• Haupt

  • Processo alla democrazia
  • Un saggio di Jean Haupt
  • rec. di Giovanni Sessa
  • Torna in libreria per Oaks editrice un volume pubblicato già due volte nella nostra lingua. Una prima volta nel 1950, a ridosso della vittoria elettorale democristiana del 1948, successo che determinò la definitiva adesione italiana al fronte atlantico, e una seconda volta nel 1971, dopo la contestazione studentesca in un frangente storico convulso, in cui furono ipotizzati possibili colpi di Stato, furono messe in atto stragi, mentre andava organizzandosi la lotta armata “per il comunismo”. Si tratta di, Processo alla democrazia di Jean Haupt (per ordini: info@oakseditrice.it, pp. 178, euro 18,00). Il volume è accompagnato dalla prefazione di Francesco Ingravalle.   Si tratta di pagine non solo attualissime, ma dirimenti rispetto al tratto “autoritario” assunto, negli ultimi decenni, dalle democrazie liberali.  Infatti, Haupt, nell’elaborare la sua critica al sistema liberal-democratico, in realtà non fa che descrivere il sistema liberticida della governance contemporanea.
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  • L’autore nacque nell’Algeria francese nel 1914. Laureatosi in lettere a Aix-en-Provence, divenne docente presso l’Istituto francese di Lisbona. Tornato in patria, aderì a Vichy. Dopo la guerra si trasferì definitivamente in Portogallo, dove fondò la rivista in lingua francese «Découvertes», sui cui «Cahiers» uscì la seconda edizione del libro che qui presentiamo (la prima, sempre in portoghese, comparve nel 1949): «Il volume costituisce, sostanzialmente, un’apologia dell’Estado Novo, creato in Portogallo da Salazar» (p. III) e dell’esperienza petainista. Generalmente i regimi di Salazar e del Maresciallo Pétain sono derubricati dalla vulgata storiografica al calderone del fascismo europeo. Ciò non corrisponde, in senso storico e filologico, a verità: mentre il fascismo tese alla mobilitazione (sia pure in chiave di modernizzazione conservatrice) delle masse, i due personaggi ricordati centrarono la loro proposta politica sulla “demobilitazione delle masse”. Erano convinti, lo ricorda Ingravalle: «che il nazionalismo», elemento essenziale nei fascismi, fosse «una costruzione ideologica fondamentalmente democratica» (p. IV). Guardarono a modelli conservatori, sia pure connotati in senso identitario, rifiutando la legittimazione “dal basso” del potere.
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  • Salazar, divenuto presidente del Consiglio nel 1932, in forza anche delle proprie competenze in ambito economico, impose al paese lusitano il sistema corporativo. Si ispirò, in particolare, all’enciclica di Pio XI, Quadrigesimo anno. Introdusse una Costituzione che amplificava i poteri della Presidenza, sospese la libertà di stampa e abolì i sindacati. Vicino a Franco, all’esplosione della guerra civile spagnola rimase neutrale. Anche il nuovo ordinamento dello “Stato Francese” di Pétain ebbe impianto corporativo e il Parlamento venne esautorato e non più convocato. In sostanza, a dire dell’autore, il sistema corporativo era atto a mettere in scacco l’individualismo liberista: fu una variante di un generale “New Deal”, realizzato allora con modalità e intenti diversi, in tutto il mondo occidentale e che darà luogo al Welfare state.  Nacquero, così, sistemi economici: «che hanno scoperto (scoprirono) la straordinaria potenza coesiva dell’economia sociale» (p. XI).
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  • I fascismi, ricorda lo studioso francese, risanarono i sistemi liberal-democratici dalla loro inevitabile decadenza. Com’era possibile, pertanto, spiegare il consenso che la democrazia riscosse nel secondo dopoguerra? Haupt risponde: «l’uomo ascolta con piacere chi cerca di convincerlo che egli vale più di quanto non valga in realtà e che gli promette più di quanto egli possa mai ottenere» (pp. XXIV-XXV). La democrazia, inoltre, si basa su astrazioni: presuppone la bontà dell’uomo e persegue il progresso materiale, senza tener conto che a esso non corrisponde un progresso morale. Non esiste la libertà in assoluto, la libertà ideale, ma solo molteplici libertà a volte contraddittorie tra loro. Per questo, l’uomo politico deve realisticamente attenersi al “meno peggio”: pensare la maggioranza come “infallibile”, idolatrarla, porta alla morte dei sistemi politici. I “partiti”, con la loro elefantiaca burocrazia, presto danno luogo a un loro sistema di potere, noto come “partitocrazia”. Riproducono al loro interno la medesima parzialità presente nei Parlamenti: si frazionano in correnti, il cui equilibrio, proprio come quello del potere liberal-democratico, è sempre precario: «Ogni maggioranza è instabile, essendo costituita da coalizioni assai “volatili” di partiti» (p. XXVII). Il potere democratico ha tratto epidemico: si insedia sul popolo in quanto dittatura collettiva, anonima.
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  • Di fronte all’incompetenza del personale politico democratico, Haupt si fa latore di una svolta tecnocratica e oligarchica delle liberal-democrazie, o almeno in tal senso interpreta alcune, lo si è visto, delle esperienze maturate nell’alveo del fascismo, cui guarda con interesse. Pertanto, Processo alla democrazia, nella realtà del XXI secolo: «rischia di tracciare un quadro realistico delle democrazie parlamentari, non soltanto occidentali» (p. XXXI). Va ricordato che le precedenti due edizioni italiane furono utilizzate quali strumenti critici nei confronti della democrazia parlamentare, intesa quale “anticamera del comunismo”.  Negli anni Cinquanta e Settanta, la proposta dell’autore fu accostata, lo ricorda il prefatore, a quella di molti pensatori che si confrontavano con il problema rappresentato delle istituzioni democratiche, Rougier, Plevris, Spirito: «la prospettiva di Haupt è […] più prossima a quella di Rougier nel metodo, ma analoga al nazionalismo radicale di Plevris nel merito» (p. XVI), in quanto entrambi contrari alla moderna mobilitazione delle masse. Sotto il profilo politico fu proprio il comun denominatore anticomunista a unificare tali differenti prospettive esegetiche maturate a “destra”.
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  • Nel mondo della globalizzazione, in cui fascismo e comunismo hanno un’esistenza ectoplasmatica evocata nelle sedute spiritiche tenute dai padroni del vapore, forse bisognerà guardare a diversi denominatori intellettuali e politici per uscire dall’impasse della democrazia tecnocratica.