• I Caro amico ti scrivo

  • I Cavalieri
  • di
  • Aristofane 
  • di 
  • Giovanni Damiano

  • Questa non è una recensione alla commedia I Cavalieri di Aristofane, appena pubblicata dalle Edizioni di Ar, con traduzione, prefazione e annotazioni di Claudio Mutti, per l’ovvia ragione che si tratta di un classico con alle spalle già una bibliografia sterminata. Quindi non parlerò dell’opera ma del perché le Ar l’abbiano proposta adesso. Chiaramente la scelta ha a che fare con la polemica aristofanesca nei confronti dell’Atene democratica dominata da demagoghi alla Cleone. Da qui, chi fosse interessato alla cosa potrebbe leggere I Cavalieri come il completamento di un trittico di opere, tutte riferite alla turbolenta vita politica ateniese e aventi la loro ‘stella polare’ nella critica alla democrazia. Precisamente, non tanto alla democrazia “in sé”, bensì ad un particolare tipo di democrazia che oggi sarebbe, molto probabilmente, bollata come populista, ma che, a mio parere, è un’altra cosa, e non certo banalmente perché parlare di populismo in riferimento all’Atene del V secolo sarebbe esercizio del tutto anacronistico.

 

  • Per rispondere alla questione, s’intende, in maniera assai sommaria, bisognerà andare quindi agli altri due testi del trittico, vale a dire Contro la democrazia estrema. La virtù e il buon governo, dell’Anonimo di Giamblico, edito sempre dalle Ar nel 2018, e Il regime politico degli Ateniesi, attribuito allo Pseudosenofonte e pubblicato dalle Edizioni all’insegna del Veltro nello stesso anno, con la curatela di Mutti, autore pure di una pregevole introduzione. Parto proprio dall’opera pseudosenofontea, incentrata sulla critica ad un tipo di democrazia che ben potrebbe essere definita talassocratica, ovvero imperniata sull’espansionismo marittimo. Una democrazia, insomma, inserita in una cornice storica precisa (l’Atene uscita vittoriosa dalle guerre persiane e potenza egemone della Lega delio-attica), con altrettante precise corrispondenze socio-politiche (la mobilitazione dei ceti inferiori del demos ateniese), che solo astrattamente può essere ricondotta a moduli ‘populistici’ (a meno che non si voglia estendere il concetto di populismo a tal punto da adeguarlo ai più svariati contesti, con l’ovvia conseguenza della sua progressiva perdita di concretezza), di solito non derivanti da ragioni principalmente di politica estera come invece nel caso della democrazia talassocratica, con la sua annessa carica di violenza predatoria ai danni delle póleis ‘alleate’.
  • Pure il testo dell’Anonimo di Giamblico ha come suo bersaglio immediato la democrazia dei demagoghi, andando però contemporaneamente a colpire anche “le trasformazioni istituzionali avviate dalla riforma di Efialte e di Pericle del 462 a.e.v., che della democrazia estrema sono le premesse storico-concrete” (dalla illuminante introduzione di Francesco Ingravalle), nel mentre guarda con favore all’antecedente modello di democrazia oplitica (sempre Ingravalle). Anche qui il populismo sembra entrarci davvero poco, essendo il modello criticato sempre riconducibile alla spinta talassocratica ateniese, mentre la politeía vagheggiata risponde a cambiamenti del tutto interni alla storia greca e poco comparabili con le esperienze populiste, di certo mai nate da esigenze di carattere militare. Resta in ogni caso inoppugnabile, almeno a mio parere, la constatazione che chi voglia capire il funzionamento e soprattutto le degenerazioni della democrazia proprio là dove è stata ‘inventata’, non possa evitare la lettura di questo ‘trittico’ di opere. Così come non credo possano sfuggire al lettore attento alcune ‘similitudini’ con la fase attuale della democrazia ‘italica’, cosa, fra l’altro, già suggerita dall’immagine di copertina dei Cavalieri di Aristofane…