• Strumentazione SM79

  • La
  • diversa avventura dell'elitismo
  • BORGES et ALII
  • di
  • Sandro Giovannini
  • (C) Tutti i diritti riservati :
  • Heliopolis Edizioni di Idee e materiali di scrittura,
  • 01 Febbraio 2018

  • SOMMARIO  DEL  LIBRO:
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  • Prefazione pagg. 1
  • Introduzione pagg. 8
  • PRIMA PARTE: J. L. Borges.
  • Motivazioni personali; 2) Contestualità di ricezione;
  • 3) Linea di ricerca; 4) Sacro;
  • 5) L’infinita biblioteca; 6) Il gioco/sogno.
  • (18 pagg., corpo 12)
  • Note al testo
  • (25 pagg., corpo 12)
  • SECONDA PARTE:
  • 1) Victoria Ocampo; 2) José Ortega y Gasset; 3) Rabindranat Tagore;
  • 4) Hermann Keyserling; 5) Pierre Drieu la Rochelle; 6) Roger Caillois.
  • (20 pagg., corpo 12).
  • TERZA PARTE:
  • Testi antologici con commenti.
  • (20 pagg., corpo 12)

  • La diversa avventura dell’elitismo
  • Borges et alii
  • Prefazione
  • Tempo fa Miro Renzaglia, anche lui ex poeta del Vertex, mi chiese di scrivere, su un grande che avevo conosciuto, per la collana che coordina con accorto e fruttuoso metodo, ove, in un testo critico-riassuntivo su autori contemporanei repertato principalmente su ispirazioni e vocazioni contestuali ma non sempre scontate, si doppia un’abile scelta antologica. (*) Il poeta era Borges. Sono stato sulle prime incerto perché, di un’avventura del giugno 1977 che ci aveva visto ospitare per il Centro Studi Heliopolis di Pesaro, Borges e Maria Kodama, per un’intera settimana nella villa del conte Alberto Castelbarco Albani a Pesaro, non avevo mai voluto prima scrivere distesamente, come avevano fatto a suo tempo alcuni dei nostri validi amici appositamente invitati da noi per l’occasione, se non un breve e funzionale resoconto di sostanziale connotazione. Esso andò ad assommarsi ai successivi registri di incontri, interviste, cataloghi di mostre ed atti di convegni, lungo tutti gli anni di attività dell’Heliopolis, del Vertex-Poesia, delle case editrici e delle riviste fondate e dirette e poi di altre nostre più o meno incisive avventure comunitarie, fino ad ora. Non è uscito il libro prospettato per la collana, per mia reticenza non certo imputabile alla generosità di Renzaglia, perché, forse a torto, sembrava potermi far trovare ben a disagio in quella sequela di autori trattati, con un mio Borges et alii od Alii atque Borges, che andava assumendo un carattere irrispettosamente fuoriuscito dall’originario progetto. Infatti la scrittura era già andata crescendo nel raffronto di altri autori, più o meno collegati, ove l’unico tratto comune realmente giustificabile era un espresso e/o malcelato elitismo (che in questa prefazione non voglio neanche maldestramente tentare di definire e che si sarebbe poi potuto riscontrare quasi all’infinito e che quindi era d’obbligo concentrare in scelte autolimitatesi sulla base della prossimità epocale e del mio piacere), a fronte di esiti letterari, esistenziali e politici differenti, quando non del tutto opposti. Certo il nucleo nasceva da quella figura, ma ben presto aveva preso il sopravvento la mia curiosità di scoprire come tratti profondamente comuni, consapevoli od inconsapevoli, avessero potuto appunto virare in direzioni a volte ben diverse. E questo probabilmente risaliva alle occasioni d’incontro con Borges e con altri grandi che poi ho personalmente conosciuto nel tempo, tra i quali Eliade, Jünger, Cioran, Cau, Bardèche, Tucci, Zolla, Filippani Ronconi… Man mano che la stessa forza di costoro m’imponeva vicinanze e distanze più o meno fortemente marcate, precedentemente solo dovute alla lettura e cordialmente accompagnato da figure di maestri come Vettori, Gianfranceschi, Fasolo, e da altre care immagini, più distanti ma non meno presenti in me e che non oso neanche nominare per tenermi doverosamente al corretto livello proporzionale, la domanda che mi facevo su un supposto originario comune sentire, poi sovente altrimenti direzionato, era divenuta sotterranea ma pressante. Forse si legava anche ad un quadro caratteriale, andando a rafforzare un’autocoscienza formatasi su studi comparatistici, in un antisistematico come me più o meno prevedibili. Così è nato questo libro.
  • (*) Collana Pre-Testi, diretta da Miro Renzaglia: 1) Miro Renzaglia: Fabrizio De André. Maledetti poeti, Circolo Proudhon Edizioni, 2016; 2) Paolo Granata: Bob Dylan. Poeta errante. Circolo Proudhon Edizioni, 2017; 3) Susanna Dolci, Angelo Senzacqua: Patti Smith. Tra Rimbaud e San Francesco. Circolo Proudhon Edizioni, 2017; 4) Mario Grossi: Tim Burton. L’oscura stanza dei giochi. Circolo Proudhon Edizioni, 2017; 5) Francesco Benozzo: David Bowie. L’arborescenza della bellezza molteplice. Universalia (Safarà), 2017; 6) Luca Lionello Rimbotti: Jim Morrison, wotan in rock, edito da Castel Negrino, 2018; 7) Elena Lamberti: Leonard Cohen. Come un uccellino su fili di parole. Castel Negrino, 2018; Maurizio Gregorini: Martin Scorsese. Le forze primigenie dell’America, Castel Negrino, 2018.
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  • Introduzione
  • a: Frau Cosima Wagner - Bayreuth - Germania.
  • «Alla principessa Arianna, mia amata. Che io sia un uomo è un pregiudizio.
  • Ma io ho già vissuto spesso fra gli uomini e conosco tutto ciò
  • che gli uomini possano provare, dalle cose più basse fino a quelle più alte.
  • Sono stato Buddha fra gli indiani e Dioniso in Grecia, Alessandro e Cesare
  • sono mie incarnazioni, come pure Lord Bakon, il poeta di Shakespeare.
  • Da ultimo, ancora, sono stato Voltaire e Napoleone,
  • forse anche Richard Wagner...
  • Ma questa volta vengo come il vittorioso Dioniso,
  • che farà della terra un giorno di festa...
  • Non avrei molto tempo...
  • I cieli si rallegrano che io sia qui...
  • Sono stato anche appeso alla croce...»
  • spedizione: Torino, Ferrovia. 3.1.1889

  • “…Tu solo, Spirito Supremo, conosci te stesso,
  • attraverso te stesso; produttore degli esseri,
  • Signore degli esseri,
  • dio degli dei, Padrone del mondo.”
  • Bhagavad Gītā, Adelphi, 1976, X, 15, pag. 111.

  • “…Dopo una esposizione assai penetrante e precisa della nuova morale annunciata da Zarathustra,
  • D'Annunzio, che chiama Wagner il «Gesù di Bayreuth», prende più direttamente in esame l'opuscolo antiwagneriano:
  • «Le lepidezze, i dileggi e i sarcasmi, spesso d'assai dubbio gusto o d'un gusto eccessivamente germanico,
  • si seguono senza intervalli per le ottanta pagine del libello». E se Nietzsche afferma:
  • «Togliete la musica wagneriana dalla protezione dell'ottica teatrale e avrete una cattiva musica,
  • la peggior musica che sia mai stata composta», D'Annunzio risponde:
  • «Qui è il grossolano errore, o la vana ingiustizia. Per me, e per i miei pari,
  • la superiorità di R. Wagner sta appunto in questo: che la sua musica è, in gran parte,
  • bellissima, ed ha un alto e puro valore di arte indipendentemente dalla faticosa macchinazione
  • teatrale e dalla significazione simbolica sovrapposta». E aggiunge: «Come il lettore vede,
  • non si tratta soltanto d'un caso Wagner ma ben anche d'un caso Nietzsche. 
  • C'è qualche cosa di frenetico in questo bizzarro libello: nella successione disordinata delle idee,
  • nella incoerenza sintattica delle frasi, nella furia dell'invettiva».
  • Anacleto Verrecchia. “La catastrofe di Nietzsche a Torino”, Bompiani, 2003

  • Concentrandoci il più possibile su alcune chiavi autorali lungo un tema che implica ben altre estensioni potremo almeno porci il problema di quanto si sia capaci davvero d'interpretare con una qualche profondità, nell’oggi, secondo più aperte vie letterarie o più ristretti sentieri della ricerca non mondanamente finalizzata, la tensione verso una spiritualità virile. Con spiritualità virile intenderemmo non cogliere tanto o solo una condizione di genere psico-fisiologico, quanto una marcatura esistenziale, un plesso teorico che variamente tende alla realizzazione con denotazioni e connotazioni derivanti dalla natura profonda ed insopprimibile della cultura e quindi, nell’autore, da una precipitata ed attestata visione del mondo, esplicita od implicita. Perché tale ‘visione del mondo’ non la possiamo considerare solo come dato. Ovvero deposito psichico, esistenziale, letterario, civile ed alla fine storico, comunque percepibile e, ai vari livelli, legittimamente ed apertamente, giudicabile. E’ anche un costante processo in fieri, sia negli individui che nelle comunità, come ad esempio lo intese filosoficamente Jaspers, (1) o come sotto altri panni, lo intese antecedentemente tutta la dimensione sacrale antica e poi tutta la mistica, matrici pur diverse di ogni metapolitica (ancor più che la teoria politica stessa od ovviamente la criptopolitica). Persino quando di quella via si tratti solo del supposto esito finale, sperato, mancato o raggiunto, il problema sta tutto nel percorso e nella sua tensione direzionale. Qualsiasi sia l’autorappresentazione (illusoria o reale) del raggiungimento parziale o definitivo.
  • Questo perché la ‘visione del mondo’ implica, in chi non ne viene semplicemente trascinato, magari proprio per carente autoanalisi, una responsabilità che non può essere tolta di mezzo da nessuna cosa esistente o rappresentabile. Neppure da quella consapevolezza che, avendo base in una chiara visione della sostanziale inconsistenza della reductio ad unum individuale, dubita di poter accedere comunque ad uno spazio di responsabilità effettivamente personale. La qual cosa sembrerebbe tagliare alla radice ogni potenzialità di determinazione autonoma nel mondo, mentre forse permette - di fronte alla possanza insuperabile di māyā, - necessariamente solo un energetico togliere la prima coltre di velatura ed un contro-veleno (…vincetossico è il viatico…) all’illusione facilmente identificatrice che pervade ognuno di noi fin dalla nascita, rendendoci per lo più poco disponibili all’ascolto di una diversa e più profonda messa in questione del nostro essere.
  • Neppure da quell’epocale scepsi nietzscheana che, se e quando limita l’esaltazione dell’autoanalisi come potenziale tangente impazzita, per lui poi paradossalmente credendosi profondo psicologo, lo fa a scapito della superiore totalità e legittimità dell’istinto. Così persino incredibilmente molte volte raggiungendo una sorta di repulisti totale dell’accidentale e del superfluo, simile al puro distacco (Abgeschiedenheit) della più spinta mistica, come ci ha anche ben segnato Vannini. (2) “… Il penoso scioglimento della fede nella comune realtà, di questa fasciatura aderentissima che cinge l’uomo, impedendogli di sentire i soffi di realtà diverse e maggiori…”, come dice Zolla, anche se l’orma di N. crede di stamparsi, seguendo questo metodo, nel fango primordiale della vita e credendosi (N.) schierato definitivamente sulla datità del reale e quindi lungo una compiuta (ed innegabile, per lui) confrontabilità biopolitica.  L’ombra di N. in tale direzione di cammino è talmente ingombrante dall’inizio del Novecento, che non si può parlare di nessuna cosa che giri intorno al concetto di elitismo, senza fare riferimento a lui od al suo mito od a tutte due le cose, ma soprattutto non potendo evitare le sue smarcanti riflessioni, per quello cioè che sono indipendentemente da tutto, anche oltre ogni doverosa o legittima contestualizzazione. E noi crediamo che sia centrale anche perché, proprio dalla più spinta autoanalisi, si può giungere alla negazione lungo un processo che è o parodia od esaltazione della medesima, ove si dà, comunque nelle iniziazioni, nelle mistiche, nello yoga e nel tantra – e forse anche in ben altri processi – (forse poi non tanto nelle loro concettualizzazioni ma nei loro esiti operativi), il ribaltarsi completo della normale percezione del reale…   Infatti è proprio dalla disposizione nietzscheana alla mise en abȋme, che si confronta tutto il suo continuo involversi nei dati primari, originari, d’ogni disposizione critica, al di là dello stesso insieme dell’eccesso espressivo e che tende ad attestarsi su un fondo dell’anima che ha poi permesso i vari tentativi, più o meno fattibili o riusciti, di recupero cristiano indiscutibilmente sempre di minoranza, come in tutt’altro versante i più numerosi tentativi di riutilizzazione in ambito marxiano. Questo quando non vietato dalla supposta impraticabilità formale, come nel caso emblematico di Lukàcs, o dall’insuperabilità istintiva del (o dall’odio istintivo verso il) muro padrone/ciandala, ripetuto in N. costantemente e quindi non negabile o camuffabile. In tanti altri marxiani, meno o per nulla sensibili alle domande ontologiche, tale tentativo di recupero è basato sulla comune, o meglio assimilabile, critica della morale borghese; dell’alienazione epocale (indipendentemente dalla sua causa); del procedere filosofico che dichiara, in crescendo - non si può però dire mai quanto sinceramente - fino all’ultimo, la necessità del basamento antimetafisico, rovesciandolo comunque totalmente nella legge dell’istinto, vissuta, come sopra dicevamo, nella datità del reale, da lui supposta, contro ogni infingimento religioso od ideologico. E’ piaciuta immensamente anche, come dato artistico forse ancor più che filosofico, la sua stessa metanarrazione, che afferma sempre la possibilità (oltreché la realtà) di una spiegazione omnicomprensiva della storia con i suoi grandi segreti: dell’eterno ritorno dell’identico, rimasto segreto (esoterico, oltre le stesse sue versioni scritturali ed exoteriche… quindi mai svelato compiutamente e più che altro poi decodificato come dato civile e/o politico), e, a seconda degli interpreti sempre ben differentemente ricostruibile; della condizione persistente dell’essere-morto, dio od idolo che si fosse o si sia; del sacro orrore come perenne dialettica tra mondo-apparente e mondo-mentito, ove la creatività volitiva ed artistica (del mentimento) s’afferma come unico dato autenticamente possibile per l’uomo e che instaura una rinnovata visione della vita artistica come finzione suprema, del tutto attuale e che altri sapranno sviluppare ancor più; del sacer che implica necessariamente la morte di dio e degli idoli, morte sempre assimilabile e sempre, sacrificalmente ridonante vita, con valenza antinomica ma dialettica tra Dioniso e Il Crocifisso.
  • Ora persino io con i miei poveri strumenti saprei ritrovare - magari incertamente - le orme di cui sopra, come parafrasi o parodie, a scelta, di tante operazioni che s’aprono ai discepoli in diverse linee di apprendimento operativo, lungo secoli, linee che come probabilmente potrebbe dire uno sciamano ad un antropologo (tipo un più o meno verosimile Don Juan ad un più o meno riscontrabile Castaneda), sono a lungo parallele per ignoranza reciproca a causa della distanza siderale dei mondi rappresentativi di riferimento e che s’incontrano raramente in circostanze imprevedibili o raramente costruite. Per distruggere quelle distanze naturali occorrono eventi speciali, a volte sublimi a volte catastrofici. Ed a volte quelle distanze possono divenire dei ridotti salvifici, dei depositi etno-archeologici. Ma la centralità irradiante d’una paideia autorale, la voga di una generazione studiosa, la fascinazione di sentirsi in una comunità di linguaggio elitaria od elitista, possono facilitare, a volte, o del tutto impedire al contrario, il passaggio da un mondo rappresentativo all’altro. E ciò avviene realisticamente, al di là di bene e male. Perché persino tragedie epocali come le (od i tentativi di) distruzioni di millenarie culture, con le loro poi incongrue sovrapposizioni, non hanno del tutto impedito di trasfondere e trasferire su altri piani, certo drammaticamente ed a volte faziosamente squadernata, una conoscenza che altrimenti si sarebbe socchiusa probabilmente con ritmi e tempi di sviluppo, per tutti imprevedibili e forse comunque irrisalibili. Pochi esempi tra i mille diversamente eclatanti: la penetrazione cristiana nel nord-europa, l’espansione islamica, la conquista centro-sudamericana, la caduta dell’oriente bizantino, il progressivo genocidio dei nativi pellerossa ed australiani, la dominazione inglese in India. Con quali costi umani… e produttivi stravolgimenti assoluti della verità, è un altro discorso. Una lettura profonda e sincera dell’intrinsecamente assurdo processo (se non ci si pone nell’ottica di N.) ove una cultura egemone dopo secoli deve interrogarsi sulla propria parabola, è data da questo incipit di un famoso libro di Zolla : “…La storia delle tante immagini dell’Indiano che via via appaiono nella letteratura americana, mostra una prospettiva abbastanza strana di opere e d’autori, ma altresì insegna i (semplici) mezzi stilistici con i quali si vuole agevolare un genocidio”… (I letterati e lo sciamano, Bompiani, 1978, pag. 3)

  • Tornando ad una singolarità, da noi in occidente, lungo la distruzione di popoli e della ragione di essi, producendo per secoli sistemi ideologici di efficace copertura, è proprio ciò che ha creato ascolto su N., sia nell’ultimo costruzionismo post-positivista, perché comunque diveniva il metro di paragone insostituibile e fino a N. mai così ben stagliato (e quindi anche meglio colpibile) del negativo; assurto a follia ideologica quando non addirittura a male assoluto; sia nel decostruzionismo, soprattutto francese per la propria sempre maggiore disponibilità alle avventure della pura parola (struttura, ideologia) come segno di ogni comprensibilità (e studio innamorato della devianza) attanziale e contestuale e perché comunque metodo post-metafisico, meravigliosamente distruttivo di un senso di sistema classico, che - in origine - tutto avrebbe voluto unificare interpretando ed identificando. Cosa che poi per N. è oltremodo paradossale, sia per la sua formazione che per i suoi esiti, appunto, di metanarrazione, con troppo in comune con le interpretazioni complessive (ed anche mitico-arcaiche) del mondo. Ciò darebbe il senso di un antisistematico (ma poi per davvero?) forse per dialettica visione della radicalità, che ha sempre permesso una fruizione ed anche spesso uno stravolgimento, al di là d’ogni inconfutabile detto testuale. Profetismo, sinteticità, ripetizione, aforisma. Come suggella ironicamente Kraus: “L’aforisma non coincide mai con la verità, o è una mezza verità od una verità e mezzo”… In tal modo molti (o forse troppi) hanno potuto sostenere, che a N., interpretandolo, si può far dire tutto ed il suo contrario e questo è avvenuto sia a destra che a sinistra e persino al centro, anche se, in questi ultimi due casi, con maggiore sforzo e minore verità. Noi però, rispetto al portato complessivo, consideriamo N. inequivoco ed ancor più su alcuni plessi centrali del suo pensiero, ben distintivi ed irrefutabili.

  • Inoltre la metanarrazione di N. crea nell’assommarsi progressivo un continuo effetto droste, a specchi moltiplicati, che è fascinoso e turbativo assieme, in quanto non è un espediente ma una’avvitamento profetico su se stesso e su una vera e propria autocrazia della coscienza, sua e dell’oltre-uomo, che ne darà scandalo in moltissimi critici, per via della percepita inattendibilità scientifica, persino dell’inaffidabilità filologica (ancora paradossale per N. nato filologo) e della durevole follia, sostanziale al suo genio peraltro innegabile e quindi non epifenomenica. Il mito Nietzsche agisce quindi fin dalla fine dell’Ottocento con ricorrenti maree di andata e ritorno, su due livelli, ma quello basso muove a destra, come al centro, come a sinistra, spesso in grottesche, mentre quello alto, ancor più volte in narrazioni oscure o reticenti, numinose o partite logicamente per la tangente, divenendo troppo spesso una parola alata ad altezze siderali per autodefiniti specialisti, qualsiasi siano le loro appartenenze ideologiche e comunque essi si relazionino a lui, anche in termini, più o meno rispettosi, secondo sfumature narrative, logiche, critiche. Forse per penetrare la dura scorza del mito Nietzsche non c’è nulla di meglio che confrontarsi con la reazione rispetto al problema della follia, che infatti muove il sotteso ed il manifesto sin dalla morte di N., sia ad opera di parenti, amici, estimatori e detrattori. In pratica di tutti. Chi ricorda, con indubbiamente godibile ironia, che ai suoi funerali si scatenò un’apoteosi non solo retorica, ma si mossero anche i cieli e la terra, (3) forse però non ha voluto permettersi di riflettere che l’ironia avrebbe colpito (e potrebbe ancora colpirne), ben più terribilmente l’archetipo che lo stereotipo, supposti. 
     Dicevamo allora, oltre l’immensa frattura operata da N. ed in relazione alla ‘visione del mondo’, che la responsabilità non può essere tolta di mezzo da nulla. E quindi anche da quel nulla (o tutto) che sia il nostro mondo interiore. Qualsiasi cosa, quindi, sia (o voglia essere o voglia rappresentarsi) quel mondo interiore. Perché di quel nulla (o tutto) noi siamo interamente, se non produttori (come, quando, perché?…), certo alfine compagni di strada per la vita, cosa che, comunque letta ed interpretata, diviene innegabile. Noi siamo con quel tutto o nulla lungo l’intera nostra esistenza. Breve o lunga che sia. Ripeterlo serve a capirlo bene.
     La spinta elitaria, elitaria quindi in re e non nelle sue superfetazioni ideologiche, in ogni caso qui in noi ricondizionata alla propria essenza oltre le letture unicamente esteriori (di costume, sociali, economiche o storiche) durate secoli, comporta nella visione del mondo dimensioni conoscitive, profetiche ed attive, che non s’esauriscono quindi solo nella “contemplazione universale” (intellettualista) più o meno pura, ma implicano vari gradi e modi per realizzarsi in un tutto vitalmente coerente. Per farlo però non ha altra scelta che scavare nelle domande eterne ed irrisolte dell’uomo. Geisteswissenschaften. Scienze dello spirito. Ma se nello scenario, sterminato ed a volte impenetrabile anche per sedicente possanza magniloquente rispetto poi proprio alla sempre difficilmente attingibile paupertas spiritus (4) che molte pratiche vogliono e debbono conseguentemente (ai presupposti) impostare, ci potessimo veramente addentrare non oppositivi, senza quindi preconcetti e precondizioni, allora forse ci accorgeremmo che ci è stata appunto mostrata una via primaria d’accesso, anche se successivamente, superato il portale, immediatamente (…sic) si rendano nuovamente evidenti attributi d’ulteriore penetrazione, che non sono affatto omogenei. Potremmo dirci che la direzione d’accesso è, come sopra indicavamo, il puro distacco, persino quando la via scelta è quella dell’azione, (5) distacco in tutte le sue versioni antico occidentali, medio-estremo orientali od ibride. Nell’antico occidente, ove la costante presenza a vacuità e destino, inessenti a māyā, cuciti nel tessuto dell’universo partorito dai fili raggianti del sole tantrāyin, ove verso e recto si compattano efficacemente (sempre nel senso eracliteo della connessione inevidente superiore all’evidente) e nell’ermeneutica stoica del tragico ove negazione/affermazione sono in esistenziale dialettica e, sia pur per un sentiero oltremodo difficile anche ora, sempre transitabili, è implicata inscindibilmente nei misteri. (6) Nel medio ed antico oriente come potenzialità di liberazione dall’agglomerato della pesanteur, comunque e dovunque essa si prospetti e s’imponga (dappertutto), per raggiungere una condizione sempre meno condizionata, indipendentemente dalle differenze, a volta estreme, delle pratiche operative, fino alla ricongiunzione col principio indistinto od all’estinzione della necessità vitale, affrancati (mokṣa) e liberati (nirvāṇa). Ancora nella nostra multiforme e mai esausta mistica occidentale, dove le matrici originarie áskesis e afáiresis si sono connotate progressivamente di prescrizioni etiche ma che come quadro di riferimento generale (persino in parallelo costruttivo, forse non solo de-costruttivo, con molto del repulisti letterario coevo… vedi come esempio sommo Valéry, anche come potenziale prassi estetica della distinzione, del distacco produttivo di diverso e più elevato linguaggio) ne innervino e ne giustifichino ogni strumento operativo.
  • Tutte queste movenze si nutrono di quella particolare autoeducazione che privilegia sempre l'esperienza sensibile (ma mediata/meditata) anche del mondo sottile, non come alterità assoluta ma come caleidoscopio delle parvenze e dalle materialità anche più grezze, persino, appunto, di quella pesanteur che s’è opposta, nella storia, non solo alla grazia, ma alla buona vita... nella sue potenzialità più umanamente amabili. (E qui ritorna, accresciuta, la necessità di una cultura ben fondata su scienze sociali, politiche e geostrategiche). Forse perché nell'aristocrazia profonda, nella grande/anima, non ci sono stentoree utopie di potenza, ma corretta comprensione della natura inclinabile dell'uomo, che implica il pieno ed il vuoto, in un gioco dialettico che se assecondato con orgoglio del giusto, può essere persino felice. Ne vogliamo un esempio e se non almeno un’orma, (anche) letteraria? Andiamo allora nel campo del più difficile discrimine, quello del cosiddetto elitismo di alcuni grandi autori. E, poste in campo le sue possibili ragioni profonde, lasciamo intera dall’inizio un’indeterminatezza concettuale. Infatti, stando al soggetto autorale… quanto complesso, quanto apparentemente contraddittorio, quanto disponibile agli esiti esistenziali (ed interpretativi) più difformi. Si tratterà, allora di partire dalle traiettorie personali, minimamente riscontrabili, per giungere a qualche risultato che potremmo definire generale.   E quindi, questo diverso procedere, potrebbe apparentemente sviarsi da un’idea come noi sopra l’abbiamo definita, di distacco dal frutto dell’azione. (7) E qui allora si apre la vera battaglia interpretativa dentro di noi... mantenere il piacere dell’altezza, senza dubitare del meglio in tutti i campi, con equanimità e senza perdere di vista mai - perché sempre si testimonia accanto - la nostra costitutiva finitezza.
  • Note:
  • 1) Karl Jaspers, Psicologia delle visioni del mondo, Astrolabio Ubaldini, 1983.
  • 2) Marco Vannini, Nietzsche e il cristianesimo, D’Anna, 1986.
  • 3) Anacleto Verrecchia, La catastrofe di Nietzsche a Torino, Bompiani, 2003. pp .441-442: “…«Si levò un terribile temporale, e sembrò che questo alto spirito dovesse scomparire fra tuoni e fulmini». È noto che il cielo della Germania ha sempre una riserva di tuoni e di lampi per segnalare la scomparsa dei grandi spiriti. Oppure, come nel caso di Goethe, fa «più luce». A proposito di Nietzsche, però, sembra che si sia parlato anche di terremoto o di qualche cosa di simile, proprio come sarebbe avvenuto per la morte di Buddha o, meglio ancora, di Cristo. Né mancano, dalle parti di Weimar, colline che si possano paragonare al Golgota. Il mito si forma rapidamente. Il Nietzsche che muore con il nome dell'amata sorella sulle labbra è tanto vero quanto il Nietzsche che, a Torino, impazzisce soltanto perché fa abuso di sonniferi ed è affranto dal dolore. Come poteva, infatti, un dio, un pari grado di Buddha, di Zarathustra e di Cristo, essere vittima di una malattia ereditaria? Così Elisabeth, truccando la catastrofe del fratello e facendo presa sul sentimentalismo dei tedeschi, riuscì a creare la leggenda, e ad accreditarla presso la posterità, di un Nietzsche martire del pensiero, una specie di Icaro o di Fetonte dello spirito, che cade per il suo temerario ardimento attraverso i flammantia moenia della filosofia…”
  • 4) S. Tommaso D’Aquino, La Somma Teologica, Ediz. Studio Domenicano, 1984 e segg., IV volumi. Secunda Secundae. Questio 19: De Dono timoris, Articulus 12: Utrum paupertas spiritus sit beatitudo respondens dono timoris. La risposta tomista è che la povertà (Matth. XIX, …si vis perfectus esse, vade et vende omnia quae habes, et da pauperibus… Ergo paupertas spiritus non respondet dono timoris), crea lo spazio per lo spirito che altrimenti è occupato dalle cose mondane, (oltre ad aprirlo alle beatitudini) e non risponde al dono del timor di Dio. Nella mistica di Taulero ed Eckhart, si conferma, sino al fondo dell’anima, lo spazio assoluto di spoliazione, rarefazione e riduzione al nulla. (Si potrebbe parafrasare: “Beato colui che non troverà motivo di scandalo in me” Mt. 11,6. “E beato colui per il quale io non sarò di inciampo!”. Lc. 7,23).
  • 5) Elemire Zolla, Le tre vie, Adelphi, 1995. Intesa ovviamente qui nel senso di: “Tu sei chiamato ad agire, ma non a godere del frutto dei tuoi atti. Non prendere mai come movente il frutto della tua azione; non provare attaccamento per il non agire.” Bhagavad Gītā, Adelphi, 1976, II, 47, pag. 39. Ma al di là di questa chiara lettura nel “vangelo indù”, persino altre dimensioni recuperano, dopo una prima concettuale chiusura alle logiche tantriche come mezzo d’esplicazione e via di penetrazione della stessa dimensione dell’azione, il permesso controllato o la disciplina interna, (anche perché altrimenti si vanifica la seconda parte dell’insegnamento: non provare attaccamento per il non-agire), come poi fece, ad esempio, il buddhismo nel Vajrayāna. Questo avviene persino nelle più spinte soluzioni di procedura, (“Il combattimento meditativo”, ultimo capitolo del libro di Zolla, cit., pag. 121), che però non sono sempre forzatamente le più “cruente”, potendo persino apparire più “cruente” o sconvolgenti, o più o meno sottilmente divaricanti, almeno per molti occidentali, altre pratiche rituali Śivaite, nel cibo e nei comportamenti producenti: madā, māṃsa, mudrā maithuna, etc, etc… Le tre vie (semplificando), contemplazione, devozione, azione, non sono, nel confronto dialettico tra tempi e spazi successivi e rifluenti, necessariamente alternative, anche se costitutivamente diverse. Ed ogni scuola o lettura ha saputo riportare al centro del proprio percorso un equilibrio diversamente orientato rispetto agli influssi partitari(ariamente), inclusi od esclusi.
  • 6) “...di ciò che gli iniziati avevano sempre incontrato alla fine della loro metanoia ascetica: Il Principio-Infondato, la Libertà-Potenza, il Ni-ente, il Nulla di Ente. Il medesimo antiprincipio che la cultura tragica, vena carsica periodicamente riemergente nella storia d’Europa, ha indicato quale discrimine, confine invalicabile, che separa chi ha bisogno di credere da quanti ambiscano sapere”. Pag. 18 del saggio di Giovanni Sessa “Julius Evola e la metafisica della gioventù” in: Julius Evola, Par delà Nietzsche, a cura di Gianfranco de Turris, Premessa di Alessandro Giuli, testi aggiunti di Giovanni Sessa e di Andrea Scarabelli, Aragno, 2015.
  • 7) “…Nel nostro rapporto con gli uomini e col mondo rileviamo contraddizioni, perché il nostro inconsapevole essere, desiderare e tendere differisce da ciò che avevamo voluto in modo consapevole. La nostra visione del mondo è una esperienza in continuo movimento per tutto il tempo in cui continuiamo a fare esperienze. Nel momento in cui il nostro mondo, la nostra realtà, in nostri obiettivi si fissano e diventano ovvi, o non abbiamo ancora fatto alcuna esperienza della possibilità di visione del mondo o ci siamo irrigiditi in un fortilizio e non facciamo più alcuna esperienza. In entrambi i casi non ci sorprende più nulla; rimane solo il rifiutare o il riconoscere, non il dedicarsi e non il recepire; non ci sono più problemi, il mondo é diviso chiaramente in bene e in male, in vero e in falso, in giusto e in ingiusto; tutto diventa una questione di diritto ed è chiaro ch’è poi anche una questione di potere. Non c'è interesse per la psicologia delle visioni del mondo, tranne forse che per una psicologia degli inganni e delle falsificazioni, e gli uomini vengono sentiti come gli altri, gli estranei, i nemici. Al contrario nell'esperienza vitale lasciamo che il nostro io si espanda, si diffonda e poi rifluisca in sé. È una vita pulsante fatta di espansione e riflusso, di dedizione di sé e autoconservazione, di amore e solitudine, di confluenza e lotta, di risoluzione e contraddizione e fusione, di crollo e ricostruzione.” Karl Jaspers, cit. 7, 8. Ora, nel testo sopra dicevamo“ “…ci potessimo veramente addentrare non oppositivi, senza quindi preconcetti e precondizioni…”. Prendiamo ad esempio la penetrante citazione, in cui Scarabelli, nel Par delà Nietzsche di Evola (cit.) e nel suo saggio a latere riproduce: <…Aspetti che emersero anche nel corso delle successive polemiche, causando una rottura definitiva tra i due, dovuta ad un’incompatibilità di fondo che Evola così riassunse su ‘Ultra’ (a. XXI, n. 23, marzo-giugno 1927, pp.118-123): “Il fatto è che il Vezzani è, a un dipresso, cristiano – e noi non lo siamo: questa è la differenza vera. I valori cristiani sono valori democratici, sentimentali, egualitari, umanitari, eudemonistici (felicità, armonia), di insufficienza (bisogno di amore, grazia, salvazione). I nostri sono invece valori aristocratici, eroici, di differenza, di volontà, di gerarchia, antiedeumonistici, di sufficienza”>.  Ovviamente l’irriducibilità di cui sopra non è a sua volta riducibile a poco od a niente, permane come elemento per nulla o mai del tutto superabile, anche quando ci troviamo poi a registrare elementi sorprendentemente assimilabili nelle tecniche operative fino al punto di un parallelismo funzionale o quasi di un’indistinguibilità per progressiva rarefazione (=pensiamo al Grund der Seele o alla “rinuncia al frutto dell’azione” od al “non arraffare” di cui parla Montherlant, che pochissimo potrebbero essere connotati per via aristocratica o democratica, almeno per come normalmente (=politicamente) molti intendono… forse dandoci il segno di un sempre praticabile superamento. Il che non significa chiudere gli occhi in una notte dove tutte le vacche, necessariamente, sono nere. Perché potremmo dirci che la via dell’azione, tramite la più spinta passione fino ad un esterno disequilibrio, del tutto inaccettabile per i parametri consueti soprattutto se filtrati da secoli di devozionalismo moralistico ove il concetto del bene ha preso il sopravvento sul concetto dell’uno, e che ha poco a che spartire con l’educazione del comportamento interiore ed esteriore che si configura come pietas o cortesia spirituale, ma che non è se non un furor estroflesso e controllato (il “cuore di sasso”) del kendō, kyūdō, jūdō, e di tante altre vie, mette in perenne ed insuperabile crisi la propensione affermatasi progressivamente in occidente al discrimine morale, che non può ammettere che qualcosa possa comunque sfuggire al suo totalitario controllo. Lo stesso distacco - letto non solo come un allontanarsi dal dogma ma più notevolmente dal regime dell’idolatria morale - che poi oggi ha ben del tutto cambiato ethos senza cambiare logos (pur sempre cristianamente inteso dalla mistica), ha rischiato storicamente al meglio la scomunica od al peggio il rogo. E questo è un fatto.
  • Ma il “distacco” è - comunemente inteso, tra la gente - un disvalore. Fanno proprio sorridere le considerazioni di Montherlant; “…Un rifugio per civili, durante l’allarme: provate ad esser calmi un po’ troppo ostentatamente, eccovi sul punto di essere insultati. Allo stesso modo provate ad esser un po’ troppo calmi in un posto di comando sotto il fuoco, non sono affatto sicuro che ciò vi attiri tutte le simpatie che si potrebbe pensare. Per la gente di oggi la saggezza è egoismo, niente altro”
  • Il “distacco” ancor più oggi nel tempo del buonismo obbligatorio, quasi fosse una gravissima carenza d’empatia od una predisposizione boriosa, se non peggio. E’ la più prevedibile reazione, nella relazione sociale di convivenza. In un passato testo ho portato la riflessione, su due tipi, ancora, di diverso distacco:
  • “…Se dovessimo quindi trovare chi possa portare al parossismo il fastidio procurato (negli altri) da quel distacco, da quel disinteresse, non sceglieremmo Montherlant, ma ad esempio Jünger. Infatti Jünger entra nell’azione, si imbraga anche possentemente nel furor e nella disperazione, ma riesce – con completo e mai autenticamente superato scandalo dei suoi lettori ed anche stimatori avversi – a starsene costantemente individuato, (quasi fosse l’antropizzazione della formula teologico-conciliare non mescolati non separati) e quasi gestalticamente icona vivente di quel paradosso così difficilmente e perigliosamente indicato dalle varie tradizioni dell’antico occidente e dell’estremo oriente.  Uno scandalo mai superato, e mai superabile quando la trama di una sensibilità intellettuale consista nel nodo umanista che non sia consciamente, costantemente e coraggiosamente rivelatore, nell’immediatezza consapevole del disegno comunque realizzato (=destino) e del comunque continuo ed incognito vacuum (=vacuità), accanto a cui, sempre, quel nodo, questo nostro nodo, si strutturi.  E’ uno scandalo che perdura anche tra coloro che teoricamente potrebbero capire tale dicotomia vivente e vivificante, e questo soprattutto per un difetto eminente di teoria, (ed ovviamente di pratica): per non poter forse ammettere su di un piano filosofico ed esistenziale ciò che rimane evidentemente inaccettabile per alcuni su di un piano etico, normativo o di esistenzialità non ben riflessa, potremmo dire anche più semplicisticamente, materialista.  Oso credere di aver capito che tanto più debolmente ci si struttura rispetto a questa dicotomia vivificante tanto meno si siano frequentate – con successo – le categorie tradizionali del pensiero antico-occidentale ed estremo-orientale.  Non “sarebbe una sciocchezza!” come dice Montherlant, ma un evidenza difficile – per moltissimi – da accettare.”
  • Montherlant quindi ha buon gioco a difendersi di fronte ad un mondo che comunque perdona e dimentica quasi tutto basta che non si sconvolga, anche formalmente, il pubblico della norma, di volta in volta dominante. Così si spiega la blanda epurazione, l’implicita e quasi compiaciuta sottovalutazione della sua differenza, l’Accademia riconosciuta per i suoi indubbi meriti sia di potenza visionaria che di caratura stilistica, salvo finalmente poter concludere la sua avventura autorale in un sostanziale tombale silenzio, rovinosamente (per allora) infranto da quell’antico, rivelante (implicito/inammissibile) crismato suicidio…”. (S. G., Il solstizio di Giugno di Henry de Montherlant “ in “…come vacuità e destino”, NovAntico Editrice, 2013, pag. 39).