• Cover Il sole alle spalle

  • A proposito di   Il sole alle spalle   di Mario Dessy
  • Una perdurante leggerezza
  • di
  • Sandro Giovannini
  •  Alcuni libri ti catturano non per qualità immediatamente eclatanti ma perché insinuano, al tuo interno, delle impressioni profonde di fatale corrispondenza di tutte le cose con tutte le cose, una volta che li hai affrontati magari non per dovere di documentazione o per la segnalazione di un amico che stimi o perché li reputi, forse persino con fatica, necessari al tuo percorso di conoscenza. Le letture del tutto gratuite - lo so, lo so, lo dovrebbero essere tutte… ma, alla fine, per svariatissimi motivi invece non sono che poche su tante - insinuano una persistenza di sguardo più leggero ed al tempo stesso più inquietante, perché capace di sottrarti alle dicotomie sempre imperanti, od almeno di metterti in una situazione di più ampia interrogazione. Più che utile, necessaria. Ero giunto ad ordinare e poi leggere questo testo sulla base di altra lettura, quella di Antisnobismo di Mario Carli. Mi aveva sorpreso scoprire che Dessy aveva sposato nel 1939 la moglie di Carli, suo maestro e fraterno amico scomparso nel 1935. Probabilmente - a conti ormai fatti, esistenzialmente - due uomini che non potrebbero apparire caratterialmente più diversi. Tanto irruente, espansivo, urticante, interventista, imperativo il primo, quanto più riservato, introverso, avvolgente, problematicamente poetico, il secondo. Ideologicamente molto vicini ma anche espressivamente ben differenti. La lettura dei due testi in ravvicinata impressione me lo conferma. Questa di Dessy quindi segue cronologicamente quella da me fatta per Mario Carli. Un’ulteriore suggestione periferica ma verificata, è il fatto, non frequente, che i due fondi letterari - per innegabili ragioni di connessione - siano distinti ma collegati al Mart di Rovereto.
  • Accingendomi poi alla lettura avevo preso un facile abbaglio. Che il titolo fosse una splendida metafora di un intero percorso esistenziale, perché questo resta comunque l’ultimo libro di Dessy, scritto nel 1970 a pochi anni dalla morte. E che quindi volesse lasciare a futura memoria il senso di una (sia pur nobile) sconfitta di una visione del mondo. Tale abbaglio nasce anche dall’alone più che razionale che un titolo geniale sempre porta con sé, lasciando nel lettore un fondo seducente e comunque residuale ad ogni più spinta e riflessiva lettura. La domanda che l’interprete si pone, forse più ponendola veritativamente a se stesso che ad eventuali altri lettori, è proprio la centratura che un titolo compie, sempre che ovviamente riesca a muovere qualcosa di più sottile o più diffuso rispetto alla complessiva struttura significante di un testo. Il titolo geniale come amo per trarre il lettore dalla liquidità mobile ed indifferenziata. E la lettura scaltrita del poeta o del critico di poesia è forse la precondizione per meglio valutare questa eventualità, per comprensibile pratica di sensibilizzazione al riguardo. L’abbaglio, quindi, che da quel titolo direttamente derivava in me, era che fosse una sorta di biografia esistenziale riassuntiva. Invece, in questo caso, c’è uno sprofondamento in una delle possibili dimensioni esistenziali “parziali” o “provvisorie” della propria vita, cosa che - nel mentre sembri semplificare l’intreccio e la fabula, praticamente qui molto, molto, concentrate, - ingarbuglia la struttura narratologica (magari con esiti meravigliosamente efficaci) ma comunque rimanda, in ipotesi, ad una futura riassunzione esperienziale dell’autore (e quindi anche del lettore)… E’ una sorta di catafratto scetticismo sulla parola/vita romanzesca, che non vuole distendersi eccessivamente per catturare, quasi per sfinimento, come avviene in altre ben famose (e - per molti - quasi irrisalibili) ed irriducibili fenomenologie autorali? O forse è una forma di più sottile malia dell’autore, che viaggia espressivamente in impliciti successivi, veloci, relazionati, progressivi? L’editore e splendido prefatore Salvato Cappelli, vecchio compagno d’avventure d’avanguardia di Dessy, dice: “…Un rapido libro, forse troppo, fotografie di un album tanto individuale da sminuirne i sensi reconditi da avvertirsi - però - in altra proporzione dello implicito, ovviamente fondamento dell’arte. Qui l’implicito è tutto esplicito, ma a ragion veduta, non per difetto. E’ un discorso d’amarezza. Il ‘magone’ dicono a Milano. Raccontato stupendamente in alcune pagine, in altre rimaste talmente intenzionali da sfuggire all’esame critico, in altre ancora le più fosche, sottratte di forza all’indifferenza dell’agonia. La tentazione, vinta, di morire. L’arco dei motivi è rappreso in una operazione che volutamente rende tascabile il dissesto di una società e di un costume. Pretesti per la toponomastica di qualche dubbia convergenza ideale in via di smottamento. Schema di una fiducia improvvisamente in allarme. Sentirsi tradito dalle circostanze con la fulmineità di chi, tornando, scopre la moglie in via di scappare con l’amante. L’abbozzo della catastrofe italiana sottopanni. Malinconia che mi lascia un po” freddo, ma genuina. Sottaciuta, ma si capisce che a Dessy la ferita fa male. Il diagramma, piaccia o no, dello stato d’animo di milioni di persone nel 1945. Queste sono le parti nude del libro, perfino grezze. Colpa del dolore, pazienza! Ma appena Dessy riascolta in sé voci più antiche, stimoli meno controllati, - annusa, cioè, tocca, gusta - smette di vedere soltanto e si trasfigura nei misteri che le cose meravigliosamente contemplano e detengono.”
  • Come poterlo dire meglio del prefatore? Direi impossibile. Quindi limitiamoci solo a sottolinearne alcuni passaggi. L’implicito, come interrogazione, già accennato… per tenere l’intenzionale sotto traccia… per non urlare di dolore… se si è poi tentati di morire, assieme a tanti tanti altri e non, prevedibilmente, ad ogni costo, vivere… Il dissesto di una società e di un costume, che si era cercato di ortopedizzare, ma che in realtà non si sarebbe mai dovuto mettere alla prova oltre una soglia minima… (che allora, poi, era molto, molto, più alta). La dubbia convergenza postuma, possibile solo in re ed in parte (lo constatiamo persino dopo decenni!) ma non in sé, ché dopo uno smottamento epocale di tale ampiezza e portata, si constata un’immane fangosa tomba dei morti e dei superstiti. Poi, per chi ha combattuto sino al limite delle sue forze, sentirsi, irriducibilmente, tradito. Una malinconia che fa letteratura ma toglie subdolamente linfa alla vita. Il diagramma di un venticinqueluglio e di un ottosettembre che diviene il quadro sinottico in cui tutto potrà essere (ancora, per quanto infinito tempo?) più o meno bene, interpretato. Infine le generazioni, inconsapevoli e forse ingenue, che comunque sotto premono come un sangue compresso e deviato ma, in natura, sempre inarrestabile… In poche righe un universo di comprensione.
  • Allora il testo di Dessy sembra apparentemente non prendere partito per una tale (tragica) riassunzione, evidentemente (in realtà) a posteriori del vissuto (suo e degli altri), facendolo parlare proprio da una finestra temporale con una voce che sembri la più vicina possibile all’originale di quel tempo liminale della primavera del 1943 e di lui tenente di ritorno alla sua Sardegna natale per una missione militare speciale. Brevissimi capitoli, senza alcuna sbavatura, concentrati su quell’unica finestra temporale che copre il volo verso l’isola, la sua permanenza di qualche mese ed il ritorno affrettato alla casa paterna a Roma per la notizia del primo bombardamento sulla capitale del 19 luglio del ’43. Ritorno fatale in cui rischia la morte per un arresto cardiaco, dopo un gravissimo malore d’origine malarica, già in volo.
  • …A sud e a ovest si accendono continui bagliori azzurri, gialli, rossastri, mentre dalla Maddalena le lingue dei proiettori si allungano, si distendono, si ritraggono, si fissano un attimo in un punto per poi scomparire, inquiete e incostanti, misurando le loro gracili forze nel gigantesco torneo di luci. Superato l’accampamento, ci dirigiamo fra rocce, siepi di rovi e cespugli di lentisco, verso uno spiazzo dominante. Cucchi è subito assorto nell’osservazione del firmamento e apre il sacco delle sue cognizioni astronomiche, citando nomi, distanze, rapporti, formule. Lo seguo distratto, e guardo le stelle. Sono le stesse che da quest’isola mio padre guardava. Con quali pensieri? Con quali inquietudini? Tutto, di ciò che egli a me trasmise, è rimasto vago ed inespresso. Perché, Padre mio, mi commettesti tanti impossibili compiti, senz’altra traccia all’infuori della inesauribile ansia di essere come non sono? Quale fu il principio della vicenda ch’io vivo? Perché, perché mai, quando in un glorioso giorno di giovinezza, fissando lo sguardo spavaldo nel sole vi scorgesti i segni di un destino felice, non li consegnasti, chiari, indelebili, alla tua creatura? Perché l’hai lasciata col sole alle spalle?
  • Cucchi procede inesorabile, ormai preso da una forma di delirio spaziale.
  • - Guarda - mi dice - miliardi di chilometri al di là della stella più piccola e lontana, a distanze che pensandole farebbero impazzire, miliardi di altri universi si distendono nell’infinito. C’è ancora materia nello spazio. Eppure lo spirito va oltre quelle distanze incalcolabili, poiché giunge sino a Dio. Ma l’uomo non sa rendersi conto di questa sua autentica grandezza e anche quando imperfettamente l’intuisca, preferisce barattarla con le mediocri conquiste della vita.
  • - Poche settimane mi sono bastate per conoscere a fondo il caro compagno d’armi: merito della sua natura semplice più che della mia perspicacia. So, fra l’altro quanto gli piaccia rivestire di parole altisonanti e pompose i concetti più comuni. Tuttavia gli si può perdonare qualsiasi esagerazione di eloquio, tanto è evidente come vi sia trascinato soltanto dal reverente rispetto verso quei valori ai quali il suo pensiero ha bisogno d’ancorarsi, ma senza alcun proposito di sofisticarlo e impreziosirlo. E poi, è cosi scoperto e piacevole il suo candore! Ora mi sembra che mortificare l’amico nella sua impennata filosofica sarebbe una cattiva azione e do inizio ad un tipo di dialogo simile a quello fra due bambini che giochino a fare i grandi.
  • - Diresti meglio che abbiamo paura di codesta grandezza. -
  • - Forse hai ragione. Perché l’uomo si dimostra coraggioso fino alla temerarietà e addirittura capace di gesti eroici, quando si tratta di forzare le oscure leggi che governano l’universo, nella superba gara per il dominio della materia insidiosa. Ma diventa pavido, debole, gracile, quando è chiamato a scrutare dentro di sé.   Il mistero che lo circonda è per lui motivo di esaltazione e di stimolo; quello che giace nella profondità della sua coscienza è invece causa di smarrimento e di terrore.   E preferisce girargli prudentemente al largo. Questa debolezza condanna la natura umana a tradire lo spirito che è alito divino. -
  • Cucchi si arresta sorpreso che la sua dialettica, forse influenzata dal mio intervento, lo abbia trascinato ad una conclusione negativa, probabilmente assai diversa da quella cui desiderava pervenire.   Pentito, propongo un’altra versione:
  • - Ma, vedi, quando giudichiamo gli uomini e i loro atti e le loro manifestazioni, così come si mostrano, intessuti di miserie, d’egoismi, d’istinti, di viltà, indubbiamente ci riesce difficile concepire che possa esistere un qualsiasi legame fra la nostra natura e lo spirito. Siamo invece indotti a considerare l’umanità con scherno e disgusto. Sudicia spazzatura e nulla più. Eppure, appena tu l’abbia così respinta e condannata, te ne senti subito preso da un senso d’accorata tenerezza, che può essere vergogna o indulgenza, pena o pietà, ma è pur sempre amore. Amore, cioè cosa di Dio, unico ponte gettato sull’abisso per giungere a Lui.  
  • - Come è vero! - dice Cucchi, sollevato, - si può anche compatire la nostra paura. E forse è meglio non guardare dentro di noi.
  • - E andarcene a dormire, coi nostri mondi inesplorati. -  
  • La notte è tornata calma e silenziosa.   Soltanto lontani bagliori deturpano l’azzurro del cielo.   La guerra si è ancora una volta allontanata dall’isola, lasciando le sue fiammanti tracce.   Per qualche ora, forse, tutto sarà tranquillo.      Torniamo lentamente alla tenda, senza scambiare altre parole.”
  • Quindi nel mio abbaglio il sole alle spalle dardeggiava ancora sul figlio come ombra (forte) del padre. Una persistenza del legame che è una persistenza dell’ombra. Mai eliminabile se non ripercorsa e conosciuta in tutto il suo alone al contrario. Come a dirmi che se uno non si carica addosso tutto il suo bagaglio di forza e debolezza assieme (qualsiasi cosa sia successa, qualunque cosa possa ancora accadere, anche insopportabile) non diventerà mai un uomo. E la legge dialettica del chiaroscuro è la perdurante leggerezza, perché non è urlata né irosa verso il mondo di contro, che è pur feroce e grossolano. Spietato ormai ed ora ancor più nel suo accoglimento subdolo delle verità segrete esposte in evidenza. Una dolente consapevolezza che viene dalla certezza di non poter essere che marginali, ma non per questo inconsapevolmente inetti, …non resta che far torto o patirlo: una feroce forza il mondo possiede…
  • Oltre alla traccia del sangue, lo spirito nella carne vuole anche l’identità della terra. La sua Sardegna, mitica e rattenuta, serrata ma lealmente significativa. E questa Italia vicina, appena un poco al di là del mare, la fragile e deliziosa Italia ferita che non muore