• Purusa Prakrti

  • Don Chisciotte e la filosofia
  • L’eterna fioritura senza frutto di Miguel de Unamuno
  • di
  • Giovanni Sessa
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  •    A ferri corti con la vita
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  • La filosofia europea del secolo XX è stata caratterizzata da correnti e tendenze disparate che si sono contese, l’una contro l’altra armate, l’ambito campo della speculazione. Il maggior numero di tali esperienze di pensiero non ha fatto che inserirsi lungo la sequela della storia della filosofia occidentale, centrata, almeno dopo Parmenide, sul primato del concetto, sulla ricerca dell’universale coincidente con l’essenza, a scapito dell’esistenza. Ciò ha indotto il filosofare ad identificarsi con un iter teorico avente per protagonista un soggetto finito teso all’impossibile conoscenza di una verità trascendente e costretto, pertanto, a sperimentare la propria costitutiva impotenza. Tratto non trascurabile di tale impostazione va rintracciato nel primato del logos, della parola e del linguaggio, esperiti nella mera dimensione strumentale-comunicativa. Una filosofia deprivata della tensione erotica che, ab origine, in Grecia, era ritenuta conditio sine qua non di tale esperienza, sua quint’essenza. Filosofia allora coincideva, stante la lezione di Giorgio Colli, con Sofia: non si trattava di un’apprensione intellettualistica del reale, ma, al contrario, di un pensare capace di mostrarsi in una prassi, in una realizzazione atta a «trasformare» in maniera profonda chi se ne fosse fatto latore[1].
  • Pochi ed isolati furono i filosofi che, nel secolo XX, si posero sull’antica Via o che, comunque, tentarono di liberarsi dai vincoli del logocentrismo dominante che, paradossalmente, coincidendo di fatto con il senso comune contemporaneo, esplicante se stesso in modo compiuto nella tecno-scienza, si mostrava quanto di più alieno dall’originarietà del filosofare. Pochi, certo, gli autentici filosofi, ma il loro contributo è stato sicuramente di grande spessore: le loro pagine sono cariche di quella tensione che il filosofo ebreo Abraham Joshua Heschel ha chiamato, in un suo libro, passione di verità[2]. Anche il lettore meno accorto, sfogliando i loro testi, proprio come nel caso del libro di Heschel, ha immediata contezza di trovarsi di fronte ad una: «lotta a mani nude con la verità»[3], una lotta in cui ne va dell’esistenza dell’autore nella sua integralità, una contesa dai tratti tragici. Per dirla con uno dei più rappresentativi pensatori della crisi e della Mitteleuropa, Carlo Michelstaedter, pensare realmente implica venire: «A ferri corti con la vita»[4]. La passione di verità agisce, dal profondo, sulla prosa di questi pensatori, totalmente altra, avulsa dalle consuetudini saggistiche della trattatistica accademica, essa assume le valenze della «comunicazione d’esistenza» di cui disse Kierkegaard: una modalità comunicativa che non parla al lettore anonimo, standardizzato dai canoni vigenti nella società di massa, ma ha la pretesa di scuotere, di «prendere per il collo» attraverso il tocco socratico della torpedine, chi ha la ventura di imbattersi in tali pagine.
  • La filosofia deve mirare a realizzare il «cambio di cuore» che consenta all’uomo che se ne faccia latore, di rinnovarsi e di guardare con occhi nuovi al mondo e alla vita. Per questo, alcuni, tra gli autentici filosofi del Novecento, guardarono all’arte con estremo interesse, quale organo del pensiero. In tale ambito, in nome del tratto museale originariamente legato alla teoresi, si mosse il pittore-filosofo René Magritte, come mostrano i suoi, Scritti[5]. La pittura realizza, oltre il pensare-che-dice, un pensare-che-mostra, essendo interessata non al che cosa si dà nel mondo, vale a dire alle essenze universaliste, ma al che in sé, al puro esistere, alla nudità stirneriana degli enti. A ricordarcelo è Romano Gasparotti nel suo recente, L’amentale. Arte, danza e ultrafilosofia[6]. Orbene, mentre la filosofia accademica e scolastica, suggerisce Gasparotti, ha sempre anteposto l’essenza all’esistenza, finendo per pensare l’essenza stessa quale dover essere posto oltre la dimensione immanente, separando il piano delle idee da quello della vita e producendo ciò che Magritte chiama il «male» filosofico, l’arte, il pensare-che-mostra, restituisce agli uomini la «poesia del visibile», preservando il «mistero» che pervade il mondo, nel suo «assomigliare», nel suo essere sintonico con la realtà e i suoi ritmi.  L’approccio concettuale, logocentrico, dà l’apparenza del sapere, «dice» intorno al mondo, ma resta ancorato ad una costitutiva impotenza. La seconda tendenza, poietica, fa il mondo, fa essere la realtà, porta nuovamente a coincidere, oltre la «rettorica» michelstaedteriana, pensiero e vita. Il problema della filosofia moderna è tutto qui: superare la dicotomia di soggetto e oggetto, di essere e non essere, di pensiero e vita. Ricorda Gasparotti che, l’atto pensante magico-poietico, presenta evidenti analogie con il pneuma cosmico, con il respiro del reale: «E’ come se il pensare […] mostrante inspirasse mondo per espirare mondo»[7], in quanto il pensiero poietico assorbe il mondo restituendolo a se stesso, in un processo di conoscenza aperta ed inconclusa, mai paga in alcuna opera e, come il cosmo, sempre in fieri.
  • Non possiamo esimerci dal fare qualche nome degli autori che con Heschel e Michelstaedter si sono posti lungo il sentiero del pensare poietico. Tra essi vanno certamente annoverati Andrea Emo e Julius Evola, ma un ruolo significativo, sia pure diverso da quello dei due autori ora citati, lo svolse il basco Miguel de Unamuno, di cui i lettori hanno ora tra le mani un testo forte, provocatorio e di grande attualità, La tragedia del vivere umano. Prima di addentrarci nella disamina di questo libro, vediamo di individuare le tappe fondamentali e gli eventi biografici che hanno influenzato la formazione dell’originale e scomoda intelligenza di de Unamuno.
  • Un imperdonabile
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  • L’imperdonabilità è categoria antropologica che ben designa i tratti più rilevanti dell’uomo e del pensatore de Unamuno. Tale categoria fu coniata da una raffinata scrittrice italiana, Cristina Campo: è atta ad indicare quegli uomini che nel corso della vita, in contrasto con il senso comune, si dedicarono a due passioni inattuali, la ricerca della perfezione e della bellezza: «Offeso oggi tutto questo, rinnegato, distrutto, introvabile e pure presente sempre, come la spina avvelenata sotto l’unghia, l’uomo ha dovuto convertirlo in oggetto di orrore sacro»[8]. Quale fu la vita di questo studioso inattuale e critico nei confronti del tempo in cui gli toccò in sorte di vivere?  Nacque a Bilbao, da famiglia basca, nel 1864 e qui trascorse la giovinezza. Trasfuse nel romanzo Pace nella guerra (tradotto in Italia nel 1952) l’indelebile ricordo dell’assedio carlista alla sua città, messo in atto nel 1874. Si trasferì a Madrid, dove studiò presso la facoltà di Lettere e Filosofia, laureandosi brillantemente. Presto ebbe accesso alla carriera accademica, ottenendo nel 1891 la cattedra di Lingua e Letteratura greca all’Università di Salamanca. Nel 1911 fu Rettore nello stesso Ateneo ma, per ragioni politiche, fu costretto, in più circostanze, alle dimissione, la prima volta nel 1914. Viaggiò in lungo e in largo nella penisola iberica e dette alle stampe nel 1922, Scorribande e visioni spagnole, un diario ricco di suggestioni storiche e geografiche, un vero inno d’amore nei confronti del proprio paese. Durante il primo conflitto mondiale visitò il fronte italiano. Fu, fin dagli anni della giovinezza, estimatore della nostra cultura. Da poeta apprezzò, in particolare, Leopardi e Carducci, che divennero suoi modelli compositivi. Scrisse anche una prefazione significativa all’edizione spagnola dell’Estetica di Croce.  Condusse una vita avventurosa. Nel 1924 si oppose alla dittatura di Manuel Primo de Rivera e fu mandato in esilio alle isole Canarie. Da qui riuscì a fuggire su un veliero francese e riparò a Parigi. La città, fervente centro intellettuale, lo aveva già positivamente colpito durante la prima visita del 1899. La fine degli anni Venti e la fuga rocambolesca, sono ricordati nel Romanzo dell’esilio del 1928, oltre che nei sonetti commentati della raccolta, Da Fuerteventura a Parigi, usciti nel 1925, al cui centro sta la passione politica. E’ nel periodo parigino che vide la luce, in francese, la prima edizione de L’agonia del cristianesimo, le cui problematiche resteranno per de Unamuno essenziali, fino agli ultimi giorni di vita. Da Parigi si spostò a Hendaye, dove soggiornò prima del rientro in patria, avvenuto nel 1930, in seguito alla caduta di de Rivera. Nel 1931 ottenne il conferimento della cattedra di Storia della lingua a Salamanca, ma anche il Rettorato nella stessa Università. Al divampare della guerra civile, nel 1936, avendo criticato il sovversivismo del «Fronte popolare», fu destituito dal governo repubblicano, cui fece immediatamente seguito la riconferma nel suo ruolo da parte dei franchisti. Costoro, però, furono negativamente colpiti dalle parole pronunciate dal filosofo in occasione della prolusione inaugurante l’anno accademico. In quel discorso, de Unamuno stigmatizzava negativamente ogni forma di fanatismo, di ideologizzazione della vita, manifestando la distanza dal regime che, presto, si sarebbe insediato in Spagna con il beneplacito della gerarchia ecclesiastica. Inutile dire che fu nuovamente rimosso dall’incarico. Un bastian contrario il nostro, innamorato della libertà e della ricerca del vero.  nMiguel de Unamuno si spense, nella casa di Salamanca, poche ore prima che il drammatico 1936 avesse termine. Profondamente angustiato dalla brutalità della guerra civile, morì in solitudine. La sua resta, tutt’oggi, una delle figure più nobili della «generazione del ‘98» spagnola: fu intellettuale a tutto tondo, capace di esprimersi in modo poliedrico, transitando dai successi narrativi a quelli filosofici, ma attraversando da protagonista il mondo della creazione poetica e della produzione teatrale. Impossibile distinguere in lui lo scrittore dall’uomo. In particolare, le sue pagine filosofiche, come il lettore avrà modo di constatare, sono scritte in prima persona e hanno il tratto della testimonianza esistenziale: da esse traspare il carico di dolore che accompagna la ricerca di una vita persuasa. In tale esperienza di pensiero-vita, suoi modelli furono Agostino e Pascal: le Confessioni del primo ed i Pensieri del secondo, furono considerati, dal pensatore basco, imprescindibili punti di riferimento. Egli, con Kierkegaard, lo si vedrà, fa del singolo, tanto il soggetto dell’interrogazione filosofica, quanto l’oggetto dell’indagine teoretica. Il singolo cui egli guarda, è latore di un atto di volontà, di ricerca e di fede, rivolto all’unico fine della vita: la domanda attorno al destino umano oltre la vita stessa, la problematizzazione della morte.  Il dramma degli uomini nasce dal fatto che, né la ragione né la fede, sono atte ad offrire soluzione a tale problema. Da qui le pagine che seguono e il titolo dello stesso volume, La tragedia del vivere umano[9], una sorta di glossa all’opera più nota del filosofo, Del sentimento tragico della vita, del 1912[10]. Dei contenuti diremo di seguito, qui basti ricordare che, nella saggistica, de Unamuno conciliò in modo mirabile l’atto creativo con il sapere. I suoi testi sono tenuti insieme da una invidiabile sintesi dialettica ma, al contempo, sono illuminati dal paradosso, trasfigurazione stilistica della vocazione polemica dell’autore, attraverso il quale il lettore coglie la dimensione relazionale e non oppositiva dei contrari. Cosa davvero rara questa, nella letteratura filosofica contemporanea, che impreziosisce, in più di una circostanza, le pagine del libro. Nei sette volumi dei Saggi, composti tra il 1916 ed il 1918, il pensiero è articolato con lucido rigore ma è, altresì, sostenuto dalla forza della passione del vero, sublimata in un distacco esistenziale che ricorda i trattatisti inglesi o la «dipintura dell’io» di Montaigne. Proprio come lo scettico francese, il nostro predilesse il commento ai testi, come dimostra lo straordinario, per intuizioni e stile, Commento alla vita di Don Chisciotte[11]: non mera operazione erudita, ma meditazione sul senso dell’hispanidad, autobiografia spirituale di un popolo, connotata da onestà intellettuale nel volersi confrontare con i popoli e le culture d’Europa. L’amore per la Spagna non fu cieco, de Unamuno fu diagnosta attento dei mali congeniti caratterizzanti la civiltà nazionale. Lo dimostrano anche alcune pagine di questo libro, tratte da scritti d’occasione.  Nella narrativa, il contributo di de Unamuno fu particolarmente significativo: è considerato, per i temi trattati, un predecessore del romanzo esistenzialista. Laconicità espressiva, presenza pressante dell’azione drammatica, esaltazione del personaggi in tutti i tratti caratterizzanti, sia fisici che psicologici, a scapito della descrizione di ambienti e paesaggi, predilezione del dialogo o del monologo, fanno di lui un interprete d’eccezione del «romanzo personale». Lo sviluppo del narrato si manifesta sotto forma di divenire temporale o sogno, proprio come il vivere: nella produzione narrativa de Unamuno trasfuse la conoscenza immediata e pre-filosofica della realtà umana, che gli era propria. Emblematico, in tal senso, il personaggio di Augusto, protagonista del racconto Niebla composto nel 1914, cui, in termini pirandelliani, è rivelato dallo stesso autore il suo essere «personaggio di finzione». Ad Augusto si chiarifica, in tal modo, il dramma della sua illusione, in quanto creatura voluta dal suo creatore, egli vive la medesima relazione in cui l’uomo è gettato nel suo rapporto con Dio.  Medesime tematiche, probabilmente più elaborate per la maturazione della visione filosofica, emergono anche nel teatro di de Unamuno. I personaggi sono proiezioni sceniche dei problemi teorici con i quali il nostro autore andava confrontandosi. Tale situazione emerge anche nella traduzione in castigliano della Medea di Seneca. In ambito poetico, durante la marcia trionfale del simbolismo in Europa, de Unamuno fu un isolato. Nella lirica riversò interamente la visione della sua integrale umanità. Non mancano, nei componimenti, toni biblici e profetici, come emerge dal capolavoro, Il Cristo di Velázquez del 1920, in cui pare, comunque, placarsi l’angoscia metafisica espressa in, Aldebarán. Per una comprensione piena dell’iter del nostro, è necessario far riferimento alle 1755 liriche della raccolta il Concionero, edita postuma nel 1955, per comprendere, come ogni aspetto, sentimento ed emozione, provata nel corso della vita, fosse stata dal nostro messa a tema e sublimata nella versificazione.
  • Del vivere tragico: di de Unamuno o di Don Chisciotte
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  • Per entrare, con cognizione di causa, nelle dense pagine de, La tragedia del vivere umano, è necessario contestualizzare storicamente la formazione della filosofia di de Unamuno, tenendo nel debito conto le correnti di pensiero con le quali fu inevitabilmente costretto a confrontarsi e che furono, per usare le parole di Ortega y Gasset, la sua «circostanza». Sul finire del secolo XIX era già chiaro, almeno alle menti più accorte, che la filosofia avrebbe dovuto lasciarsi alle spalle le sabbie mobili del dualismo soggetto-oggetto, che erano state riproposte, sulla scena intellettuale, dalla diffusione del positivismo. L’esaltazione del fatto, della dimensione oggettuale-naturale, la cui apprensione conoscitiva poteva essere messa in atto solo dalla ratio «positiva», non poteva soddisfare l’ansia di assoluto che stava diffondendosi. La ricerca intellettuale autentica richiedeva, a gran voce, che fossero rimesse al centro della speculazione, al di là del determinismo materialista, la dimensione della libertà e della creatività.  Ecco sorgere allora, a muovere dagli Usa, il «pragmatismo», movimento dal quale, lo stesso de Unamuno fu attratto. Era convinto, il nostro autore, che sarebbe stato necessario risolvere: «in una superiore unità il vecchio dualismo soggetto-oggetto, e non con la semplice negazione di uno dei due termini per l’altro», come nelle corde di certo neoidealismo, soprattutto di matrice crociana[12]. In fondo, lo stesso pragmatismo, in nome del primato dell’azione, della prassi, e al fine di superare ogni sterile forma di intellettualismo, si risolveva in nuovo primato del soggetto. A differenza dei monismi naturalistici e allo scopo di scongiurare un possibile esito scettico del percorso pragmatista, alcuni esponenti del movimento, nel nome della volontà di credere, finirono per riproporre la necessità di un’effettiva uscita di sicurezza dal dualismo e lasciarono aperta la strada a soluzioni disparate. Si trattava di: «intenderla questa natura […] nel suo farsi, nel suo eterno divenire, nella sua intima vita che è la vita dello stesso soggetto che la pone […] e si trattava di render l’uomo libero e responsabile»[13]. E’ da tale crocevia speculativo che de Unamuno inizia a pensare, a costruire la propria visione del mondo. Il compito prioritario che la filosofia, a suo dire, doveva assumersi, stava nel tornare ad interrogarsi sulla vita dell’uomo e intorno al posto che questi avrebbe dovuto tenere nell’universo. Ogni uomo, infatti, rileva de Unamuno, sente: «palpitare la vita dell’universo col ritmo del proprio cuore»[14].  Una visione religiosa della vita è quella cui anela il pensatore. Simbolo di tale incipit vita nova, di una vita rinnovata e persuasa, è la figura di Don Chisciotte, la creatura immortale nata dalla genialità di Cervantes, con la quale de Unamuno andò identificandosi. Don Chisciotte-de Unamuno è uomo nobilitato dall’afflato religioso, che, con serietà, affronta i problemi che la coscienza gli pone (lo testimonia, come visto, la biografia del filosofo), carico di disprezzo per il mero intellettualismo, per il logocentrismo incapace di dar luogo ad una prassi conseguente, in quanto deprivato della metamorfica passione di verità, incapace di rifare: «tutto l’uomo sciogliendosi in pienezza e in potenza di vita morale»[15]. Di contro alla «scienza dell’intelletto», che distingue, divide e parla del e sul mondo, Don Chisciotte-de Unamuno propone la «scienza del cuore», che pensa non con la sola testa, ma con il corpo, con la viva carne, con l’anima. Del resto, de Unamuno, sostenne con forza, a proposito della creazione poetica: «Se la poesia non ci libera della logica, a null’altro ci può servire»[16]. Questa la «follia» di Don Chisciotte, la sua costitutiva utopia. Egli si getta nel mondo per mostrare, con le sue sole forze, con l’esempio, la possibilità di un’altra vita. Naturalmente, come accadde a de Unamuno, anche il Cavaliere errante dovette subire lo scherno e il dileggio egli uomini: «stupidi per eccesso di sensatezza»[17], chiusi nella cittadella del pregiudizio, nelle abitudini macchinali. Essi sono simili agli «uomini-ombra», mirabilmente tratteggiati da Michelstaedter, in uno dei suoi schizzi a lapis più riusciti, durante il passeggio in Piazza Grande a Gorizia[18]: uomini che non sono, perché non vogliono essere, privi di concreta esistenza, che si aggirano nel deserto della vita, che si sottraggono al continuo creare in cui, di fatto, la vita consiste.  Don Chisciotte nutre la propria presenza nel mondo di una sola certezza: essere uomini è un compito, una possibilità, per essere realmente esistenti bisogna nascere in spirito. Il cavaliere errante realizzò, nell’agire, nell’andare incontro all’avventura del mondo, quell’ ideale che aveva appreso ad amare dalla letteratura cavalleresca, quel mondo che agli uomini di «buon senso» sembra morto da tempo, ma che in realtà, in quanto origine è sempre possibile. Don Chisciotte è figlio di se stesso, fedele al suo Sé eterno, si è liberato della propria persona determinata, per caricarsi sulle spalle l’universale umanità, divenendo Persona, rinascendo in spirito. Questo è il Cavaliere errante con il quale de Unamuno si identificò. Come Don Chisciotte, anche il nostro filosofo sapeva, a differenza di quanto recita il noto detto latino, primum vivere, deinde philosophari, che vivere è filosofare, in quanto filosofia: «è la stessa coscienza che la vita ha di sé […] vita tutta nostra, tutta spirituale […] sogno […] eterna conquista di un mondo che non ci è dato e ci fronteggia»[19].  Il Cavaliere errante di Cervantes possiede altri tratti, che lo rendono filosoficamente rilevante. Li ha messi in luce Massimo Donà, in un suo recente studio[20]. Don Chisciotte emerge da questa esegesi quale archetipo dell’eroe barocco, atto a riconoscere l’illusorietà del reale e, in uno, la sua magica bellezza. Libera, nell’incomprensione generale, la propria vita dal domino delle universalità che il logocentrismo ha imposto attraverso il primato del concetto e dell’identità, concedendosi e concedendoci di riscoprire la sorprendente individualità delle cose. Una individualità paradossale, nella quale, in realtà, si dice sempre il medesimo, il non dell’origine, il nulla di ente, il principio infondato. Don Chisciotte fa re-incontrare al lettore la meraviglia del mondo, quella meraviglia da cui, stante la lezione platonico-aristotelica, sarebbe stato originato il filosofare. Una meraviglia, si badi, che nulla ha a che fare con le simmetrie concettuali che tutto spiegano, ma che rinvia alla natura intrinsecamente magica e poietica della realtà. Per questo, la creatura di Cervantes, ha natura duplice. Egli, infatti, è presentato dallo scrittore spagnolo tanto come protagonista, quanto come lettore del libro (nella seconda parte del capolavoro di Cervantes): «di lui non si sarebbe potuto dire nulla di univoco e di certo […] Don Chisciotte era la prova […] di come non fosse più possibile determinare la proporzione secondo cui gli opposti vengono ospitati dal reale; egli incarnava infatti la loro perfetta con-fusione»[21] .  Quello di Don Chisciotte si configura, pertanto, come agire folle in quanto il mondo e le cose gli appaiono bisognose di liberazione dalla gabbia del fenomenico, dalla pesantezza cosale loro imposta dalla logica che distingue e oppone. L’agire eroico del cavaliere restituisce dinamicità al reale, è un agire mai pago di alcun risultato, in quanto sostenuto da una idea incondizionata di libertà, che si lascia alle spalle la visione teleologicamente orientata a un fine determinato. La libertà gli consentiva: «di sfidare tanto il principio di non contraddizione quanto quello di contraddizione, e di riconoscere quello della “misericordia” quale unico vero attributo divino» [22]. Ecco, qui siamo proprio nel cuore vitale del dichiarato «chisciottismo» di de Unamuno, l’agnizione della condizione tragica della vita umana emblematicamente descritta nelle pagine che seguono, che lo indusse ad un atteggiamento etico di compassionevole rispetto per ogni ente di natura.
  • La tragedia del vivere umano
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  • Come ebbe a precisare Piero Pillepich nella Nota del traduttore che accompagnava la prima edizione di questo libro, non esiste un’opera di de Unamuno che abbia per titolo, La tragedia del vivere umano. Questo titolo, che esplicita il senso ultimo del pensiero del filosofo, fu scelto da Pillepich stesso per questa silloge: «di operette, filosofiche la più parte, tra le più vivaci e battagliere […] inedite finora nella traduzione italiana, e tratte dalle opere del pensatore basco»[23]. Il libro viene ora finalmente riproposto, per lodevole iniziativa della OAKS editrice. Da esso il lettore potrà trarre il distillato del pensiero unameano e dello stile dialogico in cui fu espresso. In Italia, Adriano Tilgher è stato tra i più accorti esegeti dell’esperienza del pensatore spagnolo, a muovere da Voci del tempo, nelle cui pagine affrontò gli snodi del pensiero unameano, tenendo in debito conto il, Commento alla vita di Don Chisciotte[24]. Nella prefazione del libro che stiamo commentando, Tilgher si riferisce alle acquisizioni cui lo studioso basco giunse nei Saggi e in Del sentimento tragico della vita.  Coglie nel segno il filosofo italiano, nel sostenere che il pensiero di de Unamuno affonda le proprie radici nell’antinomia di ragione e vita: la prima aspira all’identità, mentre la seconda non è mai uguale a se stessa, la ragione si spende per l’universale mentre la vita si radica, per definizione, nell’individuale. Ma cosa chiede, questo il motivo centrale del volume, la vita? Chiede che: «io che vivo […] viva eterno, passi sull’abisso della tomba e questo non m’ingoi»[25]. La ragione sancisce come impossibile questa esigenza, mentre la vita pretende che tale assurdo, la conquista dell’immortalità, sia reale: «io voglio vivere eterno, io, questo povero io»[26], voglio superare tempo e spazio, esser sempre ed esser «uno con il mondo». Siamo evidentemente di fronte alla medesima richiesta dell’«eleatismo della pratica», che connotò la filosofia della persuasione di Michelstaedter, ma dalla contesa tra le pretese della ragione e le intenzioni della vita, non esce un vincitore. Ad emergere è solo la dimensione antinomica di tali polarità in lotta e da essa sgorga il sentimento tragico della vita. In esso, il dubbio alleato della disperazione, concede, all’uomo «in cerca», la forza per accettare la sfida, per accettare con passione di verità, la battaglia destinata a non concludersi.  La religione cui de Unamuno chiama i suoi simili, nel secondo saggio che compone questa raccolta, viene così caratterizzata: «La mia religione è lottare instancabilmente contro il mistero […] intendo combattere la mia battaglia senza curarmi della vittoria […] non elogiamo noi forse coloro che si lasciarono uccidere piuttosto che arrendersi? Ebbene, questa è la mia religione»[27]. Un pensare eroico (che etimologicamente rinvia ad Eros), quello del basco, mirato a unire ciò che appare diviso, io e dio, soggetto e oggetto, essere e non essere, in una partita nella quale non è da preventivare alcuna elargizione della grazie divina, perché ciò sarebbe preclusivo nei confronti della libertà, principio infondato. Il lettore rileverà, da molti passi del volume, come lo sguardo di de Unamuno tenda a soffermarsi sul cammino, in quanto il suo assoluto, fichtianamente è un dover-essere, un da-farsi, una cattiva infinità, avrebbe chiosato Hegel. Insomma, per il nostro, dio è un mito: è un prodotto della nostra volontà di eternità, che ci salva dallo scacco del nulla e, al medesimo tempo, da quello indotto dal confondere la nostra determinazione, il nostro io particolare, con la «notte in cui tutte le vacche sono nere», della divinità impersonale.  Il dio di cui dice il filosofo è dio dell’amore, non dei filosofi e della ragione. De Unamuno sta al fianco di Pascal: invochiamo, nelle notti di terrore, dio, perché, noi e lui, viviamo nella «misericordia». In tal senso, dio è esperito da de Unamuno quale processo cosmico di progressivo svincolamento dalla materia, dalla pesantezza cosale della vita, indefesso slancio vitale verso l’acquisizione della coscienza persuasa: «La coscienza umana è perciò coscienza divina, e la coscienza divina si attua nella coscienza umana»[28]. Il dio di cui dice, coincide con la figura trinitaria del Figlio, che eternamente si fa carne e muore per risorgere. Il cristianesimo del filosofo è, in questo senso, un cristianesimo tragico, negativo, che nulla ha a che fare con il dogmatismo di tanta teologia. Per questo, le posizioni etiche di de Unamuno sono centrate su un recupero della carità, che lo indurrà, come dimostra il saggio, Patria e militarismo contenuto in questo volume, a rifiutare i luoghi comuni dell’etica sociale da caserma o il falso patriottismo della borghesia.
  • In realtà, il saggio di maggior rilievo della silloge, vera e propria chiave di volta della teoresi di de Unamuno è, per chi scrive, quello dedicato a due grandi nomi dell’Europa scandinava, Ibsen e Kierkegaard. La sua lettura consente di comprendere, fino in fondo, le posizioni fin qui sintetizzate del nostro autore, ma altresì, di rilevare in esse, oltre agli aspetti positivi, delle debolezze teoriche, cui ovviare per attualizzare il suo magistero. Il saggio è complementare e segue lo scritto, Solitudine. In esso leggiamo: «Nella solitudine e solo nella solitudine puoi conoscerti quale prossimo, e finché tu non ti conosca quale prossimo non arriverai mai a vedere nel tuo prossimo un altro te stesso»[29]. Agostinianamente e in termini antimoderni, per il filosofo spagnolo l’unica questione che conti, anche nell’età del trionfo della borghesia, della società di massa e del consumo indiscriminato, è quella «umana». Per porsi sulle sue tracce è necessario vivere la dimensione della solitudine, in cui si insatura il dialogo con il Sé profondo, visto che la nostra coscienza, lo abbiamo ricordato, è coscienza divina. Solo lungo questo iter, troveranno soluzione le questioni che agitano l’uomo-massa del presente, a cominciare dalla questione sociale.  Testimoni d’eccezione di solitudine e di singolarità, nella società borghese, furono, in vita e nelle opere, il drammaturgo Ibsen e il filosofo Kierkegaard. De Unamuno li legge come propri predecessori e si pone teoreticamente, proprio come accadde a Michelstaedter rispetto al drammaturgo, in loro sequela. Il pensatore danese: «lottò instancabilmente contro il mistero e discese al riposo estremo solo dopo aver impresso a fuoco la verità su la fronte arida della Chiesa ufficiale del suo paese. L’opera drammatica di Ibsen è nelle sue più profonde radici più religiosa che etica o estetica»[30]. Brand, protagonista di un dramma ibseniano, non fa che posporre sulla scena la passione di verità che animò Kierkegaard, quella per: «una verità “sentita” e non concepita logicamente […] una verità che è vita»[31], testimoniata dagli eroi. Ed eroi sono i personaggi che animano le pagine ibseniane, altri rispetto agli omuncoli e ai pusillanimi dei «drammi» borghesi. Kierkegaard ebbe a scrivere: «Altri si lagni che i tempi sono malvagi, io mi lamento che sono meschini per mancanza di vere e grandi passioni»[32]. Innanzitutto, per l’oblio indotto dai meccanismi «scientifici» che reggono la società borghese e attribuiscono agli uomini «ruoli» sociali, della passione di verità. Rileva de Unamuno, nello scritto che chiude questa raccolta: «L’uomo di passione è l’unico vero ribelle»[33].  I solitari, i forti, le eccezioni, sono vigorosamente banditi dall’etica dell’utile imperante nel mondo borghese. Ibsen e Kierkegaard, così come de Unamuno nel proprio tempo, furono fieri avversari dell’uomo massa e latori della passione di verità. De Unamuno è debitore nei confronti del pensatore danese anche per altre ragioni. Innanzitutto perché il suo Io, era una traduzione del singolo kierkegaardiano, il quale vive dell’impossibilità di conciliare finito ed infinito in termini di mera logica. E’ solo la scelta paradossale della fede, il salto che Abramo compie rinunciando ai precetti della vita etica, per obbedire all’intimazione divina che gli imponeva di sopprimere il figlio Isacco, che squarcia al fedele la dimensione del kairos. Un attimo immenso, questo di Kierkegaard, decontestualizzato dal mondo spirituale che lo espresse, quello classico, in cui il tempo cronologico permette, a esclusivo beneficio del fedele, l’irruzione del divino, rendendo il soggetto della autentica scelta di fede, contemporaneo di Cristo.  Anche per Kierkegaard, come per gli altri pensatori della «dissoluzione» dell’hegelismo, risultano centrali i temi del tempo e della storia[34]. Da qui il suo distinguere l’autentico cristianesimo, dalle degenerazioni realizzate dalle Chiese positive. Tale prospettiva è presente anche in de Unamuno e inficia, in parte, a nostro giudizio, le sue rilevanti acquisizioni teoriche, ponendole all’interno di una prospettiva di filosofia della storia. Risulta, pertanto, dirimente un sintetico confronto di queste posizioni, con quanto sostenuto a proposito di Kierkegaard, dal più radicale critico della filosofia della storia «futuro-centrica», vale a dire Karl Löwith. A tale confronto procederemo non prima di aver ricordato che, sotto il profilo letterario, la silloge che segue è impreziosita dal dialogo, di impianto classico, Melampo e Sgraffigna. I personaggi sono un cane e un gatto che contendono tra loro dialetticamente, intorno al senso delle loro vite, l’una randagia e l’altra casalinga. Il lettore gusterà non poco tale gemma stilistica, e gli parrà di vedere sulla pagina il sorriso bonario e misericordioso di de Unamuno, sorvolare dall’alto sulle inezie dei poveri animali…
    Tempo, storia e physis
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  • Karl Löwith, di fronte alla crisi del proprio tempo, fece del filosofare strumento diagnostico e terapeutico del nosos, della malattia contemporanea. I primi sintomi di tale nosos, a suo dire, e a differenza di ciò che pensavano Kierkegaard e de Unamuno, si mostrarono con l’irruzione della visione ebraico-cristiana del mondo che, proiettando in Dio, nel santo, la qualità salvifica, finirono per desacralizzare il cosmo, spazio ordinato da leggi e misure, esprimenti l’energeia della physis. La malattia si accentuò, in età moderna, con la dissoluzione dell’hegelismo. Il panlogismo tentò, per l’ultima volta, di conciliare filosofia e teologia in una visione immanentizzata. Questi temi muovono due opere essenziali di Löwith, Da Hegel a Nietzsche e Senso e significato della storia[35].  Per il cristianesimo, Dio crea il mondo «dal nulla», per cui il mondo e la natura vengono depotenziati, privati delle qualità dell’auto-sussistenza e auto-generazione, che loro erano stati attributi dalla cultura classica. Il mondo da allora non fu più inteso come evidente certezza, ma certa divenne solo la tensione dell’anima, luogo dell’incontro con Dio. La natura si fece estranea all’uomo, e l’uomo cominciò a non sentirsi più a proprio agio nel mondo. Nella civiltà classica il tempo era pensato «naturalisticamente», scandito in cicli, così come ciclicamente e secondo misure date, vive la natura. Il cristianesimo rese il tempo vettoriale e, per di più, ad esso conferì un senso: Eden, Caduta, Redenzione. La storia assume tratto soteriologico ed escatologico: essa, in tale prospettiva, sarà chiusa dalla seconda venuta del Cristo: «Del tutto estranea al mondo antico è questa prospettiva “futuro-centrica” della temporalità»[36], poiché il futuro non poteva che essere inteso come riproposizione «simile» del passato. Tucidide riteneva che il futuro non fosse portatore del novum, in quanto la natura di tutte le cose è di nascere, crescere e perire.  Ora, mentre la prospettiva escatologica ebraico-cristiana denaturalizzò la realtà, proiettando l’eschaton oltre il mondo, nel Regno di Dio, la filosofia della storia ha preteso di poter realizzare il Regno di Dio su questa terra. Tale atteggiamento pratico-teorico ha determinato, agli occhi del pensatore tedesco, la secolarizzazione. La filosofia della storia, fondatrice della modernità, è centrata su presupposti teologici, ma è: «anticristiana nel risultato»[37], come dimostra la storia drammatica del secolo XX. Tutto questo per dire che l’esperienza speculativa di de Unamuno si ferma, in qualche modo, a metà strada, avendo abbracciato la visione kierkegaardiana del cristianesimo. Ma quale ruolo svolse il pensatore danese, nel processo di immanentizzazione della teologia della storia? A dire di Löwith, fu proprio lui a portare a compimento la dissoluzione del mondo cristiano. Mentre Marx smascherava la «falsa coscienza», la coscienza «ideologica», sulla quale era costruita la civilizzazione capitalista, l’appello al cristianesimo «autentico» del danese svolse il ruolo di demistificazione del cristianesimo positivo. Nei due, la theoria è trasformata in filosofia realizzata, marxismo e/o esistenzialismo e, sul presupposto soggettivista, le due vie speculative conseguirono una radicale de-naturalizzazione del mondo. Per il filosofo del cristianesimo autentico, il singolo esperisce la verità di Dio nella dimensione coscienziale. Il danese non fa che radicalizzare la posizione agostiniana ed, inevitabilmente: «non ha nulla da dire “circa il mondo della natura”»[38]. Per Marx, invece, la natura è la scena della storia: essa appartiene all’homo faber che la trasforma, è mera oggettualità. Al contrario, per Löwith, è l’uomo ad appartenere alla natura, ad esserle subordinato, essendo il transeunte ed essa il permanente.
  • La physis, ben lo sapevano i filosofi antichi, ma ne ebbero contezza autori moderni quali Spinoza e Goethe, per non dire di Evola nel Novecento, è l’unica realtà a trascendere l’uomo. Noi muoviamo, di fronte alle cose, dall’inquietudo e, raramente, nelle soddisfazioni che ci sono concesse, riusciamo a tacitarla. Siamo sempre esposti su due diverse possibilità: perfezionarci o annientarci (Löwith, per questo, discute anche il tema del suicidio stoico). Il perfezionamento è conseguenza della theoria, atta a sostenerci lungo la strada che conduce alla virtus animi: «La felicità è perfezione, e la sapienza è conoscenza di tale perfezione»[39]. Sostanzialmente, il percorso di Löwith si conclude in un neo-stoicismo. Egli sostiene, infatti, che: «L’ultima conferma di una vita riuscita sta nel saper invecchiare e morire»[40], perché ciò implica, da un lato, l’accettazione del limite naturale che ci costituisce, assieme alla certezza, che ci è dato, comunque, guardare, non ad una trascendenza sopramondana, ma alla dimensione celeste della physis che ci sovrasta. Si tratta di un’etica areteica[41], centrata sul «trascendere naturale», di cui disse Seneca. Esso ci induce, daimonicamente, a sottrarci alla dimensione catagogica del quotidiano, in un processo, al contrario, anagogico, che ci pone, «meravigliati», di fronte alla totalità del cosmo[42]. Di là da speranza e disperazione, nella condizione proprio del sophos, la serenità[43].
  • Conclusioni: l’eterna fioritura della vita
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  • Con quanto sopra argomentato, vogliamo sostenere che solo la visione classica del mondo è davvero risolutiva della dicotomia mortalità-immortalità, che animò le intense pagine di de Unamuno. La sua adesione al cristianesimo «coscienziale» inverò il suo possibile approdo all’abbraccio con la physis, ma, in ogni caso, lo preservò dallo scacco «perfettista» moderno. In lui, in effetti, la lotta dell’uomo per la conoscenza è inconclusa. Si tratta di una particolare riproposizione dell’utopia classica: un’indicazione spirituale ed esistenziale che induce l’uomo dabbene, il «perfetto» platonico o il «prudente» aristotelico, ad agire nel mondo, anche in termini politici, a prescindere dai risultati effettivamente conseguibili, guardando a quell’«ideale» che il nous indica come meta, comunque, possibile. Se il riferimento primo, per chi scrive, rimane quello stoico: né sperare, né disperare, in quanto l’orizzonte di riferimento è per noi la physis-cosmos, la speranza di de Unamuno resta diversa da quella dei filosofi della storia, in quanto possiede il tratto della inconclusività. Egli ha scritto poeticamente in, A un giovane letterato, uno dei saggi di questa raccolta: «Le ho sempre augurato speranze che non si realizzino né si dipartono da lei, speranze sempre verdi e senza frutto sempre, speranze in eterna fioritura»[44]. L’uomo cui guarda il filosofo basco è, comunque, un singolo in eterna fioritura, che mira nel pensiero-azione, a vivere, ad esperire, l’eterna primavera del mondo.  Proprio in tal senso, la vita-pensiero di de Unamuno è via verso il pensiero-che-guarda e non semplicemente che dice il mondo, è via verso un sapere atto a restituire, proprio come la pittura per Magritte, il mondo al mondo, la natura alla natura, e a concedere all’uomo che se ne faccia carico la serenità, risultato dell’essere stoicamente conciliati con i ritmi della realtà, in funzione dell’accettazione della nostra mortale immortalità. Con de Unamuno, oltre de Unamuno, quindi: l’obiettivo da perseguire è restituire alla filosofia la valenza museale e poietica atta a farci realmente respirare, e non semplicemente pensare, l’aria della salus, l’eterna primavera della vita. Sotto il segno di Dioniso.

  • Note:
  • [1] Cfr. G. Colli, La sapienza greca, I, Adelphi, Milano 1977; Id., La sapienza greca, II, Adelphi, Milano 1978; Id., La sapienza greca, III, Adelphi, Milano 1993.
  • [2] Cfr. A. J. Heschel, Passione di verità, prefazione e cura di L. Siniscalco, Iduna, Sesto S. Giovanni (Mi) 2019.
  • [3] Cfr. L. Siniscalco, Itinerarium mentis in veritatem. L’erranza di Abraham Heschel, in A. J. Heschel, Passione di verità, cit., p. I.
  • [4] Cfr. C. Michelstaedter, La persuasione e la rettorica, a cura di S. Campailla, Adelphi, Milano 1982. Per una contestualizzazione dell’esperienza esistenziale di Michelstaedter cfr. l’ottima biografia di S. Campailla, Un’eterna giovinezza. Vita e mito di Carlo Michelstaedter, Marsilio, Venezia 2019, che, tra le altre cose, sfata l’erronea interpretazione papiniana del «suicidio filosofico» del giovane goriziano.
  • [5] Cfr. R. Magritte, Scritti, vol. I, a cura di A. Balavier, tr. it. di L. Sosio, Abscondita, Milano 2003; Id., Scritti,vol. II, a cura di A. Blavier, tr. it. di L. Sosio, Abscondita, Milano 2005.
  • [6] Cfr. R. Gasparotti, L’amentale. Arte, danza e ultrafilosfia, Cronopio, Napoli 2019. Dello stesso autore in tema cfr. Il quadro invisibile, Cronopio, Napoli 2015; Id., Saggezza del danzare, in AA.VV., Sulla danza, a cura di M. Zanardi, Cronopio, Napoli 2017; Id., L’opera oltre l’oggetto. Sull’esperienza simbolica dell’evento artistico, Moretti&Vitali, Bergamo 2015. Nello stesso ambito teorico, cfr. F. Ferrari, Visioni. Scritti sull’arte, Lanfranchi, Milano 2016.
  • [7] Cfr. R. Gasparotti, L’amentale, cit., p. 19.
  • [8] Cfr. C. Campo, Gli imperdonabili, Adelphi, Milano 1987, p. 76.
  • [9] Cfr. la prima edizione italiana di M. de Unamuno, La tragedia del vivere umano, prefazione di A. Tilgher, tr. it. di P. Pillepich, Dall’Oglio editore, Milano 1987. Le nostre citazioni a seguire fanno riferimento a questa edizione.
  • [10] Cfr. M. de Unamuno, Del sentimento tragico della vita, tr. it. di M. Donati, SE, Milano 2017.
  • [11] Cfr. M. de Unamuno, Commento alla vita di Don Chisciotte, tr. it. di C. Candida, Corbaccio editore, Milano 1935.
  • [12] Cfr. C. Candia, Avvertenza del traduttore, in M. de Unamuno, Commento alla vita di Don Chisciotte, cit., p. 6.
  • [13] Ibidem.
  • [14] Ivi, p. 7.
  • [15] Ibidem. Le medesime intenzioni speculative, all’inizio degli anni Venti, dopo aver attraversato l’esperienza dadaista, portarono Julius Evola alla definizione della prospettiva dell’idealismo magico. L’individuo assoluto evoliano risolveva in prassi magico-creativa il primato dell’io postulato in termini meramente astratti nel sistema attualista da Gentile. Ci per mettiamo di rinviare in tema al nostro, G. Sessa, Julius Evola e l’utopia della Tradizione, OAKS editrice, Sesto S. Giovanni (MI) 2019.
  • [16] Cfr. M. de Unamuno, La tragedia del vivere umano, cit., p. 90.
  • [17] Cfr. C. Candia, Avvertenza del traduttore, in M. de Unamuno, Commento alla vita di Don Chisciotte, cit., p. 7.
  • [18] Cfr. L’Immagine impossibile, 801 schizzi, disegni e dipinti di C. Michelstaedter, a cura di A. Gallarotti, Laguna, Gorizia 1992.
  • [19] Cfr. C. Candia, Avvertenza del traduttore, in M. de Unamuno, Commento alla vita di Don Chisciotte, cit., p. 9.
  • [20] Cfr. M. Donà, Inganni e sortilegi, nel vortice del barocco, in M. Donà, Di un’ingannevole bellezza. Le “cose” dell’arte, Bompiani, Milano 2017, pp. 29-41. Cfr., inoltre, dello stesso autore, per un quadro generale e per la comprensione della funzione che egli attribuisce alla creazione estetica, Teomorfica. Sistema di estetica, Bompiani, Milano 2015.
  • [21] Cfr. M. Donà, Inganni e sortilegi, nel vortice del barocco, in M. Donà, Di un’ingannevole bellezza. Le “cose” dell’arte, cit., p. 35.
  • [22] Ivi, p. 38.
  • [23] Cfr. P. Pillepich, Nota del traduttore, in M. de Unamuno, La tragedia del vivere umano, cit., p. 17.
  • [24] Cfr. A. Tilgher, Voci del tempo. Profili di letterati e filosofi contemporanei, Libreria di Scienze e Lettere, Roma 1921. Per una contestualizzazione dello «scetticismo» tilgheriano cfr. G. F. Lami, Adriano Tilgher. Un pensatore liberale, Edizioni Seam, Formello (RM) 2000.
  • [25] Cfr. A. Tilgher, La visione della vita di M. de Unamuno, in M. de Unamuno, La tragedia del vivere umano, cit., p. 6.
  • [26] Ivi, p. 7.
  • [27] Cfr. M. de Unamuno, La tragedia del vivere umano, cit., p. 28.
  • [28] Cfr. A. Tilgher, La visione della vita di M. de Unamuno, cit., p. 13.
  • [29] Cfr. M de Unamuno, La tragedia del vivere umano, cit., p. 101.
  • [30] Ivi, p. 123.
  • [31] Ivi, p. 124.
  • [32] Ivi, p. 125.
  • [33] Ivi, p. 170.
  • [34] Cfr. K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, Einaudi, Torino 1977.
  • [35] Cfr. K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche, cit.; Id., Significato e fine della storia. I presupposti teologici della filosofia della storia, tr. it. di F. Tedeschi Negri, Prefazione di P. Rossi, Net, Milano 2004.
  • [36] Cfr. M. Bruni, “Senso” e “non senso” della storia. K. Löwith e la saggezza del naturalismo, in K. Löwith, Sul senso della storia, a cura di M. Bruni, con un saggio di A. Tagliapietra, Mimesis, Milano-Udine 2017, p. 135.
  • [37] Cfr. K. Löwith, Significato e fine della storia, cit., p. 225.
  • [38] Ivi, p. 69.
  • [39] Cfr. K. Löwith, Natura e umanità dell’uomo, in K. Löwith,Critica dell’esistenza storica, a cura di A. L. Kunkler, Giavotto, Morano (NA) 1967, p. 277.
  • [40] Ivi, p. 278.
  • [41] Il filosofo francese A. de Benoist, di recente, si è fatto latore di un’etica di ispirazione classica ed areteica. Cfr., in tema, A. de Benoist, Minima Moralia, Bietti, Milano 2017.
  • [42] Così in tema si esprime Löwith: «La virtù filosofica, cui noi aspiriamo, dice Seneca, è certo magnifica, non già perché sia sufficiente a sottrarsi al male, ma in quanto liberando l’animo, lo dispone alla conoscenza delle cose celesti e lo rende degno di partecipare al divino».Cfr. K. Löwith, Natura e umanità dell’uomo, cit., p. 282.
  • [43] Cfr., in tema, M. Donà, Serenità. Una passione che libera, Bompiani, Milano 2006.
  • [44] Cfr. M. de Unamuno, La tragedia del vivere umano, cit., p. 156.