• I LIGURI definitivo

  • I Liguri
  • Etnogenesi di un popolo
  • dalla preistoria alla conquista romana
  • di
  • Renato Del Ponte
  • Recensione a cura di
  • Daniele Verzotti
  • (ECIG, Genova,  uscita su “Letteratura-Tradizione”
  • n° XVII, Giugno 2001, “Letture”, pag.25.)

  • Ci risulta che questo libro abbia avuto una genesi più che ventennale, ma valeva la pena aspettare tanto perché esso costituisce un punto fermo, imprescindibile per ogni futuro studio sull’argomento, una sintesi di quanto pubblicato finora e soprattutto un ampliamento d’orizzonti ed un approfondimento di cose sinora non trattate.   L’autore fa ricorso al cosiddetto metodo tradizionale, sorta di metodo induttivo e comparativo che consente di superare le nostre lacune su alcune tradizioni facendo ricorso ad altre meglio conosciute; se infatti la metafisica è una, simili saranno pure i simboli che da essa promanano, per quanto lontani nel tempo e nello spazio. L’arco di tempo preso in considerazione è amplissimo e va dall’alta preistoria sino alla conquista romana e segue passo dopo passo, per quanto lo consentano le fonti, quella che, con felicissima espressione l’autore chioma “etnogenesi di un popolo”. L’argomento ci pare di grande attualità oggi che tutto rischia di andare perduto, a cominciare dalla nostra identità per cui la riscoperta e lo studio delle etnie che sono alla base della nostra storia è di una importanza vitale nel senso letterale del termine.
  • La Liguria più di altri costituisce un’unità etnoculturale da tempi immemorabili; Esiodo per primo parla dei Liguri come i più antichi abitatori dell’Occidente distinguentisi per il carattere fiero e le condizioni di vita quasi ferine , ma allo steso tempo uniti da forti vincoli tribali e con quella onestà e semplicità propria dei tempi delle origini. Gli stessi autori antichi tuttavia non immaginavano a quali remote epoche rimontasse la persistenza dell’etnia ligure sullo stesso territorio il cui punto centrale, geografico e sacrale, era incentrato sul monte Bego e sulla vicina Valle delle Meraviglie; nelle descrizioni di questi luoghi nei toni lirici, ma non retorici, usati dall’autore, abbiamo colto un profondo vincolo d’amore con la propria terra (i Del Ponte vivono in zona ligure da molte generazioni), terra che ha mutato più volte forma ed estensione ed ha ospitato una fauna che va dall’elefante al bue muschiato e popolazioni che attraversano molte fasi culturali, dai raccoglitori primordiali ai cacciatori nordici che seguivano i sempre più rari branchi di erbivori. I cacciatori primordiali appartenevano alla razza cosiddetta di Cromagnon, base delle attuali razze europee caratterizzata da struttura altissima e robusta, che costituisce l’antecedente diretto dell’attuale etnia ligure (e non solo) e data l’inizio della civiltà in Italia. Già nel Paleolitico Superiore troviamo resti di sepolture intenzionali in un contesto inequivocabilmente religioso: le famose sepolture in ocra rossa, materia e colore simboleggianti vita e rinascita. Tali sepolture sono universalmente diffuse e si può facilmente intuire il perché: se l’uomo nasce dalla terra ed è vivificato dal soffio divino, quale sostanza meglio dell’ocra rossa può simboleggiare il sangue e la carne? Le sepolture presso i Balzi Rossi vengono datate da 25.000 a 12.000 anni fa e denotano una struttura sociale più complessa di quanto si credeva, poiché pare di poter riconoscere in alcuni sepolti una funzione quasi principesca, mentre le donne sono sempre in posizione subordinata, anche se riscontriamo la presenza delle cosiddette “Veneri”, diffuse in tutta Europa, mentre la presenza di pitture parietali riconduce la facies culturale ai paralleli ritrovamenti di Altamira e Lascaux (la disposizione di tali figure ha fatto pensare ad un dualismo o complementarietà, maschile-femminile). Vi sono tracce di notazioni calendariali basate sulle fasi lunari nonché un simbolismo grafico in funzione rituale che sfocerà poi, millenni dopo, nei sistemi di scrittura e numerazione. Troviamo in alcune grotte i segni chiarissimi del lancio di pallottole d’argilla, ed è curioso notare come in Lapponia, ancora agli inizi del secolo si celebrasse tale rito in occasione della caccia, a testimonianza della stupefacente continuità culturale dell’Europa.   Da un accurato esame degli scheletri viene definitivamente smentita la fantasiosa ipotesi che questi appartenessero a tipi negroidi. Con l’estinzione dell’orso delle caverne e la fine dell’ultima glaciazione finisce anche la cultura dell’uomo di Cromagnon, ma non senza lasciare tracce significative: le popolazioni dei Baschi, dei Guanci e dei Cabili sarebbero secondo indagini sierologiche, il loro ultimo residuo, nonché gli “ispiratori” della successiva civiltà megalitica di cui sussistono ancor oggi resti imponenti. Interessantissimo il dato riportato dall’autore di alcuni ceppi umani stanziati soprattutto in Garfagnana e alcune zone limitrofe, aventi statura alta, struttura robusta, capelli nerissimi ed occhi azzurri; e se non si può parlare di sopravvivenza etnica dei cacciatori paleolitici, certamente alcuni geni sono stati trasmessi e conservati da queste popolazioni e ciò dimostra quanto antico ed importante sia il radicamento dei popoli nel loro territorio.  
  • Nella successiva fase culturale si ha l’espansione dell’agricoltura dal Medio Oriente, anche se non è corretto parlare di invasione bensì di trasmissione anche se certamente si hanno spostamenti di popolazioni ed il tipo del “contadino primordiale” si mischia col “cacciatore primordiale” e si forma così l’antecedente diretto di quella che sarà l’etnia ligure ben documentata da ritrovamenti neolitici. A partire da quell’epoca piccole culture locali si sviluppano autonomamente a margine di culture più importanti cresciute in Europa e producenti i famosi vasi a campana, culture che si svilupparono fino a quella di Hallstatt (età del Rame).   Finalmente prende vita l’etnia ligure vera a propria, dove al Cromagnon ed ai contadini mediterranei si aggiungono elementi indoeuropei, tanto che per certe tribù marginali si ha confusione presso gli stessi scrittori antichi, i quali parlano di Celto-Liguri, semi-Galli eccetera.   Giungiamo così al punto centrale del libro, dove la sentita partecipazione dell’autore ci introduce nel mondo sacrale e religioso dei Liguri incentrato sul monte Bego, intorno alla cui vetta si scatenano imponenti fenomeni metereologici e dove re-pastori svolgevano riti per noi misteriosi.   Oltre sessantamila incisioni rupestri ci mostrano un culto incentrato su un dio cornuto spesso associato ad armi che ne evidenziano la potenza, che si esprimeva anche in epifanie animali, come avveniva anche a Roma con Marte dio della Guerra e dell’Agricoltura, nel mondo germanico con Thor e nel mondo cretese con Zeus, dove riscontriamo la forma taurina tipica della religiosità mediterranea. Nel monte Bego i simboli taurini paiono più legati alla terribilità delle manifestazioni atmosferiche e l’ampia diffusione pare quasi indicare una trasformazione, da simbolo a segno, come la croce nel caso del Cristianesimo; tutto fa pensare ad un culto corale anche se non dovettero mancare forme esoteriche.   Abbiamo apprezzato il ricorso dell’Autore, pur in un quadro così scientificamente ineccepibile, ad autori non ortodossi come Guénon, Wirth, Evola, gli studi dei quali sul simbolismo possono aiutarci nel tentativo di decifrazione della forma religiosa tipica dei liguri; per Guénon le corna erano espressioni di forza e potenza proveniente dall’alto e quindi di consacrazione religiosa della regalità mantenutasi in Europa fino ai tempi recenti.   I bovidi graffiti sul Bego sono associati ad operazioni di aratura, ma il loro significato non dovette essere naturalistico e queste scene richiamano alla mente il rito della fondazione di Roma. Armi e corna associati ai raggi celesti e raffigurazioni solari testimoniano della progressiva europeizzazione del culto e delle popolazioni e si nota il progressivo passaggio dai primi culti tellurici alle religioni uraniche, passaggio che ritroviamo anche nei graffiti della Val Camonica: un graffito molto diffuso e quello dell’“Y”, cosiddetto orante, che secondo il Wirth è simbolo di resurrezione, l’uomo trionfante sulla morte, simbolo proprio di tutte le culture atlanto-mediterranee e nord-atlantiche, in realtà più dominante che orante, più mago che ordina che sacerdote che chiede.  
    Del Ponte interpreta come teofania, cioè manifestazione diretta del dio, la figura orante quando è connotata da marcato itifallismo, soprattutto se associata a figure di animali e di armi; è molto probabile che sia così, ma noi non scarteremmo a priori l’ipotesi che si tratti di figure di iniziati (o sciamani) evocanti in sé forze profonde e travolgenti: gli atleti greci dell’epoca arcaica venivano rappresentati itifallici e nell’atto di lottare ed è probabile che tale condizione fosse propria dei guerrieri-orso-scandinavi.   Ricordiamo che nella stessa mistica cristiana l’impulso sessuale, trasmutato di senso e trasposto dal piano fisico a quello metafisico, costituisce punto di appoggio non secondario e che ancor oggi nella Chiesa Cattolica non si può essere sacerdoti se si è impotenti.   Nei graffiti della Val Camonica il dio Cernunnos (celtico per eccellenza) occupa un ruolo omologo a quello di Bego a testimonianza delle affinità culturali e spirituali che andarono oltre occasionali motivi di scontri. Alla zona del monte Bego gravitante verso le Alpi si associa il massiccio del Beigua (forma femminile del Bego?) e del Monte Sagro nella zona delle Apuane, in vista l’uno dell’altro, cosa importante nell’ottica degli auspici antichi, immensa area sacra dei territori liguri dove troviamo le famose statue stele , probabile evoluzione della cultura megalitica ed in particolare dei menhir tipici degli atlanto-mediterranei.   Esse paiono quasi rocce antropomorfizzate di divinità delle montagne scese a valle a muto presidio di zone particolari; all’antichissimo residuo lessicale “penna” nel significato di roccia, da cui prenderanno nome gli Appennini, le Alpi Pennine, la tribù Celto-Ligure dei Pennini e lo stesso Jupiter Penninus, forma romanizzata del dio delle vette, l’antichissimo dio Bego, il cui ricordo si era mantenuto.  Tali aree sacre fondavano il diritto comune, in particolare per il compascuo o pascolo comune dei vari gruppi, che si manterrà fino al medioevo. L’antichità di questa cultura venne ben percepita dagli autori greci, che alimentarono il mito del buon selvaggio a testimonianza delle difficoltà incontrate dai coloni greci; lo stesso Virgilio nell’Eneide fa riferimento al mitico re Cicno, ed il cigno è antichissimo simbolo solare indoeuropeo, in particolare nordico, giunto nel Mediterraneo al seguito della cultura dei campi d’urne, veicolo di contenuti spirituali capaci di conferire nuova dignità alle antiche religioni, le quali però, come nel caso del monte Bego, avevano già saputo elevarsi da un antico substrato tellurico a visioni celesti, religioni che restavano tuttavia nell’ambito di culti sciamanici.   Con l’arrivo del simbolo del cigno si verifica un ulteriore distacco dal mondo della promiscuità naturale, anche se oggi non è possibile determinare in quali modi e quali forme; simbolo che poi ritroveremo nella cultura europea nella figura di Lohengrin e di Parsifal fino a quell’Amedeo VI di Savoia, creatore dell’Ordine del Cigno Nero. Nella protostoria italica i Liguri non erano confinati nella regione dell’attuale Liguria, ma diffusi ampiamente sul territorio italico: secondo Dionigi i Liguri, guidati dal loro re Siculo, sbarcarono in Sicilia e diedero il nome all’isola ed altri si stanziarono nella zona ove poi sorgerà Roma. 
    Tutto ciò testimonia dell’intreccio delle varie stirpi e culture da cui originò l’Italia; la stessa Alba Longa e il monte Albano, testimoniano nel loro nome il ricordo linguistico di quel prefisso sub-alp indicante l’alpeggio e cioè il pascolo comune così tipico, come abbiamo visto, dell’area ligure e che rimandano, per assonanza fonetica alle parole Albion e Aballon, luoghi in cui la storia sconfina nel mito, mito illuminato dall’interpretazione del simbolismo primordiale e che ci riporta alla terra di Apollo, ad un centro sacrale, cioè, da cui prese forma l’azione di razze civilizzatrici che tra la fine dell’era glaciale ed il neolitico s’espansero in area eurasiatica, razze che per noi corrispondono a quella nordica che anche recentemente qualcuno, in una bella canzone, ha definito “stirpi di ghiaccio e di sole”.   Tardo riflesso di questo quadro mito-storico è la leggenda di Ercole tra i Liguri e che testimonia comunque di una difficoltà dei coloni greci a penetrare in quelle terre. Con la cultura di Golasecca, caratterizzata dall’incinerazione, arriviamo a stabilire due punti fermi: il processo di compiuta indoeuropeizzazione delle genti di area ligure e del definitivo e preciso configurarsi di un’etnia decisamente ligure già padrona dell’uso dei metalli, dal formarsi della vita in villaggio e da una ceramica con caratteristiche proprie, ma non priva di rapporti con il mondo celtico, rapporti che s’intensificheranno nei tempi successivi, testimoniati soprattutto dalle forme delle armille ritrovate in grande quantità, inoltre oggetti di toilette, pendagli a forma di melograno, oggetti, tutti, che dovevano avere una funzione ornamentale, ma anche apotropaica, cioè magico-protettiva. Questo sviluppo storico oscuro e silenzioso (almeno per noi) dura circa mille anni, fino a quando la pressione gallica si fa insostenibile e quella che in precedenza era stata una lenta infiltrazione, nel IV sec. a.C., diventa vera e propria conquista militare: le testimonianze linguistiche dell’epoca sono, se non contraddittorie, certamente varie e vanno da un celtico definito pre-gallico fino ad un etrusco “di periferia”, ad una lingua definita dal Devoto “Leponzio”, che dovrebbe costituire il substrato ligure vero e proprio. L’incinerazione è ormai generalizzata e questa pratica non nasce, come qualcuno ha voluto sostenere (sbagliando), per motivi di ordine igienico, ma da una precisa visione sacrale del mondo, tipica delle genti indoeuropee: bruciando il cadavere si libera l’anima dai residui di scorie materiali e se ne facilita il passaggio ai regni celesti, rito riservato in genere ai guerrieri, sacerdoti e figure di capi e da cui erano normalmente esclusi i fanciulli e le donne: come si vede è questa una visione antitetica al rito dell’inumazione tendente a riconsegnare il defunto alla madre terra. La spinta celtica si assesta e le due popolazioni convivono più o meno bene fianco a fianco in un intreccio di scontri bellici e scambi culturali e mercantili; non possiamo però parlare di fusioni di culture e l’area ligure mantenne sempre un carattere, per così dire, più ispido e scabro e tratti primordiali rispetto all’area celtica. Giungiamo così alla vigilia dell’incontro-scontro con Roma: i Liguri non raggiunsero mai una coscienza nazionale ed ebbero la sfortuna di trovarsi al centro di vie commerciali che collegavano Romani, Etruschi, Celti e Greci.  
    Oggi si tende a guardare alla storia con animo di romantici Robin Hood, ma noi non amiamo i giudizi e le visioni storiche da sirenetti, e se pur non amiamo le fasi più aggressive dell’imperialismo romano, sappiamo che Roma fu portatrice di una superiore civiltà.   In particolare ciò che di Roma meno ci piace è stata la folle politica schiavista e la sciagurata politica assimilazionista che permise a cani e porci di entrare nell’orbe romano e di dichiararsi cittadini, cosa che già in antico, causò il marasma etnico che ancora ci affligge. Se è vero infatti che culture troppo rigide e chiuse si sclerotizzano e si frantumano senza lasciare traccia, come accadde a Sparta, è anche vero che quelle troppo aperte si spappolano, come accadde a Roma.   Non siamo però d’accordo con chi vuole equiparare l’Impero Romano all’imperialismo angloamericano: entro certi limiti Roma fu rispettosa delle singole culture e dei singoli popoli e di loro non intaccò né la lingua, né la religione, né l’identità; tutte forme triturate dall’attuale imperialismo.  
    Ci piace qui menzionare un episodio citato da Del Ponte: il Senato romano nega il trionfo ad un generale che aveva infierito su popolazioni civili con la motivazione che l’onore di Roma lo si difendeva combattendo contro soldati agguerriti: quanto lontani siamo dall’attuale modo di condurre le guerre, ognuno lo giudichi da sé. Non siamo d’accordo con chi ci ha fatto notare che come accettiamo positivamente l’Italia di Augusto, così dovremmo accettare l’Italia attuale, poiché le due cose non hanno nulla in comune.   L’Italia di Augusto aveva Roma come centro unificatore ed un mosaico di singole identità, ognuna riconosciuta e tutelata; esse rappresentavano culture organiche aventi un rapporto vivente con il loro territorio anche se le guerre annibaliche avevano sconvolto il panorama culturale dell’Italia antica che si reggeva sul contadinato e sul contadino-soldato. Oggi non siamo riusciti a costituire un’entità che possa chiamarsi popolo italiano, bensì un’accozzaglia di vari gruppi, il più potente feroce e spietato, quello atlantista, ha in comune con gli atlantici del libro solo il nome ed i centri aggregatori di questa Italia sono gli Uffici Postali, dove si distribuiscono le pensioni. Roma poi era retta da una forte classe dirigente ed aveva consoli che sapevano combattere e morire con la spada in pugno; questa Italia è rappresentata da gente la cui massima aspirazione e ideale politico è di diventare la parte marron delle mutande della “Signora Halbright”. Crediamo che i lettori di queste pagine, non dovrebbero rinunciare a questo libro, ottimo strumento per rafforzare il senso di identità ed il rapporto con il proprio territorio, oggi che il senso di identità viene aggredito da tutte le parti. Con strumenti culturali di questo genere oggi armiamo la nostra mente ed il nostro cuore, domani chissà.