• Adelphi

  • Adelphi
  • L’origine di una casa editrice 
  • rec.
  • di 
  • Giovanni Sessa
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  • È di fatto impossibile comprendere l’Italia contemporanea, qualora non si tenga in debito conto l’influenza culturale esercitata da Adelphi editore.  Un recente volume di Anna Ferrando, docente dell’Università di Pavia, presenta la prima ricostruzione storica plausibile di tale casa editrice.  Il libro, Adelphi. Le origini di una casa editrice (1938-1994) é nelle librerie per Carocci (pp. 447, euro 39,00).  Il tratto affabulatorio della prosa dell’autrice rende coinvolgente la lettura, sottraendola alla mera ricostruzione accademico-documentaria: il testo, in fondo, è un’organica e oggettiva ricostruzione d’ambiente.
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  • Un milieu, quello adelphiano, che si costituì a partire dagli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, in pieno regime fascista. Goffredo Parise era convinto che per gli adelphiani, in quel frangente: «La cultura fosse catacomba, cunicolo privato, un regno di talpe lente e meravigliose che si incontrano nella cecità […] esse intanto scavano. Per quanti anni ancora, prima di uscire alla luce?» (p. 11).  Tre nomi erano al centro dell’ambiente da cui sarebbe nata, nel giugno del 1962, l’Adelphi: Luciano Foà, Bobi Bazlen e l’imprenditore Alberto Zevi, sostengo finanziario per venti anni del nuovo editore.
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  • Foà incontrò Zevi nella fucina della NEI di Adriano Olivetti, ma il loro legame si intensificò durante il comune esilio in Svizzera: entrambi erano ebrei. Cominciarono a pensare all’impellente necessità di pubblicare libri che potessero divenire: «lo strumento con cui pensare il futuro del […] paese» (p. 12). Gli sforzi di questi Adelphoi, fratelli in spirito, furono a lungo ostacolati, perfino nell’Italia repubblicana.  Del resto, proprio durante il Ventennio, i tre erano venuti in contatto con il meglio dell’intellettualità internazionale in quanto: «l’editoria si rivelava assai meno provinciale di quanto si sarebbe indotti a credere» (p. 11). Nell’Italia repubblicana, l’Adelphi volle presentarsi come l’anti-Einaudi, la casa editrice torinese che esercitava, con i sui tipi, un’azione pedagogica politico-culturale orientata a sinistra.  Il senso del catalogo voluto da Foà, Bazlen, Zevi e da molti altri collaboratori, tra i quali Calasso e Colli, é ben sintetizzato, rileva l’autrice, da questa frase contenuta nella prefazione a, Vite immaginarie di Marcel Schwob: «L’arte si pone dalla parte opposta delle idee generali, non descrive che l’individuale, non desidera che l’unico» (p. 14).   Da qui l’idea di pubblicare libri “unici”, in modalità editoriale leggera, ricorrendo, se non in casi rari, a snelle introduzioni, al fine di far giungere in modo diretto, non mediato, la voce dell’autore al lettore.
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  • L’Adelphi, fin dagli esordi, rifiutò l’idea di “collana”: «intesa in senso ordinativo, prescrittivo e didattico» (p.15), caratterizzante il catalogo dell’Einaudi, in quanto, a monte delle diverse scelte  adelphiane, va colto il rifiuto di Bazlen: «per la logica falsa, fondata sull’illusione dell’oggettività e della continuità delle nostre rappresentazioni» (p. 15).   Insomma, per dirla con Foà: «Fondai l’Adelphi, con i consigli di Bobi Bazlen, per rompere la monotonia dell’ideologismo editoriale di sinistra» (p. 15), e per riportare all’attenzione degli studiosi figure di intellettuali che avevano incarnato il modello dell’uomo colto, quale puro esteta e cultore del fantastico.  La ricerca di tali personaggi ha reso l’editrice milanese vero e proprio “ricovero” per il pensiero che la Ferrando definisce “irrazionalista” e che chi scrive, al contrario, ritiene dovrebbe essere più propriamente indicato come sovra-razionalista.  Suo tratto saliente è l’antistoricismo, pensiero anticausale: «negazione della storia, in quanto svolgimento progressivo e necessario» (p. 16).  Esso trovò, nella pubblicazione dell’opera omnia di Nietzsche, il punto apicale. Merito di tale operazione va ascritto, oltre che a Foà, a Giorgio Colli, ai suoi allievi, tra i quali Mazzino Montinari. La pubblicazione di Nietzsche condusse Adelphi a stringere rapporti con grandi editori esteri, quali Gallimard: fu onerosa sotto il profilo economico, coraggiosa in termini ideali e valse all’editore l’attenzione della critica e il definitivo successo di mercato.  Ferrando mette in rilievo, inoltre, la centralità, per la definizione delle scelte targate Adelphi, dello psicanalista Ernst Bernhard, di formazione junghiana. Altri ambiti di interesse elettivo per questo editore furono la cultura mitteleuropea (contesagli dall’ Einaudi), la metafisica e il pensiero orientale, ben rappresentati nella collana “Il ramo d’oro”.  L’autrice si sofferma anche sulla crucialità della figura di Roberto Calasso, divenuto nel 1971 direttore editoriale.   Quest’ultimo, in uno dei libretti autobiografici usciti postumi il giorno della sua morte, ha confessato di aver subito, fin da giovane, il fascino dell’opera di Guénon, anzi di esserne stato addirittura “ossessionato”.  La cosa ha rilevanza: nel 1994, infatti, Foà maturò la scelta di abbandonare la sua creatura editoriale, a seguito della scelta adelphiana di dare alle stampe il volume di Léon Bloy, Dagli ebrei la salvezza, contenente echi antisemiti.   Il libro fu distribuito nel frangente storico in cui si formava in Italia il primo governo di centro-destra del dopoguerra.  Lo studioso iniziò a riflettere sull’effettiva possibilità di un’editoria “impolitica”, “pura”. L’interesse per l’“irrazionalismo” e per la metafisica, per lui avrebbero dovuto significare l’apertura: «a diversi orizzonti di pensiero» (p. 25).   Al contrario, Calasso: «avrebbe invece cavalcato quei filoni in una direzione più vicina ai solchi tracciati da un Edilio Rusconi» (p. 25), che stava dando vita, con la sua casa editrice, sostenuto da Alfredo Cattabiani, a una vera e propria renaissance della cultura tradizionalista.
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  • Se l’Adelphi venne attaccata da sinistra per la sua distanza da qualsivoglia istanza “rivoluzionaria”, da destra venne criticata in quanto portatrice di istanze neo-gnostiche e anticattoliche. Tale polemica è ricordata e discussa, con specifico riferimento al volume di Maurizio Blondet, Gli Adelphi della dissoluzione. Viene rilevata, altresì, l’importanza, in tale contesto, di Elémire Zolla e del suo, Che cos’è la Tradizione.  Tra i molti documenti citati emerge una lettera del 1965 di Bazlen relativa a Tolkien, i cui racconti avrebbero presto avuto nel nostro paese grande risonanza.   In essa è scritto: «E’ da molto tempo che non ho letto un racconto così di gusto» (p. 286), segno tangibile dell’ineguagliabile sensibilità letteraria del triestino. Una ricostruzione meticolosa della storia dell’Adelphi, quella offerta dalla Ferrando, nonostante l’Archivio della casa editrice non conservi una messe di documenti molto ampia, almeno per quanto attiene ai primi trent’anni della sua esistenza. La lacuna è stata colmata dalla consultazione dei carteggi dei protagonisti della vicenda e dai colloqui con i loro famigliari. Un libro organico che, attraverso la storia dell’Adelphi, disegna una mappatura della cultura italiana dal secondo Novecento per giungere fino ai nostri giorni.