• A  proposito  di 
  • “La  miseria simbolica” 
  • di  Bernard  Stiegler
  • Vol. I: L’epoca iperindustriale
  • Vol. II: La catastrofe del sensibile
  • di
  • Sandro Giovannini

     

    Questo mio articolato testo critico (www.heliopolisedizioni.com) si sviluppa su diversi registri sia formali che contenutistici. Sarebbe stato forse possibile per altri, ma non per me, affrontare un tale testo senza prendere in seria considerazione lo stile di Stiegler, che mette in campo sensibilità e conoscenze le più disparate e spesso del tutto imprevedibili per chi non voglia confrontarsi con un taglio multidisciplinare, con il risultato di un linguaggio comunque avvolgente ed intriso d’autenticità emotiva sino allo spasimo, assieme al livello della teoresi sforzata sempre alla massima tensione. Fascino e repulsione logico/emozionali, in tal modo, credo maggiormente per chi, come ho fatto io, lo legga in modo consentaneo al suo stile, non per supponente disivindualizzazione ma per onestà d’indagine, possono benissimo restare accanto per tutto il tempo e non credo soltanto per chi, come me, abbia considerato come praticabile una visione del mondo che differisce comunque, in troppi e decisivi tratti, dalla sua.
    ...
    Prima vi è un’unità (I) definibile come ricognitiva sul potenziale recepibile ed assieme avvertimento apotropaico contro il troppo facilmente prevedibile. Segue una seconda (II) che è presa d’atto di ciò che sento di dire intorno ed a partire da STIEGLER. Quindi non tanto o non solo sul suo testo ma sulla scia che esso ha determinato in altri. Una terza (III) è ancora in definizione divisa in due capitoli (parte A finita e parte ancora B da scrivere). La parte A si confronta ulteriormente e dialogicamente con tutti i quattro capitoli del primo libro ‘L’epoca iperindustriale’. La mia parte B affronterà invece il secondo libro di STIEGLER, ‘La catastrofe del sensibile’, con la relativa Introduzione, sempre di Rosella Corda, e di seguito, dell’autore, L’Avvertimento, il Prologo con voci narranti ed i 5 capitoli del testo. Ho scelto questa formula espansa per cercare di trovare tutti i possibili motivi di convergenza e divergenza dai due tomi del libro. La sollecitazione comunque è partita dalla recensione di Giovanni Sessa, sempre su www.heliopolisedizioni.com e dal suo invito a confrontarsi seriamente su ciò che dice STIEGLER. In tal senso le mie riflessioni sono solo un contributo, del tutto discutibile ma spero utile, soprattutto in un momento così problematico della nostra vita europea. La “vicenda del sensibile”, infatti, comunque la si interpreti, è veramente al centro del nostro tempo e non si può assumere o respingere, anche in base a questo testo, in base al pregiudizio/luogo comune bizantino. Lo si deve ammettere appena si approfondisca qualsiasi indagine che non tagli per slogan o nodi di gordio. Il testo qui di seguito integra e sostituisce totalmente il mio precedentemente pubblicato e questa anomalia in crescendo non può trovare nella sovrapposizione una contraddizione insuperabile se è accettabile la premessa che giustifico con una azzardata mimesi interpretativa.


  • I
  •  
  • Παραβολή
  • “…Perché poi io sia venuta qui oggi, e vestita in modo così strano,
  • lo saprete fra poco, purché non vi annoi porgere orecchio alle mie parole:
  • non quell’orecchio, certo, che riservate agli oratori sacri,
  • ma quello che porgete ai ciarlatani in piazza, ai buffoni, ai pazzerelli:
  • quell’orecchio che il famoso Mida, un tempo, dedicò alle parole di Pan.
  • Mi è venuta infatti voglia d’incarnare con voi per un po”
  • il personaggio del sofista: non di quei sofisti, ben inteso,
  • che oggi riempiono la testa dei ragazzi
  • di capziose sciocchezze addestrandoli a risse verbali senza fine,
  • degne di donne pettegole.
  • Io imiterò quegli antichi che per evitare
  • l’impopolare appellativo di sapienti,
  • preferirono essere chiamati sofisti.”
  • Excusatio non... Vulgo… mettere le mani avanti. Perché Giovanni Sessa dice che sarebbe bene che noi (magari non io ma proprio quelli buoni in cose filosofiche…) ci confrontassimo con questo testo. Che lui presenta con disposizione notevole al sacrificio. Almeno questa è la mia sottile impressione. E sarà così, come è mia abitudine di ex buon soldatino… mi leggerò (le tre volte gurdjieffiane) tutto il primo sottotitolo (che mi pare - così, per ora, alla carlona - che da buon francese philosophe, più o meno nuovo, il testo sia appunto il sottotitolo del titolo magari azzeccato a forza d’orecchiarsi parlare e/o di sentirselo dire… ma - per carità - non anticipiamo a vanvera…) …ora vi devo proprio rompere gli scatoloni: dunque…
  • ieri, lo stesso giorno in cui m’arriva la recensione di Giovanni ed in cui la metto di corsa sull’Heliopolis, dovevo recarmi in un primo pomeriggio più o meno desolato (il pisolo pomeridiano non me lo toglie più nessuno), con il sole calante e forte negli occhi e con tutto che avevo mascherina pronta alla gola e occhiali e parasole abbassato ma non vedevo quasi un tubo di quell’infinita ed infame periferia… dovevo andare, allora, per una cosa infinitesimale da un notaio, sconosciuto, nella sua sede periferica (spero, per lui, che sia così) di un assurdo conglomerato tutto giravolte e villette vicino a Pesaro, per un attuccio a recuperare un mio acquisto (tecnicamente si chiama acquisto in frazionamento), di più o meno 20 mq., in una grotta sottostante già una mia casa in una cinta castellata… sotto un imponentissimo mastio… di un famoso borgo storico… del vicinato. Ecco… ho scritto tutto. Era rimasto in incongrua se pur legittima proprietà d’una vicina ultranovantenne, poi mancata ed io non avevo mai dato seguito alla cosa, pur interessante dal punto di vista simbolico, proprio perché questa divisione della grotta sottostante (con gallerie che si infiltrano sotto il castello per decine e decine di metri) implicava soldi ulteriormente buttati in una casa di quasi nessun valore commerciale e di utilizzo, se non per una organica (e magari pure comprensibile…) mia boria sentimentale. Simbolica. Ma un giorno un tizio mi chiama al telefono e mi dice che ha comprato la casa che reggeva anche quei 24 mq. ed allora mi chiede se voglio acquistarli da lui. Costosamente. Un piccolo antecedente. Nel paese in questione, famoso nella zona per l’antico castello, non circola un’aria benevola. Una boria (in questo caso… paludata e stracciona), antipatie, odi sommessi e rancori decennali e, nel migliore dei casi, un comprensibilissimo e strisciante fastidio verso gli estranei (cioè io) che però non aiuta certo l’immagine, almeno formale, dell’accoglienza. Poi la crisi, la chiusura di quei pochi locali turistici e il lento sommergersi in un poco eterno ritorno… molto storico.
  • Per un piccolissimo abuso edilizio (di miglioramento erga omnes) vengo portato in tribunale, infine condannato penalmente e pesantemente (ci sono di mezzo le belle arti) con la condizionale e pago uno sproposito di multa. Il pregresso. L’immagine di quella casa quindi in me s’offusca proprio, dopo i primi anni d’entusiasmo e di qualche iniziale lavoro, lasciando incompiuta una potenzialità d’abbellimento (ho finito elegantemente solo il dentro) e di consolidamento. Ci penso sopra e poi do una disponibilità di massima. Il venditore è uno scultore, ma non come me… eternamente dilettante del tempo imperduto e per melanconico ma furioso hobby… come direbbe un malevolo, ma proprio uno che vive convintamente del suo lavoro. Figura difficile. Lo incontro preventivamente perché mi vuole far vedere la sua villa laboratorio con parco scultoreo museale collinare che si perde beatamente - unica cosa veramente buona - nel confine collinare, ove ha convogliato da mezzo mondo, donazioni, istallazioni e gruppi scultorei, i più - escluso proprio pochi - per me bruttissimi, scadenti od insignificanti. Suoi e di tanti altri, ma sempre sedicenti ed imponenti… Ha, accanto alla villa, vicina al paese in questione, in un coacervo di sovrapposizioni alquanto inestricabili, - ci vorrebbe, forse, per capirli un drone dall’alto come per i presentimenti di scavo - un hangar con varie officine aderenti dove poi fa colature stampi e cotture professionali in tanti materiali… Il tipo si rivela sincero e rozzo assieme, piuttosto arruffato come si conviene ad uno che opera sempre con le mani (ed anch’io nel mio piccolo sono, alla bisogna, più sporco che pulito…) e reiteratamente tuttologo e sapientemente logorroico (consigli di materiali, di cucina, di dieta, d’aerobica ed altri 10 argomenti come minimo…) mentre invece la moglie, che fa di mestiere la commercialista, incontrata di sfuggita sul loco, taglia molto venividivici e sembra tutt’altra figura, leggibilmente in disparte. (Poi, forse, ho capito perché). Ci accordiamo solo sull’interesse reciproco, ma la cosa è instabile perché sa che sono in ballo da circa due anni con una malattia grave di mia moglie… Passa parecchio tempo e poi lo scultore mi telefona, s’arrabbia pure via cavo, ed alla fine più o meno ci mettiamo d’accordo. Quindi, dopo un compromesso (pur per una cosa così insignificante) andiamo finalmente al rogito.
  • Ma, se fossi stato un antico, non avrei mai dovuto convolare. Troppi segnali nefas. Leggibili almeno tre. Ma ormai c’ero dentro, a giusto od a torto, come dice il diritto latino. Prima di due giorni dalla data fissata per il rogito a mia moglie viene una febbre altissima, sembra coviddi, che poi però non è, ma fo(a)rse(a) si, forse no… chi lo sa. Negativa ufficialmente. Allora si rimanda. Ma il venerdì sera/fine settimana del secondo appuntamento fissato per lunedì, la ruota destra anteriore dell’auto ferma davanti a casa totalmente a terra… allora pompetta elettrica con bomboletta collante incorporata dopo aver strabuzzato gli occhi… e corsa dal gommista in chiusura che mi fa il cazziatone tipico di chi sa… dicendo che si deve solo pompare aria… e che se si spinge la colla dentro poi bisogna attendere… quando non si sa, forse… presumibilmente… 50 o 100 km… che il velo collante dentro si squagli al calore (se no dovrebbero lavarla dentro ed asciugarla - cosa che evidentemente non hanno troppa voglia di fare) e quindi si riveli il buco, che non è rilevabile, come al solito, a vista e se non a vista coll’acqua… e così via… Insomma vado all’appuntamento di lunedì lemme lemme con l’orecchio spostato sulla destra… e va bene sono solo pochi km… una 30a e poi io non sono un antico (a proposito del nefas)… sono un moderno mio malgrado.
  • Ho un bel testo di Walter Freund sulla filo-etimologia di modernus… (modus hodiernus) e per controllare la mia memoria di qualche decennio fa, cosa vado a scoprire?... che la prima citazione assoluta riscontrabile del termine modernus appare in due passi delle “Epistulae pontificum”. “…Vi si tratta del divieto di ordinazione degli schiavi alle dignità ecclesiastiche, che era stato stabilito nel Sinodo del 494. Siccome la disposizione non veniva accolta nel giusto modo, Gelasio dovette ammonire più volte i vescovi sulla sua osservanza”. Così recita l’informatissimo testo di Freund, a pag. 15 dell’edizione Medusa 2001. E se uno - allarmato - poi va a vedere la voce Antico (l’antipolare di Moderno) sempre sul dizionario telematico Treccani il nome di Freund è quello più citato in assoluto. Ma se lo stesso uno va a vedere sulla stessa Treccani la voce “Gelasio I, papa, santo”, si trova di fronte ad una ben diversa presentazione, ove in un meravigliosamente descritto travagliatissimo quadro di crisi tra guerre, devastazioni, scismi, eresie e deviazionismi di ogni genere, il centro di ogni diatriba è il primato di Roma sulle altre originarie sedi apostoliche e la prima forte reiterazione del primato dello spirituale sul temporale (=del Papa di Roma, sull’Imperatore - quello superstite - d’Oriente). Gli schiavi indubitabilmente, a fronte di così tanti errori ed orrori, contano poco e sono definiti - sulla voce Treccani - “libertà personale”, formula meravigliosamente istituzionale (- anche oggi - evidentemente - come allora) che riduce ogni problematica di sostanza (evangelica)… a prassi burocratica. Dalla voce “Gelasio I, papa, santo”: “…Gli argomenti affrontati in questa lettera riguardano: l’acuta penuria di sacerdoti e il conseguente adeguamento della prassi ecclesiale; i requisiti per la promozione al presbiterato di monaci e laici (assenza di precedenti penali, libertà personale, integrità morale e fisica, alfabetismo);” ( il grassetto è mio. N.d.A,)… etc., etc.. Il mio stupore era in fondo del tutto ingenuo se non proprio sciocco… la prevalenza del tempo (sempre hodiernus) sulla supponibile atemporale, inattuale, parola di vita. E questa è forse la primaria fonte del mio disagio di modernus. La verità istituzionale sembra, sempre, se svelata, una nuda miseria simbolica. Ma de hoc satis… Torniamo all’auto ed alla ruota…

 

  • Per la fregola ingommata… arrivo circa un’ora prima. Mia moglie, strappata dal nonsonno pomeridiano (d’obbligo per lei), si distende quasi esausta sul sedile, pur messasi su elegante (per una delle pochissime uscite forzate a forza) a forza sua e non mia… ed io per mangiarmi quell’oretta - dalle 3 alle 4 - comincio ad aggirami tra le villette e il palazzotto dove da una parte c’è la sede di questa specie di comune (…un comune di seguito ad altri tre, tutti uno dentro l’altro, che ne fanno, per la gioia dei visitatori d’obbligo, un conglomerato ininterrotto alla junkspace) e vicino ad estetiste parrucchieri e baretti improbabili ma tutti segnaleticamente esterofili, finalmente c’è la targa del notaio. Più o meno accanto mi si rivela, sulla porta del comune, in un poster affisso, che il sindaco, un ex senatore soprannominato ai suoi tempi lenin per il pizzetto e la fisionomia davvero somigliante, è diventato sindaco di quel bel posto forse ad 80 anni o più, non so… so solo che quando arrivai a Pesaro negli anni Settanta ed avevo 27 anni, era già un big del PCI ed era già più che maturo… Faccio qualche riflessione non benevola sulla base elettorale del posto (e sulla tenuta incredibilmente fedele pur a mezzo d’infinite trasmigrazioni… di anime). Pensieri miei di risulta, quasi robaccia ad esternarla… Poi, per trovare il numero civico sarebbe stata una bella impresa dato l’origine del tutto… col policentro che rivela subito la sua causalistica ingombrata e nata comunque a casaccio. Ma incominciano ad incuriosirmi particolarmente i giardini e le varie piante dei villini. Non ne esiste uno che non sia perfetto nei particolari, marmi, sassetti bianchi, balconcini vezzosi, strutture mai degradate, tutte linde e leccate. Gli alberelli forzati in stranissime giravolte fatte a permanente, ore ed ore di giardiniere… (…che costi!) perfetti bozzi arborei tondi od ovaloidi con palline rosse o gialle incorporate, battiscopa e passaggi segnalati al millimetro ed intererbette ben tonsate senza fine, simbolicamente, e tutti diversi ma tutti uguali. Sulla bassa cancellata (tutte basse cancellatine che segnano i reciproci confini, nessuna ovviamente che abbia il minimo scopo d’utilità… quindi tutte simboliche)… tutte miseramente direste subito voi… ¡ma vaglielo a dire, con tutto quello che ci hanno speso sopra!.. uno di questi poi m’attira incredibilmente. M’avvicino per capire cosa sia: una sfera rinsecchita perfettamente compatta di circa 50 cm di diametro a cui spunta a sinistra, sgargiantemente rosso un non so… un qualcosa. Sulle prime, da circa 6 o sette metri ho pensato che qualcuno passando avesse magari buttato un rifiuto di plastica colorata, come avviene su tante strade di passaggio… sai magari… negli interpoderi ingombri di spazzatura come succede in quei bei posti dove la miseria non diventa mai simbolica o dignitosa ma almeno lo squadernato sconnesso può persino avere un suo fascino corrotto e vivo e perduto nel nulla e richiamarti, magari per avventura o disperazione qualche verso dei fiori del male… ma qui!... sai l’ermeneutica simbolica ora tanto di moda del fango da cui nasce il fiore!... neanche per sogno… o per disgrazia… magari una lattina di cocacola accartocciata, speranza di un nobilitazione fallita e non simbolica, ma no… mi devo avvicinare proprio per capire e poi vedo da vicinissimo che è un melograno tipo grosso bonsai tutto scheletrico/sferico compatto (ovviamente senza fogliette, siamo in inverno) che ha un solo frutto isolato rossissimo sulla sinistra bello/perfetto che quasi quasi devo toccarlo… anzi che lo tocco proprio - col dito - perché non resisto… ed è proprio l’originale, non è stato appiccicato sopra (altre ore di giardiniere) …ma mi beo a rifletterci sopra (forse troppo) …non originario. Era la bella copia (diciamo così) di tutti quelli miei tanti in brutta copia che mi vengono stortigni ed a pazzesco casaccio sul melograno anarcoide (per merito suo e senza merito mio) del giardino di Pesaro. Sopraffatto da questa visione, e per non fare troppo lo stronzo oltre il necessario che già una leggera nausea mi prende, mi rivolgo verso l’interno di una specie di cortile in mezzo ai palazzetti dove ci sono tante panchinette tutte modernissime e ben pulite… Lì… vedo un uomo d’apparente mezza età, bene/male vestito (ovvero non capisco… se non che abbia una specie di giubbotto), magari pure sobrio, infagottatissimo sulla panchina, con un raggio almeno di circa 100 mt. attorno vuoto d’altri umani. Ha una FFp2 bianca che gli copre strettamente il volto ma sopra vedo, tra il cappuccio ed il bavero, due occhi che mi seguono insistentemente ed evidentemente da parecchio. Io ho la mascherina già indossata ma sotto il mento, pronta per l’alzata (una volta c’era la celata), appena si possa entrare dal notaio… Mi tengo da lui a debita distanza… diciamo 20 mt., in modo da non dar adito a cattivi pensieri (suoi e miei) e mi rivolgo ancora verso la strada dove ho posteggiato con mia moglie che cerca ancora disperatamente di fare un infrasonnellino sul sedile. In quel mentre, isolatissimo, passa lentamente a circa 10 mt da me, sulla strada tra i villini, un vecchio magrebino, sicuramente, dal cappellino bianco di cotone riconoscibilissimo, di cui prima o poi mi dirò il nome, sopra un cappotto nero stretto e pantaloni neri, tutto un po” frusto ed indubitabilmente molto molto usato e con un bastone semplice e sottile su cui si regge alquanto. Noto la figura leggermente curva ma slanciata, i piedi lunghi in scarpe di una volta, che da noi sono scomparse da un secolo circa, le mani ossute e lunghe come i piedi. Bene… vi posso assicurare… io sono proprio uno… perché mi stanno sul cavolo praticamente tutti gli allotropi per svariatissime ragioni e di tutti i generi e specie, ma su di me quella figura aveva, in quel momento ed in quel posto, una significazione nuova… Come fosse una rivelazione… Pur se l’avevo pensata, teoricamente, tante, tante volte… La risulta superstite della prima generazione, nulla a che vedere con quelle bandastre di fannulloni vigorosi impudenti sprezzanti e veloci di mano. Al meglio. L’unico consumato dal tempo. L’unico piagato ma non piegato. L’unico veramente elegante in quel coacervo di sconcezze piccolo borghesi presuntuose di sé, totalmente asfissianti nella loro raggiunta e dolorosa dignità che ha a che fare credo nulla con la vera povertà dignitosa di cui, purtroppo, ho solo qualche sfocato ricordo dalla mia antica infanzia, ebbene… era, indubitabilmente, lui… Se fossi stato più coraggioso di quello che sono, l’avrei magari potuto fermare, con qualche scusa e chiedergli qualcosa, qualsiasi stupida e sciocca cosa tanto per parlarci… per riprendermi alquanto e magari prendermi anche qualche sorriso incerto e dubbioso o qualche prevedibile sospetto di non so che… Ma sono troppo ritirato (vigliacco?), nel profondo, per farlo… per (non) averlo fatto.
  • E così, pian piano, m’ero meritato o meglio non meritato, non so se proprio più o meno simbolicamente, il tempo per entrare dal notaio. Sveglio così mia moglie e reggendola con malcelata preoccupazione… s’era messa pure i tacchi alti e varie collane e braccialetti e anelli per compensare scompensando ulteriormente il grave schiacciamento vertebrale e per essere meno apparentemente sofferente… quasi ombra ancora un poco valida della passata elegante bellezza… Così s’entra assieme… nella perfezione del prevedibile.
  • Mica tanto però, perché il notaio, al quale avevo preordinato con mail varie tutti i dati degli assegni ed il resto dello scibile, non ha recepito assolutamente nulla dell’anticipato… tutto viene richiesto e ripetuto, con un va e vieni delle segretarie continuo come se fosse l’acquisto di un palazzo di 3 piani… invece che 24 mq. in aggiunta… ma tant’è… è d’uopo subire e poi l’unico suggerimento suggerito da me all’atto, ininfluente dal punto di vista giuridico ma utile dal punto di vista di chiarire il mio atteggiamento nell’integrazione, neanche dato per recepito e giudicato addirittura fastidioso (poco conforme) e infine inserito in parte a malavoglia, solo perché insisto. Il venditore, dopo che incongruamente prende cappello perché dico (per avvalorare gli atri muscosi ed i fori cadenti…) che le mura inferiori e posteriori (sulle quali lui non ha né proprietà, né vista né passaggio e quindi titolo) fanno per me vendetta e pericolo… quindi costituendo logica scontatissima per un eventuale riassetto strutturale e decorativo e poi esclamando stentoreo: “guardi che se continua così… non vendo… continua simpaticamente, come se nulla fosse, con i suoi discorsi benevolmente logorroici su medicine naturali, dimagrimento a mia moglie che è ridotta dal tumore e dallo schiacciamento a meno di 50 kg., materiali da costruzione, pavimenti che io dovrei fare, scale che dovrei costruire, ma tutte coperte col plexiglass ed infinite altre non richieste, ma sempre utili, ricette di vita… oltreché la volta a botte della grotta sia, da suoi recenti segretissimi studi di teorico di storia dell’arte, indiscutibilmente romana (non medievale, non rinascimentale)… Cosa che se per assurdo fosse vera, sopporterei altri 10 rogiti di tal, meravigliosamente simbolico, livello. I due sposini dopo circa 2 decenni sono in via di separazione (vedi parentesi di sopra…) accennata da lui, per la tangente… infatti lei lo interrompe di continuo stizzita ogni volta che parla (chissà forse vergognandosi o magari invece no… ¿per amore?) e gli dice, firma qui… firma là… stai zitto… manco ci fosse una differenza di 30 anni fra i due, credo solo di 15 e lei non lo reputasse proprio insopportabilmente ed irrecuperabilmente suonato. Solo che lui che ha pure 5 anni meno di me sembra, con tutte le sue ricette naturopati, mio padre (e non esagero) ed oltre all’aspetto non proprio accattivante ha una faccia sofferente e quasi in via di scioglimento. Ma, oltre la famigerata confidenza antileopardiana, quasi simpatico. La quasi-ex-moglie, invece, sembra aver tratto grande giovamento dalla pratica in corso (la separazione, eh…) ed addirittura, con mio grande imbarazzo, all’entrata, proprio all’inizio della cosa, mi sembrava una delle giovani impiegate…, irriconoscibile e irriconosciuta da me, che ho una certa memoria simbolica, quasi fosse ora la figlia giovane di quella che avevo incontrato due anni fa. Ma sarà la figlia???... mascherina… impossibile deve firmare proprio lei… Fra l’altro, rapida ed invisibile come i sommergibili, infatti, alla sua uscita/fuga anticipata manco ci saluta, mentre lui borbotta ancora delle ricette (ovvio, per noi, benevolmente) scendendo malamente la scala. Quindi il contrario esatto della mia fintissima gentilezza e di quella meno finta di mia moglie, concentrata nel suo tutto non certo privo di vezzi e orpelli vari, mentre l’altra… di una sobrietà scostante. Colore locale, o circostanziale, ma che illumina, simbolicamente, almeno speriamo, la via.  Ed il Coviddi? Dimenticavo… il troppo stroppia, in effetti. Da ieri sera - dopo il notaio - ho un improvvido fastidio alle vie respiratorie superiori…
  • Forse non siamo andati lontani dalla miseria. Affatto. Ci siamo proprio esposti alla pioggia di fuoco con tutto il nostro corpo nudo sul sabbione dantesco dei violenti contro la complessità miracolosa (e fragile… ma forse no) dell’universo, che possiamo sempre sperare esser divino …come dal bulicame si sperava la guarigione… di chi? E quando penso che non ho la forza di dire tutta la creduta verità, né qui né ora, sulla miseria simbolica e che magari mi riserverò altri scritti, altre puntate (I, c’è già… vediamo se dopo la lettura dei due tomi del libro ho forza e voglia, di farne seguito), più seria, ovviamente, dopo aver ben letto ciò che ci è stato consigliato, magari per parlarne finalmente con qualche cognizione di causa. Quindi qui non ho parlato del libro, né della sua recensione fatta dal filosofo ed amico Giovanni Sessa.
  • Così mi tengo stretto alla scritta che mi ha veramente colpito uscendo dallo studio notarile. Il suggello, l’epitaffio che mi mancava, evidentemente. Sulla cartelletta per gli atti che il notaio dà a tutti c’è solo stampata sulla copertina plasticata pastello in grande ed a centro pagina… (con un piccolo marchio sotto… molto molto molto molto sobrio… ¡quando si dice la sincerità! Gargantua e Pantagruel, I libro, Cap. 6) quello che segue, qui, a fondo pagina.  Infatti la recito non in latino ma in inglese, perché fa più fico. ¿E poi?, è un dedursi, affidarsi, restringersi, ripararsi, tra-scinarsi, ri-dursi, de-porsi, pre-cipitarsi… ¿ospite?) : 
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  • “I am not bound over to swear allegiance to any master; where the storm drives me I turn in for shelter”…
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  • Maddai… mettiamola pure in latino per tutti quelli che non sanno l’inglese… “…nullius addictus iurare in verba magistri, quo me cumque rapit tempestas, deferor hospes”   (Horatius, Epistolae, Liber I, 14)
  • II

  • Con Gesù il Tempo sarebbe atterrato nello Spazio.
  • ¿Ne avevamo bisogno?
  • Credere di sì o di no.
  • Dubitare del si e del no.
  • Qui si gioca tutto.
  • Il sentire in generale, ovvero il percepire diffusamente (¿cosa?... ¿il tutto? ¿il tutto materiale/immateriale?) l’estetico, è ciò che Stiegler mette a giustificazione profonda, originaria, dell’interdipendenza assoluta di estetico e politico. Il phatos comune, dovrebbe, per lui, essere ciò che tutti potrebbe e dovrebbe accumunare. Che si possa credere una cosa del genere, come estetico, ovvero solo (o prevalentemente) relazionato, quindi come verità, come idea dell’uomo, attiene forse alla pura constatazione del potere immane (¿ma assoluto?) che ha la natura gregaria, da sempre e per sempre, e che, anche per lui (come, in re, anche per noi), viene ancor più confermata, con l’esplosione della popolazione, poco contestabilmente, nelle deleuziane società di controllo, che sempre più riducendo l’individuo ai propri fini ristretti (nella versione globale), lo parcellizzano consumisticamente, estraniandolo dal sé che - forse - avrebbe potuto diversamente esprimere e sviluppare… (un sé quindi… ideale, ipotetico, tutto sommato idealistico). ¿Che ci si possa amare, tutti appassionatamente, ora che siamo miliardi esplosi inarrestabilmente, più di quanto ci amavamo quando eravamo poco più di qualche milione ? ¿E’ possibile? ¿E questo lo crediamo davvero possibile anche noi? Cosa forse più importante di capire se lo creda veramente anche lui? Infatti lui sembra crederlo, almeno perché lo ripete in modo asseverativo (i frequenti due punti), e compiaciuto, sin dall’inizio del primo tomo.
  • “…Questa opera dà seguito alla mia riflessione sulla distruzione del narcisismo primario, derivata a sua volta, dalla canalizzazione della libido dei consumatori verso gli oggetti del consumo, e di cui ho iniziato ad occuparmi in Amare, amarsi, amarci. La nostra epoca si caratterizza come presa di controllo del simbolico da parte della tecnologia industriale, laddove l’estetica è divenuta al contempo l’arma e il teatro della guerra economica. Ne risulta una miseria in cui il condizionamento si sostituisce all’esperienza”. (1)
  • E questo, tutto sommato e detratto, è pacifico anche per noi dato però per scontato (e verificato) che “quello stare insieme, quell’amarsi”, è tutto, ripetiamolo (essendo ben chiaro per noi ma forse non per tantissimi altri) praticabile e comunque forse meno per Stiegler che per coloro che lo prendono a modello, solo nella dimensione orizzontale, poi aperta, poi liquida, poi automatica realizzativamente tutte anti identitarie. Ovvero - traducendo dal linguaggio astratto a quello concreto - per tutti ma ancor più per il comunismo queer; per i sovversivi dell’eterosessualità; per farla finita con la famiglia; per andare dall’aborto alle parentele postumane; (2) per la soggettivazione a partire dal paradigma dell’individuazione, quantistico;(3) etc, etc, tutte forzature che uniscono l’onusta boria marxisteggiante legata alla neolingua orwelliana al mai venuto meno pseudo elitarismo - sepolcrale - dei “deviati di tutto il mondo unitevi!”.
  • Ma non è un inizio/aggressione … è una constatazione. Purtroppo, credo, intimamente, anche per Stiegler.
  • Se uno inizia ad occuparsi della deriva del simbolico a partire dall’amarsi/amarci, forse non è detto che riesca proprio bene a capire perché il condizionamento si possa sostituire all’esperienza. O meglio: se riesce a capirlo è proprio perché l’esperienza dell’amarsi/amarci, naturale per quanto possa essere naturale l’uomo, viene a tal punto incanalata dall’omnipervasivo dominio del capitale “l’astrazione in vendita” (la pubblicità, il marketing, il sistema dell’omologazione consumistica) che tutto mostra vendere (e far che ci si venda), da non appartenerci quasi più se non nella compulsione onanistica della transazione, nulla essendo stato lasciato in partecipazione reale ai forzati del consumo se non la soddisfazione incontinente, sempre provvisoria e sostituibile. Che, a lungo andare è frustrante e produttiva, al minimo, di nevrosi individuale e collettiva. Questo perché se il condizionamento fa utilmente base solo sul bisogno d’amore, non è poi, in sé, altro che violenza. E non è detto che di questa violenza noi si sia meno responsabili, pressandoci essa dall’esterno/interno. Questo è il punto più interessante… cioè quando l’esperienza viene e venga dominata comunque non dalla persuasione - conquistata a fatica - ma dalla facilmente recepita retorica.  Noi crediamo vero che in tutti i sistemi complessi (ancor più l’uomo)… tutto inizi proprio dall’esperienza del bisogno dell’altro, nella prova dell’altrui, di ciò che noi recepiamo (in continuazione) come non mia ma di altro o di altri (buona o cattiva che poi si riveli), e che s’insinui carica di tutta la forza travolgente dell’esogeno. Che poi - sorprendendoci - questa definizione di bisogno che si trova già nell’Introduzione di Rosella Corda, appare molto più idealistica che materialistica, essendo paradossalmente apparentabile ad una sorta di precondizione negativa (universale) di tipologia buddhista: “…Il ‘bisogno’ è qui da intendersi come scarto di lavorazione del desiderio: effetto negativo. Il bisogno è quella condizione di dis-agio, di mal-essere in cui ci si ritrova in-capaci e vessati , de-privati. Quel singolare riflesso di sé, narcisismo primario, impedito e oscurato dal sì dell’impotenza. Il mercato ci vuole tristi, persi, per venderci gioie posticce: cioè vender-ci. Perché a buon mercato si s-vende il ‘noi’ con il ‘sé’. La politica stessa non può sottrarsi a questa   consapevolezza, se non vuole finire nel tritacarne fine a se stesso della comunicazione e del marketing nel segno del nichilismo.” (4)  Un buddhismo di scarto di lavorazione editoriale …e le lineette non sono mie… ma originali… e ¡sorpresa!... persino certa schifosa politica, si rivelerebbe - in tal caso - poco meno che splendente… ed il mercato sarebbe il Commendatore in sostituto del Padrone Assoluto, nel frattempo venuto a mancare… ed il noi ed il (…così un tanto al kg.) grossolanamente indicati rispetto ad una logica tecnico/teorica tradizionalmente e genialmente immemoriale, farebbero (al meglio) sorridere uno studente del primo anno di discipline orientali…
  • …ma venendo al narcisismo primario (originale di Stiegler), anche qui, ci potrebbe esser uno scarto di lavorazione, per troppa frequentazione di Capitalismo e schizofrenia di D&G (non, non… beninteso… Dolce e Gabbana).
  • Ma tutta questa fascinazione dell’esogeno, che agisce da sempre e per sempre, probabilmente viene letta qui (¿solo incosciamente? - ma le dichiarazioni di reiterato e compiaciuto materialismo?) come un’operazione di solo scambio orizzontale. Ovviamente un orizzontale complicato a dismisura nell’abituale frequentazione delle pianure strutturalmente sterminate della linguistica. L’altro, in tal caso, sarebbe (ed effettivamente, qui, è) sempre solo l’altro e non l’Altro. La organologia generale e la genealogia dell’estetico, (5) - e queste proprio di Stiegler - in tal senso, sembrano esser lette non come mi sembra faccia lui, ovvero nell’interazione costitutiva tra i nostri organi somatici e quelli esosomatici esterni, cosa che non pregiudicherebbe affatto ogni differenza di stato e di qualità tra il nostro organo e (l’oggettività) l’oggetto esterno, ma confinate, necessariamente sul piano dello scambio assolutamente paritetico, perché qualsiasi sia la potenza dell’altro, l’altro simile a me, non avrà mai la irrisalibile attrazione di un potenziale (persino del tutto illusorio), Altro. Persino nell’altro noi cerchiamo, a torto od a ragione, consciamente od inconsciamente, l’Altro. Questo indipendentemente dal fatto che l’Altro (a differenza del poco negabile ed ancor più inevitabile altro) proprio esista o meno.  La vana fuga dagli dei (...e riflettiamo proprio sul valore non intrinsecamente cogente dell’allusione ma sulla potenzialità dell’evocazione qualsiasi sia il vero atteggiamento rispetto al problema primario)... E’ una prova che qualsiasi sia (sia stato) il mio livello di ominazione, e qualsiasi sia (sia stato) il mio relativo livello di disposizione all’autoillusione, io non possa mai scampare dall’assenza/presenza dell’Altro, proprio perché tale dubbio/attesa/sospetto (non quindi necessariamente fede), inerenti ma non risolvibili solo al proprio livello - pur sempre anch’esso estremamente complesso - di corrispondenza o stato dell’essere, anche se fossero (discutibilmente) una basale condizione animale, sono innegabilmente una prerogativa primaria esplosa nell’umano. Unica, per quanto ne sappiamo, con buona pace di ogni riduzionismo. Qualsiasi sia l’interscambio in progressione tra la mano che si libera e la selce che si offra… Ripetiamolo… indipendentemente si creda (nell’Altro) o meno. Non è il crederlo, quindi, indiscutibilmente, che pone il dubbio/attesa/sospetto. Crederlo, semmai, potrebbe (anche) rappresentare un’implementazione, un’elevazione a potenza, come frutto conseguente non “…di una nozione mistica di marginalità. E’ frutto di esperienze vissute”. (6) Già… potrebbero rivelarsi valide (al nostro racconto, alla nostra storia, alla nostra invenzione…) anche quelle cosiddette “normali”, storicamente sempre rinnovatesi.
  • “…Gli dei sono pensati, da Calasso, in termini iconologici e warburghiani quali “onde mnemiche”, riemergenti nella “letteratura assoluta” o nelle arti figurative (si pensi a quanto dice in, Rosa Tiepolo), quali “simulacri”.  Le loro immagini dipinte, ricorda l’autrice, saranno definite da Pound “colore emotivo”…(7)   Mi sembra che tale aggancio logico di Giovanni Sessa, sul come, in una diversa prospettiva, si possano repertare, per tutti noi, altre vie d’accesso al sacro ed al simbolico, fornisca icasticamente l’idea di un, non per forza opposto ma difforme, sistema di percorsi non dichiaratamente (ed, in tal caso, velleitariamente) materialistici/funzionalistici. E questo serva ad accompagnarci in ogni riflessione che facciamo a più stretto contatto con pensieri e strutture mentali attrezzatesi in ben diversi contesti dei nostri.
  • …                                                                                                                                                                                                                              ¿A tal punto invece di più facilmente e comprensibilmente limitare (…nei due sensi) la catastrofe, (8) (che - come terminale effetto conclamato - totalmente ci convince,        non certo in termini apocalittici quanto cognitivi) di cui parla eloquentemente Stiegler, alla pura condizione contemporanea, si potrebbe trattare di carenze sempre, presumibilmente condizionali, ma altrettanto, seppur circolarmente sempre ritornanti e sempre originarie? Altrimenti non si comprenderebbe (ci si creda o meno ai reperti ), come in molte tradizioni si sia posta l’idea di una, o più e diversamente implicanti, “catastrofi” originarie. La Rosella Corda, sempre nell’Introduzione, ci rimanda, come effetto della scia magistrale di Stiegler, il sampling: (“…E’ questo che a Stiegler appare esemplare, nel sampling: partire dai pezzi esplosi di un ambiente estetico saturo e dare vita a nuove profilazioni, per una nuova capacità di immaginare/sentire. Quindi non semplicemente approdare a una nuova immagine (antropologica), ma lavorare alla scaturigine delle immagini, alla fonte eccedente di un narcisismo primario transindividuale, che sia il risvolto alternativo di un inconscio collettivo esso stesso diventato cliché. Un fondo che però è materiale. Il senza origine, lo s-fondamento, in Stiegler non è la carenza metafisica di una tradizione della colpa. Si tratta piuttosto di quel piano protesico che, nella sua mediatezza, costituisce l’immediatezza dell’umano: il suo proprium. In altri termini l’umano si dà attraverso il positivo della tèchne…). (9)
  • Sarebbe ludico - ma non del tutto inutile - notare che, al di là di un compiaciuto linguaggio tra il vetero marxista e la neo lingua della liquidità decostruzionista, tutte dimensioni poi, a loro modo ben investigabili e sempre a loro uso ben interessanti, in qualità, per noi, di cartine di tornasole di ben altri procedimenti veritativi, ogni cosa qui detta esemplifica come possa venir recepito un messaggio primario, da allievi e discepoli. Magari meno dotati nello specifico inventivo, pur dimostrandosi, la scolastica dei “seguaci”, di ottimo livello (cioè efficace). Il vero intelligente reinventa per l’ennesima volta un linguaggio antico (di caratura inconsciamente ontologica) ma con un doverosissimo taglio da neo-lingua, per adattarlo alla pulsionale moda (soprattutto accademica) degli intelletti meno strutturati, lui che intelletto debole non ha affatto e che quindi vede sia il clinamen ove la modernità ci ha portato (quella modernità di cui lui si sente - e sa di essere - assolutamente corresponsabile) ma da cui non può proprio discostarsi sostanzialmente. Ne morirebbe intimamente. Quindi dà potenzialità anche alle cose più corrive (come il sampling… nato in ambito DJ) per nobilitarne tramite una metafora continua, ciò che, di suo, è/o deviato, ctonio, narcisisticamente nevrotico, sociologicamente ben ghettizzabile ma sempre (per la gioia e la soddisfazione del mercato), comunque riassorbibile in una giungla periferica di tutti quelli o tutto ciò che poi sarebbe stato definito in tempi anche modernamente insospettabili e con un disprezzo (questo sì!) privo della minima pietà umana racaille, e ne fa il contraltare logico e progettuale di ciò che in tutt’altro ambito (percepito per solo forza pregiudiziale come opposto) potrebbe rappresentare “il passaggio al bosco”… ed al di là delle motivazioni, altrettanto consolatorio quanto velleitario. Ma questa pappa predigerita entra nel gozzo dei becchi protesi e salva la falsa coscienza di sé. Quelle otto o nove righe di cui sopra potrebbero rivelarsi meravigliosamente atte a spiegare il fallimento storico di una cultura “materiale”, come se le nuove “profilazioni” non fossero che emarginazioni ben utili al sistema dominante, la “fonte eccedente”, non fosse un qualcosa che ha, eventualmente - come dicevamo sopra - un rapporto consustanziale e quindi anche originario con il dubbio/attesa/sospetto, ma solo con l’ansiosa rincorsa dell’umano/protesico più rozzo, più violento, più volgare, più automatico e non certo con l’interrogazione che se ne fa Stiegler legittimamente sul costitutivo processo tecnogenesi/antropogenesi… e quindi l’eccedenza si rivelerebbe in realtà una totale carenza di potenziale visione di ciò che è e potrebbe essere il (vero) diverso. Persino il vero protesico. Cioè quello che, pur nascendo dalla realtà, dalle contraddizioni, non deve venir reinterpretato, modellato e risistemato in usum serenissimi Delphini, come è stato storicamente (sempre…ad esempio) per gli indios rivestiti da portare a corte. I destrutturati esistenziali (già lavorati ai fianchi dal sistema da secoli) per il salotto buono e perlopiù parassitario. Ai livelli più bassi il gregge, a quelli intermedi con la livrea degli “stupidi intelligenti”, a quelli alti, i maggiordomi, che non devono più ostentare la livrea perché l’hanno scolpita nell’anima. ¿Ma non riflettiamo che tutti gli inconsci collettivi sono poi dei cliché, per esperienza forse più che per statuto? Il compito, autonomizzante, semmai, consisterebbe, nel percorso induttivo ed anagogico, pescandoci dentro sopra e sotto, dovendoci essere sempre il letterale, “…sempre lo litterale dee andare innanzi, sì come quello ne la cui sentenza li altri sono inchiusi”, in prima estrazione, sempre che la tèchne (con i suoi costrutti sorprendentemente allegorici e persino tropologici) poi ci permetta o ci favorisca (dipende da noi), invece di affossarci catagogicamente. E’ quel senso della logica che non può mai essere totalmente assoggettato al discorso della funzionalità, in base alla quale è più utile sorpassare ogni eventuale obiezione corretta, basata su dati, in ogni caso non immediatamente trascurabili, facendo le corna come fa Gassman ne Il sorpasso, famoso film di Dino Risi, apologo sulla cialtronaggine trionfante del solo primo consumismo italiano.  ¿Tanto per attualizzare: se Trudeau, posto che ha qualche remora a sparare sui camionisti che protestano in Canada, pone il blocco dei conti correnti dei diversamente antagonisti (come leva di persuasione), questo è un dato od è un’interpretazione?  E questo dato può mettersi in una sequela con altri, della stessa caratura, per comporre un quadro di meno traballante bollitura (...la pentola ma non i coperchi...)
  • ...
  • Un fondo che però è materiale”... ¿Davvero?   ¿Ed in che misura?   Riportiamo a tal proposito un passo da un nostro libro:
  • “…Progressivamente abbiamo compreso che l’immaginazione attiva è strettamente relazionata ad una certa marginalità attiva, soprattutto nel tempo in cui la normalizzazione mondialista opera brutalmente. Nel senso che tutti i plessi di comprensione che poi operano a sceverare mediante un’efficace diákrasis le immagini, (anche con l’insostituibile ékphrasis di ricognizione valutativa dell’immagine stessa nella ricercata contestualità artistica) e che almeno portino in sé l’ombra del sacro dalle fantasie (sia auto che eterodirette), non possano che porsi contro la corrente, contro la piena della manifestazione, a pena di nullificazione. Ovviamente porsi contro la corrente, contro la piena della manifestazione, sia spiritualmente che artisticamente (ma è la medesima postura), non è né facile né scontato, anzi il contrario è norma generale, ma il più difficile non è comprendere la necessità spirituale (prima ancora che metapolitica) del porsi contro la corrente, quanto giustificare profondamente le stabili ragioni causali della corrente stessa e quindi frequentarla, penetrarla, proprio per riconoscerne l’intrinseca ineluttabilità senza conferirle se non uno statuto di condizionalità agita, assieme ad uno statuto d’assoluta realtà caleidoscopica nella dimensione della manifestazione stessa. L’illusorietà non coincide con l’irrealtà ma al contrario con la permanente impermanenza della rivelazione nei suoi connotati spaziali e temporali. E qui si confronta ogni reale capacità, sia rispetto alla rivoluzione interiore che a quella esteriore. È necessario risalire la corrente (mettersi al contrario del flusso ove ci si trova e si è trascinati) perché solo in tal modo il mondo intermedio - in una comprensione operativa e quindi ben più che libresca o letteraria di una possibile mappatura sacra - può far trasparire, specularmente, una forma-sostanza, già dalla grotta platonica, ove le ombre significano un universo a due dimensioni ed ove la terza - per allora e per l’oggi e ben più d’altre per il futuro - è implicata e relazionata alla possibile liberazione dalle catene ed alla potenzialmente logica appercezione spessa/completa/sottile della stessa terza dimensione, ovvero della materialità/volumetria/direzionalità. A volte apparizione fugace e divagante, a volte immagine, sia di veglia che di sogno, stabilizzata e veridica. Barlumi di luce. Possibili varchi. Porte regali. D’altronde persino nel pensiero anti/post/metafisico di Adorno e di Heidegger l’arte è uno sguardo sul mondo che sa strappare un po” di luce al buio in cui versiamo, nel lato nascosto ed avvoltolato del mondo, sia nel senso adorniano della demistificazione possessiva e sfruttatoria sia in quello heideggeriano dell’instaurazione di una libera e nuova dimensione svelante, letture che lasciano comunque, a nostro avviso, del tutto impregiudicata la domanda sul rapporto sostanziale arte-realtà, se poi non la si articoli in un quadro che implichi più stati...” (10)
  • Ancora dall’Introduzione: la “…nuova capacità di immaginare/sentire”, non è poi un “liberi tutti”, nella logica di una fuga del “… narcisismo primario transindividuale che sia il risvolto alternativo di un inconscio collettivo esso stesso diventato chiché”, (11) ma il potersi riconoscere nel fatto che (ancora da un nostro testo):
  • “…l’avvolgente fantasmagoria della piena della manifestazione è per sua natura opera sacra (mâya in divinis), in quanto espressione necessitata della manifestazione stessa ad ogni livello di stato. Ma individuarne la potenza (la fascinazione chimerica) e la sacertà significa anche rovesciarne l’apparente validità (od invalidità) spirituale assoluta e, relativizzandone le forme come potenziali gradini ad, ritrovare uno stato al di là di ogni “sottoposizione”, “caduta”, “délaissement”, “colpa”, “peccato originale”, “clinamen”, “entropia” etc., (a seconda della prospettiva ermeneutica) ed operare quella metánoia che (qualsiasi sia la dimensione precedente creduta, sperata o subita) tutte le pratiche operative prevedono, come rovesciamento efficace e creazione di senso. In più, di un senso non rettoricamente idealistico o passionalmente devozionale, ma legato persuasivamente all’essenza, oltre che alla personalità, e quindi in un modo anche ben fisiologico e sostanziale...” (12)
  • Quindi, non necessariamente una “carenza metafisica” è - necessariamente - “una tradizione della ‘colpa’”… forse lo è solo in particolari confessioni. E il “piano protesico”, benemerente in Stiegler per la sua posizione del tutto alternativa a quella tecnofobica, avrebbe, appunto, giustificazione piena anche in una prospettiva transumanista, fermo restando impregiudicato il quadro sacrale/operativo in cui s’articolerebbe (o si potrebbe giustificare, altrimenti… in una ricomprensione sacrale) tale specifico inquadramento. Il “positivo della tèchne”, anch’esso, poi, potrebbe essere valutato, sempre in una prospettiva transumanista, (ma non ne possiamo qui dare una lettura tecnico/proiettiva, ma solo - in ogni caso - come oltre ed altro da un umanismo di pura sopravvivenza o di facciata) solo in base alla sua valenza prometeica (costi/benefici) e non direttamente per una (magari!) convergente giustificazione metafisica.
  • Ancora dall’Introduzione (che sembra agire più per riconoscimento ideologico che per corresponsione interpretativa):
  • “…Il che fare di Stiegler appare strettamente collegato alla forza di con-sistenza dei simboli e, dunque, a quella che a tutti gli effetti appare come un in-taglio sul piano d’immanenza: un nuovo spirito del simbolico, per contrastarne la miseria imperante. Tale miseria è da intendersi in due modi opposti eppure collegati: come eccesso di esposizione al simbolico e come suo difetto, in rima al difetto originario, di con-sistenza del simbolico stesso, il suo non risultare più collettivamente (poiché singolarmente fallace) credibile. Ritenzioni terziarie e sim-bolo dicono la stessa cosa: l’artificio del mondo che è il fenomeno del mondo stesso. Una ‘seconda natura’ che si qualifica come simulacro e come finzione , ma anche come finzione necessaria, perciò menzogna cui credere - pena la perdita della/di vita, nel senso sia evolutivo-biologico che nel senso di potenza e carica affettiva.” (13)  
  • Noi diremmo invece che la consistenza dei simboli non può né essere né apparire in una nuova luce proprio perché o c’è luce sufficiente per trascinarsi insieme od essendo scomparsa del tutto… il tutto diviene buio. E non è certo poi che essendo “singolarmente fallace” per questo stesso divenga “collettivamente incredibile”, essendo il simbolo valido entro ed oltre la validazione (problematica) del singolo. Il simbolo è analogico, plurisignificativo, illuminativo, sacramentale e determina in noi una identità simbolica che è sempre una luce, non del collettivo, ma dell’universale, altrimenti non ponendosi affatto come potenza traente. “…I simboli in realtà non esistono. Essi con-sistono in una virtualità rispetto a cui, in questo ‘con’, si gioca la partita del simbolico stesso e della doppia possibilità del 'si’ :  sincronizzazione e perdita di individuazione, catalizzazione dell’individuazione(14).  
  • Qui si ripete la confusione tra l’illusorietà e l’irrealtà di cui abbiamo trattato sopra. È, poi, verissimo che “l’artificio del mondo è il fenomeno del mondo stesso”, ma sempre nel senso di cui sopra… maya in divinis, o se vogliamo non mettere in prima battuta il sacro, per l’invenzione stevensiana della finzione suprema, come tipicità mitopoietica dell’umana immaginazione che è illimitabile (ma ambivalente) potere sulla natura. Ricomprend(s)ibile sempre anche in una postura sacrale. Che poi sarebbe come dire che l’uomo può sentirsi dio con una facilità estrema in funzione della sua immaginazione. Certamente perdendo tale fiducia in se stessi non si scopre nessuna “seconda natura” e non si attinge più neanche ad una supposta prima. (…sacrum profanum publicum privatum… chiasmo plautino… di lettura esistenziale tra biologico e sacrale). E’ paradossale, inoltre, che tale argomentare poi si autodefinisca “materialistico” se: “…questa serie di illusioni che consentono di suturare la ferita dell’inappartenenza, del fuori-luogo ec-centrico in cui appare gettato l’umano” (15) non fanno riferimento a nessuna reale autonomia (magari persino blasfema) dell’umano, ma ad un umano che si vive costantemente come inappartenente.  Il deleuziano “…datemi dunque un corpo”, pur rimanendo poi l’eventuale giusta esperienza del tramite il corpo nell’eliodomo necessitato dell’attraversamento (di corsa), si pone come affermazione molto più retorica di quanto potrebbe essere “…ho e sono nel mio corpo”, che, materialisticamente, ma (sorpresa!) anche metafisicamente, devo sempre sperimentare e che, comunque, non mi sarebbe stato dato (flagranza?…la pistola fumante?…) da Nessuno, ma che dovrei possedere (comunque, da originante causa), per vivere. E - forse ancor più - per interrogarmi sull’origine della vita. Non si sfugge alla domanda ontologica se non immaginandosi il probabilissimo circolo vizioso come un ben diverso circolo virtuoso.
  • Altrimenti sappiamo entrare solo (speranzosamente ingenui) nella giostra della parola dell’ultimo uomo, nel parco giochi del linguaggio che si bea delle macchinette a scontro, del giro della morte e della fantasia/sampling, casinara, dei pagliacci. Ma a livello dell’ultimo uomo ciò, se è indubitabilmente un clinamen, Stiegler non lo vede come necessariamente irribaltabile, ovvero da pensatore tecnofobico, nella troppo prevedibile lettura metafisicizzante, ma lo vede come sempre raddrizzabile in provvisorio equilibrio, seppur con enorme difficoltà.
  • Stiegler…
  • ma prima, ancora, un’ultima notazione sugli… apparati di presentazione. Molto sovraesposti come spesso succede nelle produzioni “di scuola”… Dopo una ulteriore sottolineatura, reputata evidentemente necessaria: “…Ma sarebbe insufficiente se la scrittura di nuovo codice, di nuovi algoritmi e programmi dovesse avvenire fuori dai processi e dalle lotte delle componenti realizzate, anticapitaliste, abilitate, multispecie, transfemministe, queer. Perché solo dal posizionamento intersezionale e transdisciplinare, può venire una critica radicale che vada creativamente a riformulare il cuore delle pratiche tecnologiche di informazione e comunicazione.”, (16) a nome collettivo del “Gruppo di Ricerca Ippolita”, può essere utile un breve passo dal pur toccante scritto di Giuseppe Allegri dal titolo ‘Ricchezza delle pratiche inventive’, in chiusura al libro 1 di Stiegler: “…E noialtri tutte, sempre quello stesso giovedì 6 agosto del 2020 abbiamo saputo - da una comunicazione online del Collège international de philosophie - che il nostro Bernard Stiegler non era più tra noi…” (17)
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  • Qui lungo questa seconda parte del mio intervento (II) non andrò in una dialettica stretta al 1 tomo e al 2 di Stiegler, ma presenterò per intero tre citazioni, sempre dal primo libro, la prima dal secondo capitolo: “Come se ci mancassimo o di come trovare delle armi a partire da Parole, parole, parole… (On connaît la chanson) di Alain Resnais”, paragrafo: “Ventriloqui, o scimmie e pappagalli”, che ci serve per avvicinarci al suo linguaggio fenomenologico. Qui i tracciati della musica popolare, comunque amata (“…Io conosco bene questo mondo: ne provengo. E so che è portatore di insospettabili energie”), (18) diviene lo strumento di svelamento degli ‘oggetti temporali’, ‘industriali’ prima e ‘iperindustriali’ poi, ma lo diviene ben diversamente da come lo fa un Adorno, ad esempio, in Dialettica dell’Illuminismo, (19) ove il rifiuto è totale e senza redenzione possibile e il disprezzo è ancor più incidente (filosoficamente) dell’alterità ideologica, mentre qui Stiegler (ed in modalità del tutto insospettabile), potrebbe essere prossimo a quello che evidenzia Donà “…Dal 1938 il regime avrebbe definitivamente eliminato, dal palinsesto delle trasmissioni radiofoniche, la musica ebrea e nera… (…) Eppure, nel 1934, cioè nel pieno di un clima oscurantista già ossessionato dall’italianità, il nostro Evola pubblica una sorprendente ‘filosofia del jazz’ (poi riproposta, per quanto significativamente ritoccata, nel Corriere Padano, nel luglio del 1936), che è uno dei saggi che vanno a comporre il presente volume. Forse il più rilevante e prezioso di tutti. D’altro canto Evola ci aveva già abituati ad una forma di anticonformismo; incapace, com’era, di adeguarsi al mondo per come esso ci viene dato. Lo aveva già dimostrato la sua ancor giovanile ed entusiastica adesione allo “sberleffo” dadaista. Non è una caso che, già in una conferenza del 1921, il nostro giovane filosofo - proprio come ogni autentico artista Dada - affermasse di non ritrovarsi più nell’immediatamente dato; tutto gli restava straniero, egli quaggiù non sentiva affatto di essere a casa sua; quindi non aveva terraferma e non sapeva dove appoggiarsi. “Tutto vuole sfuggire - affermava il nostro - ma non sa dove fuggire. Dappertutto, gli risuona quasi il motivo della Upanishad: ‘Non è questo. Non è questo’…”. (20)
  • Ovvero di un tono (in tal caso un continuum musicale) che si conforma all’evidenza dell’emergente vitalmente insopprimibile, ma che filosoficamente può e deve essere ricompreso nelle varie successive “ritenzioni”, da quelle primarie e secondarie secondo la lezione husserliana a quelle “terziarie”, appunto, di conio stiegleriano. L’amore e l’amicizia, nel caso di Stiegler sono le chiavi per entrare in ciò che ci muove nell’interno, dall’esterno, e poi nuovamente dall’interno (…da ciò che io definirei il “corpo implicito”, tanto per adeguarmi allo spirito stiegleriano), ovvero la melodia che diviene corpo introiettato, a tal punto, sia consciamente che inconsciamente, che si presenti a volte come una felicità piccola, sostenibile, fanciulla e divenga il pharmakon, (che agìto, anche, su altri livelli, è il vincetossico poundiano), ma sempre (purtroppo) comunque con tossicità da Stiegler affermata come irriducibile, ma con una efficacia parametrata ai costi/benefici, da valutare sempre in conto, nel vivere che può divenire un puro sopravvivere…(anch’essi in mutuo soccorso ed in ineliminabile reciproco sospetto).
  • La seconda citazione è tratta (sempre libro 1), dal 4 capitolo “Tiresia e la guerra del tempo. A proposito di un film di Bertrand Bonello”, paragrafo finale “Tiresia e l’arsenale rivoluzionario”. L’apposizione dei due esergo al capitolo, uno di Bonello (che è anche una opposizione, almeno apparente, forse solo perché nella citazione di Bonello si dice in chiusa che c’era un tempo “…in cui le rose non esistevano); l’altro di Proust, sono forse sottilmente scelti per suggerire che tra eterofecondazione ed autofecondazione, anche qui, come probabilmente in ogni cosa, l’ibridazione è un pharmakon a due tracce. La televisione che è diventata la previsione, lo è diventata tragicamente, (“…’Senza perché’, la rosa è tuttavia tragica”)… se è vero che, sulla traccia della ritenzione terziaria del televisivo/immaginale/filmico - processo automatico nella società automatica, non perché non avvolto di pensiero ma dove il pensiero non trova più una responsabilità politica autenticamente libera e quindi una valutazione appropriata dei costi/benefici per l’uomo/spettatore - sia in tal modo irresponsabilmente guidato (comandato oppressivamente) il processo coll’implementazione inarrestabile ed ancora nell’ulteriore universo web, tutto, ancor più di prima, possa divenire “corpo implicito”. Tale “corpo implicito”, potrebbe ben dire Stiegler, sarebbe quella esosomatizzazione che pone l’intero problema della nostra reale consapevolezza filosofica. Ovvero la filosofia come autentica capacità di critica.
  • La terza, ancora per intero, è la sua “Postfazione” e prima degli ‘Apparati conclusivi’. sempre al suo volume 1. Su questa avrei da rilevare solo che… anche se non è affatto facile (…mescolato non agitato…) provenire da un basale e multiforme (ed a suo stesso dire del tutto dogmatico) campo comunista, possedere una genialità innegabile ed un curriculum antagonista à la page ed una strabiliante fortuna degli incontri accademici del tutto impossibili (direi inimmaginabili) per altri di diverso od opposto segno démodé, (ma, fortunatamente, non solo… vecchia bandiera porta in galera)… questo è un prodotto - comunque - di un’epoca credo ormai quasi irripetibile, seppur reiterata a sfinimento, sulla quale però la sincerità stessa di Stigler ha saputo compiere quello che oggi andrebbe di moda definire… “un salto quantico”.
  • Con queste tre citazioni credo di mettere in una prima sfolgorante evidenza , senza troppo - per ora - pesare soppesando, la sorprendente concatenazione del merito e del metodo di Stiegler, lasciando al mio dopo ciò che il suo testo merita in approfondimento dialogico:
  • 1) Ventriloqui, o scimmie e pappagalli
  • “Perché, se Resnais, pratica il sampling su o piuttosto attraverso le sue immagini - è un formidabile DJ, ed è così che ci fa non solo ascoltare con le nostre orecchie, ma sentire con gli occhi -, il fatto è che la canzone è un oggetto temporale industriale molto particolare: è l’oggetto proprio di un’epoca, particolarmente emblematica di quest’epoca e della sua perpetua messa in ‘sospensione’, un’arte essenzialmente popolare che, in più, raggiunge e colpisce tutte le orecchie: noi abbiamo sentito queste canzoni anche se non le avremmo mai volute ascoltare, come in una sorta di mal-inteso. In maniera simile, la televisione raggiunge tutti gli occhi (e io sarei sempre più tentato di dire che essa li infetta), direttamente o meno - laddove il cinema è divenuto sia arte per cultori, per delle persone ‘illuminate’, sia film commerciali, dell’entertainment e dell’industria estremamente redditizia, di simboli destinati alle ipermasse (quelle che frequentano gli ipermercati). Tutto questo solleverebbe, quindi, qualche questione particolare nella nostra epoca, o nella nostra assenza d’epoca. In mancanza della nostra epoca.   Non sono i personaggi a parlare, che d’altronde non parlano: ma essi non cantano nemmeno, qualcosa canta in loro [ça chante en eux], essi sono attraversati da queste voci come fossero ventriloqui. Vogliono parlare e qualcosa canta. Questi momenti di canto intervengono sempre negli snodi drammatici della sceneggiatura, e, in questo modo, i personaggi del film fanno propri i personaggi delle canzoni che cantano (allo stesso modo, i personaggi di Mon oncle d’Amérique proiettano nella loro immaginazione degli estratti di film): essi ne adottano in qualche modo lo stato d’animo. E noi stessi adottiamo, come vedremo, il tempo, le speranze, le preoccupazioni, i sentimenti di questi personaggi e, attraverso loro, il tempo delle canzoni, ritrovandoci CON LORO, alla fine e molto paradossalmente, con una sorta di bizzarro sollievo, in ciò che si rivelerà lentamente costituire il loro mal-essere.   Il prendere in prestito e l’adozione, cuore del cinema di Resnais in Mon oncle d’Amérique e On connaît la chanson, sono il modo ordinario secondo cui si costituiscono le ‘coscienze’, ragione per cui bisogna finalmente mettere questa parola in prudenti virgolette. Mai la ‘coscienza’ si costituisce puramente, semplicemente e originariamente in se stessa: essa è sempre un poco alla volta scimmia e pappagallo; essa riceve sempre in eredità qualcosa da ciò che non è se stessa, e che è la sua ‘fatticità’. Ed è proprio questa eredità che essa ha ‘da essere’.   Da essere (Heidegger)?   O da divenire (Nietzsche)?
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  • 2) Tiresia e l’arsenale rivoluzionario
  • “Da questo punto di vista Tiresia e Le pornographe, sono film esemplari, poiché pongono in questione il rapporto tra cinema e desiderio, e il ruolo del cinema rispetto al desiderio e al sessuale. Il cinema di Bertrand Bonello tratta la questione della sessualità in modo da integrarvi la questione della tecnicità: sia la tecnicità delle immagini cinematografiche che la tecnicità che consente il corpo transessuale, vale a dire, in una certa maniera, il corpo angelico o il contrario, dal momento che il transessuale è il corpo a sue sessi. Questo cinema, che racconta della violenza subita da un transessuale, da parte di un prete cristiano che gli cava gli occhi, e la trasformazione della vittima in cieco veggente, e di come l’innesto del Tiresia di Sofocle sull’Edipo zoppo diventerà la figura stessa del desiderio freudiano, questo film - che è dunque come una rosa, l’‘assente di ogni bouquet’ degli ibridi in ogni senso, e non c’è che questo - mostra quindi che bisogna decristianizzare e tragedizzare le questioni del desiderio e della tecnica: bisogna rivisitare Tiresia e la questione della visione come pre-visione premonitrice del cieco, vale a dire come protensione a partire dalla condizione tragica di chi, come Epimeteo, l’idiota che niente sa, essenzialmente brancola (condizione tragica che, nella Grecia antica, è proprio la condizione tecnica, come ho tentato di mostrare ne La faute d’Epiméthée).   ‘Senza perché’, la rosa è tuttavia tragica, e il cinema di Bonello pone la questione tragica del cinema, vale a dire la questione della tele-visione che è divenuta la pre-visione: egli la pone come ciò che è tragicamente pornografico. La questione del film pornografico è quella del cinema per cui la possibilità del porno-grafico è al cuore di tutto il cinema nel senso che non si tratta semplicemente di opporre il cinema alla televisione, ma di criticare attraverso il cinema la televisione che abita già da sempre tutto il cinema come potere: di fare l’esperienza di questa composizione che dona delle rose senza perché, di cui non si può che ringraziare Dio. Anche se è morto.”
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  • 3) Postfazione
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  • “Dopo aver dedicato ai lettori del Fronte Nazionale Amare, amarsi, amarci ho sostenuto, durante la trasmissione radio che fosse il caso di rivolgersi a costoro con amicizia.   So bene che questo proposito può risultare problematico e perfino scioccante, e che esso solleva altresì la questione ‘qual è questo noi?’ Ma non si tratta tuttavia né di una provocazione, né di una posa, ma piuttosto della base del mio pensiero, e del mio pensiero del noi. Ciò che qui chiamo ‘miseria del simbolico’, è innanzi tutto quella di cui soffrono e testimoniano, per quanto orribile possa essere o apparire la loro testimonianza, gli elettori di questo partito di estrema destra; partito con cui è escluso, evidentemente, discutere. Rifiutare di discutere con il Fronte Nazionale non significa affatto rifiutare di discutere con i suoi elettori. E dirò inoltre che proprio parlare essenzialmente a loro, prima che agli altri e anche se indirettamente, nonostante sia per me averne la preoccupazione proprio lì dove ESSI NON POSSONO GIUSTAMENTE intendermi, e per quanto insopportabile possa essere la realtà di cui essi fanno così testimonianza tramite il loro voto, resta ai miei occhi una priorità assoluta come la sola possibilità di scambio simbolico, che resta loro, prima del peggio.  E quando uso l’espressione ‘ai miei occhi’, parlo tanto dei miei occhi di filosofo quanto dei miei occhi di cittadino e di uomo capace di pudore, di vergogna: di aidos.
  • Eris e Stasis
  • E’ del tutto avvilente - e quasi vergognoso - che coloro che pretendono di occuparsi di politica e agire politico non vedano che non ci sono che due possibilità:
  • - O si accetta di parlare con/verso/per gli elettori del Fronte Nazionale e ci si indirizza a loro prioritariamente, in quanto essi sono i testimoni più diretti della sofferenza che degrada la vita pubblica, e questo a prescindere da quale possa essere il loro proprio discorso su questo punto, che rimane, per quanto miserabile lo si possa trovare, una testimonianza, e il negarlo sarebbe vergognoso: sarebbe rifiutare loro l’umanità;
  • - o si rifiuta loro lo statuto di cittadini e, in tal caso, non si rimarrà troppo tempo al riparo dalla guerra civile, perché questa è la posta in gioco. La guerra civile, ciò che tormenta i Greci, i quali più volte l’hanno conosciuta, e che chiamano stasis.
  • Per quanto mi riguarda, ritengo con Aristotele che la condizione della vita pubblica sia la philia (di cui la città, polis, fu a lungo il nome e a cui io guardo ancora, in mancanza di meglio, malgrado, come ho già esposto nel precedente capitolo, questo nome sia ormai obsoleto, considerato che il processo di individuazione psichica e collettiva occidentale è oggi compiuto: argomento di cui parlerò ne La Technique e le Temps 4). La condizione della vita pubblica è la philia, vale a dire familiarità e amicalità, come traduce bene Jean Lauxerois. Amicalità senza la quale alcun dialogo è possibile.  Ora il dia-logo è la condizione dello spazio pubblico: della sua dia-cronia, al di là di ogni sin-cronia totalizzante di un ‘si’ che non ha più niente di un noi. E smettere di credere al dia-logo sarebbe un segno terribile di miseria tanto politica e spirituale quanto simbolica e filosofica. Non dubitare della sua possibilità, però, sarebbe aver già cessato di dialogare; ciò che chiamo ‘chiacchierare’. Il dia-logo è inquieto. E’ ciò che altrove ho chiamato la fragilità della libertà, compreso il soli-loquio che è un ‘dialogo interiore’ di cui parla Gadamer. Ma una filosofia o una politica che non credesse al dia-logo non sarebbe che filosofia della vanità e vanità della filosofia, politica della vanità e vanità della politica.   Étienne Tassin ha certamente ragione a ribadire con la Harendt e contro Habermas, che la dimensione politica non si esaurisce nel linguaggio. Ma il dia-logo di cui parlo qui non è semplicemente il linguaggio: è lo scambio simbolico, compreso quello sostenuto da ogni attività lavorativa.   Ed è anche così che Marx definì il proletario: in quanto privato della possibilità di individuarsi attraverso il lavoro, come direbbe Simondon, egli non può signi-ficare. E siccome il proletario non ha altro ‘passatempo’ oltre il lavoro, egli è puramente e semplicemente privato di ogni esistenza simbolica, vale a dire che di ogni esistenza tout court; se non nella lotta, ciò che capirono, a volte bene a volte male, i partiti comunisti.   Étienne Tassin tenta di ripensare esattamente l’esistenza estetico-simbolica nell’agorà della città, la quale conferisce il diritto della città al cittadino. Esistenza che non è possibile se non nel circolo di una philia che condividono, peraltro, Estia, dea del fuoco, ovvero dello spazio privato, e Ermes, dio degli scambi e della circolazione nella spazio pubblico del comune. Tuttavia, se il puro dia-logo politico è uno spazio di pace, non è uno spazio di consenso senza conflitto, ma al contrario: Esiodo tesse le lodi dell’eris come emulazione figlia del polemos di Eraclito (il combattimento), da cui sorge il migliore, l’ariston di cui parla anche la Arendt. Ma Esiodo ne biasima anche il contrario, di questa eris, intesa come l’avversità, poiché Eris, ‘Figlia della Notte’, è anche - come l’eris che in lingua corrente greca, designa la discordia - quella che agita la lotta tra coloro che pure si appartengono nella philia.   Questa lotta non ha niente a che vedere con la guerra, che non è stasis: essa è il conflitto tra fratelli che la giustizia può troncare, così di Esiodo e di Perseo, anche se la giustizia può rivelarsi ingiusta, e essa è anche il conflitto tra i cittadini e i partiti.   Ed è così anche perché la stasis non è la fatalità nella città a cui condurrebbe qualunque eris, qualunque disaccordo. Tassin ha torto a tradurre stasis con ‘discordia’: questa concezione platonica del conflitto nella polis è quanto occorre superare. La stasis significa sì discordia, ma ci sono diverse forme di discordia, di cui l’una, l’eris, è il gioco più caratteristico dell’agorà e dell’agone in cui essa consiste; e bisogna dunque tradurre stasis con guerra civile. Marx tentò di pensare proprio questo ma fallì, non cogliendo la dimensione simbolica, estetica ed erotico-libidinale (pulsionale) della questione, quindi non cogliendo, forse, il senso politico, al di là dell’economia politica, di ciò che egli chiamò la lotta di classe, pur intravedendola nel suo primo periodo attraverso la critica a Hegel.   La polis è essenzialmente il disaccordo del multiplo che compone l’uno promesso del divenire politico. Questo disaccordo, che è il dinamismo stesso dell’individuazione psichica e collettiva politico-occidentale, è proprio ciò che voleva annullare Platone, ed è anche quello a cui mira la tendenza asintotica che conduce a ciò che ho mostrato attraverso l’allegoria del formicaio. Il platonismo come metafisica si è imposto e concretizzato, è divenuto Wirklichkeit, realtà effettiva. Il formicaio è l’allegoria della de-composizione del dia-cronico e del sin-cronico, che non possono costituirsi se non nella loro composizione, ovvero nel rapporto teso e trasduttivo dove si formano i tensori di singolarità costitutivi di questa ‘economia libidinale’ di cui si parla nel Disagio della civiltà.   E’ attraverso la negazione dell’ipomnesico, vale a dire della dimensione tecno-logica di ogni scambio simbolico, che il platonismo arriva ad imporre la riduzione della tèchne ad un puro calcolo essendo il fine di questa metafisica il controllo di ogni affetto e la negazione del diritto all’interpretazione, vale a dire alla singolarità libera ed indeterminata delle anime che abitano i corpi. Per questo gli artisti e i poeti sono, in questo platonismo oggi concretizzato dal capitalismo culturale, dei nemici (tuttavia sempre acquistabili: il denaro può quasi tutto, se non assolutamente tutto), mentre i lavoratori non possono che essere schiavi cui è interdetta ogni simbolizzazione circa il modo singolare della propria diacronia, ciò che Simondon chiamava ‘perdita di individuazione’.
  • Ora, questa miseria del simbolico, che si estende attualmente ben oltre i proletari, dal momento che essa colpisce i consumatori che noi tutti siamo, poiché essa colpisce i nostri bambini, i nostri amici, i nostri familiari, inquina i nostri ambienti di vita più intimi, come l’aria che in certi luoghi del pianeta avvelena tutti gli abitanti, ricchi o poveri, proprietari o proletari, rendendo i luoghi inabitabili; questa miseria è tanto più insostenibile poiché simbolica, e non solamente fisica; come se i simboli fossero condannati a rivoltarsi in diavoli. Ecco perché l’avvenire è così minaccioso. E, ripeto, è così anche perché, nel conflitto che mi oppone agli elettori del Fronte Nazionale, io continuo a rivolgere a loro, essenzialmente, la mia amicizia.”.
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  • Note:
  • 1) B. S., La miseria simbolica. 1. L’epoca iperindustriale, Introduzione di Rosella Corda, Apparati conclusivi del Gruppo di ricerca Ippolita e di Giuseppe Allegri. Meltemi, 2021, (orig. 2004), Prefazione, (B. S.), pag. 25.
  • 2) B. S. La miseria…, vol. 1, cit., elenco di libri della collana titolata: Culture radicali, pag. 165.
  • 3) B. S. La miseria…, vol. 1, cit.,   Introduzione di Rosella Corda, pag. 10.
  • 4) ibidem, pag. 17.
  • 5) B. S., La miseria simbolica. 1. L’epoca iperindustriale. Prefazione, (B. S.) pag. 26.
  • 6) Breve iniziale nota editoriale, ripetuta nei due volumi, ad esergo di collana, pag. 1.
  • 7) Elena Sbrojavacca, “Letteratura assoluta. Le opere e il pensiero di Roberto Calasso”, Feltrinelli, 2021, recensione di Giovanni Sessa su: www.heliopolisedizioni.com
  • 8) E’ il sottotitolo del secondo volume de La Miseria simbolica. 2. La catastrofe del sensibile.
  • 9) B. S., La memoria… cit., vol. 1, Introduzione di Rosella Corda, pag. 15. Il grassetto è nostro.
  • 10) S. G., “Dall’immagine” in: “…come vacuità e destino”, NovAntico Editrice, 2013, pag, 348.
  • 11) B. S., La memoria… cit., vol. 1, Introduzione di Rosella Corda, pag. 15. Il grassetto è nostro.
  • 12) S.G., “Dall’immagine”, cit.. pag. 348.
  • 13) B. S., La miseria… cit., vol. 1, Introduzione di Rosella Corda, pag. 16. Il grassetto è nostro.
  • 14) ibidem, pag. 17.
  • 15) ibidem, pag. 16-17.
  • 16) B. S., La memoria… cit., vol. 1, Percezione, relazioni, tecnologie a cura del Gruppo di ricerca Ippolita, pag. 151.
  • 17) B. S., La memoria… cit., vol. 1, Ricchezza delle pratiche inventive, a cura di Giuseppe Allegri: “Giovedì 6 agosto 2020, Bernard, Kae, Tiresia”, pag. 163.
  • 18) B. S., La miseria simbolica. 1. L’epoca iperindustriale, cap. primo, pag. 31.
  • 19) Max Horkheimer, Theodor W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, trad. it. Einaudi, Ediz. 1980, pag. 147.
  • 20) Julius Evola Da Wagner al Jazz. Scritti sulla musica 1936-1971, a cura da Piero Chiappano prefazione di Massimo Donà, Editoriale Jouvence, Milano, 2017, pag. 11-12.

 

  • III

  • A) *
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  • “...Il carattere fondamentalmente religioso delle nostre nature è il nostro punto in comune
  • e può darsi che esso sia in noi così pronunciato perché noi siamo dei liberi pensatori
  • nel senso più estremo del termine. Nel libero pensatore, il sentimento religioso
  • non può riferirsi a un principio divino od a un cielo, nel quale possano venir adattate
  • le forze costitutive della religione come la debolezza, la paura, la cupidigia.
  • Nel libero pensatore il bisogno religioso creato dalle religioni –
  • questo discendente più nobile delle forme particolari della fede -,
  • ripiegato su se stesso può diventare una forza eroica della sua natura,
  • un bisogno di donarsi a una nobile causa.
  • Questo tratto eroico esiste nel carattere di Nietzsche.
  • É l’elemento essenziale del suo io, ciò che dà,
  • all’insieme di tutte le sue qualità e dei suoi impulsi, l’impronta dell’unitarietà.
  • Lo vedremo un giorno apparire come il profeta di una nuova religione,
  • una religione i cui discepoli saranno degli eroi.”  
  • (‘Friedrich Nietzsche, Paul Rée, Lou von Salomé. Die Dokumente
  • ihrer Begegnung’, hrsg. von E. Pfeiffer, Frankfurt, 1970. pag.184).
  •  

  • Non riesco a trattenermi dal dire che, al netto di una caratura/caricatura, giudicabile poi più o meno benevola, intuitivamente, la mia prima parte (I, Παραβολή ) non fosse poi così disincarnata dal soggetto profondo del libro, se è accettabile logicamente dire “...anzitutto che il più fondamentale presupposto fenomenologico di una filosofia dell’interpretazione è che ogni interrogativo circa un qualsiasi ente è un interrogativo circa il senso di questo ente... (...) la scelta per il senso è quindi il presupposto più generale di ogni ermeneutica”, e questo secondo Paul Ricoeur nella ‘Prefazione’ del suo Dal testo all’azione. (1)  Dove poi ribadisce che il senso dell’ente non si da mai puro e non si dà mai fenomeno extra interpretationem, mettendosi in linea con la grande lezione del paragrafo 7 di Essere e tempo. E come era stato un gioco esclusivo tra potenze dell’interpretazione, esperimentata da Lou von Salomé nella battaglia tutta interiore di N.: “...una aspirazione senza riserve alla conoscenza che costituisce in qualche modo la forza unificatrice di tutto il suo essere, in grado di tenere in pugno tutti i suoi impulsi e le sue qualità più diverse, - una sorta di forza religiosa che rivolge l’uomo tutto intero in una direzione in cui egli si abbandona a questo dio della conoscenza che è il suo...”
  • ...
  • Si parva licet..., una postura pregiudiziale del senso, addestrata non dalla supponenza ma dal saper guardare con occhi nuovi ai pur grandi temi, non come ovvii, non come scontati, non come già risolti, da sempre, motivo, al suo tempo, dell’universale sorprendente dirompenza della perplessità heideggeriana sull’essere come “...necessità di una ripetizione esplicita del problema dell’essere”. La mia, potrebbe allora configurarsi come una postura preteoretica ove varrebbe meno la distinzione fra soggetto ed oggetto, pregiudiziale in quanto impura ma a valenza quantomeno apotropaica, proprio perché il senso si deve poi spiegare nell’interpretazione che deve seguire dialetticamente ma che non può prescindere, all’inizio, dal soggetto che può vedere e non solo guardare, l’ovvio... e trarre dall’ovvio tutto l’investigabile possibile. Trovarsi di fronte al fenomeno che si mostra con una sua forza catturante che non sappiamo mai ben riconoscere come e quanto in nostra potenziale disponibilità. “...Il carattere della presente ricerca non permette l’interpretazione delle diverse modalità della situazione emotiva e della connessione dei loro fondamenti. Questi fenomeni sono noti onticamente da lungo tempo e furono studiati dalla filosofia sotto il nome di emozioni e sentimenti...”... (2)


  • Ma l’ovvio è ciò che sembra sempre, appunto, apparire nel fenomeno. Ed il fenomeno è esattamente ciò che è contrario a “ciò che sta dietro”, in quanto non dato o non ancora dato o non previsto, non conosciuto, ricoperto, travestito, velato, ...etc, etc... L’osservatore ed ancor più il filosofo, allora, se è un fenomenologo, può e deve presumere ciò che sta dietro, intuitivamente, originariamente, ma tratta di ciò che sta davanti, ciò che arriva ad essere, il fenomeno e tutto ciò che crede determini l’accesso al fenomeno, attraverso tutte le possibili coperture predominanti e lo fa mostrando ed esplicando con l’apparato concettuale necessario, ma con opposta tendenza rispetto ad una visione immediata od irriflessiva, ovvero alla tendenza per cui ciò che sta dietro non esiste. Qui, anche se l’Esserci vanta il primato ontologico rispetto ad ogni altro ente, proprio per il suo “stare davanti”, se il linguaggio che usiamo ne deve poi fornire massima strumentalità e migliore traduzione ermeneutica, ovvero l’interpretazione in tutte le sue possibili declinazioni, siccome poi l’Essere dell’Esserci è e rimane il trascendens, puro e semplice, il linguaggio, appunto, esplicitato, diviene l’unica strumentazione di avvicinamento che possediamo per orientarci in questo cammino. Caricato di tutte le nostre qualità che altrimenti premono, da sopra, sotto, dietro... “Una nozione ingenua del racconto, come successione sconnessa di eventi, si ritrova sempre sullo sfondo della critica nei confronti del carattere narrativo della storia. Se ne vede solo il carattere episodico e si dimentica il suo carattere configurato, che è la base della sua intelligibilità. Al tempo stesso non si coglie la distanza che il racconto instaura tra racconto ed esperienza viva. Tra vivere e raccontare si determina uno scarto, per quanto minimo. La vita è vissuta, la storia è raccontata”. (3) Il cammino caricato di tutte le nostre qualità non può non trovare mappa nella significatività della narrativa, ma sovente mentre si trova una soluzione configurata, si scivola spesso, per l’attrazione del racconto stesso, (“la storia è raccontata”), in qualcosa che può far perdere l’aggancio reale con la “vita vissuta”.   Così il linguaggio può tradurci tutto questo, ma, se non controllato con cura tra signum e res, nel discorso che può sempre “dire qualcosa, su qualcosa, a qualcuno”, formula che intende riassumere la triplice aspettativa della referenza dal soggetto parlante, alle cose del mondo, e verso/attraverso gli altri... tradirci. Il “linguaggio in festa” non tradisce, però, necessariamente, di più di quel linguaggio che, meno creativo, sembra solo voler raggiungere un supposto reale extra-linguistico, con corrispondenza immediata di referenza alle cose, ed invece rimane povero di ogni senso compiutamente evocativo.
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  • Infatti vediamo come nella allegoria del formicaio, Stiegler, ritorni con forza alla constatazione primaria, che credo sia poi il nucleo fondante del testo. “Formicaio”, che, dialettizzando Freud, messo ad esergo del capitolo terzo, (4) Stiegler crede invece non solo un pericolo ma già in via d’avanzata realizzazione. D’altra parte risulterebbero comprensibili sia la complessità del formicaio già anticamente evidente, parafrasando un Claudio Eliano sulla sorprendente efficacia delle gallerie delle formiche, e la supponibile delimitazione sensoriale che il Nobel Maeterlink (5) pone a fondamento dell’incapacità di molti animali a vivere come noi contemporaneamente nelle tre dimensioni ma solo nelle due a cui si somma il tempo. Questo per ribadirci quanto la cosiddetta “quarta dimensione” per noi potrebbe equivalere in potenzialità a quella terza che gli animali raggiungono solo percependola sotto forma di tempo. E per ribadire anche che il poeta, che crei una similitudine, dovrebbe sempre porsi il problema se, trasformandola in una metafora e tutte e due poi in una concentrazione narrativa ed acquistando questa sempre più in favolosità, rischi poi d’indebolire troppo od addirittura (come sopra accennavamo) far svanire il nesso logico implicito. O magari farlo partire per la tangente iperuranica. Così facendo s’aggiungerebbero - oltre a quelle già forse scontate - ancora ulteriori problematicità alla nostra possibilità realistica di riconoscerci, nel caso, come nuove formiche, termiti od api in un diverso contesto di civiltà. ¿Come se noi fossimo deprivati della nostra, ipotizzabile, “quarta dimensione”?   ¿Non solo (si fa per dire) dei nuovi conseguenti tipi di uomini sostanzialmente mutati, per costrizione e per un tempo difficilmente definibile (ma forse in relazione logicamente paragonabile a quanto già avvenuto storicamente), in una regressione non necessariamente definitiva ed in una delle tante distopie, successive a precedenti stabilizzati equilibri epocali miserevolmente venuti a mancare, e come tali sempre giudicati a posteriori anche se spesso avvertiti dai contemporanei?   (¿che so...le periodiche glaciazioni, i grandi meteoriti, le megalluvioni, i mongoli, le carestie, le grandi pesti?)
  • ...
  • Allora, per risponderci, proviamo una volta tanto, inseguendo Stiegler nel suo ping-pong ermeneutico col suo linguaggio filosofico che colpisce e stoppa sul tavolo da gioco toccando i più smarcanti punti del piano di battuta (musica, film, tv, web...) e le più straordinariamente possibili parabole aeree del mathc, a guardare (per nostro conto, immergendovisi dentro ...come fosse vera) una delle infinite pellicole catastrofiste ove, qui sì, una nuova distopia abbia relegato le masse ad un ruolo totalmente macchinizzato, oltre ogni attuale previsione (infatti la metafora del formicaio è valida poeticamente quanto forse debole per le attribuzioni strumentali di esosomatizzazione).   ¿Quale sarebbe allora la nostra “immersione partecipante”, magari da antropologi culturali dilettanti?  ¿Paragonabile alle ormai innumerevoli vicende vissute da veri operatori sul campo in tempi e condizioni le più diverse? (6) ¿O potremmo solo, da spettatori passivamente seduti ed in un’allucinazione a senso unico, creduta magari priva di ogni connotato di tangibilità se non di verosimiglianza, far finta di dimenticarcene al più presto, ma con l’inquietante dubbio che, alzatici dalla poltrona, le ritenzioni psichiche restino in noi qualcosa di più di semplici tracce di catatonici sampling?
  • ...
  • Senza - a tal punto sembrare di pur utilmente divagare (sempre a ping-pong) su musica, cinema, rose tragiche e calabroni con relazionati baroni di Charlus (...leggersi il seguito della citazione proustiana, in capo del cap. quarto tratta dalle pagine iniziali di Sodoma e Gomorra)... ovvero se, al di là di un linguaggio che non si potrebbe mai districare totalmente dalla “grammatizzazione forzata” (mi adeguo parassitariamente al suo cliché) che lui (e moltissimi con lui) operano sul linguaggio senza necessariamente metterne in conto l’effrazione forse ben oltre una verificabile corrispondenza veritativa, Stiegler comunque, brutalmente riporta icasticamente/logicamente (e questa citazione potremmo riassuntivamente intitolarla, dal logico alla logistica... per darci anche noi un maggiore tono fabulatorio), che:
  • “…Il processo di grammatizzazione è alla base del potere politico inteso come controllo del processo di individuazione psichica e collettiva. L’epoca iperindustriale è caratterizzata dallo schieramento di un nuovo stadio del processo di grammatizzazione, ma esteso, come discretizzazione dei gesti, comportamenti e movimenti in generale, a ogni sorta di dominio, ben al di là dell’orizzonte linguistico: ed è anche ciò in cui consiste il biopotere di cui si parla a partire da Focault (che è al contempo controllo delle coscienze, dei corpi e dell’inconscio). Ma siccome l’inconscio non è controllabile, la società di controllo è un nuovo tipo di società di censura, che prepara inevitabilmente uno scatenamento pulsionale, preceduto da mille forme di discorsi di compensazione più o meno lenitivi, laddove non si tratta né di temere né di sperare, ma di cercare delle nuove armi, ovvero anche di battersi, per quanto vigliacchi si possa essere. Perché tale è anche ‘la vergogna di essere uomini’. All’epoca dei Greci, si delinea il logico in quanto politico. Noi stessi viviamo l’epoca dell’assorbimento del logico nella logistica. Questo assorbimento porta alla riduzione della proiezione - che è sempre la messa in opera di criteri, e penso qui alla proiezione a partire dal narcisismo primario -, a un calcolo per cui non c’è più indeterminazione, ovvero singolarità.  Io non voglio affatto dire qui che il calcolo è ciò che impedisce la proiezione. Ho al contrario mostrato molto in dettaglio perché ogni proiezione presuppone un calcolo. Io voglio dire, invece, che la presa di controllo del calcolo diventato tecnologia macchinino-bioelettronica, da parte del solo motivo di accumulare il capitale, è entropica, laddove la fissazione alfanumerica prodotta dalla grammatizzazione giudaico-greca produceva una entropia negativa costituendo la dinamica dell’individuazione psichica e collettiva politica. La proiezione presuppone un progetto, e la sua riduzione a un calcolo significa che questo progetto non è più, propriamente parlando, una apertura all’avvenire, nella misura in cui questo è per essenza indeterminato e, in quanto tale, propriamente incalcolabile, proprio là dove il calcolo può anche intensificarlo come dispositivo di singolarità. E’ per questo che ho sostenuto ne Le temps du cinéma, che questa riduzione che è tipica dell’epoca iperindustriale, e che presuppone l’ipersincronizzazione in cui consiste la realtà effettiva della società di controllo, è anche la possibilità imminente di un capovolgimento paradossale dei simboli (in cui consiste sempre una sincronizzazione) in diabolos. Un io ed un noi che non possono più proiettarsi sono, in effetti, condannati a decomporsi, ciò che significa esattamente il diaballein.” (7)
  • Qui però, forzature o no, o meglio forse proprio in funzione della forzatura linguistica, si concentra una vera potenza interpretativa che è al contempo storica e filosofica. Ed anche letteraria. La cosiddetta “entropia negativa” dei greci, se non immediatamente o facilmente leggibile, potrebbe essere, invece, in Stiegler un vero colpo da maestro nel senso di saper indicare che un processo di tal congeniale portata (l’alfabetizzazione), che viene ufficialmente “attenzionato” da Platone (paradossalmente comunque rimanendo, tale “messa in guardia”, una contro/utopia significativa in funzione di una sorta di blocco momentaneo allo sviluppo potenzialmente infinito ed incontrollabile/ingovernabile, inerente alla letteralizzazione medesima), quindi dal più grande e letteralizzato, dall’intellettuale/riassuntore di un’intera epoca, che avrebbe così più paura dei suoi concittadini ignoranti od ignari... La paura (o forse la gloria inebriante) della proporzionale letteralizzazione, invece, viene in quel contesto politico della polis ad essere supportabile e sopportabile. Diverrebbe però, poi, nel tempo di noi “ultimi uomini”, cioè ora, essendo del tutto ogni cosa ridotta a consumo, appunto, quella che nel suo linguaggio chiama “entropia positiva”. (Positivizzata dal mercato). Ovvero entropia. Ovvero entropia vera, efficace, per l’ormai impossibilitata “apertura all’avvenire”, quindi non più bloccata, (l’entropia) come per i Greci di allora, da una sempre potenziale “apertura all’avvenire”. Traduciamo = venendo meno l’avvenire (traformandosi il sol dell’avvenire in una stanca sporca e buia rappresentazione del presente) l’entropia diviene stringente. Così ci rendiamo anche conto, al di là della plausibilità logica che, in Stiegler, il gioco sul linguaggio può tradurci perigliosamente l’intuizione ma può, se si esagera come fa spesso Stiegler, anche tradirci. O meglio indurci ad una comprensione molto più ardua, seppur, al limite, utile.
  • A parte il rovesciamento immediato che nella citazione precedente attua un inatteso richiamo alla lotta - comunque doverosa - contro l’indiscriminato “scatenamento pulsionale” operato dal Potere, scatenamento che vediamo, in effetti, ultimamente rendersi sempre più leggibile, che è poi l’insieme degli elementi di copertura... il lenitivo, che il Potere stesso deve mettere in campo (ed in conto). Invece, da parte degli oppositori, ormai: “…non si tratta né di temere né di sperare, ma di cercare delle nuove armi, ovvero anche di battersi, per quanto vigliacchi si possa essere...”. Allora il vero fulcro di tutto il libro risiede nel presentare correttamente (ma anche visionariamente), la catastrofe, togliendo un dubbio che potrebbe residuare ancora potentemente. Ma questa catastrofe è ribaltata, nella propria disgrazia, da un sottilissimo filo di lama. Il rapporto tra proiezione, ovvero progetto e calcolo inerente al medesimo. Ove il calcolo, connaturato, non può divenire però l’unico fattore di decisione. Il calcolo resterebbe legittimo solo nella dimensione di una libertà sempre sperimentabile lasciando aperta la sua possibile falsificazione, cosa che non farebbe invece più un calcolo a priori logaritmicamente indirizzato ad escludere l’indeterminazione dell’avvenire. Il sogno indotto al compulsato consumatore dal mercato diviene l’incubo (poco affiorato alla coscienza) del cittadino. “… La proiezione presuppone un progetto, e la sua riduzione a un calcolo significa che questo progetto non è più, propriamente parlando, una apertura all’avvenire, nella misura in cui questo è per essenza indeterminato e, in quanto tale, propriamente incalcolabile, proprio là dove il calcolo può anche intensificarlo come dispositivo di singolarità.” (8)  
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  • Qui si gioca la vera differenza tra una dimensione profondamente tecnofobica ed una che non lo sia in linea di principio, ma che eventualmente lo diventi, solo in linea di fatto ovvero di verifica dell’avvenuta trasformazione del simbolos in diavolos. Ed il problema non è peregrino perché noi sappiamo bene che il daimon può essere trasfigurato, a seconda delle epistemi di volta in volta al potere, in diavolo. Qui tutto il montante ed implementante processo diverrebbe (e diviene) una drammatizzazione, dalla grammatizzazione, non per un destino necessariamente manifesto ma per una deriva inarrestabile una volta che la decisione sull’utilizzo della sincronizzazione di tutto il vivente sia simboleggiato non più da “una macchina da scrivere monumentale” (la polis greca), ove ancora la strumentalità tecnica, la protesi, è al servizio - od almeno s’illude di esserlo - di una mente umana, ma in un meno monumentale ma enormemente più performante computer quantico che s’autodispone e sempre più s’autodisponga (la società automatica) in prevista libertà d’impiego ma in subordinazione altrettanto perfetta all’irreversibile protocollo della economa automatica (capitalistica), ove l’unica mente ordinatrice è il plusvalore. Plusvalore del tutto ormai destrutturato dalla referenza umana - in generale ed in particolare del lavoratore e dell’operaio (od in tutt’altra ipotesi del milite del lavoro, con il suo organicamente alternativo orizzonte etico) - e quindi ben oltre il non remunerato marxiano. Persino destrutturato dall’immediato plusvalore (...e qui il diaballein funzionerebbe gloriosamente) se in funzione di altro più ampio e performante plusvalore prevedibile.
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  • Il ciclo della deriva teorica post-comunista in tal senso trova tutta la sua splendente leggibilità storica, che non è qui offerta solo come scivolamento progressivo verso l’astrazione delle sempre discutibili tesi interpretative nel campo dello sfruttamento reale e potenziale, ma come un rovesciamento finale, paradossalmente apocalittico quanto sorprendentemente realistico, nella sua poco discutibile avvolgente lettura, psicologica, sociologica, antropologica, filosofica. Stiegler ribadisce infatti che è solo tale processo (iperindustriale, ipercapitalistico o capitalistico cognitivo) a dispiegarsi in modo siffatto, essendo proprio il “…carattere determinante dell’iperindustrializzazione, in quanto essa consiste essenzialmente nel controllo di tutti i processi ritenzionali, compresi i più intimi, compresi le coscienze e i corpi, poiché essi sono, in principio, essenzialmente intimi, e si trovano ciononostante privati della loro intimità”. (9)
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  • Una capacità sorprendente di Stiegler, non so poi quanto consapevole, è quella di tentare una periodizzazione delle successive figure dell’umano (cittadino, fedele, operaio, consumatore) che ha in sé del totalmente prevedibile e del relativamente plausibile:    “…E’ dalla fine del XIX secolo che appaiono tecnologie di informazione e di comunicazione produttrici di un tipo di ritenzioni terziarie che viene radicalmente a trasformare le condizioni della grammatizzazione e quindi del processo di individuazione. Dopo l’Antichità, l’individuo come fedele, succede al cittadino, poi, durante il XIX secolo, il lavoratore succede al fedele. Ma poiché questo lavoratore risulta progressivamente disindividualizzato dalla macchina, la svalorizzazione del lavoro è ineluttabile: dal lavoro precario allo stress del quadro superiore sempre più demotivato e strumentalizzato; come se ci fosse un divenire-macchina del lavoratore dirigente, del quadro superiore (in una sorta di rovesciamento di ciò che dice Simondon, il quale credeva ancora che il dirigente avesse possibilmente un ruolo da costruttore). Da allora in poi accade che, nella società iperindustriale, l’individuo sia essenzialmente un consumatore. Ora il consumo sembra consistere in un tendenziale annullamento della differenza io/noi, tale che non ci sia più individuazione, né psichica né collettiva, ma ciò che io chiamo il si…” (10)
  • Su questa riduzione al... “si”, che in ogni caso “...designa dunque una perdita di individuazione, che ipotizzo possa consistere in una liquidazione dell’individuazione stessa...”      bisogna cercare di soffermarsi. Qui, Stiegler, riesuma, ciò che in altra dimensione Heidegger in Essere e tempo (par. 27) presenta nella formula impersonale del ‘si’ (Man), come per es. nelle espressioni ‘si dice’, ‘si fa’ ecc.. con seguito d’esame su varie dimensioni come chiacchiera, curiosità, equivoco e soprattutto angoscia, (par. 40) che poi, a differenza della paura (par. 30), ha nell’indeterminazione il suo centro oscuro. Ma questa indeterminazione gravita verso un buco nero nella dimensione ontica ribadita poi in Che cos’è metafisica, appunto come attrazione del ni-ente, nulla-di-ente. Dimensione ontica del “si” heideggeriano ch’è forse memoria (o ritenzione terziaria anch’essa) nell’uso che Stiegler fa del suo “si”, in quanto questo “si” avrebbe un’ombra tale di disgrazia irrisalibile nella “perdita di individuazione”, che potrebbe intendersi in quello spazio referenziale. Un’indeterminazione incarnata e materialista questa come quella originariamente ontica. Ma al di là di questa mia incertezza valutativa ciò che trovo interessante è questo straordinario parallelismo effettuale (convergenze parallele?), rimanendo le due traiettorie interpretative difformi. (11)
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  • Ritornando alle figura che usa Stiegler, di uno dopo l’altro (ma anche più o meno) dentro l’altro, il cittadino, il fedele, l’operaio, il consumatore, (12) e magari prima potremmo metterci anche il cacciatore/raccoglitore, bene… sono tutte figure lette tramite i filtri ideologici (o ideo-logici, alla Augé), a volte persino fantasiosamente attraenti, ma che - maggiormente - son sempre servite alla logica del dopo, alla risistemazione nella storia che si fa di volta in volta e di tempo in tempo, orientandoci in una dialettica dei complessi vitali, dalla biosfera all’antropocene. Comunque il filosofo sembra non poterne farne a meno traendo da una successione antropologica ciò che un altro filosofo/antropologo (penso ad esempio allo stesso Augé) (13) trae dall’investigazione con alquanto diversi strumenti di ricerca e magari, ovviamente solo in prima battuta, su un piano diverso e solo da uno di essi. Il risultato, in qualche caso, non cambia molto. E... “lo spazio del potere”, pur con distinte vie interpretative, non ne è affatto meno disvelato.  Nello specifico di Stiegler, l’estrema attenzione che pone al processo di esosomatizzazione, è il filo rosso filosofico che unisce l’ordito della perfettibile conoscenza psicologica con la trama della supposta vicenda storico/sociologica.
  • Quindi altro graffio d’artista o di filosofo di classe quello mediante il quale Stiegler completa, sempre nel capitolo terzo, l’allegoria del formicaio, con il paragrafo intitolato: Mal-essere e passaggio all’atto: il consumatore come individuo defigurato del “si”. Tutto ciò quindi che sempre più diventa arduo contrastare col nostro comportamento individuale o di piccoli gruppi.
  • A tal punto però dobbiamo anche riflettere su quale sia stata, in questi ultimi decenni, a livello intellettualmente elevato, la consapevolezza (filosofica, antropologica, estetologica) sulla guerra, lotta e/o confrontazione, non immediatamente evidente od addirittura “guerra occulta” (e sulla relativa possibilità di parlarne compiutamente)… ad esempio sulla guerra occulta culturale che non si riduce necessariamente alla cultural intelligence (branca specialistica) e che, non è, beninteso, se non una delle appena poco più investigabili (diciamo intuibili dalle tracce che per natura lascia, non certo per i suoi effetti che sono addirittura macroscopici, ma per la sua ripercorribilità), tra le tante occulte, storicamente testate e ricostruibili, e sulle ricadute nelle poi leggibili vicende esteriori non solo delle nazioni, dei gruppi politici, delle lobbies, dei movimenti culturali e persino sulla vita dei gruppi “d’avanguardia” o di “retroguardia”, fino ai singoli artisti. Napoleone (...in qualità di testimone informato dei fatti) diceva che “...l’opinione pubblica è una potenza invisibile, misteriosa, alla quale nulla resiste. Nulla è più mobile più vago e più forte; e benché sia capricciosa, resta tuttavia vera, ragionevole, giusta, molto più spesso di quanto si pensi”. Ora il complesso sistema di potere deve, a tutti i costi e più di sempre, appropriarsene, od almeno condizionarla fortemente ai propri fini. Perché sa che altri cercheranno di fare ugualmente. Gli apparati generali di intelligenza (non solo quindi quelli militari o militarizzati) ma anche quelli diplomatici e delle diverse organizzazioni parallele, sia private che pubbliche, sia nazionali che internazionali, hanno sempre operato in profondità per mettere in difficoltà, prima indiretta e poi più conseguente e di volta in volta, l’avverso campo. I finanziamenti interni ed esteri ad accademie, think-tank, centri studi, laboratori scientifici, giornalisti d’inchiesta ed inviati embedded, movimenti intellettuali, categorie socio economiche, organizzazioni (magari in origine) pseudo/spontanee di tutti i tipi ed infine, appunto ai singoli. Gli infiniti adescamenti, sussidi, “borse di studio”, incarichi accademici e consulenze aziendali, sostegni prolungati di carriera per molte posizioni (di facciata e/o limitatamente e/o temporalmente) persino antagoniste, ma reiterati con tutti gli strumenti possibili a disposizione, ovviamente spesso anch’essi del tutto asimmetrici, in conseguenza di ben diverse strutturazioni delle “società ideologiche” specifiche di riferimento. Ed, ovviamente, il contrario dei benefici. Tanto per semplificare, rozzamente, l’universo mediatico hollywoodiano da una parte e le plurime iniziative più attivisticamente superficiali, politiche e movimentiste per “la pace e l’amicizia fra i popoli” dall’altra, ma comunque storicamente e diversamente incidenti, con del tutto imprevisti esiti, persino talora improvvisi e sorprendenti. E questo poi sarebbe uno solo dei piani di manifestazione della guerra cognitiva moderna (ed ora sarebbe bene forse sostituire al concetto di guerra, troppo anticamente normato per non essere anche a suo modo limitante la comprensione delle infinite strumentalità aggiuntesi), sempre operata ma sempre più ibridata, quello di confrontazione totale con altri ed inusitati mezzi.
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  • Come diceva Evola in “Considerazioni sulla guerra occulta”, “...Supporre che questo substrato della storia sia occupato dall’irrazionale dalla vita dal divenire o da qualcun’altra di quelle entità confuse inventate dallo storicismo moderno nel momento in cui pensò di andare oltre la cosiddetta storiografia positiva, è un errore tra i più pericolosi, e noi crediamo anzi di vedere in ciò una delle suggestioni oculatamente diffuse in certi ambienti proprio ai fini di certe mosse della guerra occulta nei tempi moderni. Ci spiegheremo più chiaramente in seguito. Per ora, basta fissare questo punto: che noi non dobbiamo far svanire la terza dimensione della storia nella nebbia di vedute astratte e filosofiche, ma dobbiamo considerarla abitata e occupata da ‘intelligenze’ ben precise, di cui quasi sempre certe società o organizzazioni segrete sono state l’espressione e l’organo più prossimo, ma che non si debbono nemmeno esaurire, far cominciare e finire, in esse.” ...
  • Nella considerazione di Evola e di pochi altri al suo livello è poi la capacità di pensare la strumentalità dell’azione indiretta, sempre esistita, come qualcosa che si è solo resa manifesta nell’esplosione delle potenzialità tecnologiche. Ovvero i surrogati, a livello strategico, che implicano le varie relazionate tattiche tramite sostituzioni falsificatrici, capovolgimento, attacco a rimbalzo, capro espiatorio, diluizioni, sostituzione del principio alla persona, etc., etc.. Questo non serve solo a preparare una corretta visione delle poste in gioco per la difficile comprensione dello scenario dell’ininterrotta confrontazione, ma ad evitare in primo luogo “...l’effetto di un’azione distornatrice...”, non solo a riguardo dei nemici che comunque la sfruttano, ma degli amici, ovvero in chi non la contrasta subendola per incomprensione e deformazione (“...per via di teorie mal comprese e di false pratiche...”) delle medesime dinamiche (che sono poi tecniche solo in apparenza ma esistenziali nella sostanza). Il riavvolgibile bandolo della matassa dovrebbe rimanere invece saldamente nelle mani dei più preparati.
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  • In tal senso la multiforme guerra odierna è l’insieme di quella cognitiva, culturale, asimmetrica, rivoluzionaria, ABC, spaziale, cyborg, comunicazionale, con utilizzo aggiuntivo delle componenti disponibili delle ONG, di milizie para/ufficiali, di milizie di prossimità, di compagnie mercenarie... Con implicazioni e ricadute della strategia sostanzialmente imperialista sulle politiche di ricerca di materie e terre prime e rare, etc., etc., in un sovrapporsi infinito e quasi illimitabile con le mille strategie indirette e compresenti e tutto ciò che fa divenire sempre più potente l’insieme complessivo e sovente anche difficilmente controllabile degli stessi apparati di intelligence che presiedono negli Stati imperiali (come li definisce Stiegler) alla politica di potenza, interna ed esterna. Ne siamo anche corroborati dalla lettura di un testo decisivo al proposito. (14)  Tale testo mette in evidenza la particolare ulteriore mediazione intellettuale per la comprensione ed il coordinamento di tutte quelle discipline ampiamente e specificatamente antropologiche che ormai, si coagulano attorno al complessivo fenomeno confrontazione/guerra, seppur con difficoltà anche per la resistenza di mentalità ideologiche oppostamente residuali e/o di ottusità burocratico/amministrative e persino di riluttanze accademiche, in funzione ridicolmente preservativa di non si sa quali utopistiche neutralità teoriche, in realtà mai esistite e quindi ormai in una dimensione del tutto esplosa, sia intellettualmente che operativamente. (15)
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  • Nell’ambito delle cosiddette guerre occulte e/o cognitive (che si sovrappongono senza confondersi) non si può poi trascurare che sempre più la confrontazione attuale sia ciò che in “Della Guerra” von Clausewiltz scriveva“...la guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi”, cosa che, ai nostri tempi, rifulge in tutta la sua oscura luce.
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  • Ancora, quello che è stato definito “stato dietro” o meglio Staus in stato di Spinoza nel Tractatus politicus nelle sue Opera posthuma del 1677, è non altro che il risultato della potente sinergia dell’apparato industriale commerciale e burocratico legato alle armi ed alla difesa. Questa convergenza è una convergenza non solo di interessi e di scopi ma anche di ceto, che al di là di mille prevedibili ma poco influenti divergenze, tende a consolidare una comune appartenenza burocratica, se si pensa, ad esempio, che i dipendenti diretti ed indiretti dell’apparato burocratico/istituzionale, in USA, sono intorno ai 20 milioni ed il solo Pentagono è il principale “datore di lavoro” nel mondo, con circa 3 milioni di dipendenti. E, ovviamente in proporzione, questo avviene non solo nei vari Stati imperiali primari, ma anche in quelli secondari e terziari. Oltre al lavoro del tutto istituzionale ed in chiaro, ma persino a latere di esso, un insieme inestricabile di scelte che sarebbe difficile definire in corretta relazione agli scopi ufficiali e normati, ma che tendono inevitabilmente a determinare spinte progressive verso suggestioni teoriche, proiezioni strategiche e tutti i tatticismi crismati da favoritismi, falsificazioni, trascinamenti, inquinamenti di ogni tipo e portata, sia commerciali che finanziari, burocratici e giudiziari. Tutto ciò non opera sempre necessariamente con una coordinata teorica complessiva od una linearità progettuale, probabilmente impossibile per la stessa dimensione leviatanica, ma è e si dimostra ampiamente e funzionalmente convergente, una sorta di sistema osmotico, con uno stato dell’arte che corrisponde sempre sommariamente al pensiero unico di turno, sovente sulla spinta e sulla scia comoda di una induzione alla ripetitività, (ai protocolli... come in medicina) poi sfociata, per la forza della crescente complessità e la pervasività delle protesi della modernità, in macchinizzazione. La miseria simbolica del numero esploso. Ad esempio, in una sola giornata di spazio web potrebbero avvenire più attacchi informatici di quanti attacchi militari avvennero, più o meno numerati, in una intera guerra guerreggiata del passato. Portando lo stesso concetto di pace, che in molti dei nostri paesi sembra quasi un riferimento sacro almeno per molte delle realtà comunicazionali odierne, ad un concetto parodiato oltre il sostenibile. Macchinizzazione (nel clinamen epocale) che, come dice Stiegler, ormai tutto pervade e che potremmo genericamente definire, almeno in questi ultimi decenni, perlopiù automatica. Quindi anche la guerra, differentemente da come appariva superficialmente un tempo, può divenire, ormai, (superata non si sa poi bene come e quando realmente la fase della decisione, essendosi di molto spostatisi i paletti cognitivi al riguardo) del tutto automatica. La caduta delle ideologie grossolanamente manifeste, restando però le pulsioni ideologiche di tutta virulenza, ha reso nudo il Potere, riportandolo ad una sorta di naturalezza sadiana, quasi premoderna, che potrebbe ritrovare un poco di smalto interpretativo forse solo in una reinventata letteratura libertina.
  • L’automatismo poi, di cui parla Stiegler, è per troppi versi, recettivo di dinamiche psico/sociologiche del tutto specifiche, seppur storicamente ben verificabili, oppure, alternativamente o per parallela induzione, solo una riassunzione ideologica, che potrebbe sempre risultare credibile, ma che presenta, “filosoficamente”, solo una traccia leggibile. Quella ufficiale. Anche perché l’altra, oltre ad essere apparentemente sotto traccia, diviene anche sospetta di forzature paranoidi quando non del tutto pericolosa per le sorti di carriera di un pensatore comunque accademico, sia pur di fama estroversa. Quella reale (recto/verso) è implicata, continuamente, ma mai affrontata con la stessa forza con cui si dipana la lettura “ufficiale”, o meglio, “ufficializzata”. Nel caso di Stiegler, forse anche in conseguenza di una forte reticenza del pensatore nato e cresciuto “a sinistra”, per tutto ciò che possa negativamente, per lui, apparentarsi ad una potenziale storia parallela, fortemente influenzata comunque da logiche simboliche strutturate o almeno simbolicamente marziali (esse sono necessariamente residuali pur nell’ipermodernità, nella postmodernità o nella surmodernità come si vogliano, pur differentemente, definire), magari con venature che potrebbero apparire persino - orrore! - revisioniste. E quindi ciò che precede non è una tirata complottista, quanto un minimo prendere atto che anche nel regime teorico di massima appetibilità logica che è permesso comunque solo da un’intelligenza indiscutibilmente brillante, se non si ha poi il coraggio di considerare la trama e l’ordito e di ribaltarseli a piacimento, non certo per vezzo ma per necessità, onde afferrare la ragione di ciò che veramente tende e tenta irriducibilmente al dominio, tutto diviene meno comprensibile. “...Una feroce forza il mondo possiede, e fa nomarsi dritto...”, di cui la seconda parte è, forse ancora, più inquietante...
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  • Non si può giocare solo sulla trama e l’ordito ufficiali (filosoficamente parlando), ma si deve avere il coraggio di battersi là dove la possibile interpretazione tratta tutti i colori. Altrimenti l’ermeneutica applicata che è l’interpretazione stessa delle varie potenzialità espressive e relazionali sulle cose, tende a diventare quella tecnica “grigia” che sarebbe il contrario esatto del repertato “grigio” a cui Stiegler, correttamente, affida la serie in successione delle ritenzioni primarie secondarie e terziarie. Sulla geniale intuizione di Nietzsche in Genealogia della morale, Stiegler dice: “…Poiché nel grigio della genealogia, sul fondo da cui si distaccano i colori delle immagini, si trova un arsenale ritenzionale che serve a costruire le RC2”, (15) ovvero le ritenzioni secondarie collettive, che producono poi le R3, le ritenzioni terziarie, parcellizzate a livello individuale, che sono quindi messe fantasmaticamente all’opera dalla forzatura collettiva dell’immaginale diffuso tramite tutti i mezzi mediatici di massa. Il grigio delle cose dovrebbe però, in noi, implicare la nettatura translucida dell’interpretazione praticabile.
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  • In più, sul piano dei confronti delle grandi stagioni e potremmo persino dire delle mode culturali e interpretative sempre agenti sul piano non solo delle scienze umane, qui potremmo perdere la continuità di più lungo periodo se leggessimo tale dominante solamente come ristretta sostanzialmente ai principali players che si contendono il grande gioco dalla fine della II Guerra Mondiale. Ma per le scienze forse non in prima istanza in questa dinamica di dominio, ad esempio, la filosofia, la stratificazione del passato è molto più attiva di quanto possa sembrarlo, per quelle apparentemente direttamente implicate come la geostrategia o l’antropologia comune od, addirittura, l’antropologia di guerra. E questo perché la filosofia è sempre uno sguardo maggiormente memore del passato profondo. E la prova, nel nostro caso è la figura di Platone per Stiegler, comunque lui la valuti - nel positivo e nel negativo - quella da lui definita “concretizzazione del pensiero platonico”. La concettualizzazione paradigmatica fondante il discorso filosofico in Platone, per Stiegler sempre sottovalutato e contemporaneamente sempre sopravvalutato. E ne dà spiegazioni di questa ragione, anche di questa sua doppia lettura, riferendola ad una intuizione insuperabile di Platone quella che indica il pharmakon come antidoto e veleno nella risoluzione politica, nella filosofia del politico, ovvero la tèkhne del simbolico. Quella che era già e che poi diverrà sempre più la tèkhne del simbolico.   (17) Sempre costitutivamente come una arma a doppio taglio. Per cui s’instaurerebbe il regime teo-filosofico del dover essere, che precluderebbe la paideia, prima ancora del primato, a chi non metta - comunque ed a qualsiasi titolo - in primo piano il cosiddetto bene della polis. Dover essere che dovrebbe sbarrare la strada quindi ad ogni possibile deviazionismo, sempre in agguato, sia individuale che sociale. Secondo quella logica alcune categorie di intelligenti (e non certo prevalentemente di idioti) dovrebbero essere sempre attenzionati e poi esclusi. Cosa che, paradossalmente, ben al di là dell’utopia platonica, magari per tutt’altri scopi, avviene, sempre e dovunque seppur diversamente, nel trattamento burocratico (o fisico) della devianza colta.
  • Ritornando al “si” stiegleriano, qui, e come sopra nella precedente citazione, è da intendersi come ciò che non può avere più figura propria, e diviene, il “si deve”, “non si deve”, “si può”, “non si può”… Cioè l’esser sospinti sempre nella posizione apparentemente neutra della decisione (con la relativa problematica della responsabilità/libertà) come una marcatura dell’ipocrisia ideologica del contemporaneo, che aumenta esponenzialmente l’atavica disposizione umana al falso, fino ad eliminare totalmente l’esposizione esterna che dovrebbe (¿chi lo dice all’ultimo uomo?) corrispondere alla vera pulsionalità. La definitiva deformazione del volto nella maschera. Il “si” appartiene non più all’io, né al noi, è - ormai - un impersonale catagogico:
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  • Con la conseguenza che...“…Il mal-essere degli individui, che risulta dall’instaurarsi di questo stato di cose, si traduce in somatizzazioni, nevrosi e comportamenti ossessivi, di compensazioni o di fuga, o in espressioni logorroiche, epigonali o reattive, tese a razionalizzare, così come nei casi estremi, in comportamenti individualmente o collettivamente suicidiari, che si tratti di Stati imperiali o vassalli o gruppi di terroristi”… (18) Su altro piano d’osservazione, ovvero quello dei media,verrebbe qui da sorridere amaramente, constatando il continuo ripetersi della “domanda” al proposito… (perlopiù a specialisti dell’ovvio… ovviamente) di scrittori, giornalisti e televisivi vari, sorpresi, poverini, nell’atto risibile della caduta dal pero. Rispetto a coloro che, ridottisi all’atto distruttore conoscono comunque “l’incontenible bisogno d’esistere” e cedono all’atto (magari incontrollabilmente, imprevedibilmente distruttivamente) violento, proprio per un rifiuto altrettanto incontenibile.  “…Questa sofferenza, quando si esprime direttamente, conduce a dei passaggi all’atto totalmente incontrollabili, strettamente imprevedibili e puramente distruttori.” (19)
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  • Noi, comunque ed a qualsiasi costo, opponiamo a tale resa manifesta, che avviene per causa di una sostanziale sottomissione dell’identitarietà complessa ma concludente di un certo tipo di uomo ad un solo fattore (quello economico), una opposizione ancora più motivatamente organica, ovvero dalla consapevolezza dei propria che risiedono nella tradizione indoeuropea. Questo implicherebbe da parte nostra dare delle indicazioni serie al proposito, per il superamento. Ma, mentre verificare la catastrofe del sensibile è restar dentro e poi fuoriuscire dalla dimensione dall’estetico per poi vederla trabordare in ogni altra del vivibile ormai in diffusa evidenza, stabilire invece le coordinate di ciò che si può opporre realisticamente a questa catastrofe è oltremodo difficile perché possediamo solo dei lacerti delle passate volontà e delle passate qualificazioni personali e collettive. Tutto si è consumato. Sommando e detraendo, ciò che al livello di percezione ci apparirà praticabile per far partecipare sempre più e sempre meglio - secondo i nostri principi - alla guerra che c’è già e diviene di giorno in giorno ancor più cruenta, guerra per la differenziazione e contro l’omologazione consumistica delle esistenze che produce al meglio una palude esistenziale, lo consideriamo comunque ricercabile e salutare, e non solo per noi, ma potenzialmente per molti.            
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  • Note:
  • A)* Questo parte A) termina l’esame del primo libro di B. Stiegler, La miseria simbolica. 1. L’epoca iperindustriale. La parte B) tratterà del volume 2. La catastrofe del sensibile.
  • 1) Paul Ricoeur, Dal testo all’azione, Jaca Book, 1989, Prefazione.
  • 2) Martin Heidegger,  trad. It. Pietro Chiodi, Essere e tempo, a cura di F. Volpi, Longanesi, Milano 2005, par. 29, p. 172.
  • 3) B. S., La miseria simbolica, 1. cit., cap. terzo, Allegoria del formicaio, la perdita dell’individuazione nell’epoca iperindustriale, citazione , pag.80: “Non sembra possibile influire sull’uomo fino ad indurlo a cambiare la sua natura in quella di una termite”, (S. Freud, Il disagio della civiltà, Boringhieri, 1999, pag. 232).
  • 4) Paul Ricoeur, cit., par. Dell’interpretazione, pag. 15. Il grassetto è mio.
  • 5) Maurice Maeterlinck, La vita dello spazio, trad. it. di Raffaele Abenante, Laterza, 1933, pag. 52-53: “…L’esempio è ancora più sorprendente se invece di un disco e di una sfera, mettiamo vicini un quadrato e un cubo. Quando l’animale imprende a fare il giro intorno al cubo, oltrepassato che egli abbia il primo spigolo, vedrà nascere un nuovo quadrato, che si svilupperà a misura che esso avanza, mentre il quadrato precedente sparirà entrando nel passato; e così seguitando per ciascuno dei quattro spigoli, le superfici che si succedono si trasformano in tre tempi: futuro, presente e passato. L’animale dunque scopre l’oggetto a tre dimensioni nel mentre che gli passa davanti: per lui la sfera e il cubo esistono in funzione del tempo, non sono che tempo divenuto visibile. Va da sé che l’animale non fa questi ragionamenti complicati, ma agisce come se li facesse. Così come ha detto l’Ouspensky, se l’animale fosse capace di riflettere su tali fenomeni che non sono ancora entrati nella sua vita, ossia gli angoli e le superfici convesse, esso li concepirebbe soltanto nel tempo. Non potrebbe figurarsene un’esistenza reale prima che non siano apparsi. Così pure, se fosse in grado di esprimere un giudizio al riguardo, direbbe che gli angoli esistono potenzialmente, che esisteranno, ma, pel momento, non esistono affatto. Per l’animale, la terza dimensione è un fenomeno nell’ordine del tempo non già dello spazio come per noi. Esperimenti eseguiti con un cieco-nato che a diciassette anni acquistò la vista dopo un’operazione chirurgica, hanno confermata questa psicologia dell’animale. Il cubo, la sfera e la piramide gli sembravano superficiali come il quadrato e il triangolo, non vedeva alcuna differenza tra il disco e la sfera, e, soltanto toccandoli, rendevasi conto che erano differenti. Gli mancava il senso dello spazio, della prospettiva. Tutti gli oggetti gli sembravano piatti, perfino il volto umano, nonostante la sporgenza del naso e la concavità delle orbite, e per più giorni visse così in un mondo a due dimensioni.”
  • 6) Bronislaw Malinowski, Giornale di un antropologo, Armando, Introduzione all’ediz. Ital. di Tullio Tentori, pag. 4-5.  “…Per estensione oggi si considerano “osservazione partecipante” le tecniche di primo approccio o di sfondo nello studio di gruppi umani “nostri” (per esempio, di una banda di ragazzi, di un gruppo di lavoratori, di dirigenti politici, di una corsia di ospedale, ecc.) puntando - indipendentemente dall’abitare insieme - su una frequentazione di varia durata e intensità. Il termine con il quale si designa tale tecnica è, comunque, improprio in quanto si dovrebbe parlare di osservazione “diretta” anziché “partecipante”. L’osservatore resta infatti esterno alla struttura sociale degli osservati, non ne condivide valori, concezioni di vita e credenze; vive tra loro per lo più (o almeno sotto certi aspetti) in modo privilegiato e sa che la sua esperienza ha un termine, trascorso il quale si reinserirà nella società di provenienza. Il fatto di risiedere sul campo, di usare una tecnica che in gergo chiamiamo “etica” (consistente nel descrivere secondo parametri definiti dalla comunità scientifica) o con un’altra che - sempre nel nostro gergo esclusivo - chiamiamo “emica” (consistente in descrizioni fatte dal punto di vista dell’osservato) non elimina il rischio che l’appartenenza dell’osservatore ad una data comunità scientifica-sociale e, ovviamente, culturale anche in senso antropologico, influenzi il suo rapporto con gli oggetti e l’ambiente del suo lavoro e l’orienti verso determinate direzioni interpretative.   Nessuno, in quanto soggetto intellettualmente operante, per quante sofisticate tecniche di distacco impieghi, può sottrarsi alla propria appartenenza culturale, soprattutto quando opera tra soggetti sotto tale profilo a lui disomogenei.”  
  • 7) B. S., La Miseria simbolica. 1. L’epoca iperindustriale, Meltemi, 2021, dal capitolo terzo,“Allegoria del formicaio”, par. Breve storia dell’individuazione occidentale. Gli spostamenti della capacità di individuazione, pag. 94-96. I grassetti sono miei.
  • 8) ibidem, (cit. prec.). I grassetti sono miei.
  • 9) ibidem, pag. 97. I grassetti sono miei.
  • 10) ibidem, pag. 97- 101: “...Il noi è gravemente malato: la subordinazione dei dispositivi ritenzionali, senza cui non c’è individuazione psichica e collettiva, a una criteriologia totalmente immanente al mercato, ai suoi imperativi divenuti egemonici, rende praticamente impossibile il processo di proiezione attraverso cui un noi si costituisce individuandosi.” (...) “...Gli altri sono qui le figure del noi che si tratta di distruggere nella misura in cui questo noi, che non si individua più, è lui stesso ciò che ci distrugge”    
  • 11) cfr.: pag. 103 di “Essere e tempo di Heidegger. Introduzione alla lettura” di Adriano Fabris, Carocci Editore, 2012 per il commento su base di lettura di Essere e tempo”, trad. ital di Pietro Chiodi, a cura di Franco Volpi, Longanesi, 2005.
  • 12) B. S., La Miseria simbolica. 1., cit., pag. 97-98.
  • 13) S. G., “…come vacuità e destino”, NovAntico, Pinerolo, 2013, saggio della II Parte, Potere: senso e repressione in Marc Augé. Nella nota n° 8, la seguente citazione, in M. Augé, Poteri di vita poteri di morte, Raffaello Cortina Editore, 2003, pag. 10: “…dall’altra parte rivela il carattere esplicitamente differenziale, implicitamente non egualitario e manifestamente costrittivo della configurazione complessiva in cui queste rappresentazioni si articolano, si coniugano, si precisano e si ordinano una rispetto all’altra...” (...) “Ma questa bella logica, di cui il discorso culturalista rende parzialmente conto, non ha nulla d’armonioso se non l’ideologia che esprime o piuttosto che costituisce. Si tratta dell’armonia stessa dell’ordine - ordine indifferentemente, intellettuale, morale e sociale. Essa individua componenti biologiche e psichiche, definisce linee di ereditarietà e regole di eredità, riti e diagnosi, prescrive e proscrive: in breve stabilisce l’insieme del possibile e del pensabile. E tuttavia, ciò che è possibile non lo è per tutti allo stesso titolo, ciò che è pensabile non lo è per tutti allo stesso modo, la somma del possibile e del pensabile costituisce una sistematica delle differenze sia in modo esplicito, designando posti e ruoli (il lignaggio, la stirpe, il villaggio, il quartiere, il padre, il figlio, lo zio, il nipote), sia in modo implicito, in quanto, designando questi luoghi rappresentativi, esso ne situa al tempo stesso l’altrove e stabilisce con ciò stesso lo statuto di coloro che devono tenerne conto senza potersene far carico, tutti coloro che non possono riferirsi ad essa se non per misurare la propria debolezza e la propria insignificanza rispetto alle linee di forza e di senso, tutti coloro che la suddivisione temporale delle genealogie e la casualità delle nascite successive hanno allontanato dalla stirpi maggiori e dai fratelli primogeniti, tutti coloro che hanno solo un accesso effimero e passivo - per testimoniare o per subire - allo spazio del potere.” Ed ancora, sempre da S. G., “…come vacuità e destino”, e sempre dallo stesso saggio su Augé, cit., potremmo riportare molti motivi di riflessione al proposito:   <<...Cioè a dire che la repressione come espressione del potere agisce non solo per vie esterne, ma principalmente per vie interne, innerva ogni struttura umana, comunque essa si costituisca e qualsiasi sia il grado, possibile o praticabile, d’autocoscienza rispetto allo stesso problema del potere. Certamente alla base del problema della repressione come espressione del potere c’è il problema ineliminabile ed inaggirabile delle differenze, sia nelle società di classe sia nelle società senza classi, essendo il potere (Augé, Poteri di Vita poteri di morte, cit. pag. 16…) ben anteriore alla comparsa delle classi. Le differenze innervano ogni società, qualsiasi sia la sua ideologia, in quanto “...l’ideologia è sempre ideologia del potere in qualsiasi tipo di società... (...) ...tutte le società sono repressive ed impongono allo stesso tempo un ordine individuale e un ordine sociale.” (Poteri..., cit. pag. 18) In pagine memorabili Augé coglie tutte le contraddizioni del doppio orientamento che informa l’odierna letteratura in scienze sociali: il neoevoluzionismo e quello del rifiuto della dicotomia natura/cultura. E sostituisce, integrandole senza negarle totalmente, tutte le principali vie interpretative dell’antropologia in una nuova sintesi che è quella dell’ideo-logica, ovvero della logica delle rappresentazioni in una data società. Qui è molto importante anche che la simbolica, o come la definisce Augé, l’ordine della simbolizzazione, (che costituisce intrinsecamente la rappresentazione) sia considerata fondamentalmente diacronica, un rapporto d’ordine sintattico, (Poteri..., cit., pag.70) che struttura secondo un logos complessivo (ove simbolica e logica quindi sono correlate sempre ma non sempre in diretta corrispondenza) la rappresentazione (in sé e di sé) del potere. (Augé, Rovine e macerie, Bollati Boringhieri, 2004, pag.137) Infatti le forme del potere sono limitate in qualità di forme simboliche, indipendentemente dall’immensa varietà delle scelte paradigmatiche e dal carattere non meccanicistico delle combinazioni sintagmatiche. Perché alla storia si chiede sempre un senso, dice Augé, ma questa richiesta di senso è ben prima e ben di più del senso stesso che si vuol dare alla storia ed è il potere che controlla l’accesso al senso e questo accesso al senso si muove tra cooptazione ed esclusione in una dialettica di apparati simbolici ove comunque viene privilegiata la narrazione di un passato eminente. La “storia” diviene quindi centrale per la narrazione del potere, in quanto senza un senso della storia non si potrebbe attribuire un senso complessivo all’esistente stesso oltre che al potere. Sarà ancora un altro potere (un contropotere, un controsenso) semmai, a determinarne una restaurazione od una possibile fuoriuscita, tramite rivolte e rivoluzioni. Questo potere è connaturato alla cooptazione ed all’esclusione e quindi alla repressione proprio perché struttura il senso e la storia. E la “storia” “...forse non è se non la storia della creazione del senso e delle sue costrizioni...” (...) “Non si può riscrivere la storia ma la si può reinterpretare...” (…) “...L’attitudine politica o filosofica che consiste nel riprendere in considerazione, facendosene carico, gli elementi passati, nel ripensare la storia, non è dunque totalmente arbitraria, anche quando mitizza od inventa questa storia, perché con la sua sola esistenza essa le attribuisce una possibilità supplementare... (...) ...va da sé, tuttavia, che la storia non potrebbe interamente dipendere dall’attualità e che esiste un confine tra le metamorfosi storiche di un’istituzione, le quali rivelano progressivamente la sua complessità e le sue potenzialità, e le ricostruzioni arbitrarie che modellano il passato sulle esigenze del presente. In ogni caso, l’esigenza del senso passa attraverso un pensiero del passato”. (Poteri..., pag. 127-129). Capacità sottile d’immettere nel dibattito storiografico questa potenzialità, che non deve divenire deviazione o falsificazione proprio nel momento in cui diviene convintamene revisione. Ovviamente, come s’intende subito, bisogna ben stabilire il confine fra “riscrittura del passato” che è condizionata dai miti transeunti, dalle mode ideologiche o dalle compressioni geostrategiche e le vere e proprie falsificazioni alla Zdanov od alla Orwell, che storicamente sono esistite e continuano ferocemente ad esistere, che esisteranno ancora e che tutti possiamo agevolmente constatare. Ove per di più la validazione delle mitizzazioni o delle rappresentazioni è scelta in base a fattori del tutto opportunistici.   La “riscrittura del passato” risulta quindi, oggettivamente, di ardua definizione ed una sua chiara delimitazione comporterebbe comunque qualità quasi sovrumane di onestà intellettuale, capacità documentativa e discernimento spirituale. Anche perché per sostenere nobilmente ma assieme efficacemente la sublime inutilità della paidetica, si può accettabilmente credere come Augé che “La follia della storia è una follia ripetitiva. Gli orrori si ripetono....”>>
  • 14) Federico Prizzi, Cultural intelligence e etnografia di guerra, Altravista , 2021.
  • 15) Aldo Giannuli, Come i servizi segreti stanno cambiando il mondo, Ponte alle Grazie, 2018, Introduzione. Riportiamo questo passo che fornisce un senso complessivo: “...pertanto l’intelligence, da attività tattica, collaterale e servente, quale era stata nel conflitto aperto, diventava strategica, centrale e dominante nel conflitto coperto. Di qui le pratiche di destabilizzazione monetaria, di influenza politica, di cyberwar, di spionaggio industriale, sempre più ricorrenti, sino a forme di soft power e di appoggio a guerriglie e terrorismi, eccetera. La globalizzazione ha cambiato l’intelligence, ma ora l’intelligence sta cambiando il mondo: dalle relazioni internazionali, all’economia, dalla guerra alle scienze cognitive, alle dinamiche sociali, e ai sistemi politici. Capire l’intelligence è la porta stretta da cui dovremo passare per capire il mondo che viene. Infatti, i servizi di informazione e sicurezza, soprattutto nelle grandi potenze, non sono più un’articolazione periferica del potere, ma il cuore dell’azione strategica: un mutamento negli equilibri di potere di cui occorrerà sempre più tenere conto e che in questo libro cercheremo di descrivere. Nell’esperienza storica passata, il termine intelligence si riferiva solo ad apparati dello Stato, ma, nel tempo, il ricorso ad attività di intelligence è andato estendendosi a molti soggetti privati e in forme sempre più invasive. Certamente, a godere della copertura del segreto di Stato opponibile alla magistratura sono solo gli apparati statali (che sono ancora gli unici che possiamo definire «servizi segreti»), ma questo non significa che, nel mondo attuale, non ci siano organismi privati dediti alla raccolta informativa, dalle security delle grandi imprese multinazionali alle agenzie investigative, dagli appositi servizi di banche e compagnie assicurative agli organi informativi come la newyorkese Kroll. Nella maggior parte dei casi, si tratta di organizzazioni dotate di una qualche licenza, che consente loro di accedere a repertori coperti da privacy e di valersi di fonti confidenziali retribuite, ma sempre sul margine estremo della legalità. Nei fatti, la vera garanzia di questi soggetti rispetto alla magistratura è data da una situazione di fatto, che li vede spesso collaborare con gli apparati di sicurezza e di polizia interessati a coprirli. Dunque l’attività è condivisa da soggetti sia pubblici che privati, si svolge su più piani e con varie sfumature. Ad esempio, gli stessi apparati statali, oltre che la classica distinzione fra servizi segreti e organi di polizia, hanno un livello intermedio, detto di «paraintelligence» e che riguarda quei particolari reparti specializzati (come, ad esempio, il Reparto Operativo Speciale, ROS dei Carabinieri) che agiscono proprio sul confine fra polizia giudiziaria e servizi di sicurezza. Peraltro, l’intelligence può avere sembianze assai diverse, ad esempio quelle del giornalismo di inchiesta che ricorre a mezzi del tutto analoghi a quelli dei servizi «segreti», dall’uso di fonti pagate all’intercettazione di documenti riservati (magari per compiacenza di una fonte che si presta a fotocopiarli abusivamente), al pedinamento con servizio fotografico ovviamente non autorizzato, eccetera. D’altra parte, gli scoop si fanno con l’accesso a informazioni riservate e queste sono conoscibili con metodi «non ortodossi». Altrimenti, saremmo tutti giornalisti di inchiesta o agenti dei servizi di sicurezza. Tutto questo crea un bacino di operatori dell’informazione riservata che include quanti a vario titolo sono dediti a questa attività. La comunità dell’intelligence è la principale novità degli ultimi trent’anni (o forse quaranta) nel campo dei servizi segreti e nel libro ci imbatteremo spesso in questo fenomeno. Lo scambio informativo è l’anima di questa comunità dell’intelligence che, peraltro, è un villaggio dove tutti o quasi si conoscono. Quanti dirigenti di security di impresa sono ex funzionari di servizi di Stato? Quanti giornalisti fanno il «doppio lavoro» per conto di un servizio informativo? E quanti titolari di agenzie investigative sono ex poliziotti? Dunque non stupisce affatto che ciascuno usi i contatti personali passati e ne aggiunga di nuovi. La comunità è un sistema nel quale interagiscono diverse organizzazioni. Essa non conosce confini netti né fra le diverse tipologie di lavoro, né fra servizi di un paese e servizi di un altro. Altra novità importante nel campo è stata il prevalere del valore di scambio sul valore d’uso delle informazioni. Spieghiamoci meglio. Non sempre la notizia ricevuta ha un qualche interesse per chi la riceve, ma, nel mondo della globalizzazione, le notizie anche se continuano ad avere un valore d’uso (farci un articolo di colore, o una relazione per il ministro, o assicurarsi sulla solvibilità di un debitore) hanno soprattutto un valore di scambio, per cui qualsiasi notizia può venire buona per scambiarla con un’altra. Peraltro le notizie in sé hanno uno scarso valore informativo. L’informazione va «processata» verificandone il contenuto, cercando riscontri che la confermino, poi «sviluppandola» per utilizzarla in sede di analisi. Ad esempio, si può anche avere la prova che il tale governo stia cercando di procurarsi uranio per produrre la sua atomica, ma questo ci dice solo una parte della realtà: noi vogliamo sapere anche come reagiranno alla cosa le grandi potenze e i paesi limitrofi, poi vogliamo sapere i tempi dell’operazione e se, nel frattempo, non ci sia la possibilità di rivolta interna a quel paese, se ci saranno i mezzi finanziari per completare il programma e, dato che la sua principale fonte di introiti è l’esportazione di petrolio, dobbiamo combinare queste valutazioni con il prevedibile andamento dei prezzi del greggio nel breve e medio periodo e immaginare cosa potrebbe accadere se i lavori si prolungassero oltre il previsto. Tutto questo possiamo cercare di saperlo con l’analisi che è il punto di arrivo e più importante del processo informativo (come spiegheremo meglio nel libro). E nell’analisi confluiscono tanto le informazioni riservate quanto quelle ricavate dalle open source, le fonti aperte opportunamente trattate. I segnali di una rivolta interna al paese sotto la lente di ingrandimento si possono ricavare trattando il flusso di dati dei social media, ma occorre trattarli opportunamente con degli algoritmi che indichino la tendenza e la sua forza. Le reazioni delle potenze interessate e dei confinanti si possono intuire sulla base delle dichiarazioni dei rispettivi ministri degli Esteri o dei capi di governo ma, ovviamente, leggendo tutto «in controluce» così da distinguere le effettive linee di politica estera dalla propaganda o dagli «avvertimenti» o segnali a terzi. Dunque, il valore aggiunto del rapporto informativo sta, più che nelle singole notizie magari riservate, nel loro «montaggio», nel modo in cui sono messe in relazione l’una all’altra per ricavarne il quadro d’insieme. C’è un’espressione inglese per indicare il lavoro di analisi: «unire i punti», come quando da ragazzi, sui giornali di enigmistica, univamo i punti indicati e, alla fine, sbucava il disegno di un mazzo di fiori. Con una differenza: che in quel gioco i punti erano numerati e li si univa secondo la sequenza fissata, mentre nel lavoro informativo i punti non sono affatto numerati e l’operatore gode di una certa discrezionalità nel connetterli. Una libertà pericolosa però, dato che comporta il rischio di linee azzardate o arbitrarie che alla fine portano a un disegno ingannevole: questo è un metodo che, d’altro canto, premia l’intuizione e il lampo di intelligenza. E anche lo sviluppo del lavoro di analisi – incomparabilmente più avanzato di mezzo secolo fa – è un’altra importante novità. Ovviamente non tutti quelli che operano nella comunità dell’intelligence sono in grado di fare lo stesso lavoro: occorre avere denaro, macchine ad hoc, algoritmi, conoscenza di molte lingue, confidenti anche all’estero, personale opportunamente addestrato, eccetera, e questo non è a disposizione di tutti in egual misura. E i servizi segreti dello Stato godono di bilanci ben maggiori degli altri e hanno personale, macchine, confidenti, ecc. in proporzione. Ma non si tratta del solo denaro: un’agenzia come la Kroll ha sicuramente riserve finanziarie anche più abbondanti di molti servizi segreti di media importanza, ma non gode del diritto di opporre il segreto a un’eventuale inchiesta della magistratura. Inoltre, i servizi segreti pubblici hanno un accesso privilegiato ai decisori e, di conseguenza, godono di un maggiore peso che ne fa il centro attrattore della comunità dell’intelligence. E questo ci porta a un altro aspetto della questione che tornerà spesso nel nostro lavoro: la forte asimmetria che caratterizza questo ambito. Naturalmente, il confronto nel mondo è sempre asimmetrico: ci sono Stati imperiali, medie potenze regionali e piccoli Stati, ci sono paesi fortemente sviluppati e altri poverissimi, grandi potenze tecnologiche e paesi arretratissimi, ecc. La storia è sempre caratterizzata da scontri ineguali e asimmetrici. Nel mondo dell’intelligence questa asimmetria è ancora più vera e, diremmo, lo è al quadrato, anche perché risente di ordinamenti diversissimi e della differente percezione di sé. Ci sono Stati che hanno un solo servizio segreto, altri che hanno un sistema binario che distingue l’interno dall’estero, altri ancora che ne hanno molti; ci sono servizi che possono giovarsi di una forte spinta volontaristica e ideologica e altri che hanno caratterizzazione puramente professionale. Servizi che si affidano soprattutto alle fonti umane (la HUMINT) e altri che prediligono le fonti tecnologiche (la SIGINT, la ELINT, ecc.), e così via...”
  • 16) B. S. La Miseria simbolica. 1, cit., pag. 135.
  • 17) ibidem, pag. 10.
  • 18) ibidem, pag. 99.
  • 19) ibidem, pag. 100.