• cover A ROMUALDI

  • Sul problema d’una Tradizione europea
  • Torna un saggio di
  • Adriano Romualdi
  •  rec. di
  • Giovanni Sessa
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    È da poco nelle librerie una nuova edizione del saggio di Adriano Romualdi, Sul problema d’una Tradizione europea, comparsa nel catalogo de L’arco e la Corte editore. Il testo è arricchito dalla contestualizzante prefazione di Alberto Lombardo, dalla Premessa di Gaspare Cannizzo, che apriva l’edizione del volume pubblicata nel 1996, e dalla postfazione di Gianfranco de Turris (per ordini: info@arcoelacorte.it, pp. 94, euro 15,00).
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  • In realtà, questo scritto comparve per la prima volta, suddiviso in tre parti, sulla rivista «Vie della Tradizione», tra il luglio del 1971 e il marzo del 1972, quale rielaborazione di un precedente articolo romualdiano apparso sul mensile studentesco «Le corna del diavolo». Il periodico era espressione dei “giovani nazionali” che frequentavano, sul finire degli anni Cinquanta, il liceo romano “Giulio Cesare”. Romualdi ne fu caporedattore, sotto la direzione di Franco Pintore. L’autore scomparve tragicamente nella notte tra l’undici e il dodici agosto del 1973 a causa di un terribile incidente automobilistico, come ricorda, con toni commossi e partecipi, de Turris, che di Romualdi fu amico, nella postfazione “La civiltà che uccide”. Aveva solo trentatre anni. Nonostante la giovane età, le sue opere sono, a tutt’oggi,  punto di riferimento imprescindibile della cultura non-conforme. Tra gli studi di Adriano un ruolo rilevate riveste, Sul problema d’una Tradizione europea.
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  • Quando lo scritto uscì su «Vie della Tradizione» l’intento perseguito dal giovane studioso era di far uscire la testata  dalle secche del “vago tradizionalismo” che l’ aveva, fino ad allora, connotata, e fornirle una chiara impronta di matrice evoliana. Il saggio intende dare risposta al quesito: qual è il sostrato essenziale della Tradizione europea? Romualdi cerca la soluzione in un excursus che muove dalla preistoria indoeuropea, attraversa la classicità greco-romana, il cristianesimo medievale per giungere, infine, al razionalismo moderno e alla società contemporanea. Un volume snello che, nella sua sinteticità, tocca l’essenziale. Per quanto attiene alla prima parte, dedicata agli Indoeuropei, l’autore ritiene che la loro specifica Kultur, olimpica e solare, si impose sulla “Civiltà delle Madri”, tellurica e femminile, attraverso le ondate migratorie che tali popoli misero in atto a muovere dall’Urheimat, identificata dal Nostro nell’area nordeuropea prospiciente il Mar Baltico. Rileva, inoltre, che gli Indoeuropei, apparterrebbero alla fase mediana dell’Urvolk, furono “Popolo della Luce”, della legge, dell’ordine. L’autore legge il Neolitico e la cultura di Cro-Magnon, quali antefatti indoeuropei, individuando nella “tipicità nordica” il sigillo di ogni loro manifestazione storica.
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  • Il mondo ellenico, grazie all’impatto provocato da tali invasori, fu perfetta espressione di spiritualità solare, modello esemplare della civiltà europea: «al confronto, Roma ci presenta una spiritualità più secolarizzata, “una fisionomia più terrestre, una vocazione politica e organizzatrice”» (p. 12). La Grecia e Roma decaddero a causa della progressiva “denordicizzazione” cui andarono incontro. Al tramonto della civiltà classica, mentre montava l’alta marea cristiana, lo Stoicismo divenne l’estrema difesa cui fece ricorso la classe dirigente tradizionale, rimasta fedele all’antica visione del mondo: «pronta a testimoniare con la sua incrollabilità umana l’incrollabilità del kosmos divino» (p. 12). Anche l’eclissi del mondo antico fu, pertanto, circonfusa di Luce teofanica: «lasciava un modello di chiarezza, controllo e misura nel quale l’anima della razza bianca si sarebbe per sempre riconosciuta» (p. 13). Il medioevo ghibellino viene letto quale tentativo epistrofico, di ritorno alla visione del mondo originaria degli europei: in esso il cristianesimo fu: «come un velo che ricopre l’identità autentica » (p. 13) dei popoli del Vecchio continente. Anzi, la mistica del XIV secolo fu una via di liberazione dalla mera dogmatica monoteista. Dopo la Rinascenza, l’operosità sostituì l’estasi e, in Goethe, si assistette: «al suo disfarsi» (p. 14).
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  • Romualdi riconosce perfino nel razionalismo matematizzante il tratto apollineo dell’origine, in quanto vi è: «nella scienza e nella tecnica una aderenza allo stile interiore dell’uomo bianco che non si può disconoscere» (p. 14). Uno stile ormai divenuto “statico”, tradottosi in abitudine meccanica, decaduto. Per tale ragione, gli europei debbono, jüngerianamente, farsi carico della Tecnica. I fascismi, rileva l’autore, tentarono l’impresa rivoluzionario-conservatrice: coniugare l’arcaico e il moderno. Con Locchi, Romualdi individua il senso della Tradizione dell’uomo europeo: «la forma spirituale capace di contenere tre e più millenni di spiritualità europea sta nella riappropriazione dell’origine» (p. 16).
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  • Gli europei devono tornare, pertanto, a gemellarsi con le potenze divine che si mostrano nella physis. La natura è il volto dell’ordine divino. Probabilmente, a giudizio di chi scrive, per riavvicinarci alla physis ellenica, è necessario superare il dualismo iniziale da cui muove, con l’Evola tradizionalista, lo stesso Romualdi. Questi pone in posizione antitetica “Mondo dei Padri” e “Mondo della Madri”. In realtà, come ha rilevato Jean Haudry e la cosa è ricordata dallo stesso Lombardo, nella fase più antica della civiltà indoeuropea, il Cielo diurno aveva tratto femminile. L’arché, l’origine, è indivisa. In essa, maschile e femminile, Orfeo e Prometeo, sono in uno. Tale indivisa unità si ascolta e si mostra in ogni primavera, eterno ritorno klagesiano del simile, imperitura manifestazione meravigliante e terrifica della potestas di Dioniso.
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  • Per tali ragioni, Sul problema d’una Tradizione europea, è libro importante, da meditare.