• Rossi

  • La vita finché resta
  • Una silloge poetica di
  • Giovanni Rossi
  •  rec. di Giovanni Sessa
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  • Le parole poetiche sono un tentativo di trascrizione della Parola, del “Dire originario”, per dirla con Heidegger.  La poesia strappa il linguaggio alla dimensione meramente strumentale, al mericimonio con il mondo, al rapporto con la mera “cosalità” della vita, alla sua pesantezza connotativa e  denotativa e lo espone all’evocatività.   D’altro lato, poeta è colui che creando immagini fonetiche ha contezza del tratto escludente e determinante del mero concetto, dell’idea logocentricamente intesa e per questo, appende il dire alla metamorficità della vita, all’ ex-sistere, al nostro essere fuori dall’origine.  Un esser-fuori connotato da nostalgia, parola che nel proprio etimo include tanto la volontà epistrofica del ritorno, quanto il riferimento al dolore.  Aspetti presenti nella raccolta di componimenti di Giovanni Rossi, La vita finché resta nelle librerie per i tipi di Ensemble Edizioni (per ordini: direzione@edizioniensemble.it, pp. 57, euro 13,00).
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  • Rossi è poco più che ventenne, ma ha già dato alle stampe un’altra silloge, Fantasie naturali (Escamotage, 2019). Condividiamo quanto rilevato in prefazione da Antonio Veneziani: «Voce lirica: cristallina; un po’ di Scuola Romana, di seconda generazione, e un po’ di classicismo, ben frequentato e tanta “vita quotidiana”» (p. 5). Fin dall’incipit de, La vita finché resta, la descrittività del “qui e ora” è punto d’avvio di Rossi, non d’approdo. Sua funzione è di propiziare il contatto con l’altro che si dà solo nella “nuda vita”, nei corpi e nella molteplicità del mondo.  Il “prima” e il “dopo” esperiti da ogni ente, non solo da noi umani, ma da tutto ciò che è animato, è connotato dalla: «stessa vena che sanguina», di contro a tale tragico esperire, si staglia: «uno scroscio di parole» che risuonano «sull’argine del fiume in piena» (p. 13).   L’autore rende il dire poetico lenitivo del “mal di vivere” indotto dall’apparente fuga in avanti di tutto ciò che è.   E se: «È vittima del vento/ogni singola foglia d’estate» in quanto «Aggrappata a un ramo non fa altro/ che preoccuparsi di cadere» (p. 14), di contro: «L’Eterno ci lascia impronte invisibili/ e l’acqua del mare le lava poi via» (p. 15).  Impronte lievi, non rinvenibili dallo sguardo appesantito, ma che in quanto destinate al nulla-di ente, all’origine del tutto, solo la parola poetica riesce a rammemorare.
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  • Lo aveva ben compreso Leopardi, nel suo pensiero-poetante, che le cose non sono mai quello che dicono di essere, che tutto è animato da un Senso caotico e perverso: «della morte che si sotterra/per fiorire germogli di vita» (p. 17).   Il ricordare, in Rossi, ha tratto anamnestico: solo nella rimembranza cadono le distinzioni logiche di vita-morte, essere-nulla, essenza-esistenza.   La vita che si mostra con il volto positivo degli enti e della natura servendosi di: «ogni misurato dolore ha rinnovato la sua presenza» (p. 19). Ecco: «Continua a essere, la vita/ questo peccato di fuga;/ ma il tempo è così poco. Non avanza neanche/ per innamorarsi di chi è nomade,/ amica cara» (p. 23).   Il tempo fugge solo per chi non abbia contezza che tra tempo ed eternità non vi è alcuna distinzione, l’eterno si dà solo nel tempo, l’essenza solo negli esistenti. Il giovane autore in questi versi testimonia una quête, una cerca che, come tutti i cammini realmente partecipati, dà luogo a momenti di stanca, a incertezze e cedimenti.   Repentino, l’autore si riprende, rialzandosi rinvigorito, nella certezza che, il lucore lunare che sembra perdersi nell’oscurità notturna, è comunque adorato dai nostri occhi (eppure gli occhi l’adorano, p. 30), che ne trattengono l’immagine vaga.
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  • Le ali della Malinconia consentono il volo paradossale che si innalza dai ghirigori della memoria: «Non invento più i paesaggi/ che ripesco selvaggi/ dalla memoria mia» (p. 32). La poesia concede di rintracciare: «imperterrita/ al calare dei giorni/ sfiorito negli inverni/ un accenno di vita» (p. 33).  Il dolore altro non è, se non: «isola sperduta da cui guardare lontano» (p. 37). Pertanto: «Verrà la gioia/ tornerà a rinfocolare/ la nostra brace fredda» (p. 36).  La poesia de, La vita finché resta, centrata su un’attenta ricerca lessicale, è confronto serrato con la parola, affinché essa si ri-sintonizzi sui ritmi cosmici, perché trascriva nel proprio incedere sulla carta, nel suo rivelarsi sinestetico a vista e udito, la possibilità dell’impossibile.   La poesia riporta a “casa”, ci accompagna al cospetto dell’origine, è via alla Persuasione: «Non ci rimane che del tempo. Pare/ assottigliarsi lungo la strada l’ultimo ciglio e poi il nulla; scomparirai/ per insegnarmi ancora la via di casa?» (p. 45).   Un esperimento poetico, quello di Rossi, euforizzante.  Il dubbio aporetico evocato nell’ultimo verso, rinvia all’aporia della vita, tematizzato in modalità magistrale dal filosofo Massimo Donà: eu-pherō, etimologicamente allude al “ben sopportare”, tratto eminente della visione del mondo classica, che gli stoici riproposero agli uomini del loro tempo.  Solo al poietes è dato vivere il tempo con pazienza, nell’accettazione del peras, del limite, che, assieme all’illimitato, all’abisso, ci costituisce.  La poesia coglie la paradossalità della condizione di tutto ciò che vive. Trascrive il nostro essere appesi alla dynamis, al principio-infondato della libertà-potenza.  Pertanto, ha ragione Veneziani nel ricordare l’affermazione di Gianfranco Contini: «La poesia non tollera ipotesi, ma solo l’evidenza dei miracoli» (p. 7).  Il miracolo è sostanza delle nostre vite.