riaccende il dibattito sullo “Stato di diritto” made UE e la concezione di Orban sulla “democrazia illiberale”; che tanto scandalizza la stampa mainstream. È vero che senza un certo rispetto di principi di libertà, lo stesso formarsi della volontà pubblica negli organi di governo viene ad essere falsata, se non in tutto, almeno in parte. Ma è anche vero che se poi questa una volta espressa ha un chiaro senso, ma viene corretta in senso contrario, come capitato in Italia nell’ultimo decennio (se non prima), è la democrazia ad essere mistificata. Prendersela con Orban perché controllerebbe buona parte della stampa e della televisione ungherese, avrebbe la mano pesante con gli immigrati e così via, può avere qualche ragione; resta il fatto che, con le elezioni della passata primavera, Orban ha ottenuto per la quarta volta la maggioranza. In quest’ultima, assoluta.
  • Scrivo questo perché Constant, pur avendo evidenziato la distinzione tra le due “libertà” e come potessero, in certi casi, contrapporsi (in particolare durante la Rivoluzione e la dittatura giacobina) non ebbe un concetto negativo della Rivoluzione, definendola provvida “malgrado i suoi eccessi perché guardo ai risultati”, ancor più trovava il punto di mediazione tra le due libertà nel governo rappresentativo.
  • Proprio per permettere ai cittadini di dedicarsi alle attività private, occorreva che avessero il diritto di delegare quelle pubbliche. Cioè il sistema rappresentativo. Il quale “altro non è che un’organizzazione per mezzo della quale una nazione scarica su alcuni individui ciò che non può e non vuole fare da se”. Ma il pericolo che incombe, secondo Constant “è che, assorbiti dal piacere della nostra indipendenza privata e dall’inseguimento dei nostri interessi particolari, noi rinunciamo troppo facilmente al nostro diritto di partecipare al potere politico”. Per cui occorreva che fosse garantito dalle istituzioni il diritto dei “cittadini a concorrere con le loro decisioni e i loro suffragi all’esercizio del potere; esse devono garantire loro un diritto di controllo e di sorveglianza con la manifestazione delle loro opinioni”.
  • Qual è la conclusione che si può ricavare da queste considerazioni del pensatore svizzero nell’attuale situazione italiana? Se è vero quanto dicono i sondaggi che, malgrado la crisi degli ultimi due anni, gli astensionisti domenica prossima saranno circa il 40% degli elettori, significa che la democrazia italiana non è né liberale né illiberale: semplicemente è in via di estinzione. Votare sarà pure un diritto, ma inutile: tanto poi le decisioni vengono prese altrove. È questo a costituire la maggiore preoccupazione per la tenuta del “sistema rappresentativo” (come, mutatis mutandis di ogni regime politico) assai più del “tasso di Stato di diritto”. Perché anche gli Stati di diritto possono finire per inedia, come il comunismo è cessato per implosione.

  • GUERRA  ed  ASCESA  agli  ESTREMI   
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange

 

  • Non è confortante la decisione di Putin di mobilitare una parte dei riservisti russi.  Contrariamente alla previsione dei media mainstream che le sanzioni avrebbero piegato l’aggressore, il quale era anche una “tigre di carta”, la tigre ha deciso di usare ambedue le zampe per combattere. Spinto a ciò dalla resistenza ucraina, superiore (e più determinata) del previsto, al punto di sviluppare delle controffensive locali che hanno avuto - negli ultimi tempi - successo. Data la limitatezza delle forze russe già messe in campo, la decisione - tenuto conto della perdurante volontà russa di perseguire l’obiettivo politico - è stata quella logica: aumentarle. Anche perché se le sanzioni riuscissero a piegare la Russia come asserito dai giornaloni, nessuno si azzarda ad aggiungere quando. E se si procrastina a qualche anno l’effetto delle stesse, Putin avrà tutto il tempo per occupare l’Ucraina (ma sembra non volerlo - e giustamente); dopo di che le sanzioni farebbero probabilmente la stessa fine di quelle degli anni ’30 all’Italia: essere revocate.
  • ...
  • Quel che più interessa (e preoccupa) di tali previsioni à la carte è d’esser contrarie alla logica della guerra, per cui era prevedibile che il prosieguo delle ostilità (anche) con la comminatoria delle sanzioni, avrebbero attizzato e non spento il conflitto.   L’aveva previsto due secoli fa Clausewitz, formulando quale “legge” della guerra l’ascesa agli estremi, ossia la tendenza del conflitto ad aumentare d’intensità. La guerra, scriveva il generale, è un atto di violenza e non c’è limite alla manifestazione di tale violenza. Ciascuno dei contendenti detta legge all’altro, da cui risulta un’azione reciproca che, nel concetto, deve logicamente arrivare agli estremi. Ossia una guerra logicamente tende a divenire assoluta, cioè senza limiti né di spazio né soprattutto di condotta. L’osservanza delle regole è subordinata al conseguimento della vittoria. Le restrizioni, come il diritto internazionale “...non hanno capacità di affievolirne essenzialmente l’energia”.  Questo della guerra assoluta tuttavia è, secondo la terminologia weberiana un “tipo ideale”. Nelle guerre concrete “...le probabilità della vita reale si sostituiscono alla tendenza all’estremo” per cui la condotta della guerra si sottrae (in parte) alla legge dell’ascensione agli estremi”.   Questo effetto moderatore della realtà, di cui scriveva Clausewitz, funziona; tuttavia può essere controbilanciato dal caricare di significati ideologici, religiosi, e quanto altro il conflitto, ed in particolare il nemico dipinto come criminale, pazzo, avido; onde la guerra diventa un atto di giustizia, volta a castigare un delinquente.
  • ...
  • Mentre il fine della guerra “razionale”, come già scriveva S. Agostino, è la pace “...la pace è il fine della guerra, poiché tutti gli uomini, anche combattendo cercano la pace… Perfino coloro che vogliono turbare la pace in cui si trovano… Non vogliono dunque che non vi sia la pace, ma vogliono la pace che vogliono loro”; presupposto della pace è trattare con il nemico, e quindi il di esso riconoscimento come justus hostis. La guerra dei giornaloni (e di parecchi politici) realizza proprio l’effetto contrario all’avvio di negoziati di pace.   A quanto sopra si può opporre che le misure prese dalle potenze occidentali, sia le sanzioni che le forniture militari a sostegno dell’Ucraina possono favorire nel segno della “guerra reale” lo squilibrio di forze tra i belligeranti e così favorire i negoziati.   Questi costituiscono (gran parte) degli strumenti di cui la politica può servirsi per smorzare le guerre. E il “fattore” di ri-equilibrio è sicuramente da valutare come mezzo per favorire i negoziati. Ma hanno altresì il difetto di procrastinare (al limite evitare) la conclusione della guerra per debellatio della parte più debole.
  • ...
  • Questo se non ci sia da una parte e dall’altra la volontà di voler porre termine alla stessa.  Perché come scriveva il generale prussiano (e non solo) fare la guerra si fonda sulla volontà dei contendenti, quella dell’aggressore di realizzare una pace diversa, e quella dell’aggredito nel conservare l’ordine preesistente.  Lo squilibrio dei mezzi, la stessa occupazione totale del territorio dell’aggredito spesso non ne comportano la cessazione, come provano le guerre partigiane.  E accanto, occorrerebbe un terzo che favorisse la pace, essendo credibile, autorevole ed equidistante; il quale nella specie, manca.      Ma questa è un’altra storia.


 

  • MOSAICO FILOSOFI

  • VOTARE  DA  "GRANDI"
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Tutti dicono di aver indovinato l’esito delle elezioni politiche: ed in effetti è altamente probabile che saranno vinte (taluno sostiene stravinte) dal centrodestra. Di per sé nulla di strano: dopo il decennio (abbondante) passato, avrebbe sorpreso il contrario.   Interessa notare come, in particolare nella comunicazione dei messaggi il duo Meloni-Salvini (un po’ distanziato Berlusconi) abbiano per così dire innovato i parametri, non solo i contenuti.
  • ...
  • Spieghiamo un po’: tutti i partiti si differenziano per “contenuti”; chi vuole più libertà, chi più uguaglianza; chi più Europa, chi meno; chi più assistenza, chi meno spesa.  Tuttavia nel messaggio dei due leaders del centrodestra (la Meloni è ancor più esplicita) cambia, in ispecie rispetto al centrosinistra il parametro delle scelte proposte e, più in generale, dell’azione futura di governo: per i primi è l’interesse degli italiani, per gli altri (cosa consueta) la bontà delle scelte. Intendendo come “bontà” la corrispondenza a norme etiche e, in certa misura, anche giuridiche.
  • ...
  • L’interesse nazionale e la “bontà” appartengono entrambi all’idea di Stato – e più in generale – di sintesi politica. Come non c’è Stato che non abbia l’idea direttiva e la finalità di proteggere la comunità, così ha anche quello di realizzare certi valori etici e anche giuridici.   Da sempre, ma ancor più negli ultimi trent’anni, ha prevalso decisamente il richiamo a messaggi di elevato contenuto morale, a cui corrispondeva (e ad hoc) l’evidenziazione della deteriore caratura morale dell’avversario politico. La demonizzazione di Berlusconi (ma non solo) è stata emblematica. Che ha contribuito molto alla detronizzazione del Cavaliere ed alla intronizzazione di governi che degli interessi degli italiani se ne sono poco curati. Come è provato dai risultati.  Invece nella comunicazione del centro-destra l’accento non è tanto sull’appetibilità del programma (ovvio), quanto sul conseguimento di risultati positivi per l’interesse nazionale. Di per se questo è un ribaltamento, ma anche un segnale (se, come probabile, condiviso dalla maggioranza degli elettori) di maturazione politica; mentre l’inverso è sintomo d’ingenuità e, dato il contesto, di decadenza politica e culturale.
  • ...
  • Il primo valuta in base a fatti e risultati: da Machiavelli (il XV capitolo del Principe) il realismo ha contrapposto alle “immaginazioni” la realtà dell’analisi dei fatti valutati razionalmente e in base ai risultati ottenuti. Mentre per il non-realista il problema è come conformare la realtà alla propria immaginazione. Hegel scriveva che tale metodo fa la testa gonfia di vento (cioè, diremmo oggi, di aria fritta).   E che non si tratti solo di vento, cioè di dabbenaggine ma di astuzia è dubbio costante: come scrive Machiavelli, prendendo ad esempio Alessandro IV, che il Principe non deve mantenere le promesse “...quando tale observazione gli torni contro e che sono spente le coazioni che le fecero permettere”, anche perché non mancano mai le giustificazioni per farlo: lo vuole l’Europa, c’è uno spread in arrivo, dobbiamo aiutare l’Ucraina, ecc. ecc. E dati i precedenti in tal senso, aspettatevi che i piddini lo ripetano.    La conseguenza di ciò è che nel pensiero politico realista chi si conforma all’“immaginario” è un ingenuo; come Pier Soderini che nell’epigramma di Machiavelli Minosse manda al “limbo con gli altri bambini”.   O Messer Nicia che collaborando, tutto contento, alla propria cornificazione “...Quanto felice sia esser vede, chi è sciocco ed ogni cosa crede”.    E Max Weber che considerava chi lo fa un bambino.
  • ...
  • Per cui cambiare il parametro o almeno dar più valore ai fatti che alle aspirazioni, ai risultati più che alle intenzioni, significa maturare politicamente da bambino ad adulto. E se tale criterio si consoliderà, farà bene anche al centrosinistra stimolato a conseguire risultati e non a elaborare fantasie.
  • ...
  • Perché in politica chi non fa l’interesse della comunità non è che fa del bene. Realizza un altro interesse: quello degli altri.


  • George

  • Il Manifesto di
  • Stefan George
  •  Contro la “barbarie illuminata a gas”
  •  rec.   di
  • Giovanni Sessa
  •  
  • Stefan George, il Vate, il Meister. Un titano in lotta contro il proprio tempo, contro la modernità, contro l’ascesa delle plebi. Cantore del sacro e latore, con la propria opera, del tentativo inane e inattuale, dati i tempi ultimi nei quali ebbe la ventura di vivere, di risacralizzare il dire poetico e, con esso, il mondo. Queste assertive definizioni, trovano conferma in una recente pubblicazione. Ci riferiamo a Stefan George, Manifesto (1912), volume comparso, con testo tedesco a fronte, nel catalogo delle edizioni Ar, per la cura di Umberto Colla, al quale si deve l’illuminate saggio conclusivo, Contro la “barbarie illuminata a gas” (pp. 70, euro 15,00). In realtà, il testo in questione apparve in origine quale “introduzione dei curatori” al terzo e ultimo numero (1912) della rivista annuale del Kreis. La paternità georgeana del pezzo, la si evince, oltre che dai contenuti, dallo stile limpidissimo pur nella ridondanza espressiva, ed è stata rivelata da Hildebrant, insigne discepolo “platonico” del Meister.  Questi riferisce che George gli aveva confessato di essere alla ricerca di un avvocato, che avrebbe dovuto difenderlo da possibili accuse relative a un articolo che andava scrivendo, centrato su una critica radicale del moderno: l’introduzione, appunto, all’ultimo numero dello Jahrbuch für die geistige Bewegung.
  •  ...
  • Si trattava di un testo articolato in più punti, il che spiega la corretta scelta editoriale di titolarlo Manifesto. Peraltro, esso fu scritto dal Vate, in un periodo in cui la cultura europea era scossa dai manifesti delle avanguardie (nel 1909 era uscito il Manifesto del futurismo). Il tratto davvero rilevante e qualificante lo scritto di George, è di essere una invettiva antimoderna, le cui tesi sono sostenute da una prosa sferzante, a momenti lirica e da un piglio esegetico atto a individuare gli snodi critici delle “sorti progressive” cui andava incontro l’umanità. George mette, innanzitutto, in discussione l’idea di sviluppo lineare della storia, opponendo a essa: «che riteniamo una grave e diffusa malattia universale dello spirito, la visione ciclica, oggi dimenticata» (p. 11). In secondo luogo, il poeta coglie come le certezze della società progressiva, galleggiassero su un diffuso sentimento d’insicurezza: «neppure allo sguardo più offuscato può sfuggire la tristezza generale, che si propaga a dispetto di tutti i miglioramenti esteriori» (p. 11). La scienza moderna non concede al singolo effettivo potere sul reale e se applicata allo studio del mondo classico, mira a depotenziarlo, per cui: «se il grecista dalla sua onnivora conoscenza dei dati fattuali non è indotto ad altro che a ridurre a poche formule giornalistiche il mondo antico […] allora abbiamo il diritto non soltanto di disprezzare questa scienza, ma di combatterla» (p. 15).
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  • MOSAICO FILOSOFI

  • VINCOLO ESTERNO E STRABISMO ECONOMICISTA
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  1. Da almeno un trentennio si parla di vincolo esterno, della necessità del medesimo al fine di assicurare comportamenti economicamente virtuosi della classe dirigente, soprattutto di quella politica. Le c.d. “cessioni di sovranità” a istituzioni sovranazionali, soprattutto quelle europee sono state gli strumenti per favorirli.
  2. In effetti a giudicare il tutto dei risultati, quelli seguenti al c.d. “vincolo esterno” (e cioè soprattutto Maastricht e il “seguito”) sono stati tra i peggiori della storia d’Europa e soprattutto italiana. A fronte di una crescita economica nazionale che nei primi trent’anni del dopoguerra fu tra le migliori del pianeta, ridimensionata dopo la crisi petrolifera degli anni ’70, ma comunque rimasta tra le “mediane” della comunità europea, proprio a partire dagli anni ’90, si è ridotta prima, per poi passare da tracolli (nelle crisi del 2008 e del 2020) del PIL ad incrementi millimetrici, spesso spacciati dalla stampa di regime come grandi successi. Ad attribuire l’intera “responsabilità” da questi risultati al vincolo esterno, si può dire soltanto che è stato un pessimo affare. Né si può replicare, che senza il “vincolo esterno” sarebbe andata peggio: come sarebbe andata nessuno lo sa, perché non è accaduto: e quindi paragonare risultati ad ipotesi immaginarie è un altro dei modi per non applicare l’aureo consiglio di Machiavelli nel XV capitolo del “Principe”.
  • Piuttosto è interessante notare perché il “vincolo esterno” non potesse funzionare – se non in modo limitato e quindi secondario – e pertanto sia stato – in larga parte – un’illusione.
  • Occorre in primo luogo intendere come è stato definito il “vincolo esterno”, e cioè il condizionamento virtuoso che avrebbe dovuto ridimensionare le pratiche viziose della classe politica nazionale. La quale era considerata poco incline alle politiche (sostanzialmente) liberali, prevalenti nei paesi occidentali e sostanzialmente vincolanti per l’Italia sia a causa della sudditanza agli U.S.A. (compresi gli accordi di Bretton Woods) sia dell’adesione al processo di costruzione europea. Tali condizioni hanno indubbiamente costituito, in misura probabilmente maggioritaria, la ragione dello straordinario sviluppo del dopoguerra. Del pari è noto che i partiti ciellenisti, tranne PLI o PRI, non avevano una cultura politica prevalentemente liberista. E gran parte del padronato italiano era avvezzo al protezionismo più che alla concorrenza[1].
  • Negli auspici dei sostenitori il vincolo (o meglio i vincoli) esterno futuro avrebbe dovuto ripetere (o non sfigurare) col “miracolo” passato. Esito non conseguito.
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  • MOSAICO FILOSOFI

  • QUATTRO  REGOLE  PER  VOTARE 
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange

 

  • Imperversano campagna e programmi elettorali. In particolare a sinistra, oltre alla consueta demonizzazione del nemico, titolo che attualmente compete alla Meloni, e alla ripetizione ossessiva del solito armamentario propagandistico, vi si leggono tanti buoni propositi, che comunque non mancano negli altri. Tutti i programmi essendo ricolmi di buone intenzioni diventano perciò altamente condivisibili. Che è poi la loro funzione: acchiappare voti il 25 settembre. Per meglio valutarli (e votare) ricordiamo all’uopo qualche regola realistica.
  • ...
  • Prima di tutto, giudicare sulla base di quanto partiti e candidati hanno fatto (in passato) e non a quanto dicono di voler realizzare in futuro. Fare è spesso ostico e complicato, promettere facile. Già lo sapeva Dante il quale mette in bocca a Guido da Montefeltro come si fa: “lunga promessa con l’attender corto ti farà trionfar ne l’alto seggio”, Seggio cui i candidati aspirano (che non è quello papale, ma comunque appetito ed appetibile).
  • Ad esempio ad urne aperte (o quasi) i partiti, soprattutto di centro-sinistra (e sindacati) hanno scoperto… l’acqua calda. E cioè che da circa trent’anni le retribuzioni italiane calano, di guisa da aver perso diversi punti percentuali. C’è da chiedersi perché l’abbiano scoperto solo in apertura (o in prossimità) di campagna elettorale, dopo circa trent’anni di stasi retributiva: chiunque, anche un diversamente intelligente, se ne sarebbe accorto prima. Oltretutto se ciò non sia per caso in relazione col nostro PIL da un trentennio stazionario (e altro). Ma soprattutto cosa abbiano fatto in questo periodo i governanti – avendo il centro sinistra governato o fiduciato esecutivi amici per circa vent’anni – per invertire la tendenza. A poco serve “rimediare” ora, se non a far passerella per le elezioni, dopo un’inerzia durata un trentennio (o poco meno).
  • A dipingere rosei futuri, a rivelare di avere le chiavi del paradiso è capace qualsiasi Dulcamara, magari supportato da tecnici, la cui “tecnicità” è convalidata dal superamento di dubbi concorsi. Giudicare dalle opere è la conseguenza del consiglio di Machiavelli di agire e progettare in base ai fatti e non all’immaginazione; ai risultati e non alle intenzioni. Consiglio fondante non solo della scienza politica moderna, ma ancor più della prudenza politica pratica.
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  • Secondariamente e quale diretta conseguenza: che credibilità ha chi consiglia o propone bene, dopo aver operato male? Poco o nulla, così da incidere sul quantum minimo di autorità che la classe dirigente (uomo, ceto, partito) necessariamente deve avere sui governati.
  • Dopo trent’anni (o quasi) di stasi italiana, con la crescita del PIL peggiore sia nell’ambito UE che dell’area euro (e salvo altro) pensare che partiti e coalizioni i quali hanno diretto l’Italia – peraltro spesso senza aver ottenuto la maggioranza alle elezioni, anzi malgrado le sconfitte elettorali – abbiano la credibilità e l’autorità minima per governare è un atto di fede. Ancor di più è confidare che gli italiani siano tutti diversamente intelligenti. A proposito occorre ricordare che se il pregio dell’autorità è ottenere l’obbedienza dei sudditi anche per misure e necessità estreme (ricordate il “lacrime e sangue” di Churchill?) l’inverso comporta che a un governo privo o carente di autorità (e credibilità) finiscono per essere rifiutati dai governati anche provvedimenti condivisibili presi in situazioni meno drammatiche (v. Covid).
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  • In terzo luogo occorre ricordare che la politica è attività che ha più a che fare con l’utilità che con la bontà. I popoli (come gli individui) sono più propensi a essere governati da chi assicura il benessere generale che da coloro che propongono obiettivi eticamente condivisi. Chi governa non è un sant’uomo (e può non esserlo). In fondo la definizione più moderna di bene comune è di Bentham: il più alto grado di felicità per il maggior numero possibile di persone. Ma ci sono programmi di partiti più orientati a soddisfare (direttamente ed esplicitamente, ma per lo più indirettamente) delle minoranze – talvolta di scarsa rilevanza numerica, in nome di bontà, solidarietà, ecc. ecc. - che perseguire l’utilità di tutti. La cattivissima Meloni che indica come proprio obiettivo di perseguire l’interesse generale degli italiani, non fa – mutatis mutandis – che affermare l’inverso. Ciò è poi il compito che la dottrina politica moderna (realistica soprattutto) assegna ai “buoni” governanti.
  • Non vi lamentate quindi se dopo le elezioni scoprite che il governo ha ridotto il PIL ma, in ossequio alle promesse fatte, ha favorito l’eutanasia e i matrimoni omosessuali, il reddito di cittadinanza ai migranti da poco sbarcati, ecc. ecc. Tutte promesse fatte e che, se consentite nelle urne, andavano soddisfatte. Gli è che la politica è, come riteneva Croce, pertinente alla categoria dell’utile, più che al “bene”. Così che la concreta esistenza viene prima dell’essere morale: “prima vivere e poi filosofare, prima essere e poi essere morale”.
  • Il quarto consiglio (dei più che occorrerebbero) è non far caso alle demonizzazioni dell’avversario; ancor più laddove gli anatemi hanno ad oggetto vizi e mancanze private e non pubbliche. In generale è “naturale” che l’avversario politico sia dipinto male, con improperi, sfondoni, calunnie, esorcismi, ecc. ecc. Aristofane ne dà un esilarante rappresentazione (venticinque secoli fa) nello scontro oratorio tra conciapelli e salsicciaio nei “Cavalieri”. E la sostanza è ancora la stessa. Quando oggetto di tanto fervore accusatorio sono le tendenze sessuali o comunque private dell’avversario, come per lo più è, allora diventa poco o punto rilevante. Perché il fatto che il nemico sia un omosessuale o un donnaiolo riguarda fatti suoi privati e non pubblici. Rassicuratevi quindi: se si fa ricorso a tali argomenti vuol dire che non ne trovano altri; è un motivo per votare il “nemico” e non per non farlo. Cesare era sia donnaiolo (v. Cleopatra) che omosessuale (il Re di Bitinia): ciò non toglie che da millenni il suo nome designa, in tante lingue, la massima autorità. Segno che nessuno ha mai dato peso ai suoi “vizi” privati.

 

  • Donà FILOSOFIA DELLA CARTA

  • FILOSOFIA DELLA CARTA
  • Natura metamorfoni e ibridazioni
  • MASSIMO DONA'
  • rec.  di
  • Giovanni  Sessa
  • La filosofia in ogni epoca ha rappresentato il contraltare del senso comune. Un sapere, quello filosofico, quando è effettivamente tale, che contrasta ciò che del reale appare nella sua immediatezza empirica, la “positività” delle cose. Tale aspetto connota di sé il pensiero di uno dei più “originali”, nel senso che il suo pensare è rivolto all’“origine”, filosofi contemporanei, Massimo Donà. Tale asserto è esemplarmente testimoniato dall’ultima fatica del pensatore veneziano, Filosofia della carta. Natura, metamorfosi e ibridazioni, comparso nel catalogo di Baldini+Castoldi, con prefazione di Carlo Petrini (per ordini: info@baldinicastoldi.it, pp. 232, euro 18,00). Con questo nuovo studio, Donà dà tratto materico, elementale alla sua ricerca, in sequela con altri suoi testi dedicati all’acqua e alla natura. L’incipit del volume presenta una breve storia della carta, che muove dalla “leggenda” di Ts’ai Lun, un notabile cinese che notò come, sulla superficie d’acqua di un lavatoio, le fibrille liberate dai panni in forza dell’azione delle lavandaie: «andavano a formare un vero e proprio tessuto» (p. 20), che essiccato sarebbe diventato il primo foglio di carta.
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  • Iacona


  • Evola e il giusnaturalismo

  • rec. di

  • Giovanni Sessa


     

  • Evola ha svolto un ruolo di primo piano nella pubblicistica, giornalistica e dottrinaria, del secondo dopoguerra in Italia. Il pensatore romano fu punto di riferimento per quei giovani che, a guerra conclusa, non avevano intenzione di arrendersi ai valori e agli uomini del nuovo regime.   Momento centrale dell’azione culturale promossa dal tradizionalista per correggere i riferimenti teorici spuri dell’ambiente neo-fascista, è da rintracciarsi nella pubblicazione dell’opera, Gli uomini e le rovine. A ricostruirne la genesi, i contenuti, gli obiettivi politici e culturali dell’autore è Marco Iacona nella sua ultima fatica, Contro il giusnaturalismo moderno. Evola, lo Stato, gli uomini, le rovine, nelle librerie per Algra Editore (per ordini: algraeditore@gmail.com, pp. 83, euro 7,00). Il testo è arricchito dalla prefazione di Claudio Bonvecchio  Il libro di Evola uscì in prima edizione nel 1953, a ridosso del processo ai F.A.R. nel quale il filosofo era stato coinvolto ingiustamente. Il pensatore, nelle sue pagine, era animato dall’intenzione di esplicitare i prerequisiti teorici di una vera Destra, al fine di liberare i giovani che a lui guardavano come a un Maestro, dallo sterile nostalgismo, indirizzandoli ai valori della Tradizione. Come era avvenuto per l’opuscolo Orientamenti, anche per la stesura de Gli uomini e le rovine, l’intellettuale romano si avvalse dei contributi che, in quel frangente storico, aveva predisposto per l’“inchiostro dei vinti” e, rileva Iacona: «si può affermare, per eccesso di scrupolo, che le idee ivi espresse possano risalire al biennio 1949-50» (p. 13). Il libro era introdotto da uno scritto del principe Junio Valerio Borghese, comandante della X Mas. Evola assunse, pertanto, un ruolo teorico, Borghese, al contrario, di natura pratica. Avrebbe dovuto organizzare: «forze capaci di intervenire in caso di emergenza» (p. 15). La medesima strategia, in quegli anni, ricorda Evola ne Il cammino del cinabro, era stata adottata dai comunisti, ai quali era necessario rispondere con la loro stessa tattica.  L’élite tradizionale da un lato, quindi, dall’altro uomini preparati all’azione. Anni dopo, il tradizionalista riconobbe che: «Tutto questo progetto non ebbe seguito alcuno» (p. 17). Le Edizioni dell’Ascia per i cui tipi uscì il volume evoliano, avrebbero dovuto provvedere, su indicazione del pensatore, a pubblicare dodici testi mirati ad orientare quanti fossero rimasti “in piedi tra le rovine”. In realtà, di tale collana, uscirono solo due testi.
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  • von salomon

  • I Soldati perduti
  • di von Salomon
  • La Germania dei Corpi franchi
  • di
  • Giovanni Sessa
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  • Ernst von Salomon è stato uno degli uomini di maggior valore della componente nazional-rivoluzionaria, all’interno della rivoluzione conservatrice. Fu vicino, almeno per un certo periodo, alle tematiche del nazional-bolscevismo ma, a differenza del fratello Bruno, con il quale condivise parte del proprio iter teorico-politico, mai cadde nell’illusione di vivificare il comunismo, idea astratta e moderna, con lo spirito teutonico. Fu scrittore di vaglia. Lo mostrano opere quali, I proscritti, La città e I cadetti. A riprova dello straordinario valore letterario della sua produzione e del suo valore di partecipata testimonianza, relativa a uno dei periodi più drammatici della storia della Germania, vale a dire gli anni successivi al Primo conflitto mondiale, è da poco nelle librerie un suo volume, I soldati perduti, edito da Oaks per l’attenta cura di Antonio Chimisso (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 144, euro 15,00). Il libro, oltre allo scritto che dà il nome alla raccolta, comprende due racconti, L’assassinio e Senta e Visita a Ernst Jünger, cronaca della visita, a vent’anni dal loro ultimo incontro, fatta al grande scrittore e amico di una vita. Il testo è corredato da un ampio apparato fotografico, in cui von Salomon è ritratto in diversi momenti della sua esistenza.
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  • Junger

  • Le “figure” di Ernst Jünger
  • Lo scrittore tedesco e la tecnica
  • di
  • Giovanni Sessa
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  • Ernst Jünger è stato, per usare un’espressione che Giuseppe Prezzolini coniò per se stesso, un “figlio del secolo” ventesimo.  Lo è stato, non solo in termini anagrafici, ma quale attento sismografo degli sconvolgimenti esistenziali e spirituali dell’uomo europeo del secolo scorso. In particolare, il suo complesso iter teorico è profondamente segnato dall’esegesi della tecnica.  A ricordarlo, in un testo organico e persuasivo, è un giovane studioso, Michele Iozzino, nel volume, Ernst Jünger. Il volto della tecnica, nelle librerie per i tipi di Altaforte Edizioni (per ordini: info@altafortedizioni.it, pp. 195, euro 15,00). Il libro è impreziosito dalla prefazione di Luca Siniscalco, non solo esegeta di cose jüngeriane, ma attento conoscitore del pensiero tedesco novecentesco.
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  • Inutile ricordare che il pensatore ebbe il suo primo incontro con la tecnica moderna, nelle trincee del primo conflitto mondiale. Lo testimoniano mirabilmente le pagine, drammatiche e coinvolgenti, dei suoi diari bellici. Il tema della mobilitazione totale, proprio del moderno, fu compiutamente colto e presentato da Jünger in, Der Arbeiter, nel 1932. Da allora tale tematica è tornata a mostrarsi in più di un’occasione, nelle ulteriori fasi della produzione del tedesco. Siniscalco rileva che, l’intenzione di Iozzino, è presentare: «un efficace e completo compendio delle tesi del primo Jünger […] in dialogo con la fase più matura del suo pensiero e della sua teoria della soggettività» (p. 10). L’autore fa emergere, in queste pagine, tanto il momento destrutturante delle tesi del pensatore indagato, quanto la loro pars construens. In sintesi, nel Lavoratore lo spirito della tecnica forgia una seconda natura, che gli consente di controllare ogni aspetto dell’apparato tecnico. Per tale ragione, compito prioritario di tale soggetto della storia, è dare “forma” al mondo. Suo tratto costitutivo, la “magia” demiurgica.
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  • radici dellidealismo

  • Pubblichiamo un estratto dalla postfazione di 
  • Giovanni Sessa
  • al volume,
  • Le radici dell’idealismo.
  • Lettere a Benedetto Croce 1925-1933 e a Giovanni Gentile 1927-1929,
  • a cura di Stefano Arcella, con introduzione di Hervé A. Cavallera,
  • Fondazione Evola-Pagine editrice,
  • Roma 2022,
  • pp. 194, euro 18,00
  • […] Gli epistolari Croce-Gentile hanno mostrato che l’attualismo non fu affatto una costola del crocianesimo. Al contrario, come tra gli altri ha chiarito Melchionda: «il percorso idealistico di Gentile antecede quello di Croce […] il più giovane […] svolse nei confronti del meno giovane una specie di azione di sottile convincimento» . In realtà, Croce continuò a pensare la filosofia in termini ancillari rispetto alle arti e alle scienze, che avrebbe dovuto semplicemente “illuminare”. La filosofia, a suo giudizio, mancava di un oggetto specifico di indagine. Al contrario, la teoresi risulta centrale per Gentile in quanto egli avverte in tutta la sua forza la domanda di senso, di valore, di verità: «in definitiva di spirito». […] Gentile: «porta dentro la filosofia l’“entusiasmo” di cui racconta Platone nel Fedro, lo stupore magico di un’anima partecipe del sacro. Croce confessa […] di essere stato sempre refrattario […] al problema teologico-filosofico». Croce, nonostante tale “atrofia” religiosa, si tutelò rispetto a derive materialiste, aderendo toto corde all’etica concettualista del realista Herbart e ciò gli fu sufficiente per conseguire quella condizione interiore di pessimismo appagato e conciliato con il mondo, propria dell’erudito soddisfatto di sé.
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  • calasso

  • Sotto gli occhi dell’Agnello
  • Calasso e l’autodistruzione del cristianesimo
  • di
  • Giovanni Sessa
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  • La casa editrice Adelphi continua a pubblicare gli scritti che, il suo storico direttore editoriale, Roberto Calasso, ha concluso prima della sua scomparsa, nel luglio del 2021. È nelle librerie, Sotto gli occhi dell’Agnello (pp. 107, euro 13,00), testo nel quale lo scrittore fiorentino fa i conti con la tradizione cristiana. Si tratta di un libro snello, ma estremamente denso sotto il profilo concettuale. Gli aforismi che lo costituiscono, strettamente legati tra loro, sono centrati sull’esegesi dei testi sacri e in particolare dell’Apocalisse che, ricorda l’autore: «fu accolta nel canone durante il quarto secolo, soprattutto per l’approvazione del vescovo Atanasio di Alessandria […] Da allora il Nuovo Testamento si chiuse non come voce della mitezza, ma come annuncio di qualcosa di ignoto, dominato dal fatto di essere nuovo» (p. 41). In realtà, a dire di Calasso, l’Apocalisse rappresenta: «l’autodistruzione del cristianesimo» (p. 47). Il suo alludere a un novum ignoto, nella ripresa di un tipico elemento dottrinale paolino, ha contribuito a fondare le prospettive di filosofia della storia, moderne e anticristiane nei loro esiti politici e spirituali.
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  • Quale possibilità restano aperte per gli uomini, dopo il messaggio apocalittico del Veggente?: «Vari mondi frantumati e ostili. Ciascuno vuole il suo novum ma non l’ottiene» (p. 43), questa la situazione. Nell’Apocalisse è, inoltre, evocata una figura ricorrente nella Bibbia, quella dell’Agnello ucciso prima del costituirsi del mondo. Il suo sangue, viene detto nei testi sacri, sarebbe servito a riscattare momentaneamente gli Ebrei, come accadde durante la fuga dall’Egitto. Esso si sarebbe nuovamente materializzato davanti agli occhi di Giovanni Battista con le fattezze di Gesù. In questa sua successiva manifestazione il sangue dell’Agnello avrebbe dovuto riscattare per l’eternità la condizione umana. La storia sacra è, pertanto, rappresentata dal transito dall’animale originario, muto e terrorizzato dinnanzi al proprio sacrificio, alla Parola vivente del Cristo. Eppure questa prospettiva escatologica-soteriologica viene meno nell’Apocalisse che, al contrario, si conclude con la consummatio di ciò che è stato, della stessa terra, e con la prospettiva di un possibile instaurasi di un’ altra terra sotto un altrettanto altro cielo.
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  • La Nuova Gerusalemme, nell’incontro con l’Agnello, si fa annunciatrice di immortalità: «non ci sarà più la morte» (p. 48). In tale Città, l’Agnello svolge la funzione del tempio, del luogo sacro. Eppure, il linguaggio apocalittico ha perso il tratto vibratile che aveva in Paolo, e facendosi duro, legnoso, apodittico, testimonia una sopravvenuta lacerazione, una frattura irredimibile nel processo del tempo sacro. La figura dell’Agnello, la sua presenza nell’intera tradizione biblica, il suo essere in uno all’origine delle cose e alla fine del processo storico, rappresenta, agli occhi di Calasso, il mistero più profondo del cristianesimo. L’intero narrato tenta di trovare risposte a queste fondamentali domande: chi era realmente l’Agnello candido e ferito che Iahvè pose all’inizio del tempo? Chi lo colpì, ferendolo a morte? E soprattutto, per quale ragione proprio nell’Apocalisse torna a presentarsi agli uomini? Il Cristo non li aveva, con il suo salire al Calvario, salvati per sempre?
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  • A questo mistero allude la rappresentazione pittorica dell’Agnello, realizzata da van Eyck nel Polittico di Gand. Gli occhi dell’animale, impenetrabili proprio come il mistero dell’esistenza, sono al centro dell’argomentare calassiano, in quanto: «Se l’Agnello sostituisce Gesù, a una sequenza di storie si sostituisce un atto: l’uccisione» (p. 66). Sul retro del Polittico è dipinta una Annunciazione, nella quale, come da tradizione, Maria è colta nell’atto di leggere un libro. Torna il tema della letteratura come custodia del sacro. Del resto, se la lingua dell’Apocalisse è un’offesa del greco, nel degrado linguistico è da ravvisarsi l’incipit dell’irreversibile decadenza. Dopo il sacrificio del Cristo è necessario, forse, un nuovo Paracleto, un “difensore” dell’umanità, rappresentato dall’Agnello? Nel Vangelo di Giovanni si legge: «Anch’io chiederò al Padre, ed egli vi darà un altro Paracleto che rimarrà con voi in eterno» (p. 78). Cosa divide Giovanni Evangelista dal Veggente dell’Apocalisse? Il primo vuole allontanare il mondo, il secondo ne vuole, tout court, la distruzione.
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  • Alla fine dei tempi Cristo: «scompare e viene sostituito da un altro essere celeste, il Paracleto» (p. 84). Dalla lettura della fine dell’Apocalisse è possibile arguire che il mondo è luogo di conflitto e lacerazione. L’Agnello, ucciso fin dall’origine, lo testimonia. La colpa precede, in tale ottica, l’esistenza. Come eliminarla? Facendo, probabilmente, ricorso alla potenza dell’ultimo Paracleto. Per Calasso, la prima cristianità tentò una risposta, un confronto, con il male inscritto nella vita. La cristianità storica, dimentica del mistero, conciliata con il mondo, è il fondamento, sempre più celato agli occhi dei più, dell’“innominabile attuale”, quint’essenza del mondo borghese. Le pagine di questo ultimo Calasso, non forniscono risposta certa intorno al destino umano, procedono per allusioni, per congetture enigmatiche. Pensare la vita, non implica, infatti, il pervenire a certezze apodittiche, induce al contrario la custodia dell’enigma in cui essa si risolve.

  • SANZIONI  ED  ETEROGENESI  DEI  FINI
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Dall’inizio del conflitto russo-ucraino i mass-media mainstream (ossia la grande maggioranza) esaltano l’efficacia delle sanzioni decise – in particolare quelle dell’U.E..   Questo toccandone ogni possibile aspetto e conseguenza. Si legge con piglio giustizial-populista, che sono sequestrati i panfili degli oligarchi. Ma come ciò possa danneggiare il tenore di vita della stragrande maggioranza dei russi che quei panfili li hanno visti solo in cartolina, non si comprende; e ancor meno come, da ciò, possa diminuire il consenso popolare a Putin. Piuttosto potrebbe farlo – e probabilmente lo può – l’aumento delle perdite umane provocate dal proseguire della guerra. Parimenti non è chiaro se il divieto di vendere mocassini, prosecco e parmigiano ai russi possa creare problemi a Putin; casomai li crea ai produttori italiani.
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  • Certo sanzionare le importazioni di petrolio e gas problemi seri allo Zar li può provocare: solo che perché la minaccia diventi efficace occorrono anni. Nel frattempo Putin concluderà la guerra e le sanzioni saranno inutili.   D’altra parte nel secolo scorso l’efficacia delle sanzioni economiche per dissuadere dall’aggressione o comunque coartare la volontà del sanzionato è stata – per lo più – minima.    A partire da quelle applicate all’Italia perla guerra d’Etiopia, fino al caso della piccola Cuba che ha resistito per diversi decenni alle misure economiche degli U.S.A., e conservato il proprio regime nemico degli Yanquis; permettendosi anche qualche intervento all’estero (a dispetto degli americani, e, ovviamente sollecitato dai sovietici). Se ci si chiede il perché, data la sproporzione dei mezzi (tra sanzionanti e sanzionati) i risultati siano stati così modesti, occorre, principalmente, rifarsi a due ragioni.   
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  • La prima: che la guerra reale è condizionata, limitata ad un obiettivo politico. Vince chi lo consegue, perde chi non lo raggiunge. Occorre pertanto che per dissuadere l’aggressore le sanzioni siano efficaci nel lasso di tempo decorrente tra inizio e conclusione della guerra. Nel caso ad esempio della guerra di Etiopia, le sanzioni all’Italia durarono poco più di sette mesi e furono revocate due mesi dopo la caduta di Addis Abeba. Ma non avevano né influito sulle operazioni né distolto Mussolini dall’obiettivo politico (la conquista dell’Etiopia). Conseguito il quale diventavano inutili.
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  • La seconda: per essere efficaci le sanzioni devono essere applicate da quanti più soggetti, di guisa da non lasciare alternativa al sanzionato. Quelle per la guerra d’Etiopia furono inefficaci perché, per diverse ragioni, Germania, U.S.A. e perfino alcuni Stati che le avevano deliberate non le applicarono o lo fecero parzialmente e distrattamente. Lo zucchero cubano, nell’altro caso ricordato, trovò un acquirente interessato nell’Unione sovietica e Stati satelliti.
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  • Al contrario l’embargo deciso da U.S.A., Gran Bretagna e Olanda contro il Giappone nel luglio del 1941 era estremamente efficace, perché il Giappone non poteva trovare delle possibili sostituzioni alle materie prime che venivano a mancare, petrolio in primo luogo.   I militari giapponesi stimavano che il petrolio accumulato o comunque disponibile non sarebbe durato più di due anni: entro quel termine avrebbero dovuto cessare l’aggressione alla Cina e l’occupazione dell’Indocina. La guerra scoppiò meno di sei mesi dopo. Il principale (se non unico) caso di sanzioni efficaci nel secolo scorso ebbe il risultato di dar inizio ad una guerra nuova, e non di concludere quella in corso. Cioè raggiunse l’obiettivo opposto alle intenzioni proclamate: costituendo così caso da manuale di eterogenesi dei fini (esternati).
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  • Cambiando angolo visuale sopravvalutare l’effetto delle sanzioni è un errore di valutazione che consegue alla sopravvalutazione dell’elemento economico in un ambito essenzialmente politico com’è la guerra. Il discorso relativo è di un’ampiezza da non poter essere contenuto in un articolo. Sta di fatto che l’esito della guerra – salvo il “caso” ricordato da Clausewitz – dipende da una serie di fattori, fattori di potenza. Ossia idonei a far prevalere la propria volontà su altri, o, all’inverso, di non far prevalere quella degli altri sulla propria. Ambedue condizionate dall’obiettivo politico della guerra (o della pace). Nel caso più frequente alle volte conseguirlo esige di vincere (sul piano militare) la guerra, in altri di non perderla. Allo scopo i fattori di potenza (economico, militare, organizzativo, anche costituzionale) non è solo il primo. Anzi possono essere compensati da altri. Nella guerra dei sette anni, la Prussia, piccola ma dotata di un grande esercito guidato dal miglior generale dell’epoca – ed alleata ed aiutata dalla Gran Bretagna – riuscì a realizzare l’obiettivo di non soccombere ai tre più potenti Stati continentali dell’epoca: Francia, Austria e Russia, dotati di risorse economiche, finanziarie e demografiche superiori di circa 20 volte a quelle di Federico II. Nel XX secolo le guerre rivoluzionarie di liberazione – asimmetriche in sé – hanno mostrato come popoli colonizzati, poveri ed arretrati hanno raggiunto l’indipendenza dagli Stati colonizzatori, malgrado la disparità anche nei mezzi militari. Questo essenzialmente per il loro obiettivo politico (l’indipendenza), la determinazione nel perseguirlo nonostante danni e perdite, e la coesione realizzata allo scopo. Dalla parte dei colonizzatori, dove l’interesse economico era prevalente e richiedeva il controllo del territorio coloniale, il costo delle guerre si rivelò superiore ai benefici dell’occupazione (onde preferirono concedere l’indipendenza). Cioè opera in senso inverso alla logica economicistica e quantitativa. Logica che avrebbe avuto un ruolo sicuramente più ampio e di “successo”, in stato di pace. Per cui, dati i risultati delle sanzioni efficaci (cioè Pearl Harbour) c’è da augurarsi che, ai fini della pace, quelli delle sanzioni U.E. lo siano il meno possibile.

  • Idea di natura

  • Il ritorno della physis
  • L’idea di natura tra Oriente e Occidente
  • di 
  • AA.VV.
  • rec.  di
  • Giovanni Sessa
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  • Il fallimento delle filosofie della storia, ha spinto, in particolare dagli anni Sessanta del secolo scorso, molti pensatori a guardare con maggiore interesse alla realtà della natura. Questo ritorno alla physis è stato, di certo, favorito dal pieno dispiegarsi del dissesto ambientale. Lynn White individuò, in quel frangente, nell’immagine di Adamo signore e dominatore, il prototipo dell’uomo che sfrutta la terra. Al contrario, James Barr ritenne che i presupposti dell’antropocentrismo prometeico, fossero impliciti nel razionalismo greco, fatto proprio dalle chiese cristiane e mostratosi, in tutta la sua distruttiva potenza, nella modernità.   Tale fase storica è centrata sull’antropocentrismo e sul dualismo uomo-natura, sul mito della crescita infinita, sull’idea di temporalità progressiva, sulla riduzione della physis a mera quantità.  In un volume interessante, che si deve a tre accademici, Marcello Ghilardi, Giangiorgio Pasqualotto e Paolo Vidali, L’idea di natura tra Oriente e Occidente, nelle librerie per Scholé (pp. 200, euro 16,00), la natura non viene letta alla luce delle nozioni di ente e di sostanza, ma di relazione.   A dire dei tre autori, l’idea di natura: «...va discussa e ridisegnata nel dialogo con altri modi di significazione […] non per scadere in forme pigre di relativismo culturale, bensì per attivare le potenzialità proprie di culture e tradizioni differenti» (p. 8).
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  • Prizzi

  • Cultural Intelligence ed Etnografia di Guerra
  • di
  •  Federico Prizzi
    • "Le nuove modalità belliche" 

  •  rec.
  • di
  • Giovanni Sessa 

 

  • In un contesto storico come l’attuale, nel quale l’informazione è concentrata sul dramma della guerra russo-ucraina, il cittadino comune può comprendere come la guerra moderna non venga combattuta, sic et simpliciter, con gli armamenti e le forze militari schierate sul campo ma come essa richieda, per essere vinta, un grande sforzo comunicativo delle parti in lotta. Questo è solo uno dei molteplici aspetti delle guerre moderne indagati, in un recente volume, da Federico Prizzi. Ci riferiamo a, Cultural Intelligence ed etnografia di guerra, comparso nel catalogo di Altravista Edizioni (pp. 217, euro 25,00). L’autore, antropologo, polemologo e storico militare dell’Università Addoun di Galkaio in Puntland, in queste pagine chiarisce, anche a beneficio del lettore non specialista, i tratti salienti dei conflitti contemporanei.
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  • Attento studioso di geopolitica, dopo anni di ricerca trascorsi in zone di guerra, prese atto che, al fine di comprendere le ragioni dei conflitti, è necessario servirsi di una metodologia pluridisciplinare, pensata non solo su basi teoriche. Sulla sua formazione ebbe grande rilievo la lettura delle opere di Gaston Bouthoul, padre della Polemologia. Inoltre, ebbe contezza dei limiti connotanti le teorie delle Relazioni Internazionali, che rivelavano sul campo la loro incapacità di prevedere l’esplodere bellico. Solo l’approccio antropologico, la conoscenza delle tradizioni e consuetudini di un dato popolo, concede al polemologo la strumentazione necessaria per discernere le ragioni del dirompere della guerra e fornisce, per di più, mezzi di mediazione per indurre il superamento dei contrasti e delle divergenze. La ricerca antropologica militare è: «frutto di un preciso metodo etnografico di tipo induttivo» (p. 12). L’Etnologia studia le differenze e le somiglianze tra culture e società: «Ciò permette al ricercatore di connettere eventi, tempi, spazi e persone in un quadro sintetico e organico, sia attraverso i dati provenienti dalla ricerca sul campo che da quelli ottenuti da uno studio a distanza» (p. 14). L’etnologo è divenuto mediatore culturale che si insedia su un dato territorio durante e dopo un conflitto, cosicché, l’etnologia applicata: «si è trasformata in “Etologia d’Azione”» (p. 15).
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  • Intento del libro di Prizzi è quello di delineare una nuova disciplina a supporto delle operazioni militari: «il Cultural Intelligence è un nuovo profilo professionale nell’ambito delle Forze Armate: l’Etnografo di Guerra» (p. 15). Il volume è diviso in due parti. La prima parte si basa sulle esperienze personali dell’autore, ed è preceduta dalla presentazione, estremamente attuale e interessante, dell’evoluzione culturale dei conflitti contemporanei. Il discorso si focalizza attorno a quattro tipologie di conflitti: Guerra Cognitiva, Sovversione urbana, Counterinsurgency e  Compound Warfare. La seconda parte è il risultato di uno studio a distanza condotto da Prizzi in Somalia attorno all’azione del gruppo terrorista Al Shabaad e alla sua Information Warfare. Opportunamente Prizzi, rievocando la nascita di Minerva armata dalla testa di Giove, ricorda come per gli Antichi guerra e conoscenza andassero di pari passo. Nel mondo contemporaneo, dopo che tale verità era stata lungamente obliata, essa sembra ora riaffermarsi con forza.
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  • In particolare, ciò è accaduto dopo l’attentato alle Torri Gemelle e dopo il fallimento delle operazioni di peacekeepers. Ci si chiese, in quel frangente,  per quale ragione non si fosse ancora raggiunto un equilibrio geo-politico nel mondo. Le ragioni sono molteplice e complesse. Era comunque evidente che, fino ad allora, era stata trascurata: «la dimensione culturale dei conflitti» (p. 19). Infatti, nelle guerre contemporanee, anche in quella russo-ucraina, l’aspetto “cognitivo” è di assoluto rilievo: «uno degli scopi dell’attacco cognitivo è […] di screditare l’avversario, attraverso la polemica e il sospetto […] attraverso il bombardamento mediatico» (p. 21). Le parti in causa, pertanto, si accusano vicendevolmente di crimini e nefandezze. La Guerra cognitiva è guerra d’informazione: «Perdere l’iniziativa mediatica vuol dire subire sconfitte» (p. 21). Con tale modalità bellica si tende a colpire “l’ideologia” dell’avversario, la “tradizione”, l’humus delle sue consuetudini, la sua visione del mondo. Vi sono, negli eserciti, Brigate create allo scopo: la Settantasettesima del British Army, specializzata in Information Warfare. Ad essa si affianca un’unità segreta: «impiegata in operazioni coperte di disinformazione e controinformazione scoperta grazie alla diffusione di documenti classificati da parte di Edward Snowden» (p. 23).
  • ...
  • Tali operazioni passano attraverso i Social più diffusi. Un ruolo altrettanto rilevante ha la conflittualità indotta dalla Sovversione. Essa si articola in quattro momenti: Sovversione, Insorgenza, Guerra Civile e Rivoluzione. La Sovversione non coincide con la sollevazione popolare, non è spontanea, ma indotta e preparata nel tempo. Insorgenti e Sovversivi hanno bisogno dell’appoggio e del contatto con la popolazione locale: «Un esempio in tal senso è oggi l’appoggio della popolazione della Val di Susa ai gruppi NO TAV» (p. 26). La Sovversione si basa su un mito (Le Bon-Sorel) attorno al quale si coagula un “Gruppo primario” cha dà inizio alla propaganda e che individua il supporto attivo di una organizzazione politica. Esempi di tali guerre asimmetriche sono state le Rivoluzioni Colorate e le Primavere Arabe, sulle quali agirono le teorie di Gene Sharp. In ogni caso, le forze “cospirazioniste”: «possono […] soffiare su un malessere preesistente, ma […] non crearne uno completamente ex novo» (p. 40). Negli ultimi anni abbiamo spesso assistito a casi di Counterinsurgency. Quando in un conflitto vi è un’evidente disparità di forze in campo (conflitto asimmetrico), la parte più debole è obbligata ad evitare uno sconto diretto con il contendente e quindi dà luogo a fenomeni di Insorgenza.
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  • Tale situazione ha spesso prodotto la Compound Warfare, conflitti che: «hanno visto l’impiego combinato di forze convenzionali e irregolari in combattimento» (p. 47). Lo stiamo verificando in Ucraina. Ecco perché, al fine di giungere a mediare tra le parti, è indispensabile far riferimento al Cultural Intelligence e all’Etnografo di Guerra. E’ il ruolo in qualche modo svolto, sia pure a distanza, dall’autore stesso nel caso somalo, descritto nel settimo e conclusivo capitolo del volume.

  • Nuccio DAnna

  • Wolfram von Eschenbach e i custodi del Graal
  • di
  • Nuccio D'Anna,
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • Nuccio D'Anna è nome noto tra gli studiosi di simbolismo, tradizione ermetica e storia delle religioni. La sua già vasta produzione libraria è, da poco, arricchita da una nuova pubblicazione. Ci riferiamo al volume, Wolfram von Eschenbach e i custodi del Graal, comparso nel catalogo Iduna (per ordini: associazione.iduna@gmail.com, pp. 181, euro 20,00). Si tratta di una monografia dedicata a Wolfram von Eschenbach, autore, tra gli altri, del noto scritto graalico, Parzival.  Wolfram nacque nel 1170, ma per tutta la vita fu peregrino, muovendosi di corte in corte, di monastero in monastero. Dapprima soggiornò presso i signori di Wertheim, poi fu a Durne e, infine, a Wartburg, ospite del langravio Hermann di Turingia. Attorno al suo protettore si radunavano poeti e cantori, tra essi l’autore del Nibelungenlied e il compositore del Minnesanger, Walter von der Vogelweide.  Il mondo cavalleresco di riferimento di tali poeti era sintonico alle: «aspettative politiche suscitate dai sostenitori della sacralità dell’Impero» (p. 8). Si ritiene che Wolfram fosse, in qualche modo, legato ai membri dell’Ordine del Tempio. Questi si ritirò in Baviera a Wildenberg e qui chiuse i suoi giorni nel 1220.
  • ...
  • Oltre al Parzival di lui ci è giunto, sia pure in forma frammentaria, il Titurel, che richiama il nome di un personaggio presentato come il primo re del Graal. In esso, l’autore cenna alla “genealogia celeste” dei Custodi del Graal e a una consorteria cavalleresca il cui compito sarebbe consistito nella custodia della Sacra Pietra. Wolfram introduce un tema del tutto assente in Chrétien: «il definitivo ritiro o “riassorbimento” del Graal in India, nella stessa “Fonte principiale” da cui aveva preso consistenza» (p. 9). Titurel chiuse la sua esistenza in Oriente, dopo aver raccontato al “Prete Gianni”, sovrano di un “Centro Supremo”, la propria storia. Conserviamo di Wolfram anche una raccolta di canti, Wachter Lieder, dalla quale affiorano: «immagini primordiali che appartengono al medesimo sostrato dal quale sono emerse le confraternite dei Fedeli d’Amore» (p. 11), quali quelle della Dama o dell’usignolo. Bisogna far riferimento anche a un terzo romanzo, Willehalm, giuntoci incompleto. Espressione della religiosità conventuale itinerante, fiorita in monasteri eretti: «in corrispondenza di speciali località sacre che […] tratteggiano un vero e proprio itinerario imaginale e […] rivelano anche relazioni dirette con l’ordinamento della sfera celeste e con i ritmi ciclici» (p. 13).
  • ...
  • La tesi di D’Anna è che Wolfram, facendo riferimento a questo mondo spirituale, con la sua versione del mito del Graal volesse intervenire sul sostrato spirituale e sulle “forme” simboliche: «spesso di origine celtica, considerate […] incomplete o parziali» (p. 15), presenti nel racconto di Chrétien. I due, sul piano iniziatico, erano lontani, pur richiamandosi: «ad una medesima “Fonte” o “Radice”» (p. 15). La tradizione esegetica cui Wolfram si appoggia è simbolizzata da “Kyot il provenzale”, il “Maestro saggio”. Facendo propria l’analisi di Pierre Ponsoye, D’Anna sostiene che la figura di Kyot indica: «una funzione sacra connessa […] ad organismi appartenenti al tasawwwuf islamico» (p. 19). Tale personaggio diviene il garante della presenza, nella vicenda graalica, di una funzione di tipo provvidenziale e principiale. Wolfram richiama anche il Baruk, il “Benedetto”, Califfo di Baghdad: «custode vivente della tradizione islamica sia nel suo aspetto exoterico che nella sua dimensione esoterica» (p. 24). La sua funzione aveva tratto prossimo al Qutb sufi, Polo spirituale e Vicario celeste. Egli esalta, in uno, nel racconto di Wolfram, la dignità ecclesiale e il significato iniziatico di “Centro” ed è collegato a Gahmuret, sovrano creatore della dinastia del Graal. In tal modo è posta una relazione diretta tra Qutb e Graal.
  • ...
  • Non è casuale che in Wolfram, fin dalla sua prima apparizione, il Graal venga mostrato su un tappeto verde. Il verde, infatti, nell’Islam simbolizza la conoscenza sacra e verde è la veste indossata da Alì, da cui sono discese molte importanti confraternite sufi. Paradigmatico è anche il fatto che Flegetanis, dotto astronomo, vide nei cieli il Graal. Il suo nome allude alla Seconda sfera celeste, retta da Hermes. Egli era ebreo per parte di madre, musulmano per parte paterna e vicinissimo al cristianesimo: «Con ciò Wolfram fa riferimento ad una unità primigenia antecedente di molto la rigida distinzione exoterica fra le tre tradizioni monoteistiche di discendenza abramica» (p. 31). Questo, a parere di scrive, l’elemento più rilevante della lettura che D’Anna compie delle opere di Wolfram. I temi trattati sono, comunque, molteplici: a muovere da Munsalvaetsche, indicante il luogo in cui sarebbe maturata la tradizione graalica con la sua inesauribile ricchezza simbolica e dove Titurel decise di costruire un tempio sacro per il Graal, protetto dal Monte Selvaggio e da una Foresta Selvaggia, che si ergono nella Terra della Salvezza.  In Wolfram, il Graal non è un piatto o una coppa, come nei romanzi precedenti, ma una “pietra preziosa” chiamata lapsit exillis, assimilabile all’“Aureola di Gloria” che risplende in ogni Sovrano Universale. La “Pietra” ha carattere oracolare e la sua virtù consiste nel fornire “cibo rigeneratore” spirituale.   Un intero capitolo è dedicato a indagare il tema della ferita del re Anfortas. Tale ferita è provocata da un cavaliere islamico e la conseguente “inadeguatezza” del re a presentarsi quale rappresentante del Graal: «viene fatta originare dal “colpo di lancia” effettuato da un rappresentante di quell’Islam che […] fa riferimento al Baruk e al Qutb» (p. 37). Per questa ragione è possibile asserire che D’Anna, con Wolfram, ritiene si sia mostrata nell’Islam ordinato attorno al Califfo di Baghdad, una realtà sacra: «radicata in una rivelazione “originaria”» (p. 37).
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  • Il libro che abbiamo sinteticamente presentato ci pare uno dei più completi sulle opere e la figura di Wolfram von Eschenbach.

  • LA DIS-INTEGRAZIONE DELLE STELLE 
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Le ultime vicende del Movimento 5 stelle, ridotto, da quel che risulta, a meno di un quarto dei suffragi conseguiti nel 2018 e afflitto da una continua emorragia di parlamentari (ormai rimasti a circa la metà degli eletti alle ultime politiche) in tutte le forme (dimissioni, scissioni, allontanamenti, ecc.), induce a fare qualche considerazione, che non ha l’ambizione di essere esauriente, ma piuttosto di evidenziarne (qualche) concausa. Questo partendo da alcune regolarità e costanti della politica. A cominciare da Machiavelli, il quale, nel Principe, scrive delle difficoltà dei principi “nuovi”, che più per fortuna che per virtù hanno ottenuto il potere “non sanno e non possano tenere quel grado: non sanno, perché, se non è uomo di grande ingegno e virtù, non è ragionevole che, sendo sempre vissuto in privata fortuna, sappi comandare; non possano, perché non hanno forze che gli possino essere amiche e fedeli”.  E che i governanti 5 Stelle fossero degli inesperti era vanto degli stessi ed occasione d’ironia dei loro (tanti) avversari. Parimenti è vero che nella loro ascesa al potere vi sia stata più fortuna che virtù, perché insistere sulla crisi che attanagliava e attanaglia l’Italia, governata da una classe dirigente decadente, è facile: si attacca chi è poco difendibile.
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  • Prigioni di Francia

  • Rivoluzione   Terrore
  • Prigioni di Francia sotto il Terrore
  • rec.  di
  • Giovanni Sessa
  •  
  • Molto si è scritto e detto della Rivoluzione francese. Essa è un evento paradigmatico della storia, momento apicale dell’avvento del Moderno. È nelle librerie per i tipi di OAKS, un volume che consente al lettore uno sguardo a tutto tondo su tale svolta epocale. Ci riferiamo al libro di Albert Savine, Prigioni di Francia sotto il terrore, introdotto da Giovanni Damiano (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 236, euro 20,00). L’autore, vissuto tra la metà del secolo XIX e i primi tre decenni del Novecento, fu traduttore di vaglia. Fondò, una volta stabilitosi a Parigi, una casa editrice di tutto rilievo che registrò puntualmente l’atmosfera culturale e politica di quel frangente storico. Il catalogo di tale casa editrice, scrive Damiano: «ha finito per riflettere quel magmatico mondo in cui antisemitismo, socialismo non marxista e boulangismo s’incontrano e si mischiano» (p. II). Del resto, è noto, il boulangismo fu un fenomeno trasversale che mostrò come, in dati contesti storici: «le masse popolari possono facilmente sostenere un movimento che trae dalla sinistra i propri valori sociali, dalla destra i propri valori politici» (p. III). Di lì a poco, la storia europea avrebbe confermato, su ampia scala, questa intuizione.
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  • Praga esoterca

  • Praga Magica
  • Max Brod
  • e la Praga esoterica di Rodolfo II
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • Vi sono in Europa città crogiolo, veri e propri athanor alchemici, nelle quali culture diverse, religioni disparate, lingue e popoli, hanno trovato sintesi sublime. Il loro tratto connotante, l’atmosfera spirituale rilevabile nelle loro strade, nei monumenti, nelle chiese, le rende rappresentazione architettonica dell’intera civiltà prodottasi, nel corso del tempo, nel nostro continente, espressione quint’essenziale dell’homo europaeus.   Tra esse una posizione di rilievo ha certamente Praga. Lo slavista Angelo Maria Ripellino ha immortalato tale tratto della città boema, nel titolo della sua opera più nota, Praga magica. Le sue pagine fanno il paio con quelle di un grande scrittore di lingua tedesca, Max Brod che, alla città magica, ha dedicato un volume imprescindibile, da poco riproposto nella nostra lingua da Iduna editrice, La Praga esoterica di Rodolfo II, per la cura di Paolo Mathlouthi (per ordini: associazione.iduna@gmail.com, pp. 392, euro 25.00).
  • ...
  • Si tratta di una ricostruzione romanzesca della vita intellettuale della Praga nel Cinquecento, in cui Brod mette in luce le sue indubbie qualità scrittorie, riuscendo a coinvolgere il lettore attorno alle vicende che ruotano attorno a due personaggi, l’imperatore Rodolfo II d’Asburgo e l’astronomo- alchimista Tycho Brahe.  Un libro che, come si suol dire, si legge d’un sol fiato. Praga, ricorda il curatore, nel Rinascimento fu Capitale della magia e in tale funzione subentrò a Toledo, che lo era stata nel Medioevo. In essa: «il rigore tedesco delle architetture convive con l’anima slava, fatalista e sognatrice» (p. II). La città divenne sede imperiale per volontà di Rodolfo II, che concesse asilo e protezione a cabalisti, alchimisti, astrologi e maghi delle più diverse scuole.
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  • Cop. STARHEMBERG def

  • Finis  Austriae
  • Le memorie di
  • E. Rüdiger Starhemberg,
  • nobile combattente della Mitteleuropa
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  •  
  • Alcuni uomini incarnano un’intera epoca. Essi sono gli interpreti dell’anima di un popolo di cui conoscono e tentano di realizzare i bisogni e le aspirazioni più profonde. E’ quanto ci siamo detti dopo aver chiuso le memorie di Ernst Rüdiger Starhemberg, Finis Austriae. Memorie di un nobile combattente, nelle librerie per OAKS editrice, con prefazione di Maddalena Guiotto (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 381, euro 25,00). Si tratta di una nuova edizione, la prima uscì nel 1980, che riproduce i due manoscritti dell’autore, pubblicati in tedesco nel 1971. Il libro si legge d’un fiato. Starhemberg, discendente di una delle più nobili casate austriache, distintasi nella difesa di Vienna dall’assedio turco nel 1683, aduso, come tutti gli appartenenti al suo rango, alla frequenza mondana, era capace di sentirsi a casa in qualsiasi corte d’Europa. Nonostante ciò, condusse un’esistenza sobria e dedita al riscatto politico del Mondo di ieri.
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  • Gli anelli della vita

  • GLI  ANELLI  DELLA  VITA
  • di Valerie Trouet
  • Gli alberi e la storia
  • La dendrocronologia: un nuovo approccio al reale
  • rec. di
  • Giovanni Sessa
  • Il mondo vegetale ha fatto la sua comparsa sulla Terra, molto prima dell’uomo. Gli alberi hanno silenziosamente accompagnato il nostro percorso sul “pianeta azzurro” com’è testimoniato dalla centralità attribuita alla vegetazione in molte religioni antiche, dai culti agrari e da riti mirati a stimolare il ciclo riproduttivo, propri di popoli delle aree più disparate del globo terracqueo. Una scienza ancora poco nota, la dendrocronologia, mostra come gli alberi abbiano sempre registrato, nel loro interagire con l’ambiente circostante, in particolare se fortemente antropizzato, i mutamenti intervenuti in esso nel corso del tempo. In particolare, il mondo vegetale annota con puntualità certosina, le modificazioni climatiche che, come è noto, hanno indotto, a volte, cambiamenti politico-sociali.  A illustrare i segreti della dendrocronologia, in un recente volume nelle librerie per Bollati Boringhieri, è Valerie Trouet, docente di dendrologia presso l’Arizona University, Gli anelli della vita. La storia del mondo scritta dagli alberi, (pp. 284, euro 24,00).
  • ...
  • Non tema il lettore!   Non si tratta di un saggio scientifico, dall’esclusivo tratto accademico, ma della ricostruzione appassionata degli esordi ottocenteschi di questa scienza, cui si accompagna la presentazione dell’intensa attività di ricerca, condotta sul campo dall’autrice, tra avventura e gusto per la scoperta. La lettura del volume, inoltre, rende edotti dei gravi rischi di dissesto ambientale che l’Antropocene, le cui origini sono collocate dagli scienziati in epoche diverse, ha prodotto. In questo senso, porre attenzione ai risultati delle ricerche dendrocronologiche potrebbe risultare d’aiuto, al fine di superare l’attuale fase di disequilibrio tra propensione orfica e prometeica, che hanno connotato la storia dell’uomo.
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  • FINIS GERMANIA

  • Rolf Peter Sieferle
  • Finis Germania
  • (a cura di Francesco Coppellotti
  • Edizioni Settimo Sigillo, Roma 2022, pp. 174, € 22,00),
  • rec. di
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Come scrive Antonio Caracciolo nella presentazione: “A differenza che per il passato, nel 1945, la guerra – la stessa che ebbe inizio nel 1914 – non si è conclusa con Trattati di pace che restituivano ogni paese a se stesso, magari con diminuzioni territoriali, passate ad altre città statuali. Si è voluto procedere alla devastazione spirituale delle nuove generazioni che non avevano vissuto la moderna guerra dei Trent’anni”. Il tema del saggio (postumo) è proprio questo; la sconfitta nella seconda guerra mondiale ha comportato un “lavaggio del cervello e del carattere permanente”, tendente a cancellare o a modificare radicalmente la cultura del vinto.
  • ...
  • Infantilizzazione, colpevolizzazione, relativismo ne sono gli aspetti più evidenti. Anche se spesso neppure aventi il carattere di novità. Vediamo la colpevolizzazione dei tedeschi (con le guerre mondiali e l’olocausto): il tutto non pare tanto voluto ed eseguito (per di più a oltre settant’anni dal compimento dei fatti) per il crimine in se, quanto per colpevolizzare una nazione e la sua cultura. Ma che la colpevolizzazione (di massa) o almeno lo sfruttamento del senso di colpa sia uno strumento di potere l’aveva già scoperto Thomas Hobbes nel “Behemoth” quando scrive che i pastori protestanti predicavano in particolare contro la concupiscenza perché essendo una pulsione naturale tutti ne erano “colpevoli” in quanto peccatori “E, così, divennero confessori di quelli che avevano la coscienza turbata per questo motivo, e che obbedivano loro come a direttori spirituali, in tutti i casi di coscienza”. Per cui il senso di colpa si convertiva in disposizione all’obbedienza a chi aveva il potere.
  • ...
  • Altro argomento è il relativismo coniugato al progresso “La relatività di tutte le culture, compresa la propria, viene accettata; al tempo stesso esse vengono però allineate accuratamente su una linea progressiva. La propria cultura diventa allora incompatibile in quanto è la più progressiva di tutte. Il modo del progresso diviene così un assoluto che può di nuovo togliere le penne al relativismo”. Ed è proprio quel che succede: se la Storia finisce è l’ultima cultura quella che, contraddittoriamente, diviene assoluta. E questa cultura è quella dei vincitori. Ma quando il progresso scompare, entrando in una fase di decadenza, il relativismo diventa un virus distruttivo di cultura, posizione ed identità.
  • ...
  • Anche qui la memoria va al passato a Maurice Hauriou il quale faceva del “pensiero critico” (qualcosa di assai simile al relativismo almeno sul piano socio-politico) uno dei caratteri della decadenza. Solo che se di una storia “lineare” ordinata lungo l’asse del progresso si passa ad una storia “ciclica”; c’è comunque da sperare che il nuovo ciclo in gestazione riavvii un’epoca di miglioramento culturale, sociale, economico.
  • ...
  • Una lunga ed accurata post-fazione di Francesco Coppellotti completa il volume e sintetizza così il saggio di Sieferle “Possiamo dire che finis Germania è la descrizione lucida della cappa ideologica che determina la vita religiosa, politica e culturale della Bundesrepublik che Sieferle ha disegnato e contro la quale, novella Antigone, si è infranto”  e ciò perché  “Sieferle ha mantenuto viva la fiamma della sua giovinezza ed ha sconfessato alla radice la Bundesrepublik, ma non perché, come hanno cantato tutti i filistei in tutto il mondo, voleva la scomparsa della Germania, ma perché ha voluto tenere aperta quella ferita chiamata Germania”.

  • JUS SCHOLAE     ITALIANI DA FARE
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Qualche sera fa in televisione era invitato un parlamentare PD il quale strenuamente difendeva il d.d.l. sullo jus scholae ripetendo che i giovani cui sarebbe stato applicato (ove approvato) erano “italiani” ed avevano “diritto” alla cittadinanza.
  • ...
  • È facile obiettare che un tale modo di ragionare ha il (doppio) difetto di dare per scontata e pacifica l’italianità (cioè il “presupposto di fatto” per la concessione della cittadinanza) ossia la cosa da provare, a realizzare la quale può concorrere (anche) la frequentazione scolastica; dall’altra che il tutto sarebbe un “diritto”. Ma se è un diritto (positivo) è inutile battersi per riconoscerlo; se invece è – com’è – una pretesa, occorre valutare se tale pretesa – promossa a diritto – sia legittima ed opportuna.  Che è poi l’oggetto del dibattito nell’opinione pubblica e in Parlamento.  Di fronte a tali argomentazioni strabiche e filiformi, la risposta acconcia è quella di Salvini: con tanti problemi che abbiamo dalla guerra al COVID, dalle macro-bollette alla crisi energetica e all’inflazione, è proprio così pressante e decisivo il riconoscimento di cittadinanza?
  • ...
  • Ma invece di dare la consueta risposta dietrologica: che è importante per il PD il quale spera di trovare nei riconosciuti italiani un serbatoio elettorale sostitutivo di quello in gran parte perso (nonché una bandiera da sventolare), vediamo come sia stato considerato il problema da oltre due millenni fa.
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  • Scrive Aristotele nella Politica esaminando le cause dei rivolgimenti politici e quindi (anche) dei cambiamenti costituzionali... “Anche la differenza di razze è elemento di ribellione finché non si raggiunga concordia di spiriti, perché, come non si forma uno stato da una massa qualunque di uomini, così nemmeno in un qualunque momento del tempo. Per ciò (coloro che) hanno accolto uomini d’altra razza sia come compagni di colonizzazione sia come concittadini dopo la colonizzazione, la maggior parte sono caduti in preda alle fazioni” (1303b) e prosegue, per dimostrarlo, con un lungo elenco di “inclusioni” finite in guerre civili.
  • ...
  • Anche i romani che della concessione della cittadinanza (a singoli o a collettività) fecero un efficace sistema d’integrazione, questa era normalmente uno dei benefici per i veterani non cittadini che avevano militato per 25 anni nell’esercito. Né i tempi erano granché solleciti: a parte l’editto di Caracalla (dopo oltre due secoli dalla costituzione dell’impero), la cittadinanza latina (e non romana) fu concessa a tutta la Spagna all’epoca dei Flavi (anche qua, oltre due secoli dalla conquista) e mentre la Spagna dava alla letteratura latina alcuni dei più suoi grandi scrittori. Ma a differenza dei politici italiani i romani non misuravano benefici del genere con i tempi delle campagne elettorali. Anche la storia successiva prova che, per fare una nazione da più etnie, occorrono secoli.
  • ...
  • Renan sosteneva che una “nazione è un’anima, un principio spirituale”, e soprattutto due cose la costituiscono: il comune possesso di ricordi nel passato e il consenso nel presente “Un passato eroico, grandi uomini e gloria (mi riferisco a quella vera), ecco il capitale sociale su cui poggia un’idea nazionale. Avere glorie comuni nel passato e una volontà comune nel presente: aver compiuto grandi cose insieme e volerne fare altre ancora; ecco le condizioni essenziali per essere un popolo”. Ma qua di comune passato non se ne parla affatto, perché non c’è; l’altro è assai dubbio che esista (nel presente).
  • ...
  • Quel che succede nella banlieu francesi o nei quartieri islamici belgi non lascia granché da sperare. Ma soprattutto appare un misto di furberia burocratica e utopia interessata credere che per fare un italiano basti farlo nascere nel Bel Paese ed assolvere l’obbligo scolastico.   Era un compito che – per gli italiani, quindi assai facilitati rispetto agli immigrati - già toglieva il sonno ai governanti del Risorgimento consapevoli della necessità di fare gli italiani; e invece i nostri dem hanno trovato una soluzione così semplice e a portata di mano: un esame e passa la paura.   Per una questione che, da Aristotele in poi, ha preoccupato statisti e pensatori, abituati a ragionare sulla realtà e sui precedenti storici (e giuridici).     Se D’Azeglio lo avesse saputo…

 

  • Piante magiche

  • "Le piante magiche"
  • Un saggio sul valore simbolico-ermetico del mondo vegetale
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

  • Il mondo vegetale, fin dagli albori dell’umanità, ha avuto un ruolo centrale nell’immaginario umano, così come nelle pratiche cultuali e nelle mitologie. Gli alti colonnati delle cattedrali gotiche ebbero quale modello di riferimento, il fusto degli alberi delle foreste dei paesi del Nord d’Europa. A ricordarci come ai culti vegetali fosse da sempre associato l’iter alchemico, mirato a recuperare all’uomo la partecipazione al principio, all’origine, e come, il mondo tradizionale abbia guardato alle piante al fine di estrarre da esse un fondamento spirituale dalle valenze medico-curative e spagiriche, è una recente pubblicazione di Maria Teresa Burrascano, Le piante magiche, comparsa nelle librerie per l’editore Stamperia del Valentino (per ordini: 081/5787569, pp. 61, euro 10,00). Il volume è impreziosito da schede figurative, tratte da erbari medievali, e da un saggio introduttivo di Luca Valentini, mirato a contestualizzare le valenze magico-ermetiche della viriditas.
  • ...
  • In illo tempore, chiosa il prefatore: «Ogni manifestazione naturale […] era considerata come manifestazione delle varie divinità» (p. 6). Si riteneva che Terra e Cielo fossero manifestazioni del Sacro, interconnesse tra loro. In tale visione delle cose, così come nel pensiero ermetico, consustanziale ad essa, l’Uno lo si pensava nei molti, al di là di qualsivoglia dualismo. L’albero era, in tale contesto spirituale, simbolo ed evidenza del legame che unisce l’Alto e il Basso, axis mundi. Per questo, si riteneva che, potestates di diversa natura, “animassero” la vegetazione. Tale sacralizzazione del regno vegetale si fonda su una distinzione essenziale, che ritiene in sé diversi il simbolismo della pianta da quello dei fiori e della fioritura. Mentre l’Albero indica la forza del principio nella sua dimensione statica: «il processo che vede il seme immergersi nella Terra per poi rialzarsi e germogliare è la forza nella sua dimensione dinamica», simbolizzante il solve et coagula proprio della via ermetica, atta a reintegrare l’umano nell’origine.
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  • azzurre lontanaze1

  • Azzurre lontananze
  • Tradizione on the road 
  • di
  • Giovanni Sessa
  • recensione di
  • Giacomo Rossi
  • Siamo in estate e per molti si apre il tempo della lettura e quello del viaggio. A tale proposito, il recente volume Azzurre lontananze. Tradizione on the road del filosofo Giovani Sessa, edito da Iduna (per ordini: associazione.iduna@gmail.com, pp. 221, euro 20,00), offre spunti preziosissimi a riguardo. L’Autore raccoglie in queste pagine i diari scritti durante i viaggi in Irlanda, Islanda, Nepal, Pakistan e Mongolia, compiuti tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta. L’opera è impreziosita dalla prima traduzione italiana di alcuni capitoli del “Viaggio in Nepal” di Gustave Le Bon. Il famoso antropologo, psicologo e sociologo francese visitò il Paese himalayano tra il 1884 e il 1886.
  • ...
  • “Azzurre lontananze” è un testo che fa corrispondere alla scorrevolezza della prosa il ritmo del viaggio: il filosofo viaggiatore cerca, nel suo andare-camminare, quell’Altrove che è comprensione e realizzazione di sé nel cosmo. L’appassionato di letteratura di viaggio che si avvicina al libro troverà ben altro che la semplice narrazione di esperienze esotiche. Attraverso il saggio introduttivo, infatti, il lettore è condotto nella filosofia del viaggio sottesa a tutte le esperienze che vengono narrate; una filosofia pratico-realizzativa declinata attraverso l’arte del camminare e dell’andar per monti.
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  • Siniscalchi

  • Brasillach
  • e la modernità degli antimoderni
  • Un saggio di
  • Claudio Siniscalchi  
  • di
  • Giovanni Sessa

  • Robert Brasillach, scrittore e poeta di vaglia, per troppo tempo è stato derubricato dalla vulgata critica dominante, al solo ruolo di intellettuale “collaborazionista”.  Il francese chiuse i suoi giorni nel 1945 davanti ad un plotone di esecuzione, al termine di un processo intentato a suo carico per “connivenza con il nemico”.  Il dibattimento, è bene precisarlo, durò solo poche ore.  De Gaulle gli negò la grazia, concessa ad altri, in quanto: «Nelle lettere, come in ogni ambito, il talento è un titolo di responsabilità» (p. 233). E Brasillach fu certamente uomo dai molti talenti, dotato di una qualità umana antica, il coraggio civile. Il valore dello scrittore e dell’uomo emerge a tutto tondo dalle pagine di un recente lavoro di Claudio Siniscalchi, accademico e storico del cinema, Senza romanticismo. Robert Brasillach, il cinema e la fine della Francia, nelle librerie per i tipi di Bietti, con prefazione di Stenio Solinas, attento esegeta dell’intellettuale transalpino (pp. 350, euro 22,00).   Il volume è arricchito da ampia bibliografia.
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  • Il testo può essere definito una biografia intellettuale, in quanto l’opera di Brasillach è indagata tenendo conto dei momenti più rilevanti della vita dell’autore. Il poeta non si rapportò mai astrattamente alla cultura, al contrario, a essa fu spinto dall’incalzare degli eventi storici e dalle conseguenze esistenziali che questi produssero sulla generazione che ebbe la ventura di vivere nei primi decenni del secolo XX.  Tutta la produzione di Brasillach, infatti, è il tentativo di dare la più radicale delle risposte al problema della decadenza francese ed europea. Così, la biografia intellettuale di Siniscalchi, godibilissima per la prosa affabulatoria, come nelle corde del miglior biografo anglosassone, si rivela strumento indispensabile all’esegesi della storia francese fino al termine della seconda guerra mondiale. Un’analisi condotta sine ira et studio, attraverso le voci più rilevanti di quella stagione letteraria e politica, così densa di intelligenze critiche, tra le quali un posto di primo piano, almeno negli ambienti della “destra” transalpina, ebbero uomini quali Rebatet, Drieu La Rochelle, Céline.   Siniscalchi è attento conoscitore di quel mondo e, come ricorda Solinas: «coglie benissimo un punto centrale della poetica di Brasillach, con il suo culto della giovinezza, che vuol dire memoria, ricordo, fedeltà […] quando osserva che per quelli della sua età “la giovinezza è il cinematografo”» (p. 10).
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  • Ciò implica, preliminarmente, che il francese si sia fatto latore del ruolo innovativo, nell’ambito storico-politico, dei giovani. Egli mirò sempre ad una vera e propria rivoluzione antropologica centrata sull’esaltazione dello slancio vitale della giovinezza, capace di realizzare il platonico “cambio di cuore”, la “metanoia o “periagoghè”, di chi se ne fosse fatto interprete. Fin dagli esordi letterari, si pensi a Presenza di Virgilio, opera pregna di pathos rivoluzionario, scritta in occasione del bimillenario virgiliano, si evince come l’autore vedesse nel fascismo un movimento politico mirato a realizzare, oltre crisi e decadenza, per dirla con Heidegger, un Nuovo Inizio della storia europea. Un Virgilio letto con gli occhi della contemporaneità, in quanto Brasillach era fermamente convito, al di là di qualsiasi progressismo, dell’immutabilità della natura umana. Virgilio, che aveva aderito al progetto imperiale di Augusto, mostrandone la corrispondenza col mito d’origine di Roma, non poteva non rappresentare un modello di impegno politico per gli uomini di lettere negli anni in cui la sorella latina, l’Italia, ambiva valorizzare le origini romane. Ma non si trattava soltanto dell'Italia; all’epoca la fortuna di Virgilio era notevole anche negli ambienti dell’Action Française, dai quali il nostro aveva preso le mosse, mettendo in luce la proprie qualità sulla stampa vicina a Maurras.   Robert Brasillach vide nel fascismo, più che una dottrina politica, un mito nel senso soreliano del termine: il mito del XX secolo. «Il fascismo è spirito», scrive in Notre avant-guerre.   Egli, come il suo Virgilio, assegnava alla bellezza una funzione morale, politica, religiosa, storica, educativa.
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  • Inoltre, il poeta mantovano avvertiva il richiamo dei culti di carattere agrario diffusi nella civiltà italica. Per quanto riguarda Brasillach e per inquadrare l'attrazione che esercitarono su di lui la pietas virgiliana e religiosità classica, forse non sarebbe fuor di luogo tener presenti le difficoltà nelle quali un cattolico dovette venirsi a trovare allorché la Santa Sede condannò l'Action Française e proibì agli iscritti di questa, la partecipazione ai sacramenti.  La visione del mondo del francese è pertanto, lo riconosce apertamente Siniscalchi, modernista-reazionaria, rivoluzionaria-conservatrice. Sotto il profilo politico la sua scelta fascista, divenne irreversibile dopo gli eventi del 6 febbraio 1934, giornata nella quale fascisti e comunisti avevano attaccato la sede del Parlamento e avevano lasciato 22 morti sulle strade di Parigi.  Maurras, chiosa Siniscalchi, in quell’occasione, mostrò la propria indole “inattiva”, fuori dalla realtà storica. Il Fronte Popolate di Blum non fece che radicalizzare la lotta tra fascismo ed antifascismo. In Brasillach venne meno il nazionalismo antigermanico del primo maestro e ciò spianò la strada alla sua collaborazione alla stampa dei “collaborazionisti”, in particolare a Je suis partout, che gli costò la vita.
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  • Nella produzione del nostro un ruolo di primo piano ha avuto, dalla giovinezza agli ultimi giorni, la critica cinematografica.  Nel 1935, scrisse con Maurice Bardèche, Histoire du cinéma, opera ristampata più volte: «Composta con estrema rapidità e con il “cuore che batte al ritmo della giovinezza”» (p. 123). I due decisero di pubblicarla, a seguito dell’incontro con Méliès, pioniere della cinematografia che nel 1902 produsse, Voyage dans la lune.  Dopo un periodo di immediato successo, il nome del regista-attore cadde nell’oblio. I suoi film furono: «viaggi “attraverso l’impossibile” per dar forma al mondo della meraviglia» (p. 122).  Ecco, di contro alla riduzione della “settima arte” a mero svago per gli uomini della società di massa o a forma espressiva dell’arte moderna, al pari della fotografia, priva di aura (Benjamin), Brasillach comprese il valore del cinema.  Un’arte, per dirla con il filosofo Massimo Donà, in cui viene meno il tratto epistemico del vero, statuito dall’elenchos aristotelico e nella quale la dimensione “immaginale” mostra, leopardianamente, che le cose non sono mai “quello che dicono di essere” (la non-pipa di Magritte).
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  • Senza romanticismo, è lettura accattivante e profonda. Da essa si evince, a proposito di Brasillach, la verità di un’affermazione di Antoine Compagnon, inerente alla “modernità degli antimoderni”.

 

  • TORNANDO SUL GROSSRAUM
  • di 
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • All’inizio di marzo scrissi un articolo “A colpi di Grossraum” sulla guerra russo-ucraina ricordando l’idea di Schmitt che, data la decadenza dello Stato westphaliano aveva previsto la divisione del pianeta in più spazi d’influenza politica, raggruppanti ciascuno più Stati guidati da una potenza egemone. A distanza di 3 mesi è opportuno tornarci sopra, non senza notare che l’evoluzione successiva ha confermato parte delle considerazioni lì esposte.      In primo luogo lo iato tra sovranità giuridica e sovranità di fatto.  Lo Stato, scriveva Spinoza, è “autonomo in quanto è in grado di provvedere alla propria sussistenza e alla propria difesa dall’aggressione di un altro…è soggetto ad altri, in quanto teme la potenza di un altro Stato o in quanto ne è impedito dal conseguire ciò che vuole o, infine, in quanto ha bisogno del suo aiuto per la propria conservazione o per il proprio incremento” onde la “formula” della sovranità è tantum juris quantum potentiae
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  • Borgonovo canfora

  • La guerra in Europa
  • Un libro intervista di
  • Borgonovo-Canfora 
  • rec. di
  • Giovanni Sessa

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  • Tra i molti libri che, nell’ultimo periodo, sono usciti al fine di individuare le ragioni della guerra in Ucraina, una menzione particolare merita il volume di Luciano Canfora e Francesco Borgonovo, Guerra in Europa. L’Occidente, la Russia e la propaganda, nelle librerie per Oaks editrice (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 125, euro 12,00).
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  • Il primo, docente emerito di filologia classica all’Università di Bari, il secondo vicedirettore del quotidiano La Verità, non si limitano semplicemente a presentare il conflitto combattuto al fronte in tutta la sua tragica drammaticità, ma si occupano della “guerra di propaganda” della quale, da qualche mese, siamo quotidianamente spettatori. Suoi protagonisti indiscussi sono i mass media, in particolare occidentali, schierati a difendere gli interessi di una sola parte. Guerra in Europa è libro articolato: all’intervista in tema rilasciata da Canfora a Borgonovo, si accompagnano saggi dei due autori.
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  • Le domande sono mirate e circoscritte, le risposte sintetiche, efficaci, puntuali. Si tratta, non soltanto di una lettura piacevole, ma imprescindibile per aver contezza dell’attuale status quo geo-politico e della fine del mondo unilateralmente retto dal potere USA. In merito alla guerra, è bene muovere dalla considerazione d’apertura di Canfora che, ricordando Tucidide e la sua esegesi della guerra che, nel mondo greco, vide contrapposte Atene e Sparta, sostiene che per conoscere realmente la storia di un conflitto è necessario individuarne le cause nel periodo di pace che lo precede. Per quanto attiene al caso russo-ucraino, non è sufficiente riferirsi alla guerra in Donbass del 2014, sottaciuta dalla grande stampa del mondo occidentale, ma risulta dirimente guardare al 1990. In quell’anno, il segretario di Stato USA, James Baker: «garantì a Gorbaciov che, se l’URSS avesse accettato lo smantellamento dell’Est Europa, la Nato non sarebbe avanzata di un centimetro» (p. 33). Così non è stato, anzi i “confini Nato” sono stati notevolmente ampliati nel corso degli ultimi decenni, in direzione Oriente. Canfora ricorda come, situazioni non dissimili, si fossero manifestate a ridosso del Primo, quanto del Secondo conflitto mondiale. Nel 1914, visto il rischio di perdere il primato sui mari a causa del rafforzamento della marina della Germania, la Gran Bretagna spinse l’Europa verso la guerra di “contenimento” nei confronti dei tedeschi.
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  • Allora la responsabilità fu scaricata esclusivamente sulle spalle teutoniche e su quelle dei loro alleati, oggi assistiamo, sic et simpliciter, alla reductio ad Hitlerum, di Putin e della Russia. Per la Seconda guerra mondiale, lo storico J. P. Taylor, ricorda il filologo, ha sostenuto che le colpe non furono ad esclusivo carico dei nazisti, in quanto anche: «l’Occidente ha avuto gravi responsabilità» (p. 43). Nel 2021, in continuità con gli accordi di Minsk del 2015, riferisce Borgonovo, i russi hanno presentato richieste chiare all’Ucraina, finalizzate a scongiurare la guerra. In particolare, si chiedeva a Kiev di mantenere la propria neutralità. Ciò non è accaduto. Peraltro, mentre alcuni anni fa comparivano, perfino sulla stampa italiana, articoli mirati a sostenere che, nel “colpo di Stato” che eliminò in quel paese il presidente Yanukovich, corrotto, di certo, ma eletto dal popolo, un ruolo di primo piano nella instaurazione del successivo governo Yatseniuk, lo giocarono tanto il Dipartimento di Stato americano, quanto formazioni politiche neo-Nazi, presenti sul territorio ucraino. Oggi, poiché Putin ha sostenuto di voler “denazificare” l’Ucraina, per i mezzi di comunicazione occidentali a Kiev il neo-nazismo del battaglione Azov non è più un problema, non esiste: l’unico regime nazista è quello russo. È stato quantomeno sottaciuto, inoltre, il ruolo svolto da Soros e dalla finanza internazionale nel cambio di governo in Ucraina.
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  • Se il filosofo Aleksander Dugin vede in Mosca la Terza Roma in lotta contro la Nuova Cartagine, l’Occidente dissoluto e transgender, noti politologi occidentali vedono nella Russia di Putin l’incarnazione della civiltà tradizionale in strenua opposizione ai valori laici e capitalistici pienamente incarnati dall’esperimento politico neognostico degli USA. In Russia, notano Canfora e Borgonovo, persino il bolscevismo, con Stalin, ebbe una torsione nazionalista, che giocò un ruolo dirimente per l’esito vittorioso dell’URSS nel Secondo conflitto. La reductio ad Hitlerum, nella guerra di comunicazione condotta dall’Occidente, non è un nuovo espediente. Gli Usa: «Nel 2003, in Iraq, hanno distrutto uno Stato che raffiguravano come fosse retto dal nuovo Hitler» (p. 86). In precedenza, in Kosovo, le cose non andarono diversamente. Eppure, nessuno stigmatizzò negativamente la politica estera Usa e le bombe della Nato. La violenza è ritenuta legittima, quando viene utilizzata dagli “illuminati”. In questo caso, essa è mirata, inevitabile. Si tratta di “guerre balistiche”, come chiosò lo storico Guy Hermet, attraverso le quali l’Occidente  "elargisce civiltà e democrazia a popoli riottosi e arretrati".
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  • La retorica dei valori occidentali è divenuta stucchevole. Come aveva capito Guénon, lo ricorda Borgonovo, essa si fonda su un “razzismo moralistico”, alla luce del quale gli occidentali: «vogliono costringere il mondo intero a imitarli in nome della “libertà”!» (p. 118). Esiziale è risultata, di fronte all’esplodere della crisi ucraina, l’inesistenza dell’Europa quale entità politica e militare autonoma. Le leadership europee si sono mostrate totalmente appiattite sulle decisioni Usa. Draghi è stato, fin dalla fine del febbraio scorso, il più fedele “soldatino” di Biden. Le politiche di quest’ultimo, che sul piano personale è perfetto simbolo della crisi irreversibile della post-modernità, sono in linea con quelle dei presidenti G. Bush e Clinton che, per primi, hanno perseguito il sogno utopistico di un mondo unipolare. Eppure, come nota Borgonovo, esiste un’altra America capace di riconoscere i limiti di tali scelte. Esiste un “conservatorismo” statunitense (Rod Dreher) che, pur non essendo affatto riducibile a posizioni filo russe, lancia a Biden moniti politici affinché metta in atto scelte realiste e prudenti. Dreher si dice spaventato dalla russofobia dilagante che, in Italia, è giunta addirittura a stilare liste di proscrizione di presunti filo-putiniani.
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  • Per molti, quindi, siamo nel bel mezzo di una “guerra di civiltà”. Chi scrive è convinto che si tratti di una definizione eccessiva. Siamo di fronte alla fine degli assetti geopolitici prodottisi al termine dell’ultimo conflitto mondiale. Formalmente, la Russia può forse presentarsi quale katéchon, potere raffrenante la dismisura della società liquida, baluardo del mondo tradizionale. In realtà, anch’essa, a ben guardare, cova, al proprio interno, il germe che, in teoria, dovrebbe combattere. Chi sono, infatti, gli “oligarchi” di Putin, se non uomini spiritualmente (e non solo) in linea con la finanza internazionale? Tale oligarchia del denaro, ha già aperto ampie fenditure nella muraglia tradizionale di “Santa Madre Russia” e presto si porrà esplicitamente dalla parte del nemico.   Guerra in Europa è, pertanto, una lettura che permette non solo la comprensione del presente, ma apre ampi squarci sul futuro prossimo-venturo.

  • Azzurre Lontananze Sessa Le Bon IDUNA

  • Sul viaggiare e sulla tradizione
  • di 
  • GIOVANNI   DAMIANO
  • (da  "Pagine Filosofali"  del 22.06.2022)

  • Uno dei feticci del nostro tempo è il viaggiare, il ‘conoscere posti’. Che poi il viaggiare per ogni dove si traduca in esperienze è tutt’altro discorso. Anzi, proprio quest’ossessione per il viaggio è probabilmente uno dei segni più evidenti dell’attuale fine dell’esperienza, intesa quest’ultima come trasformazione profonda, vissuta in modo radicale e autenticamente arricchente, e non come superficiale coinvolgimento, meramente emotivo, dettato dalle mode del momento. Si tratta di quella condizione denunciata già da Arnold Gehlen nel suo L’uomo nell’era della tecnica, dove la perdita dell’esperienza finiva per corrispondere a quei poveri e vuoti simulacri che sempre il grande studioso tedesco definiva esperienze di seconda mano.   A ciò possono accompagnarsi alcuni versi di Gottfried Benn (la poesia è Viaggi, dalla raccolta Frammenti e Distillazioni). Qui a parlare è il Benn tolemaico, lontanissimo da ogni convulso ‘andare’, refrattario alla fretta, indisponibile al Nerven leben moderno:
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  • “Lei crede che dalla Havana, bianca e rossa d’ibisco, sgorghi un’eterna manna per la sete del Suo deserto?  ...Su tutte le Fifth Avenue Lei è assalito dal vuoto – Ah com’è vano l’andare!   Lei tardi apprende se stesso: restare e in silenzio serbare l’io che si traccia i confini”.
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  • Alternative possibili, oltre lo ‘stare’ di Benn? Quella che Walter Benjamin chiamava “inquietudine irrigidita”, che quindi “non conosce sviluppo”; si pensi a Dino Campana (“non potevo stare in nessun luogo”), al Lenz dell’omonimo racconto di Büchner, o a Fuga senza fine di Joseph Roth. Oppure si leggano le pagine dell’ultimo libro di Giovanni Sessa, Azzurre lontananze. Tradizione on the road, appena uscito per i tipi di Iduna, per apprezzare un altro possibile modo di viaggiare, quello che, pur partendo da esigenze in fondo generazionali (a confessarlo è l’autore, e a testimoniarlo è l’on the road del sottotitolo), si apre a una dimensione altra, che è quella della tradizione. Con due guadagni evidenti: presentare la tradizione non come sterile trasmissione di un patrimonio statico e atemporale, bensì come esperienza, alla lettera, in cammino, dinamica e diveniente, e dunque senza fossilizzarla alla stregua di un deposito erudito di conoscenze, ma trasformandola in prassi vitale, in esperienza esistenziale.   E anche il linguaggio utilizzato da Sessa rende bene la freschezza e la vivacità di questi viaggi, privo com’è di inutili appesantimenti intellettualistici o di verbosa retorica.
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  • C’è poi un significato ulteriore, che attraversa sottotraccia l’intero testo, rinviante alla ‘costellazione geografica’ disegnata dai viaggi dell’Autore. A mio avviso, una ‘costellazione’ in fondo, e non casualmente, indoeuropea. Non dirò nulla dell’Oriente (viaggi in Nepal, in Pakistan e nel Karakorum, e in Mongolia) per mancanza di conoscenze ed esperienze al riguardo. Per i viaggi in Irlanda e soprattutto Islanda, mi sembra che Sessa si sia mosso seguendo il medesimo impulso dei Greci, ovvero guardare all’Estremo Nord come sede dei mitici Iperborei e ripercorrere le orme di Pitea che, risalendo l’Atlantico da Gibilterra, raggiunse le isole britanniche e forse il circolo polare artico, avventurandosi nel grande Nord e scoprendo l’isola di Thule (forse la stessa Islanda).  In definitiva, uno sguardo sull’altrove, ma per cercarvi il proprio.

  • Civilizzati fino alla morte
  • C.  RYAN
  • Civilizzati fino alla morte
  • Il prezzo del progresso
  • rec.  di
  • Giovanni Sessa
  • La Modernità, fin dai suoi esordi, non ha celato il proprio mito fondativo: l’idea di progresso. Nell’ultimo periodo, nonostante i tentativi messi in atto, a sostegno di tale mito, dai grandi mezzi di comunicazione di massa, qualcuno comincia a dubitarne seriamente.   Lo conferma la recente pubblicazione in lingua italiana del volume di Cristopher Ryan, noto pubblicista e scrittore statunitense, Civilizzati fino alla morte. Il prezzo del progresso, comparso nel catalogo di Odoya editore (pp. 286, euro 20,00).   Di fronte ai drammi ecologici del nostro pianeta, ai disastri ambientali indotti dal cambiamento climatico, al dramma sanitario-politico della pandemia globale, cui abbiamo assistito negli ultimi due anni e, in ultimo, all’esplodere della guerra russo-ucraina le cui conseguenze potrebbero rivelarsi tragiche per le sorti dell’umanità, le pagine di questo libro risultano, non solo di stringente attualità, ma chiarificatrici rispetto al nostro futuro.
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  • Si tratta di un volume che mette in discussione il senso comune contemporaneo e le sue false certezze: «Malgrado i prodigi del nostro tempo […] ci troviamo in un’epoca di profondi sconvolgimenti» (p. 13). Un ipotetico viaggiatore del tempo, proveniente dal più lontano passato, di fronte all’innovazione tecnologica della nostra epoca, all’inizio, sostiene Ryan, rimarrebbe sicuramente abbagliato, affascinato.      Una volta: «attenuatosi lo stupore per gli smartphone, i viaggi in aereo e le automobili […] che cosa direbbe della sostanza e del significato delle nostre vite?» (p. 13). Constaterebbe che, nonostante i rilevanti “progressi” materiali, ci siamo lasciati alle spalle un patrimonio di valori dei quali non abbiamo più alcuna consapevolezza. Del resto, che le popolazioni “primitive” non mostrassero alcun interesse nei confronti della “civilizzazione” moderna, ne ebbe contezza Benjamin Franklin.   Questi riferì che i “pellerossa” da lui incontrati non avevano mai: «avuto la benché minima inclinazione a scambiare il loro modo di vivere con il nostro» (p. 13). Per non dire degli indios che Darwin portò con sé in Inghilterra, per farli “istruire” da docenti che gli inculcassero i valori della civiltà occidentale e che, una volta tornati in Sud America, fuggirono dalle sue “cure” per vivere con il proprio popolo, felici della vita da raccoglitori-cacciatori.
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  • Carl Jung ha notato come la stessa idea di progresso costringa gli uomini ad allontanarsi dal passato, a dimenticalo: tale necessità ci ha proiettati nel futuro e nelle sue chimeriche promesse di un’età dell’oro sempre di là da venire. Le promesse del continuo miglioramento della nostra sorte sono state mantenute?   Ryan risponde negativamente. Ricorda che, nel 1928, l’economista Keynes pensava che di lì a un secolo le sorti dell’umanità si sarebbero evolute a tal punto, che gli uomini avrebbero dovuto risolvere un solo problema: occupare il tempo libero, visto che le tecnologia ci avrebbe liberati dalle incombenze lavorative e dal bisogno economico.   E’ accaduto esattamente il contrario. A fronte di un numero limitatissimo di “ricchissimi”, il capitalismo “cognitivo” ha prodotto masse di diseredati.   Il 44% degli statunitensi che guadagnano tra i 40.000 e i 100.000 dollari l’anno, non possono contare su 400 dollari in caso di pressante necessità.   Tra il 1990 e il 2014 il PIL è aumentato negli Usa del 271%, nello stesso periodo le persone che vivevano con meno di 5 dollari al giorno sono cresciute del 10% e quelle che soffrivano la fame del 9%.
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  • L’autore precisa: «Non contesto l’effettiva realtà del progresso in alcuni ambiti, ma nutro i miei dubbi sulle modalità in cui può essere concettualizzato e misurato» (p. 17). L’idea di progresso assoluto è pertanto una chimera o, al più, una speranza che rispetto ai disastri del presente svolge funzione ansiolitica. Per questo, l’importanza del libro in questione va rintracciata nel suo mettere in discussione “la narrativa del progresso perpetuo” che a partire da certa cultura rinascimentale, attraverso Hobbes, è giunta sino a noi.   Tale falsa narrazione dello stato delle cose, nel corso dei secoli: «ha giustificato schiavitù e […] colonialismo» (p. 26), pur essendo fondata su un’asserzione apodittica di tal fatta: «in passato, tutto era decisamente peggio» (p. 27).   Insomma, il nostro autore, con una strumentazione culturale diversificata e metodo d’analisi pluridisciplinare, smantella radicalmente il dogma moderno, proprio come, nel corso del tempo, hanno fatto gli autori tradizionalisti. Il libro, nella sua prima parte, analizza le: «informazioni più salienti sul reale stile di vita dei nostri antenati» (p. 28), anche preistorici, tentando di liberare la nostra visione delle epoche storiche più lontane dal pregiudizio progressista.   Mostra, inoltre, nei capitoli seguenti, come la “narrativa del progresso perpetuo” abbia determinato traumi e sofferenze di grande rilevanza.   Nella conclusione del volume viene ipotizzata una nuova narrazione possibile relativa alla nostra origine.   Ryan, si intrattiene, alla luce di queste tesi decisamente altre rispetto all’intellettualmente corretto, su un possibile avvenire dal tratto nuovo-antico.
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  • Oltre che attuale e sferzante nei confronti della cultura dominante, è un testo dal tratto profetico.

  • Faye

  • Dèi e Potenza
  • Il prometeismo di
  • Guillaume Faye
  • di
  • Giovanni Sessa
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  • E’ nelle librerie per i tipi di Altaforte Edizioni una novità di rilievo. Si tratta del volume di Guillaume Faye, Dèi e potenza. Testi e interviste per la riconquista europea (1979-2019), a cura di Adriano Scianca (pp. 284, euro 17,00). É una silloge di scritti del pensatore francese, per lo più inediti nella nostra lingua. Il percorso intellettuale di Faye, per un certo tratto vicino a quello della Nouvelle droite, iniziò con la frequentazione del Cercle Pareto. Dominique Venner lo introdusse al Grece, sorto nel 1969. Su di lui, lo ricorda opportunamente Scianca nell’informata prefazione, esercitarono decisiva influenza le tesi di Jean Mabire e, soprattutto, di Giorgio Locchi. Nel 1986 ruppe definitivamente con la Nouvelle droite, non per ragioni personali o contrasti d’idee, ma semplicemente perché la sua personale ricerca stava prendendo una strada diversa.
  • ...
  • Provocatore intellettuale, oltre che per carattere, Faye, scomparso nel 2019, era dotato di una non comune capacità oratoria con la quale conquistava l’uditorio durante le affollate conferenze. La lettura di questa raccolta, che copre diversi decenni della sua produzione saggistica, consente di farsi un’idea precisa sul suo mondo ideale. Dello studioso francese si ricordano generalmente due testi, Il sistema per uccidere i popoli, che ben sintetizza la sua iniziale visione del mondo e Archeofuturismo che, al contrario, è il suo punto d’arrivo teorico. Dalle pagine di Dèi e potenza si evince, in prima istanza che egli ebbe: «un non banale retroterra filosofico, una eclettica visione della realtà di marca eraclitea. Il suo pensiero riposa su un’ontologia non finalista, non antropocentrica e non razionalistica, apertamente dionisiaca» (p. 8).
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  • SERVILITÁ   
  • di  
  • Teodoro Klitsche de la Grange

  • Da quanto si legge sulla stampa il Ministero degli esteri russo avrebbe tacciato il comportamento italiano nella guerra russo-ucraina “servile e miope” e che dimostrerebbe “anche l’a-moralità” di alcuni rappresentanti delle autorità pubbliche e dei media italiani. In risposta – si legge in un comunicato – la Farnesina “ha respinto con fermezza le accuse di amoralità di alcuni rappresentanti delle istituzioni e dei media italiani, espresse in recenti dichiarazioni del Ministero degli Esteri russo…” Ad aver attirato quasi universalmente l’attenzione è stata quell’ “amoralità”; a mio avviso avrebbe dovuto esserlo quel “servile”. E spiego il perché.
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  • Non so se al Ministero degli esteri russo conoscono il discorso di V.E. Orlando alla Costituente, perorante il rifiuto della ratifica del trattato di pace tra Italia e vincitori della seconda guerra mondiale. Probabilmente lo conoscono, perché tra i vincitori c’era anche l’U.R.S.S.; e Orlando – Presidente della vittoria - era un personaggio da non passare inosservato. Quel discorso terminava con una profezia: “Questi sono voti di cui si risponde dinanzi alle generazioni future: si risponde nei secoli di queste abiezioni fatte per cupidigia di servilità”.
  • ...
  • Sempre nello stesso discorso, ben conoscendo i difetti nazionali, Orlando sosteneva che malgrado grandi personaggi francesi avessero collaborato con i nazisti, come i fascisti repubblichini, la differenza era che noi dovevamo essere rieducati alla libertà e alla democrazia, i francesi no, perché la “vera superiorità della Francia su di noi può riconoscersi nella fierezza dei suoi rappresentanti” (peccato che Letta non l’abbia assimilata). E quanto alla nostra esterofilia (coniugata ad un “complesso di colpa”): “nei rapporti con l’estero noi ci dobbiamo sempre precipitare; noi sentiamo sempre l’urgente bisogno di dar prova al mondo che siamo dei ragazzi traviati”. Anche questo difetto ricorrente è inestinguibile: vi contribuisce un fondo di (parziale) verità. Le classi dirigenti nostrane non sono all’altezza di quelle estere, dedicandosi con eccessivo zelo al proprio particulare piuttosto che all’interesse generale quasi fossero dei privati. E hanno quindi la convenienza ad addebitare al popolo italiano un difetto che grava maggiormente sulle élite.
  • ...
  • Il fatto che il governo russo stigmatizzi il servilismo italiano è un’ulteriore conferma della differenza della profondità di vista tra statisti, come Orlando, e non: i primi vedono a lungo termine, i secondi solo a breve (o brevissimo). A più di settant’anni dalla sconfitta non riusciamo a scuotercene di dosso le conseguenze. Perfino la Germania con le enormi responsabilità di Hitler, è riuscita (e riesce) a non appiattirsi sugli U.S.A. Quando Busch jr iniziò la seconda guerra irachena (finita come sappiamo) i tedeschi (e i francesi) gli risposero di accomodarsi da solo. L’Italia si mise sull’attenti e fornì le proprie truppe (e il loro sangue – Nassiria): gli ascari della NATO. Inoltre quando i governanti esternano e praticano la dipendenza dall’estero (i “compiti a casa”) se la cavano senza danni; laddove hanno un soprassalto d’indipendenza (v. Craxi e Andreotti a Sigonella) finiscono in esilio o sotto processo, comunque senza potere perché giudicati poco sottomessi a quelli “forti” (spesso tali solo per la debolezza loro). Attitudine sottomessa confermata anche nella guerra russo-ucraina e oggetto della (facile) ironia di Mosca, come della profondità della previsione di Orlando.
  • ...
  • Ma quand’è che un comportamento diventa “servile”, ossia qual è per così dire il “criterio della servilità” (almeno il principale)?  E qua bisogna andare ad un concetto – e ad una conseguente distinzione – che pur risalente (almeno) a S. Tommaso “La legge è un ordinamento di ragione volto al bene comune, promulgata da chi abbia la cura della comunità”, preferiamo riportare da Jean Bodin. Questi ritiene che “Per Stato si intende il governo giusto che si esercita con potere sovrano su diverse famiglie e su tutto ciò che esse hanno in comune”, governo che dev’essere ordinato al bene comune; concetto che, evolvendosi nella secolarizzazione dei secoli successivi, ha cambiato nome (ma meno i connotati) diventando l’interesse generale, s’intende dei cittadini.
  • ...
  • Notare che Bodin insiste (ripetutamente sul fatto che il sovrano “non deve essere in alcun modo soggetto al comando altrui, e deve poter dare la legge ai sudditi…Il principe o il duca, infatti… non è sovrano se a sua volta la riceve da un superiore o da un uguale (…); ancor meno poi si può dire sovrano se non ha il potere altro che in qualità di vicario, luogotenente o reggente…”.
  • ...
  • Ciò stante il dovere del governante è di fare l’interesse generale: se fa quello di altri, compreso il proprio, a scapito di quello generale, non solo fa male, ma distorce la condizione perché possa esercitare il potere di fare l’interesse di tutti: la propria indipendenza; che è il carattere principale della sovranità.    E infatti l’Italia, come gran parte del pianeta, è a sovranità limitata. Che significa servilità assicurata.

 

  • Marcel

  • Diario metafisico
  • La filosofia dell’esistenza di Gabriel Marcel
  • di
  • Giovanni Sessa
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  • Gabriel Marcel è uno dei grandi nomi della filosofia del Novecento. Come tutti i pensatori di rilievo, si sottrae alle facili classificazioni. La sua fu autentica filosofia, trascrizione dei dubbi, delle pressanti interrogazioni che animarono la sua intelligenza curiosa per l’intero arco dell’esistenza. Un tentativo di risposta, quello da lui messo in campo, nel quale la ragione è coniugata con la passione di vita. Lo si evince dalle pagine di, Diario metafisico, uscito in seconda edizione nel catalogo di Iduna, per la cura di Ferdinando Tartaglia e con introduzione di Armando Torno (per ordini: associazione.iduna@gmail.com, pp. 200, euro 20,00). Il testo, oltre al diario vero e proprio, raccoglie quattro saggi.  La prima edizione vide la luce in Italia nel 1943, sempre per la cura di Tartaglia.
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  • Il curatore rileva, in un intenso e appassionato colloquio con Marcel, alcuni possibili limiti della filosofia di quest’ultimo, anche se, proprio nell’iter del francese, vedeva rispecchiasi il suo stesso percorso. Ma, come nota Torno: «in Francia […] Marcel aveva a sua disposizione orizzonti sterminati e una società sensibile, in Italia il sacerdote Tartaglia non riuscì nemmeno a dialogare con la Chiesa: si arrivò alla scomunica» (p. II). Entrambi erano stati testimoni delle tragedie prodotte dalle due Guerre mondiali e del trionfo della filosofia positivista, il cui ottimismo progressista non li aveva convinti.  Marcel, che insegnò lungamente nei licei, fu giornalista, musicologo e critico teatrale, mosse i primi passi in filosofia spendendosi sulle opere degli idealisti tedeschi per giungere, infine, all’incontro con il realismo tomista. Colloquiò con l’esistenzialismo, con il quale condivideva di fatto il punto d’avvio del pensiero: l’analisi della condizione umana. Da tale situazione, Marcel che nel 1929 si era convertito dall’ebraismo al cattolicesimo, trasse la convinzione che: «senza l’aiuto di Dio le creature non riescono a fare che il male nel mondo» (p. I).
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  • Marcel si definì un “socratico cristiano”, ma tale definizione non è convincente. Pier Paolo Ottonello ritenne che egli fosse: «rappresentante di quel versante della filosofia esistenziale che confina con la philosophie de l’esprit» (p. II). In realtà, a modo di vedere di chi scrive, è il termine “socratico” attribuito a Marcel a non convincere.  Il socratismo, infatti, implica che la filosofia sia inesausta interrogazione aporetica, un domandare inconcluso. Al contrario, l’opzione di fede presente in Marcel, di fatto annulla l’interrogazione “aperta”.  Detto questo, il pensatore francese è latore di una filosofia centrata sulla ricerca dell’autenticità esistenziale.   Non è casuale che Evola in, Cavalcare la tigre, nella sua radicale critica all’esistenzialismo, “salvi” solo la sua prospettiva speculativa.   Questi era, infatti, sulle tracce, come si evince dallo scritto che chiude la silloge, Lineamenti di una filosofia concreta, di un pensiero persuaso, mai distinto dalla vita, dalla prassi vitale del singolo che se ne fa interprete.   Leggendo le sue opere e, in particolare, Diario metafisico, che ne registra il travaglio interiore a partire dal 10 novembre 1928, si ha immediata contezza di trovarsi di fronte a una chiara testimonianza di quella che Kierkegaard aveva definito “comunicazione d’esistenza”.
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  • Una forma espressiva che rifugge da qualsivoglia retorica del consenso, che mira a “scuotere”, a svegliare dalle false e facili certezze, il lettore medio.  Marcel ha per sodali nomi di rilievo della filosofia dello spirito francese. Lo ricorda Tartaglia citando tra loro Lavelle, Le Senne, Wahl e, soprattutto, Secretan e Hamelin, apprezzati dallo stesso Evola nel momento in cui stava elaborando il proprio idealismo magico.  Fin dalle prime pagine del Diario, il pensatore francese si confronta con il problema gnoseologico, prendendo atto che: «non si possono dissociare realmente: l’esistenza; la coscienza di sé come esistente; la coscienza di sé […] come incarnato» (p. 10)   Per la qualcosa: «l’immagine dell’uomo cui giunse era quella di un essere incarnato e itinerante come un’anima immortale», rileva Torno (p II). Per tale posizione, qualora si voglia collocarlo nel panorama dell’esistenzialismo, va detto che egli fu l’anti-Sartre.  Meglio, fu il testimone di maggior rilievo teoretico della filosofia dell’esistenza cristiana, prospettiva altra da quella, in senso stretto, “esistenzialista”.   Il 5 marzo 1929 scrisse: «Non dubito più. Gioia prodigiosa […] Ho fatto per la prima volta esperienza della grazia» (p. III).
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  • La scoperta della grazia lo rese edotto dell’inanità della ragione cartesiana: il valore del pensiero va colto nella sua capacità di astrarci dall’esistenza puramente cosale, animale, biologica.   D’altro lato, Marcel coglie in, Rilievi sull’irreligione contemporanea, la problematicità della tecnica.   Essa, a suo dire, rappresenta uno stimolo all’incredulità e induce il rifiuto aprioristico dell’uomo con il “Tu”, che, al contrario, l’amore e la carità ci fanno incontrare nel volto del prossimo. Due sono gli snodi più rilevanti della filosofia di Marcel: la priorità della concreta esistenza nei confronti di qualsivoglia universale e il suo confluire nell’assolutizzazione dell’elemento religioso. La filosofia, nella sua prospettiva, non deve condurre a sciogliere l’enigma della vita, ma a far comprendere che essa è fondamentalmente “mistero”: «Un mistero è un problema che usurpa i propri dati, che li invade e perciò li supera come problema» (p. III).
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  • In ciò è da rilevarsi la prossimità nei confronti di un filosofo misconosciuto del nostro Novecento, Andrea Emo.   Il mistero dell’origine, della nostra “presenza”, è testimoniato dalla musica: «Ho capito bruscamente che c’è un’universalità che non è d’ordine concettuale, ed in ciò è la chiave dell’idea musicale» (p. 106). Il suono originario, il mistero del suono.  Come rilevato in Nota da Tartaglia, Marcel è: «come documento di un trapasso, come una delle rare voci di un’epoca […] ci sia lecito sperare che la sua ricerca trovi aperture più alte» (p. 198). Un augurio che condividiamo in toto.

                                       

  • NAUFRAGIO NEL CONTROMONDO

  • Aldo Giorgio Salvatori
  • Naufragio nel contromondo
  • (Solfanelli 2022, pp. 196, € 13,00)
  • recensione di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Il contromondo di cui scrive l’autore nel libro è quello della nostra post-modernità, c.d. “liquida”, nel senso che non riesce a costituire certezze, tanto meno relativamente stabili e condivise.      Oggi di doveri si parla poco, i desideri – anche quelli meno sentiti dai più, diventano diritti e il passato viene valutato con i criteri “liquidi” del presente.    
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  • È così che sono giudicati personaggi spesso per prese di posizione poco rilevanti e (del tutto) decontestualizzate. Churchill, Mozart, Dante, Philip Roth diventano oggetto di disapprovazione, a dispetto della loro statura politica e letteraria – completamente dimenticata - per la misoginia di qualcuno o per avere messo all’inferno i sodomiti (come fece Dante).
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  • Salvatori cita notizie, articoli, spot, mostrando come il pensiero unico si emani in tante affermazioni e campi spesso assai distanti. Questo in succinti capitoli i quali espongono come da un’unità di ispirazione (e direttiva) si scenda nei temi più vari: pur mantenendo la stessa matrice e le stesse coordinate.
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  • A chiedersi qual è la matrice comune di opinioni che spaziano dal gender ai migranti, dal clima all’animalismo, dal razzismo ai vaccini, le risposte sono plurime. Ma una sovrasta – ancorché non esaurisca le altre: è che il “contro-mondo” vive in un presente soggettivo, e in base a quello giudica. Presente perché applica gli idola contemporanei; soggettivo perché non si pone il problema del common sense, della condivisione comunitaria dei criteri di giudizio. É un’ipertrofia dell’ego, che sostituisce l’obiettività con la buona convinzione. Qualche decennio fa un pensatore come Julien Freund notava la direzione del percorso del pensiero occidentale poi sviluppatosi fino ad oggi consistente nello spingere all’estremo i principi che l’hanno caratterizzato. Così il Rinascimento europeo, il cui connotato saliente era la razionalizzazione, nella fase decadente si trasforma nel di esso estremo, cioè nell’intellettualizzazione. Perdendo sia il legame con la realtà che il senso della misura, che l’avevano connotato per secoli.   Spesso diventa un pensiero razioide, senza alcun legame con la realtà; in altri non commisura scopo e mezzi, privilegiando l’intenzione di ottenere quello senza badare a questi.   Sintomi sicuri di decadenza.
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  • Il contro-mondo, nel quale rischiamo di naufragare è la decadenza.   E questo saggio, anche con gradevole ironia, può essere una ciambella di salvataggio.



 

  • Florenskij

  • L’origine della filosofia
  • Un volume fondamentale di Pavel A. Florenskij
  • di
  • Giovanni Sessa
  • Pavel A. Florenskij è sicuramente una figura imprescindibile del pensiero del Novecento. Intelligenza versatile, appassionata, intransigentemente antimoderna, si è speso, nel corso di una vita segnata da dolore e tragedia, per rintracciare una via di uscita dallo stato presente delle cose. Lo dimostra la recente pubblicazione di un suo volume di grande rilievo storico-filosofico, oltre che teoretico. Ci riferiamo a, Primi passi della filosofia. Lezioni sull’origine della filosofia occidentale, comparso nel catalogo Mimesis, per la cura di Andrea Dezi (per ordini: 02/24861657, mimesis@mimesisedizioni.it, pp. 257, euro 22,00).  Il libro raccoglie due cicli di lezioni che Florenskij tenne, tra il 1908 e il 1909, all’Accademia teologica di Mosca sul tema dell’origine della filosofia. Il testo fa riferimento all’edizione russa integrale apparsa nel 2015.
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  • Il fil rouge che attraversa l’intera trattazione va rintracciato nella ferma convinzione del pensatore che la filosofia sia nata dal culto di Poseidone. Rileva Dezi con Florenskij: «La filosofia appare nel VI secolo a.C. […] come impulso dialettico […] alla formulazione dell’idea religiosa di Poseidone» (p. 11). Per il filosofo russo, come per Colli, i: «concetti filosofici non sono altro che trasformazioni delle forme religiose, mitiche. Il mitologhema precede geneticamente il filosofema» (p. 11). La filosofia, insomma, non sorse quale sapere “razionale” in contrapposizione al mito, ma si pose in continuità con i contenuti espressi da quest’ultimo. Il sapere teoretico riformulò il religioso in modalità nuova. Del resto, il mito non è affatto riducibile a conoscenza leggendaria, favolistica tanto che, con la filosofia che da esso discese, si manifestarono i primi rudimenti di scienza della natura in Talete. Il milesio fu il primo a comprendere: «la possibilità di un attraversamento dialettico della divina attualità poseidonica» (p. 12). Florenskij giunse a tale tesi sulla scorta del rinnovato interesse russo per il pensiero antico. In particolare, dalle sue pagine si evince l’influenza di S. N. Trubeckoj, docente che il teologo aveva seguito durante gli anni di studentato universitario.
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  • C’ERA  UNA  VOLTA  LA  NEUTRALITÁ
  • di
  • Teodoro Klitsche de la Grange
  • Anche la guerra in Ucraina conferma che la neutralità, ossia l’estraneità dei non belligeranti ad un conflitto tra Stati, ha subito un radicale cambiamento in conseguenza delle innovazioni al diritto internazionale nel XX secolo.   Prima lo stato neutrale era (rigorosamente) imparziale nei confronti dei belligeranti.  Tale imparzialità comportava il dovere di astenersi da ogni iniziativa tesa a favorire lo sforzo bellico (di uno) dei contendenti; a questo corrispondeva il diritto di non sopportare operazioni belliche – e il loro effetti – sul proprio territorio, popolazione, commercio.
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  • Nel periodo tra le due guerre mondiali e nel successivo la neutralità “classica” fu decisamente ridimensionata: in particolare il divieto di ricorso alla forza di cui allo Statuto dell’ONU ha eroso l’imparzialità dei neutrali, perché è loro consentito di aiutare l’aggredito e sanzionare l’aggressore. Pertanto la tanto – e giustamente – discussa fornitura da parte degli U.S.A. e di alcuni Stati dell’Unione europea di armi all’Ucraina (cui si aggiungono le misure anti-russe) farebbero parte di questa innovazione al diritto internazionale.  Ciò comunque comporta una diversa problematica, in relazione al diverso carattere della “guerra” moderna.   Infatti, più o meno nel XX secolo in cui mutava lo status del neutrale, cambiava pure quello di guerra; l’ostilità, connessa strettamente alla volontà di imporre la propria, assumeva diverse forme, caratterizzate dall’assenza (e dalla drastica limitazione) dell’uso delle armi.  Conflitti sì, ma disarmati.
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  • Il libro dei “bravi colonnelli cinesi Guerra senza limiti (da me spesso citato) ce ne fornisce ragione ed esempi. Gli autori scrivono: “...da questo momento in poi la guerra non sarà più ciò che è stata tradizionalmente. Il che significa che, se l’umanità non avrà altra scelta che entrare in conflitto, non potrà più condurlo nei modi consueti… Quando la gente comincia ad entusiasmarsi e a gioire… per la riduzione di forze militari come mezzo per la risoluzione dei conflitti, la guerra è destinata a rinascere in altre forme e su di un altro scenario, trasformandosi in un altro strumento di enorme potere nelle mani di tutti coloro che ambiscono ad assumere il controllo di altri paesi o aree” onde “...la guerra che ha subito i cambiamenti della moderna tecnologia e del sistema di mercato verrà condotta in forme ancor più atipiche. In altre parole, mentre si assiste ad una relativa riduzione della violenza militare, allo stesso tempo si constata un aumento della violenza politica, economica e tecnologica…"   Se si riconosce che i nuovi principi della guerra non sono più quelli di “...usare la forza delle armi per costringere il nemico a sottomettersi ai propri voleri”, quanto piuttosto quelli di “...usare tutti i mezzi, inclusa la forza delle armi e sistemi di offesa militari e non-militari e letali non letali per costringere il nemico ad accettare i propri interessi, tutto ciò costituisce un cambiamento: un cambiamento nella guerra e un cambiamento nelle modalità della guerra”.
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  • Il problema è quindi vedere in tali contesti di guerra “non violenta” che significato assume la neutralità.   In primo luogo il neutrale in una guerra di aggressione è considerato se non un imbucato almeno un pilatesco.   Certo se si carica di significati morali una scelta politica, la conseguenza (per il neutrale) è proprio quella.   Di essere neutrale tra bene o male, come gli angeli disprezzati da Dante perché rimasti neutrali nella lotta tra Dio e il diavolo.   Ma a parte ciò la neutralità in tempi di guerra condotta con mezzi non violenti (e non militari) finisce col perdere definitivamente – anche se non totalmente – l’imparzialità che la connotava nel diritto internazionale westphaliano.
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  • Nella prassi contemporanea l’imparzialità è stata ristretta alla neutralità militare, mentre la guerra è estesa a tutti gli aspetti della vita economica e sociale, dall’economico al giuridico, al morale e perfino allo sport, con il rifiuto di fare gareggiare gli atleti russi, e alla musica. Se questo possa portare alla pace è assai dubbio, perché l’unico caso di sanzioni efficaci nel secolo scorso fu quello contro il Giappone: ma ebbe, contrariamente alle aspettative, non l’effetto di portare alla pace, ma all’estensione della guerra.  Di per se, anche continuando – fortunatamente – il non ricorso a mezzi militari diretti, il carattere “neutrale” di una simile prassi non regge. E in effetti è esplicitamente rifiutato dalle continue condanne e sanzioni all’aggressore. Ma mentre le prime possono avere l’effetto di intensificare il sentimento politico anti-russo (che è uno dei fondamenti della guerra tradizionale), dell’efficacia delle seconde è più lecito dubitare, dato che – solo per fare un esempio – le entrate della Russia dagli aumenti dei prodotti petroliferi superano di gran lunga il costo della guerra (almeno così si legge). D’altra parte è stato notato da molti che l’assenza di un vero neutrale, almeno in Europa è un inconveniente decisivo per mediare la pace. Questo perché spesso è proprio l’autorità di un terzo (realmente) neutrale che può provocare la pace o evitare la guerra.   Nel medioevo già riusciva al Papa; nell’Europa moderna, e proprio dalla parte dove oggi si combatte fu Bismarck e il Reich tedesco nel congresso di Berlino (1878) presieduto del cancelliere di ferro a farlo. Ma la pace fu possibile anche perché Bismarck e la Germania non erano diretti interessati alla sistemazione dei Balcani; anzi disse che “...i Balcani non valgono le ossa di un solo granatiere di Pomerania” per sintetizzare la propria realistica propensione alla pace. Non così si può dire dell’Europa contemporanea che a quella pace ha interessi assai superiori a quelli del Reich.  Purtroppo non ha un Bismarck: come diceva il cancelliere (dell’Italia) “...ha un grande appetito ma dei pessimi denti”.

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  • veneziani

  •   Veneziani   
  • e
  • La Cappa
  • Per una critica del presente
  • rec.  di
  • Giovanni Sessa
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  • Marcello Veneziani nel suo ultimo libro edito da Marsilio, LA CAPPA. Per una critica del presente (pp. 204, euro 18,00), entra nelle vive cose della crisi contemporanea.  Bauman ha descritto l’uomo contemporaneo come l’abitatore, per eccellenza, della crisi. Tale condizione ha, nel corso del tempo, non solo corroso le speranze in un possibile cambiamento, ma ha creato un clima di diffuso disagio che, a dire di Veneziani ha infine assunto il volto di una Cappa opprimente e pervasiva: «Ci manca il respiro, e non sappiamo dire in che senso, in che modo, perché. E’come se fossimo sotto una Cappa» (p. 7). In tale situazione, a venir meno è l’intelligibilità del reale, non riusciamo a cogliere la dimensione di senso della vita e del mondo. Vengono meno lo spessore, la consistenza della realtà. Tutto appare svuotato, pervaso dal vuoto nullificante. Il dirompere imprevisto della pandemia ha radicalizzato gli aspetti negativi della Cappa, determinando una restrizione senza precedenti della dimensione relazionale della vita.
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  • Craven

  • Il populismo negli U.S.A.
  • Da Jefferson a Bryan   
  • di 
  • AVERY  CRAVEN
  •   rec.  di
  • Giovanni Sessa
  • Negli ultimi anni il populismo è tornato a essere fenomeno politico di stringente attualità, meglio, è stato al centro del dibattito politologico. Movimenti populisti o nazional-populisti sono sorti ovunque, in Europa e nel mondo. Alcuni commentatori hanno visto nell’elezione di Trump e negli eventi successivi alla discussa vittoria di Biden, la conferma, allo stesso tempo, dell’ampio consenso popolare che la globalizzazione ha concesso a tali movimenti e della loro pericolosità per la democrazia. Se c’è un paese d’elezione del populismo, è sicuramente da individuarsi negli Stati Uniti. Lo ricorda lo storico americano Avery Craven, in una pubblicazione di recente comparsa nel catalogo della Oaks editrice, Storia populista degli U.S.A. Da Jefferson a Bryan, con introduzione di Luca Gallesi (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 183, euro 18,00). Craven, deceduto nel 1980, fu docente presso la Chicago University. Nelle sue ricerche si è occupato, in modo prevalente, della guerra civile americana, analizzata con gli occhi di un uomo del Sud.
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